La strage di San Miniato: sessant’anni di menzogne

Nel luglio 1944 l’esito della “battaglia dell’Arno” appare ormai segnato. Proseguendo nella propria lenta ma inesorabile marcia verso nord dopo la liberazione di Roma, la Quinta armata americana raggiunge il Valdarno inferiore, costringendo i tedeschi a risolversi ad abbandonare anche la strategica cresta collinare di San Miniato, ultimo loro baluardo di qua dal fiume: ove, nel critico momento bellico rappresentato dal passaggio del fronte, sono confluiti numerosi sfollati, provenienti soprattutto dalle vicine città di Pisa, Livorno, Pontedera. Onde risparmiare distruzioni alla cittadina, fin dall’8 luglio il vescovo Ugo Giubbi si reca presso il comando germanico di Firenze: a causa di una serie di circostanze sfortunate sino alla diabolicità, tuttavia, il suo impegno non solo non verrà premiato, ma finirà frustrato nella maniera più tragica.

Alle truppe tedesche attestate a sud dell’Arno giunge l’ordine di ritirarsi fra il 17 e il 18 luglio oltre la “Heinrich Linie”, rappresentata dal corso del fiume; la loro partenza viene tuttavia disturbata dai partigiani operanti nella zona, galvanizzati dalla vicinanza dell’esercito alleato. Nelle prime ore del 18, in particolare, un agguato condotto presso il convento dei Cappuccini contro una camionetta germanica provoca la morte di due militari, fra cui un maggiore; attentato che va peraltro ad aggiungersi a quello che una settimana prima, alla Catena, ha visto l’uccisione di un sottufficiale. Come rappresaglia, il comando tedesco – insediatosi a villa Capponi – dispone allora prima l’arresto di tredici persone, prese in ostaggio onde cautelarsi circa l’eventualità di nuovi attacchi e in seguito tutte rilasciate, quindi la distruzione del 60% degli edifici del caratteristico borgo che si sviluppa lungo la strada che lo attraversa: e a nulla vale un ulteriore intervento del vescovo presso la Kommandantur.

Sul posto sono rimasti non più di una quarantina di soldati: i quali non possono neppure contare sulla collaborazione del commissario prefettizio della Repubblica sociale (il corrispondente del podestà del Ventennio), Genesio Ulivelli, che dopo avere vistato la lista delle case da abbattere si è dileguato, mancando di impartire alla popolazione l’ordine di evacuazione richiestogli. Nel frattempo, il 17 due divisioni di fanteria statunitensi hanno occupato Montaione e Ponsacco; mentre il giorno successivo le batterie del 337° battaglione di artiglieria campale americano si sistemano pochi chilometri a sud di San Miniato, tra Palaia e Bucciano.

Si giunge così alla tragica giornata del 22 luglio: quella dalla retroguardia germanica scelta per lasciare la cittadina. Sgomberare le vie della quale resta per i tedeschi la priorità: nel clima di ostilità che ormai li circonda, quello appare infatti l’unico modo per coprirsi in qualche modo le spalle. Lo stato d’animo di quei soldati è spiegato dalla testimonianza che avrebbe reso un frate poliglotta, il quale aveva avuto modo di chiedere ad alcuni di loro il motivo per cui essi “si mostrassero così severi nei confronti della popolazione. Mi fu risposto: “Quando siamo arrivati a San Miniato abbiamo trovato tutte le botteghe chiuse, nelle vicinanze della città vi sono partigiani armati, quattro dei nostri sono stati uccisi verso i Cappuccini e temiamo che anche fra il popolo vi siano degli armati: per questo vogliamo che per le strade non circoli nessuno””.

La drammaticità della situazione li porta inoltre ad individuare nel vescovo l’unica autorità in grado di far applicare i loro desiderata: per questo già alle sei del mattino un ufficiale si reca assieme all’interprete in vescovado. Lamentatosi con il prelato della mancata attuazione del reiterato ordine di sfollamento, il militare chiede il concentramento della cittadinanza per le otto in piazza dell’Impero (l’attuale piazza del Popolo): ossia il luogo che già in due precedenti occasioni ha visto raggruppamenti di persone, in particolare giovani destinati ai lavori forzati o alle armi. Dopo avere invano provato a far desistere il suo interlocutore dal proposito dell’adunata, monsignor Giubbi gli fa presente che ammassare la popolazione in quel luogo risulterebbe estremamente disagevole, essendo stata proprio la principale via di accesso teatro delle maggiori distruzioni e dunque tuttora ingombra di macerie, proponendo quale alternativa il più praticabile “prato” del duomo: vale a dire la spianata che si allunga fin sotto la rocca fridericiana e che oltre alla cattedrale ospita lo stesso vescovado. All’ordine che prontamente giunge per tramite dei chierici, stavolta la gente risponde abbandonando i propri ricoveri ed affluendo nel luogo stabilito.

Da questo momento però un ruolo decisivo verrà purtroppo giocato dal fato. Una volta ultimatosi l’afflusso della popolazione, il tenente tedesco preposto all’operazione fa entrare in chiesa donne, anziani e bambini, lasciando in un primo tempo fuori gli uomini adulti; a seguito di un intervento del vescovo tuttavia anche questi ultimi vengono fatti entrare: cosicché un migliaio di persone si trovano ad affollare il tempio, con le sentinelle a sorvegliare dall’interno le porte affinché non esca nessuno, spiegando al contempo alla gente intimorita che il concentramento nasce dalla necessità di tenere la popolazione lontana dalle strade che saranno interessate dalle manovre militari germaniche. Giubbi dal canto suo invita tutti i presenti a pregare “perché il momento è triste, veramente triste”, aggiungendo che è consentito mangiare, parlare, fumare, pur nel rispetto della casa di Dio. A chi voglia comunicarsi viene inoltre concesso anche se non confessato, a patto di essere digiuno e non in peccato mortale.

Ma un momento altrettanto angosciante si sta comunque vivendo anche nell’altra piazza – quella dell’Impero – sulla quale affaccia il convento di San Domenico, che da una settimana ospita un altro migliaio di sfollati stipati in ogni spazio disponibile, e sul cui tetto sventola, a tutela dei rifugiati, una grande bandiera pontificia. Qui all’alba si sono presentati alcuni soldati tedeschi, intimando ai civili prima di uscire e disporsi nella piazza antistante, poi di rientrare nella chiesa; finché, poco prima delle nove e mezza, preceduto dall’arrivo di un aereo d’appoggio (la cosiddetta “cicogna”) che ha evidentemente il compito di indicare alle proprie batterie gli obiettivi da colpire, non si scatena l’inferno. Un fitto cannoneggiamento da parte dell’artiglieria statunitense che nel giro di un quarto d’ora devasta la collina accanendosi in particolare contro la zona più alta ed antica del borgo: malauguratamente quella in cui si trovano ristrette tutte quelle persone.

Da una parte San Domenico fa il miracolo: sotto la furia del bombardamento i soldati di guardia consentono ai frati di far scendere i rifugiati dalla chiesa del convento ripetutamente colpito – nonostante il bandierone esposto – ai sotterranei, protetti dalle possenti arcate dell’edificio; qui inoltre un proiettile, sfondato il tetto della chiesa, piomba sul pavimento marmoreo strisciandovi sino all’altar maggiore, lesionandone il primo scalino eppure non esplodendo.

Non altrettanto fortunata si rivela invece la sorte della gente ammassata in cattedrale: ove una granata penetrata dal lucernario posto in fondo alla cappella del SS. Sacramento – situata nel transetto di destra – rimbalza sulla parete di fronte per concludere la propria corsa qualche metro più là, a margine della balaustra dell’altare, esplodendo e provocando la morte di cinquantacinque persone e il ferimento di un altro centinaio.

È così solo la sera che i tedeschi possono finalmente lasciare la cittadina, ma non prima di averle inferto l’ultimo sfregio: minati altri edifici onde ostacolare l’avanzata americana, dopo averla utilizzata fino all’ultimo fanno saltare pure la vetusta torre ghibellina di Federico II di Svevia, in modo da precludere ai nemici quell’ideale punto di osservazione sull’ampia piana circostante. La suggestiva rocca (peraltro altrettanto germanica: donde l’appellativo medievale del borgo di “San Miniato al Tedesco”, rimasto in uso sino alla prima guerra mondiale) era celebre soprattutto per l’episodio dantesco di Pier delle Vigne. Anche una volta attestatasi lungo la linea Heinrich, del resto, la Wehrmacht continuerà a cannoneggiare il già martoriato borgo, sino a tutto agosto.

A San Miniato, dopo la dipartita teutonica, se da una parte gli esponenti del locale Cln non brillano per tempismo e capacità organizzativa, facendo trascorrere diversi giorni prima della riattivazione della macchina comunale, dall’altra pure gli americani compiono nella formazione della prima giunta municipale una scelta assai discutibile e che mostra tutta la loro sfiducia nei confronti degli antifascisti. Non potendo elevarlo alla carica di sindaco, essi affidano l’importante assessorato alle finanze e all’alimentazione allo stesso Ulivelli – il quale evidentemente proprio da loro è andato a riparare una volta tagliata la corda – senza che gli esponenti del locale Cln abbiano da obiettare alcunché (l’ex repubblichino verrà rimosso dall’incarico due mesi più tardi, per mano dell’ispettore del governo militare alleato). Primo cittadino diventa invece Emilio Baglioni, insegnante liceale, di orientamento socialista, sottotenente d’artiglieria e membro di una formazione partigiana in qualità di addetto al collegamento con le forze alleate: ruolo che fin dal mese di giugno lo ha posto in contatto con gli ufficiali dell’intelligence statunitense, cui segnalava le postazioni tedesche concordando le azioni di sabotaggio partigiane; egli è inoltre sposato con una cittadina inglese.

L’attribuzione delle responsabilità della strage apparve fin da subito controversa: la più che comprensibile rabbia dei sopravvissuti individuò infatti nell’adunata imposta dal comando germanico la causa primaria della carneficina, a prescindere da ogni altra considerazione che avrebbe piuttosto fatto pensare ad una tragica quanto sfortunata concatenazione di eventi. In tale sommaria ricostruzione a finire infamato fu lo stesso vescovo, da alcuni dei parenti delle vittime accusato di aver agito in combutta con gli occupanti e quindi di essere stato a conoscenza di quanto si sarebbe perpetrato: e il fatto che egli fosse stato assente dal duomo al momento dell’esplosione non contribuì certo ad alleggerirne la posizione agli occhi di costoro. A tali calunniose illazioni non avrebbero poi mancato di contribuire esponenti della sinistra locale, lesti a cavalcare il risentimento popolare per quanto accaduto a scopi politici.

Ciò che del prelato samminiatese i comunisti non avevano digerito era stata in realtà la lettera pastorale Renovamini spiritu, indirizzata ai parroci della diocesi nel febbraio ’44 e da alcuni di essi letta in chiesa. Dinanzi al “bando Graziani” che in quello stesso mese aveva richiamato alle armi renitenti e disertori dell’8 settembre – pena la fucilazione – e alla conseguente scelta di molti giovani di darsi alla macchia per poi confluire nelle numerose bande partigiane che, orchestrate soprattutto dal più intraprendente e meglio organizzato Pci, andavano costituendosi un po’ ovunque, Giubbi vi aveva preso una posizione ferma quanto lungimirante, sia mettendo in guardia da quelle utopie rivoluzionarie di stampo sovietico che andavano nel frattempo diffondendosi che disapprovando le crescenti provocazioni messe in atto dai partigiani le quali, lungi dall’influire minimamente sul corso della guerra, avevano quale unica conseguenza quella di esporre le popolazioni a feroci rappresaglie.

Circa poi l’atteggiamento da tenere nei confronti della Rsi, il vescovo invitava il clero ad una posizione “lealista”, valutando “l’anarchia peggiore di un governo illegittimo”. Nel drammatico momento bellico egli raccomandava inoltre ai giovani chiamati alle armi di onorare gli obblighi militari, ai contadini di rispettare la disposizione governativa di conferire il grano all’ammasso: a tutti di continuare a fare il proprio dovere. Ovvio che, essendovi stato un armistizio, avendo la gente prima gioito per la fine del conflitto per poi ritrovarsi non solo ancora in guerra, ma pure con i tedeschi in casa l’appello del presule potesse risultare oltremodo zelante, sgradito ed anche odioso, specie nel clima tremendo della guerra civile in cui fanatismo ideologico e anticlericalismo finirono con il costituire gli elementi le primari: il che non autorizzava tuttavia gli aspiranti bolscevichi locali a gettargli addosso tutto quel fango.

Giubbi sarebbe mancato nel ’46 senza avere mai preso posizione a propria discolpa, affermando anzi che “nulla aveva da difendere”: ma per i rossi egli era rimasto un nemico, se è vero che ai suoi funerali vi fu chi festeggiò. Il tempo avrebbe tuttavia rimesso le cose a posto: “Clero e popolo della diocesi onorano la cara memoria del vescovo Ugo Giubbi padre premuroso maestro sapiente pastore vigilante – ricordano con ammirazione la serenità nella sofferenza”, leggiamo infatti nella lapide apposta in cattedrale in occasione del 30° anniversario della sua scomparsa.

Già nel luglio ’45, del resto, il giudice incaricato di portare a termine l’inchiesta sulla strage promossa dal comune non aveva mancato di sottolineare come “le autorità religiose, che si sostituirono alle autorità civili mancanti, dettero alla popolazione ogni assistenza spirituale e materiale. L’opera che il clero di San Miniato svolse in quei tristissimi giorni è superiore ad ogni elogio”. Mentre ancora nel 2002 il vescovo Ricci in una Relazione di studio sulla figura del suo predecessore avrebbe chiosato: “Paradossalmente gli nocque il fatto di essere rimasto l’unica autorità presente in città, sicché si trovò a dover trattare con i tedeschi e a dover trasmettere le loro comunicazioni alla popolazione; restò pertanto esposto al sospetto, sostenuto da alcuni parenti delle vittime, che egli fosse informato di quanto sarebbe accaduto”.

Sull’eccidio non mancarono certo le inchieste: ma tutt’altro che obiettive e chiarificatrici; la loro capillare ricostruzione è dovuta all’impegno dello storico Paolo Paoletti, autore del volume 1944 San Miniato. Tutta la verità sulla strage. Frutto di un meticoloso lavoro di ricerca condotto tra gli archivi di Washington e Friburgo cui si unisce un non comune fiuto investigativo sia nell’individuare tutte le incongruenze di quelle sciagurate indagini che nell’evidenziare pregiudizi e malafede di chi per decenni ha contribuito a propagare una “verità” forse politicamente corretta ma storicamente infondata, il saggio smonta definitivamente la tesi della responsabilità germanica, attribuendo la strage ad una cannonata sparata dal 337° battaglione statunitense.

Il seme della mistificazione storica delle responsabilità della strage venne gettato dall’inchiesta “preliminare” condotta dal capitano italo-americano Ruffo, appartenente al reggimento dei “liberatori” entrato nella cittadina – ormai ridotta a un cumulo di macerie – subito dopo il suo abbandono da parte germanica. La causa di tale manipolazione va ricercata nella consapevolezza statunitense di avere violato l’art. 27 del trattato dell’Aja del ’29, il quale recitava: “Negli assedi e cannoneggiamenti si devono prendere tutte le misure necessarie per risparmiare per quanto possibile gli edifici dedicati al culto, all’arte, alla scienza e alla beneficenza, i monumenti storici, gli ospedali e i punti di raccolta per malati e feriti, a patto che essi non vengano contemporaneamente usati a scopi militari”.

Oltre che sul convento di San Domenico, insegne papali erano issate anche su quello di San Francesco e sullo stesso vescovado: il che porta Paoletti ad affermare che la scelta del duomo come rifugio effettuata dal vescovo fosse dovuta proprio al fatto che esso “era ben visibile dai militari alleati e dagli artiglieri e quindi chi puntava i pezzi contro quell’obiettivo sapeva senza ombra di dubbio di sparare contro un edificio sacro, posto accanto ad altri edifici che esponevano la bandiera del Vaticano. Gli osservatori per l’artiglieria e la “cicogna” non potevano non aver visto le bandiere vaticane che sventolavano vicino al Duomo. La responsabilità più pesante ricade dunque sugli artiglieri americani, che hanno violato tutti i trattati internazionali per aver deliberatamente colpito un edificio sacro, che godeva del diritto di extraterritorialità, e un monumento artistico”.

Circa la mancata esposizione sulla cattedrale del vessillo pontificio abbiamo la testimonianza resa alla commissione d’inchiesta samminiatese da un sacerdote: “La mattina del giorno 20 [luglio ’44] sulla strada nazionale passò un sidecar con due militari tedeschi; appena si fermò, un militare mi disse con accento concitato che a San Miniato si doveva esporre bandiera bianca, anzi due, sulla cattedrale: ripeté più volte il nome ‘cattedrale’. Tornai subito a San Miniato e mi diressi dal vescovo per informarlo: egli, convocata una parte del capitolo, decise di non far esporre tali bandiere, ritenendolo una provocazione verso i tedeschi. Le bandiere non furono messe”. Circostanza confermata nella medesima sede da un altro parroco: “La mattina del 20 ebbe luogo una riunione dal vescovo: fu scartata la proposta di innalzare la bandiera bianca come era stato suggerito da due militari tedeschi”.

Monsignor Giubbi scelse dunque di non esporre il simbolo vaticano sul duomo, essendo questo vuoto e potendosi interpretare quel gesto come atto di resa della cittadina agli alleati. Lo scrupolo del prelato lo indusse tuttavia ad interpellare in proposito lo stesso comando germanico, mediante l’invio di due messi, come testimoniato da uno di questi dinanzi alla stessa commissione: “Andammo al comando tedesco e chiedemmo ad uno dei militari se potevamo usare la bandiera bianca: costui rispose che non importava, poiché bastavano quelle papali che già sventolavano su alcuni edifici della città”.

Per quanto tutto lasci pensare che neppure l’esposizione del drappo bianco avrebbe evitato la carneficina: sia perché ne sventolava già uno lì davanti, sul vescovado; sia perché il pur imbandierato convento di San Domenico non venne risparmiato dal fuoco americano; sia – e soprattutto – per l’estrema accidentalità del proiettile fatale. Due considerazioni comunque si impongono: la prima, che c’erano tutte le avvisaglie di un bombardamento alleato del borgo, al punto che gli stessi soldati germanici, in un semplice quanto spontaneo moto di umanità, si erano preoccupati della sorte della popolazione; l’altra, che il destino parve mettersi proprio d’impegno perché tutto finisse nel modo peggiore.

Nel rapporto che invia ai superiori già il 28 luglio ’44 circa “l’atrocità commessa a San Miniato”, Ruffo scrive: “Tutte le prove visibili e circostanziali sulla scena dell’esplosione mi fanno ritenere che morti e feriti sono conseguenza di una mina o di una bomba a orologeria sistemata dai tedeschi. È mia ferma convinzione che il massacro dei civili nella cattedrale, in palese violazione del trattato di Ginevra, come pure la completa demolizione dei principali edifici della città, siano state misure di rappresaglia disposte dai tedeschi in risposta all’atteggiamento ostile della popolazione locale nei confronti delle dottrine fascista e nazista”. In tale sommaria disamina il militare omette il minimo riferimento al fondamentale reperto consegnatogli dal maresciallo dei carabinieri che per primo aveva fatto un sopralluogo nel duomo: dei resti di proiettile (“due schegge”) che i successivi accertamenti individueranno prima genericamente come “un involucro d’alluminio di forma cilindrica alto circa 10 cm”, quindi come una “spoletta” (ossia il congegno che nei proiettili cavi – come le bombe – comunica il fuoco alla carica interna) americana.

“La spoletta – osserva Paoletti – è quasi come il DNA di una bomba. Dalle iniziali incise su quel pezzo di metallo si può desumere tutto: fabbricazione, tipo, modello ecc.”. Il che porta lo studioso fiorentino a qualificare Ruffo come “l’artefice del tentativo di nascondere le prove”, che “afferma il falso sapendo di mentire e soprattutto ci dice che in quelle schegge non c’era nulla che potesse accusare la Wehrmacht”. Il suo comportamento appare dunque “gravissimo, da corte marziale”, dal momento che egli, “nelle conclusioni della sua indagine preliminare, avrebbe dovuto almeno far cenno al rinvenimento di una spoletta all’interno del Duomo e siccome tace sul fatto, sa di occultare una prova”. Evidente perciò il suo tentativo “di incolpare della strage i tedeschi pur avendo in mano prove inequivocabili che accusavano il proprio esercito. Anzi il fatto che proprio lui accusi i tedeschi della violazione del trattato dell’Aja dimostra che conosceva il contenuto di quegli articoli ma soprattutto che sapeva che gli artiglieri americani avevano violato lo spirito e la lettera di quel trattato”.

È in ogni caso su quella subdola e per gli americani quanto mai comoda traccia che si muove il 14 agosto la sbrigativa “commissione sui crimini di guerra” nominata dal generale Clark, interrogando in vescovado nell’arco di quattro ore otto testimoni (fra i quali lo stesso vescovo ed il sindaco) e concludendo senza aver trovato un colpevole “per la ragione che prima dell’insediamento di questa commissione né era stato individuato un supposto responsabile né accertata un’atrocità o un crimine di guerra”. Nel rapporto i fatti in questione erano sintetizzati in questi termini: “Il 22 luglio 1944 i soldati tedeschi che occupavano la cittadina di San Miniato, di fronte all’avanzata delle forze americane e alle conseguenti difficoltà incontrate con elementi partigiani, costrinsero circa 1500 abitanti a entrare nella cattedrale, evidentemente minata prima dell’ingresso della popolazione. Le porte furono chiuse, le guardie tedesche se ne andarono e la mina fu fatta esplodere. Circa 60 persone furono uccise e molte di più ferite”.

Solo che per giungere a tali conclusioni i commissari statunitensi avevano dovuto stravolgere quanto emerso dalle deposizioni dei testi, soprattutto riguardo al posizionamento delle sentinelle (almeno una delle quali era sicuramente presente all’interno del tempio al momento del bombardamento: un giovanissimo soldato che appariva non meno scioccato di quanti gli stavano intorno) e allo stato delle porte della cattedrale, lasciate aperte. Evidente appariva inoltre l’intento di quella ricostruzione di far apparire la strage come una “rappresaglia per l’uccisione di un maggiore tedesco ad opera di partigiani”.

Osserva in proposito Paoletti: “L’inchiesta americana che doveva accertare le cause della tragedia in Duomo si rivelò carente sotto il profilo investigativo: i commissari non presero in esame i loro diari di guerra [dai quali si sarebbe ricavata la coincidenza fra l’orario del cannoneggiamento statunitense e quello dell’eccidio], non ascoltarono i comandanti delle loro batterie né i medici italiani che curarono i feriti (tutte persone che erano in loco), non fecero foto al luogo dell’eccidio. La Commissione dell’esercito americano non poteva certo lamentare carenza di mezzi ma solo mancanza di buona volontà o interesse a non approfondire un episodio che poteva ritorcersi contro di loro”.

Alle incongruenze e manipolazioni caratterizzanti quell’inchiesta sottolineate dallo studioso fiorentino potremmo aggiungere alcune considerazioni a discarico dei tedeschi. La prima e più immediata è che loro in piazza dell’Impero avrebbero voluto concentrare la popolazione, e che anche una volta ripiegato sul prato del duomo fu solo per le pressioni del vescovo che fecero entrare tutti quanti dentro: il che smonta di per sé la tesi americana di una cattedrale precedentemente minata in previsione della strage. Bisogna inoltre tenere conto del modus operandi tenuto dagli occupanti in occasione dei massacri di civili perpetrati sul nostro territorio: i quali venivano regolarmente preceduti da rastrellamenti da loro stessi effettuati, senza certo lasciare alla gente la facoltà di raggiungere autonomamente il luogo deputato; così come nessuna di quelle stragi aveva fatto registrare delle modalità così approssimative ed anomale, lasciando in pratica al caso la responsabilità di determinare il numero delle vittime.

Dopo una serie di passaggi burocratici, il manigoldo rapporto americano finisce al tribunale supremo militare di Washington, derubricato come “Massacro di civili italiani da parte di soldati tedeschi, demolizione di un edificio privo di alcun valore militare” e restandovi aperto “in attesa di una definizione della politica riguardante i processi dei casi italiani” nonché della costituzione dell’ufficio incaricato di occuparsene. Ritenendo in ogni caso conclusa l’inchiesta, nel ’46 le autorità statunitensi ne trasmettono il contenuto a quelle italiane “per le investigazioni appropriate”; senonché nel ’60 il caso sarà archiviato anche da noi, con il relativo fascicolo che, in ossequio ai nuovi equilibri internazionali dettati dalla Guerra fredda, finirà esso pure sepolto nell’“armadio della vergogna”: ciò ad indiretta conferma della presunta matrice germanica della strage. Con la scoperta nel ’94 di quello scottante archivio romano, poi, anche il procedimento sui fatti del duomo verrà riesumato per essere assegnato al tribunale militare di La Spezia, derubricato come “supposto crimine di guerra tedesco” e quindi nuovamente archiviato in quanto “gli autori del reato sono rimasti ignoti”.

Più articolata – per quanto altrettanto infruttuosa rispetto all’accertamento della verità – l’inchiesta promossa dal comune di San Miniato, cui si è già accennato. Voluta soprattutto dallo stimato avvocato azionista Ermanno Taviani, presieduta dal sindaco ed insediatasi il 21 settembre ’44, la commissione municipale individuò in quattro punti il succo delle questioni da risolvere: se a colpire la cattedrale fossero state cannonate, bombe o ordigni esplosivi; se essi fossero stati di provenienza tedesca o alleata; a quali cause si dovesse ascrivere l’eccidio; se nella sua attuazione si potessero individuare responsabilità morali, “dirette o indirette”, da parte delle locali autorità politiche, amministrative e religiose.

La commissione parve iniziare con scrupolo i propri lavori, incaricando il tecnico suo componente – l’ing. Giglioli, socialista – di presentare una relazione “sullo stato attuale del fabbricato del Duomo con relativa pianta”. Evidente l’intento di individuare nei danneggiamenti subiti dalla cattedrale – e prima che iniziassero i lavori di restauro – una conferma all’ipotesi della mina germanica: la cui principale traccia avrebbe dovuto essere a rigor di logica la presenza nel pavimento di un cratere, il quale risultava però del tutto assente. I commissari lavorarono alacremente, riunendosi fra settembre e ottobre undici volte, raccogliendo le testimonianze dei sopravvissuti ed acquisendo reperti bellici rinvenuti all’interno della cattedrale: in particolare schegge, estratte anche dai corpi dei feriti.

Nonostante l’impegno profuso però non si riuscì ad acquisire certezze. Per trovare un movente alla tesi della rappresaglia tedesca fu anche chiesto al comandante partigiano della zona, il comunista Fioravante Mori, se la notte precedente l’eccidio fosse avvenuto nella valle di Marzana uno scontro a fuoco tra i suoi uomini e soldati della Wehrmacht; ma la risposta dell’onesto antifascista frustrò le aspettative dei commissari: “Sono stato il capo delle formazioni dei partigiani di San Miniato che dovevano agire nella zona tra Marzana e Scacciapuce e dichiaro che nessuno scontro è avvenuto in quella notte tra i partigiani e le truppe tedesche”.

Per uscire dall’impasse fu allora deciso di affidarsi ad un perito che accertasse se l’eccidio fosse stato causato “da un ordigno esplosivo ovvero da scoppi ed esplosioni di granate” e se, qualora si fosse rivelata valida la seconda ipotesi, si fosse trattato di granate tedesche o americane; veniva inoltre commissionata l’esecuzione di fotografie che documentassero lo stato attuale del luogo dell’eccidio. Individuato tale tecnico nel tenente colonnello Cini, anche il comando statunitense si attivò perché dai suoi uffici uscisse una relazione sui fatti di San Miniato: con il risultato che sul tavolo della commissione piovvero nel giro di pochi giorni due perizie, convergenti nell’attribuire la responsabilità del massacro ad un proiettile da mortaio tedesco.

Quella americana in particolare – redatta dal tenente Jacobs – risolveva il problema causato dal reperimento della spoletta mediante un maldestro escamotage. I due tipi di ordigni cui essa avrebbe potuto appartenere, “un fumogeno o un proiettile al fosforo bianco”, non avrebbero potuto produrre schegge lesionanti in quanto “usati primariamente per il fumo che sprigionano”. Difatti il “proiettile americano, entrato in un’ala della stanza più larga con un’angolazione sud-ovest, colpì il muro interno dopo essere entrato attraverso una finestra ma senza produrre schegge”, come “notato” dagli stessi superstiti che avevano altresì visto “uscire dall’edificio una grande quantità di fumo”. A determinare la strage non poteva perciò che essere stato il “proiettile di calibro non troppo grosso penetrato in chiesa attraverso una finestra circolare situata in alto sul lato nord”, individuato come una “granata” che, “con una traiettoria piuttosto alta”, aveva “colpito direttamente una colonna di marmo vicino all’altare, tranciando parti di una balaustra di marmo; la direzione dell’impatto e l’esplosione furono tali che la sua intera forza fu sprigionata nell’area dove le persone risultate ferite si erano raccolte, secondo quanto riferito”. Non potendosi dunque dare la colpa ad una bomba a orologeria piazzata dai tedeschi, ci si inventava adesso la storia di un proiettile da loro stessi sparato.

Iniziarono quindi le defezioni: il primo a dimettersi fu lo stesso Taviani, seguito da Giglioli; mentre nel febbraio ’45 Baglioni lasciava San Miniato per andare a combattere i tedeschi nel Settentrione. Quel che restava della commissione continuò tuttavia a raccogliere elementi e testimonianze: senonché alla fine della guerra dei suoi sei componenti iniziali ne rimaneva soltanto uno. Una volta rientrato, il sindaco decise allora, “per garantire l’obiettività di giudizio”, di affidare l’esame del materiale raccolto “ad una persona assolutamente estranea all’ambiente cittadino”, individuata nel giudice del tribunale di Firenze Giannattasio: il quale non seppe fare di meglio che accogliere pedissequamente la tesi dei due periti militari, finendo così con l’offrire pure un avallo giudiziario a quanto da Paoletti additato come “il bluff americano e la connivenza italiana a tacere la verità”. Negli anni a seguire violentata mediante le diversioni più fantasiose e impudenti, a cominciare da quella messa a punto nel ’47 da un memorialista a stelle e strisce: “Come ultimo atto i Krauti avevano portato due carri armati fino al Duomo e spararono ad alzo zero contro un gruppo di civili attoniti e terrorizzati”.

Si giunge così al ’54: allorché, in previsione del decennale del massacro, alcuni dei familiari delle vittime chiedono al successore di Baglioni, il comunista Salvadori, di ricordare i caduti con una lapide. Per la redazione del testo viene allora ingaggiato nientemeno che Luigi Russo, pisano d’adozione dopo essere stato direttore della Normale e candidatosi a sua volta con il Pci in occasione delle politiche del ’48. Ha così inizio il controverso capitolo delle targhe apposte sulla facciata del municipio samminiatese: che se da una parte risulterà oltremodo ridicolo, dall’altra rappresenterà un tristo spaccato della politica attuata dalla sinistra saldamente insediata al potere (come in Toscana), così miope, meschina e soprattutto incapace di superare quelle lacerazioni causate dalle vicende belliche; e questo non nell’immediato dopoguerra ma ancora lunghi decenni dopo la fine del conflitto.

Si parte dunque dalla retorica nonché menzognera epigrafe vergata dall’illustre critico: “Questa lapide ricorda nei secoli il gelido eccidio perpetrato dai tedeschi il 22 luglio 1944 di sessanta vittime, inermi, vecchi, innocenti perfidamente sollecitati a riparare nella cattedrale per rendere più rapido e più superbo il misfatto. Non necessità di guerra, ma pura ferocia attilesca propria di un esercito impotente alla vittoria perché nemico di ogni libertà, spinse gli assassini a lanciare micidiale granata nel tempio maggiore. Italiani che leggete, perdonate ma non dimenticate! Lo straniero di ogni parte sia sempre tenuto lontano dalle belle contrade rifiutando ogni lusinga o d’aiuto o d’impero. Ricordate che solo nella pace e nel lavoro è l’eterna civiltà”.

Insostenibile appare la motivazione della scelta del teatro dell’eccidio che viene addotta: i tedeschi, solitamente così privi di scrupoli e sbrigativi nel massacrare le loro vittime con la mitragliatrice (al muro dei centri abitati come sull’erba delle campagne), in questo caso si sarebbero “perfidamente” peritati di concentrare la gente in quel luogo sacro “per rendere più rapido e superbo il misfatto”. A finire nel mirino della prefettura di Pisa è tuttavia la frase riservata allo “straniero”: giudicata xenofoba e segnatamente antiamericana, essa viene espunta dalla lapide; al pari dell’aggettivo “attilesca”, dall’insigne letterato scelto per caratterizzare la presunta ferocia teutonica.

In ogni caso a San Miniato qualcuno si ribella: in particolare il canonico Enrico Giannoni, il quale aveva avuto modo di assistere al cannoneggiamento alleato dalla collina verso Calenzano – ove proprio in quel momento si stava recando – e che del ristabilimento della verità sulla strage aveva fatto una ragione di vita, giungendo persino a ricostruire la traiettoria percorsa dal micidiale proiettile una volta penetrato nel duomo. Non senza coraggio il religioso sceglie di prendere pubblicamente posizione contro la tesi sostenuta nella targa, affidando la propria versione dei fatti alle colonne del “Giornale del Mattino”. Nell’articolo pubblicato dal quotidiano fiorentino l’8 agosto ’54, don Enrico riferisce anche dello scambio d’idee da lui avuto con il sindaco – già suo compagno di scuola – in occasione dell’inaugurazione della lapide, avvenuta giusto una settimana prima alla presenza dell’ex comandante generale partigiano Parri.

“A conoscenza perfetta dell’Epigrafe volle il caso che io mi incontrassi, il primo agosto stesso, con l’amico Salvadori mentre chiedeva al proposto di benedire, alla cerimonia serale, la lapide in parola (la cosa era di pertinenza del vescovo, assente ma non lontano, a cui il sindaco non credé di riferirsi: e la lapide non fu benedetta). Il colloquio, presente mons. Rossi, fu schietto: “Avremo, dunque, stasera, un fatuo trionfo di una grossa vergogna! – No! Devi dire che è una di quelle questioni che non si decide, che non si può decidere – Ma tu, invece, l’hai decisa, e in modo perentorio: e la decisione l’hai scolpita nel marmo; anzi, l’hai compilata nel bronzo. Io non esigevo che tu la decidessi nel senso della mia tesi (pure definitiva e patrimonio dei più). Potevi deciderla in modo che la lapide commemorasse i morti e maledicesse la guerra, ma non in modo unilaterale”. Il sindaco a questo punto risponde così: “Ma noi abbiamo in documento comunale di inchiesta: non si poteva prescindere da quello””.

L’acuto Giannoni aveva dunque ben colto il carattere partigiano della targa, decisa e “compilata” tutta all’interno di un’unica parte politica. Così come il sindaco nell’addurre quel tipo di giustificazioni parrebbe ammettere lo stravolgimento della realtà storica ma attribuendone pilatescamente la colpa alla versione dei fatti prima data dai vincitori, quindi ratificata da un giudice italiano e pertanto ormai immodificabile. Di conseguenza, le “due verità” sulla strage del duomo continueranno a marciare parallelamente: quella ufficiale, adesso pure scolpita in una lapide municipale per quanto infondata, e quella storica, nota alle stesse autorità istituzionali eppure boicottata.

Tutta una pubblicistica si allinea allora pedantemente alla disonesta vulgata, pure ampliando il volume di fuoco che sarebbe stato scatenato dagli occupanti sino a parlare nel ’70 di “un misfatto tedesco: decine di morti e centinaia di feriti erano le vittime del terribile inferno, cui era stata sottoposta la popolazione inerte rifugiata nel duomo della città, sottoposta dai tedeschi a un micidiale lancio di bombe a mano prima e di granate dopo”. Alla malafede si somma inoltre l’approssimazione allorché, due anni più tardi, in un opuscolo pubblicato dall’amministrazione provinciale pisana si legge: “Il 21 luglio 1944 a San Miniato nel corso di un’azione di rappresaglia, le SS tedesche penetrarono nella Chiesa, dove si era raccolta la popolazione, e con raffiche di mitra e lancio di bombe a mano, fecero una strage. I morti furono 42”.

Neppure brillano per onestà intellettuale e indipendenza di giudizio i fratelli Taviani – figli dell’avvocato Ermanno – nel film La notte di San Lorenzo, celebrando così nell’82 anche a livello cinematografico il falso storico artatamente confezionato a San Miniato. A denunciare pubblicamente il quale è allora il senatore samminiatese del Msi Turini, con una lettera al “Giornale Nuovo”: “I fatti si svolsero in ben altra maniera. Durante un cannoneggiamento fra opposte artiglierie, disgraziatamente una granata americana centrò il Duomo provocando molti morti ed un centinaio di feriti”. La versione dei fatti propinata dal film non convince neppure lo studioso tedesco Köhler, il quale non manca di sottolineare come molti interrogativi siano in realtà rimasti irrisolti: “Da dove venne la granata? Fu sparata con quell’obiettivo? Da chi? Quale era stata la ragione per l’ordine dato di radunarsi? Vi era un collegamento premeditato con lo sparare sul Duomo? Queste domande non hanno cessato di tormentare gli abitanti sopravvissuti dai giorni di questi spaventosi avvenimenti. Non vi è una risposta sicura e la probabilità che essa venga trovata diventa sempre più tenue”.

Gli scaltri amministratori samminiatesi individuano allora un espediente assai subdolo per cavarsi d’impaccio: quello di attribuire comunque ai tedeschi la responsabilità morale dell’eccidio – a prescindere dalla nazionalità dell’ordigno assassino – per il fatto di avere deliberatamente esposto la popolazione a quel cannoneggiamento, foss’anche americano. Così, in una pubblicazione uscita nell’84 per il quarantennale del massacro, l’assessore alla cultura scrive di “non riuscire a vedere l’importanza della “verità”” sulla responsabilità di quanto accaduto in duomo, essendo innegabile che lì dentro “i cittadini vennero convogliati per un ordine militare tedesco”. Concetto ribadito un decennio più tardi dal sindaco Lippi (prima Pci, ora Pds): “La verità storica è che quei morti furono la conseguenza della sciagurata e colpevole decisione del Comando tedesco di concentrare gran parte della popolazione civile nel punto più alto della città”. Come chiosa Paoletti, a San Miniato la “verità storica” viene in tal modo declassata da valore assoluto a concetto del tutto relativo e poco “importante” allorché “si tratta di stabilire una volta per tutte la responsabilità americana”; salvo poi “riscoprirla ed esaltarla quando si tratta di accusare i tedeschi”.

Qualcosa comincia tuttavia a cambiare dopo la caduta del Muro di Berlino. Nel ’91 gli storici Lastraioli e Biscarini pubblicano un volume, Arno-Stellung, un cui capitolo è dedicato alla ricostruzione dell’episodio samminiatese: privilegiando il momento dell’analisi dei documenti (in questo caso quelli dell’esercito americano) rispetto alla mera riproposizione di una verità di facciata, lo studio ha il merito di inaugurare finalmente una metodologia di ricerca seria. Ma anche in Germania si continua a sottolineare l’incertezza dell’attribuzione della strage, dovuta – scrive nel ’93 Klinkhammer – allo “scoppio di una granata della quale non si poté accertare la provenienza. Nella storiografia tuttavia tale episodio è riportato come esempio di uno dei perfidi massacri tedeschi (in molti casi effettivamente avvenuti) ai danni della popolazione civile, giudizio che ha avuto larga diffusione dopo il film dei fratelli Taviani”.

Le celebrazioni del cinquantenario dell’eccidio rimarcano i due differenti approcci che continuano ad aversi riguardo alla vicenda. Se infatti da una parte la Chiesa seguita a tenere una posizione esemplare, estranea alle bassezze della politica e soprattutto rispettosa della memoria dei morti, disponendo la collocazione in cattedrale – all’inizio della cappella del SS. Sacramento – di quella lapide sobria ed eminentemente commemorativa che don Giannoni avrebbe voluto scolpita sulla facciata del municipio, “fissando in questo marmo i nomi di quei civili vittime innocenti della guerra che il 22 luglio 1944 trovarono la morte in questo luogo”, dall’altra il comitato istituito dalla regione per il cinquantesimo “della Resistenza e della Liberazione in Toscana” prosegue ostinatamente lungo la strada della responsabilità “nazista”. Trovando – quel che è più grave – anche una copertura da parte di due docenti universitari pisani, Battini e Pezzino, il secondo dei quali giungerà arbitrariamente a scrivere: “Le testimonianze sono concordi nel rilevare comportamenti dei Tedeschi che trovano spiegazione solo nella volontà di punire anche a San Miniato la popolazione civile per l’intensa attività della Resistenza nella zona”. Donde il suo considerare “assai sospetto” il comportamento germanico, e di conseguenza “probabile” la rappresaglia quale movente di un’“esplosione deliberatamente provocata dai tedeschi”.

Ma al perpetuarsi della mistificazione da parte italiana si oppone adesso con più forza la storiografia tedesca. Nell’ambito di un corposo saggio sulle stragi perpetrate dalla Wehrmacht in Italia, Andrae evita esplicitamente di occuparsi della “tragedia di San Miniato” in quanto “non causata da soldati tedeschi” ma dovuta ad una “granata americana”. Mentre il più prudente Klinkhammer ritorna sull’argomento definendo l’ordigno assassino “più probabilmente di provenienza americana che tedesca”: posizione cui si allinea anche uno storico italiano del valore di Roberto Vivarelli, ritenendo nel ’98 “più probabile la granata americana”.

Paradossale la situazione che si determina: come osserva ancora Paoletti, a questo punto “solo le istituzioni pubbliche continuano a difendere la tesi della “responsabilità tedesca”. Tutti, funzionari e professori universitari, amministratori e studiosi legati alle istituzioni, sono impegnati a difendere la “vulgata” intoccabile programmata ed eseguita dalla Wehrmacht”. Insomma una sorta di “soccorso rosso” fuorviante e disonesto in cui tutti i “compagni” a vario titolo chiamati in causa sono tenuti a fare la loro parte, nella cornice della Toscana saldamente e ad ogni livello tenuta in pugno dalla sinistra di quegli anni.

Il ripristino della verità parte dal teatro: nel ’99, Riccardo Cardellicchio e Federica De Paolis, nella pièce Tacciono così le cicale, attribuiscono l’eccidio ad una bomba americana. L’anno successivo esce il risolutivo studio di Paoletti: un lavoro capillare e coraggioso, che non ha certo potuto fruire del sostegno o della collaborazione dell’amministrazione samminiatese e che piomba anzi anch’esso proprio come una bomba a far definitivamente deflagrare 56 anni di “omertà istituzionale”. La scrupolosa comparazione di tutte le fonti porta lo studioso fiorentino a ricostruire il cannoneggiamento in questi termini: iniziato tra le 9.20 e le 9.30 da parte delle batterie attestate sulla linea Montebicchieri-Montopoli, stando al diario di guerra americano esso era rivolto contro le mitragliatrici tedesche asserragliate sotto la Misericordia; senonché i cannoni “alzarono il tiro per colpire la rocca e alcuni di questi colpi centrarono il Duomo; fu una tragica fatalità”: anche in considerazione del fatto che secondo la testimonianza di un sacerdote la permanenza della gente in cattedrale non avrebbe dovuto protrarsi oltre le dieci, secondo quanto annunciato dai tedeschi. “La cannonata entrò da una finestra rivolta a sud-ovest, all’interno della cappella del Santissimo Sacramento, lungo la navata destra ed esplose in prossimità della navata centrale dove fece la strage”.

Giustamente Paoletti insiste sulla malefica accidentalità di quanto accaduto. “Statisticamente un altro proietto americano aveva una probabilità infinitesimale di ripetere l’identica traiettoria della bomba assassina. Se quella mattina l’artiglieria americana avesse voluto colpire quel semirosone sicuramente non ci sarebbe riuscita, neppure sparando centinaia e centinaia di migliaia di colpi. Dunque la strage fu una pura fatalità perché: 1) gli americani, pur sapendo di tirare su una cittadina, ricca di luoghi sacri, non volevano certo causare una strage; 2) il cannoneggiamento iniziò poco prima del programmato sfollamento; 3) quel maledetto proiettile scagliato da circa 5 km di distanza centrò un obiettivo molto minuscolo; 4) proprio quella granata era a scoppio ritardato; 5) dopo aver fatto un rimbalzo andò a scoppiare proprio nel punto più affollato della chiesa”.

Ma se agli americani non può imputarsi la volontà di provocare una strage, a maggior ragione “va rivisto il giudizio sui tedeschi”; anzitutto “togliendo qualsiasi doppio e subdolo significato al concentramento della folla in Duomo: fu un punto di raccolta in vista dello sgombero della popolazione. Quindi non c’è nessun atto che giustifichi il giudizio del Sindaco Lippi che ancora nel 1994 parlava di “colpevole decisione”. Se è vero, come è vero, che la Germania scatenò la seconda guerra mondiale, che Hitler fu capace delle più incredibili nefandezze, che la Wehrmacht commise più stragi delle Waffen-SS, è anche vero che il gruppetto di tedeschi presenti a San Miniato nel luglio 1944 si dimostrò molto meno sanguinario di molti altri reparti dell’esercito germanico. Certo attuarono una tremenda rappresaglia contro le case, commisero saccheggi e soprusi ma alle cruente azioni partigiane non risposero spargendo sangue innocente.

“Non dimentichiamo che il 18 e il 19 luglio il comandante tedesco responsabile della piazza di San Miniato e il comandante della 3ª divisione granatieri corazzati avrebbero avuto l’opportunità di compiere una rappresaglia per l’uccisione di un sottufficiale e il ferimento di un altro soldato, che facevano seguito a precedenti attentati contro militari germanici. Se i due ufficiali avessero fatto fucilare 10 o 20 persone non avrebbero avuto che il plauso dei superiori e quella strage di innocenti sarebbe stata una tra le migliaia di crimini commessi dai nazisti contro la popolazione civile italiana. Invece i militari tedeschi si “accontentarono” di far saltare buona parte delle case del corso principale”.

E ancora, sul diabolico cumularsi di circostanze sfortunate per quei poveretti raccolti in chiesa: “Quel 22 luglio l’ufficiale tedesco, che accettò il consiglio del Vescovo di radunare parte della folla in Duomo, non agì con secondi fini, disse il vero a Mons. Giubbi, e ambedue in buona fede fecero ricoverare nella cattedrale la popolazione da sfollare in attesa del momento più opportuno. Se il Duomo si rivelò una trappola mortale per 56 persone [l’autore accredita la versione che tende ad accrescere il numero delle vittime rispetto a quelle ufficialmente accertate] fu per una irripetibile fatalità, non per una scelta sbagliata o subdola. Se quel maledetto proiettile americano fosse stato volutamente indirizzato verso quel rosone sicuramente non lo avrebbe centrato. Neppure i missili intelligenti del 1991 sarebbero riusciti a centrare quel rosone largo meno di due metri. Una serie imponderabile di fattori (il ritardo di 0,05 secondi della spoletta fece sì che non scoppiasse contro il rosone o il bassorilievo ma sopra la testa dei fedeli nel punto più affollato della chiesa!) ha congiurato perché quella cannonata divenisse micidiale”.

Alla luce di tali acquisizioni e dopo che diversi ex militari germanici – come minimo ottantenni – sono finiti da noi sotto processo oltre mezzo secolo dopo la conclusione della guerra, un familiare di una delle vittime dell’eccidio fa formale richiesta alla procura spezzina di riaprire il procedimento riguardante la strage samminiatese onde ottenere un “parere definitivo” sulla vicenda: di conseguenza, se “la legge è uguale per tutti”, teoricamente non sarebbe da escludersi neppure la possibilità di vedere stavolta alla sbarra come criminale di guerra qualche ex ufficiale americano, magari nonagenario. Niente di tutto ciò: condotta contro “ignoti militari tedeschi”, pure questa inchiesta finirà archiviata ritenendosi “verosimile l’ipotesi sostenuta da esperti e storici circa l’insussistenza di una azione criminale condotta dai tedeschi in danno della popolazione civile italiana di San Miniato, reputando invece preferibile accogliere la tesi di un errato svolgimento di un tiro di artiglieria da parte delle truppe alleate”.

Lungo la linea tracciata da Paoletti si muovono allora anche Lastraioli e Biscarini, dando alle stampe una nuova ricerca in cui, producendo ulteriori documenti relativi a quel famigerato 337° battaglione Usa, dettagliano le modalità del bombardamento americano. A finire nell’angolo è così la stessa giunta comunale samminiatese, costretta a fare qualcosa dalla ormai incontrovertibile vittoria delle posizioni “revisioniste”: viene perciò nominata una commissione di studio, composta da storici di professione incaricati di trarre ufficialmente le conclusioni dalle nuove acquisizioni storiografiche. Queste verranno pubblicate nel 2004 in un apposito volume, dando la colpa dell’equivoco verificatosi al particolare clima politico e mediatico determinatosi in Italia nel lungo dopoguerra: “Una contrapposizione intransigente, senza spazio e disponibilità per un sereno confronto, caratterizzò anche il dibattito sulle diverse tesi relative alla responsabilità della strage. Nessun approfondimento e nessun confronto parve allora possibile. Giornali, libri, film hanno acriticamente continuato a riproporre, per anni, la tesi della responsabilità tedesca; una tesi che appare insostenibile, tenuto conto del complesso della documentazione di cui si dispone”.

Nel frattempo la diatriba sull’eccidio del duomo supera i limiti delle cronache locali per approdare a quelle nazionali: e a finire nell’occhio del ciclone è ovviamente la “targa della discordia”, che dal ’54 campeggia sulla facciata del municipio ammannendo ai suoi lettori una versione dei fatti ormai universalmente considerata infondata. Che fare di quella truffaldina epigrafe? Mentre interpellanze parlamentari chiedono il ristabilimento anche lapideo della verità – ottenendo risposta favorevole da parte del governo di centrodestra – la medesima richiesta viene formulata dalla stampa, da firme le più illustri ed a prescindere dalla collocazione politica del giornale.

Sul “Tempo” lo storico Franco Cardini, nel chiedere la distruzione della “lapide bugiarda”, argomenta: “Se è vero che il locale comando tedesco aveva indicato alla popolazione la chiesa cattedrale come un luogo di rifugio abbastanza sicuro da usare nelle ore del passaggio del fronte, non meno vero è che i militari tedeschi erano in buona fede e non solo non avevano alcuna intenzione di provocare una strage, ma, al contrario, miravano a salvare vite umane. Fatalità volle che la chiesa fosse colpita, per errore, da uno spezzone dell’artiglieria americana: beninteso, nemmeno gli statunitensi avrebbero voluto far vittime civili”. Per osservare, riferendosi agli innumerevoli, efferati massacri perpetrati dai tedeschi sul nostro suolo: “È evidente che nessuno, nemmeno il peggior criminale della guerra, può essere ritenuto responsabile di delitti che non ha commesso con la scusa che, comunque, ne ha commessi altri. Tutto ciò, prima di essere vergognoso, è grottesco”.

Mentre sull’altro versante è il “Corriere della Sera” a prendere posizione sulla vicenda, tramite la prestigiosa firma di Paolo Mieli (studioso peraltro estremamente preparato su tale periodo storico, già allievo di Renzo De Felice). “Io credo che sarebbe un giusto modo di rendere onore al vero spirito della Resistenza quello di modificare una scritta su marmo che non risponde a verità”, sostiene, osservando argutamente come, “se l’attribuzione di colpa ai tedeschi restasse incisa sulla targa commemorativa, da oggi in poi la lapide si distinguerebbe per questo e non per ciò a cui è dedicata, l’eccidio”. Per concludere che “sulle lapidi è meglio che resti scritta la verità. Soltanto la verità”.

Passano tuttavia altri anni prima che la giunta municipale decida di passare dalle parole ai fatti: del resto, mentre al governo nazionale i due schieramenti si alternano, qui vincono sempre i soliti (l’unica cosa che continua a cambiare è il nome del principale partito della sinistra). Come conciliare allora la verità storica con quella imposta per oltre mezzo secolo dalla vulgata resistenziale e antifascista? Dopo avere a lungo meditato, il sindaco Frosini – ovviamente del Pd – nel luglio 2008 dichiara: “L’emergere in anni recenti di una verità che si colloca in parziale difformità da quanto affermato dalla lapide attualmente collocata ha indotto l’amministrazione a definire un percorso per integrarne e modificarne il testo. La strada che abbiamo deciso di percorrere è stata individuata nell’agosto scorso, quando la giunta mi ha incaricato di individuare una personalità, di assoluto rilievo, alla quale affidare l’incarico di elaborare una sintesi scritta”.

Checché ne dica Frosini, la “verità emersa” si colloca non in parziale bensì totale difformità rispetto alla lapide del ’54; ci si chiede inoltre di cosa occorra adesso elaborare una sintesi scritta: forse di tutte le menzogne altrettanto “scritte” negli anni da periti, giudici, politici e consacrate perfino in un film, peraltro premiato? E ci vuole “una personalità di assoluto rilievo” per vergare un’epigrafe sul tipo di quella apposta in cattedrale, così puntuale e dignitosa nel rendere semplicemente omaggio a delle vittime innocenti della crudeltà della guerra? Fatto sta che il primo cittadino individua tale eccelsa personalità nell’ex presidente della repubblica Scalfaro: una figura la cui storia politica e personale farebbe tuttavia apparire come tutt’altro che la più indicata a risolvere la questione nel modo più sensato ed imparziale.

Giovane magistrato, alla fine della guerra Scalfaro aveva fatto domanda per entrare nelle corti straordinarie di assise, composte da giuristi volontari ed istituite su richiesta degli Alleati per porre fine ai processi sommari messi in atto dai partigiani contro chiunque venisse da loro giudicato compromesso con il fascismo, più che altro animati da spirito di vendetta e che si risolvevano puntualmente in linciaggi e massacri. Nominato prima consulente del tribunale d’emergenza di Novara, quindi pubblico ministero, Scalfaro si era allineato all’imperante clima d’odio chiedendo e naturalmente ottenendo la condanna a morte per sei ex fascisti – l’ex prefetto di Novara e cinque militi – accusati di “collaborazionismo con il tedesco invasore” e omicidio plurimo (fu peraltro quella l’ultima volta che in Italia venne applicata la pena capitale).

Le motivazioni della sentenza non facevano tuttavia onore al tribunale che l’aveva emessa: nel ritenere infatti che in particolare due dei condannati avessero “costituito l’anima della Squadraccia”, a proposito di uno di loro, il brigadiere Ricci, si scriveva che di tale banda omicida egli “pare abbia assunto il comando ufficiale allo scioglimento di essa”. A parte l’incongruenza del diventare comandante di qualcosa dopo la sua dissoluzione, quel pare inficerebbe la giustezza di una condanna – perdipiù capitale – in qualsiasi tribunale al mondo.

Tutta l’ipocrisia del personaggio avrebbe tuttavia avuto modo di manifestarsi allorché la vicenda sarebbe stata rispolverata dalla stampa dopo la sua elezione a capo dello stato. Nel ’92 egli si giustificò così: “Non si poteva chiedere una condanna minore. Fui molto combattuto con la mia coscienza e con le mie convinzioni. Presi dieci giorni di tempo per decidere come comportarmi: da magistrato dovevo applicare la legge, non potevo mercanteggiare. Ero molto giovane ma studiai quindici giorni gli atti processuali per vedere se ci fosse un cavillo in grado di evitare la condanna capitale. Che alla fine chiesi: ma di fronte ai giudici parlai per mezz’ora contro la pena di morte e successivamente chiesi la grazia per tutti i condannati”.

Quando poi nel ’96 il “Giornale”, nell’ambito delle polemiche per il modo partigiano in cui Scalfaro andava espletando il proprio mandato presidenziale, pubblicò una foto che lo ritraeva sul luogo dell’esecuzione, egli ebbe a dichiarare: “Quella mattina mi sono alzato alle quattro e sono andato al carcere. Ho abbracciato tutti i condannati, uno per uno. Ho fatto la comunione con loro sul camion”. La figlia del Ricci – famiglia della quale Scalfaro era stato peraltro vicino di casa, abitando all’epoca nella stessa palazzina – a quel punto gli scrisse per sapere se il padre, che nelle lettere scritte in cella ai familiari non aveva cessato di proclamare la propria innocenza, fosse stato o meno colpevole; lui allora le telefonò per dirle: “Stia tranquilla perché suo padre dal paradiso pregherà per lei”. Egli dunque sapeva di avere fatto fucilare un innocente? Forse: sicuramente uno sulla cui colpevolezza non si avevano certezze.

Arbitri e cadute di stile che vedono protagonista Scalfaro al Quirinale non si contano. Nel ’93 – dopo che la gran parte della classe politica nazionale è stata travolta dall’inchiesta “Mani pulite” – finisce in carcere l’ex direttore del Sisde: nell’ambito di un’indagine su fondi neri e clientelismi, viene fuori che nel decennio ’80-’90 dal servizio segreto civile veniva alimentato a ciascuno dei ministri dell’interno un portafoglio privato di 100 milioni di lire mensili. Lo scandalo coinvolge dunque anche Scalfaro, che ha retto il Viminale dall’83 all’87: il classico contrappasso del moralista bacchettone preso in castagna. Solo che in questo caso il presunto percettore di tali denari pubblici indebitamente utilizzati è presidente della repubblica: il quale allora cosa fa? Va in televisione, e a reti unificate ammorba gli italiani con un discorso in cui annuncia che lui, in questo “gioco al massacro” scatenatosi con Tangentopoli, “non ci sta”.

L’anno successivo la coalizione di centrodestra vince le prime elezioni politiche effettuate col sistema maggioritario: un esito che Scalfaro non riesce evidentemente a digerire, al punto di osteggiare in ogni maniera la formazione del nuovo governo. E così, quando il presidente incaricato Berlusconi gli presenta la lista dei ministri, subito ne depenna il nome del missino Tremaglia, in quanto “compromesso” con la Rsi essendosi arruolato a 17 anni nella guardia repubblicana: particolare che non impedirà tuttavia al successore del novarese, il ben più serio e democratico Ciampi, di nominare l’ex milite ministro nei successivi governi Berlusconi. Dimenticava peraltro l’opportunista Scalfaro in quella circostanza di avere prestato anch’egli giuramento al Duce e al fascismo, all’inizio della propria carriera di magistrato.

Ma l’intromissione più pesante sulla formazione di quel governo è sicuramente quella che riguarda la mancata nomina a ministro dell’interno di Di Pietro: personaggio più che mai sulla cresta dell’onda, simbolo dell’inchiesta anti-corruzione (e anti-politica) milanese che appassionò l’Italia e considerato a quel tempo dai più, per la forza ed il coraggio del suo impegno legalitario, come un uomo sostanzialmente di destra. Il magistrato molisano avrebbe con tutta probabilità accettato l’incarico se non fosse intervenuto Scalfaro, e nella maniera più subdola: lasciato Berlusconi con in mano la sua lista nell’altra stanza, egli raggiunge il proprio studio privato per telefonare al capo del pool milanese Borrelli affinché intervenga sul suo sottoposto perché rifiuti la proposta del Cavaliere. Di Pietro infatti ci ripensa, e il nuovo governo perde così un vero e proprio pezzo da novanta che agli occhi dell’opinione pubblica – nazionale e internazionale – non avrebbe potuto che dargli enorme prestigio: evidentemente il presidente partigiano pensava già a come far cadere Berlusconi (peraltro privo di una solida maggioranza al senato) e dunque si preoccupava fin da allora di indebolirlo il più possibile.

Disegno che sarebbe riuscito ad attuare ben presto, nel dicembre di quello stesso ’94, convincendo Bossi a mollare il Cavaliere, dal leader del Carroccio esplicitamente accusato di appartenenza alla mafia. Berlusconi fidandosi di Scalfaro rassegnò le dimissioni, convinto che con il nuovo sistema maggioritario una volta sfasciatasi la coalizione vincitrice non sarebbe stata possibile altra strada che il ritorno alle urne; invece il suo spregiudicato antagonista rispolverando i peggiori giochetti della “prima repubblica” ricorse alla scappatoia del governo “tecnico”, in modo da far decantare la situazione impedendo la probabile rivalsa di un Cavaliere presentatosi agli elettori nei panni della vittima.

C’è da dire che la stessa elezione di Scalfaro al Quirinale non era stata dovuta a particolari meriti acquisiti nel corso della lunga carriera politica: anche perché era tipico del gioco correntizio democristiano che alle principali cariche istituzionali non finissero le personalità più carismatiche e prestigiose, bensì spesso le più grigie e mediocri, sulle quali era più facile l’accordo tra le varie anime della “balena bianca”, al termine di patteggiamenti e compromessi che risultavano sovente dei capolavori di equilibrismo. Le elezioni politiche del ’92, svoltesi sotto la spada di Damocle di Tangentopoli – inchiesta annunciata già prima ma dalla procura milanese fatta esplodere solamente dopo il voto, per non influenzarne l’esito – avevano ridotto la coalizione governativa quadripartita di centrosinistra all’osso; ciononostante i suoi leader tentarono fino all’ultimo di ricomporne i cocci, incuranti della tempesta che stava per abbattersi sulle loro teste.

Dimessosi il “picconatore” Cossiga poco prima della scadenza naturale del mandato, il nuovo parlamento si trovò anzitutto a doverne eleggere il successore: e dal momento che il socialista Craxi aspirava a tornare a Palazzo Chigi, al Quirinale era giocoforza andasse un altro democristiano. Già fatto fuori nelle tornate precedenti, Andreotti sentiva questa come l’ultima occasione per coronare la propria infinita collezione di poltrone governative assurgendo a quella presidenziale; senonché la medesima ambizione coltivava anche il segretario della Dc, Forlani, ma avendo dalla sua il patto d’acciaio stretto da anni con lo stesso Craxi. Una volta proposto ufficialmente dal partito dopo che ai primi tre scrutini – necessitanti di una maggioranza qualificata – erano stati presentati candidati di bandiera, puntando nei successivi a conseguire quella assoluta Forlani, anche in previsione delle probabili defezioni nel segreto dell’urna da parte di suoi stessi “amici” democristiani, non tralasciò di sondare anche la destra missina.

Nonostante tale mossa però nelle due votazioni che si svolsero il 16 maggio il candidato democristiano non riuscì a raggiungere l’agognata soglia per una manciata di voti. A non votarlo dei suoi erano stati probabilmente gli stessi andreottiani ed esponenti della sinistra (del cui ambizioso leader, De Mita, egli era stato lo storico rivale), oltre a qualche socialista insoddisfatto della gestione craxiana del Psi; mentre dal Pci non c’era da aspettarsi alcun aiuto, essendosi sempre Forlani attestato su posizioni moderate e anticomuniste. Per non lacerare ulteriormente il partito allora egli ritirò la propria candidatura.

Sulle altrettanto inconcludenti votazioni successive piomba, il 23 maggio, l’attentato a Giovanni Falcone: a quel punto la politica coi suoi machiavellismi si vede messa con le spalle al muro, non potendosi continuare ad offrire al Paese un simile spettacolo di impotenza in un momento del genere. La necessità di avere al più presto un capo dello stato porta i partiti a restringere adesso la scelta a due nomi: quelli dei presidenti di camera e senato, i quali bene o male sono stati appena eletti a tali cariche anche con il voto dei comunisti. Tra le figure di Scalfaro e Spadolini risulterebbe di gran lunga più adeguata quella del secondo, insigne uomo di cultura, giornalista, professore approdato alla politica solo nella maturità e distintosi nella precedente legislatura per l’assoluta imparzialità con cui ha presieduto il senato, conquistandosi la stima delle stesse opposizioni.

Solo che l’intellettuale fiorentino è del partito repubblicano, e quindi del medesimo schieramento laico-socialista di cui fa parte Craxi: continuando nonostante tutto a coltivare la speranza di poter guidare il prossimo governo, in ossequio alla regola della spartizione delle due cariche più ambite il segretario del Psi sceglie il democristiano, convinto di rimanere in tal modo in pole position per Palazzo Chigi. E così al Quirinale va Scalfaro; mentre Craxi di lì a poco sotto i colpi di Di Pietro andrà a gambe all’aria, assieme a tutto il corrotto sistema “partitocratico”.

Questo dunque il testo per la lapide samminiatese partorito nel 2008 da quello passato alla storia come il peggior presidente che abbia avuto questo disgraziato Paese: “Sono passati più di 60 anni dallo spaventoso eccidio del 22 luglio 1944 attribuito ai tedeschi. La ricerca storica ha accertato invece che la responsabilità di quell’eccidio è delle forze alleate. La verità deve essere rispettata e dichiarata sempre. È anche verità che i tedeschi responsabili della guerra e delle ignobili e inique rappresaglie, con la complicità dei repubblichini, proprio in questa terra avevano seminato distruzioni, tragedie e morte. È la guerra. Proprio per questo la costituzione italiana proclama all’art. 11: l’Italia ripudia la guerra”.

Sulla facciata del comune finisce così un’insulsa lezioncina che dell’epigrafe commemorativa di 55 poveri morti ha davvero poco. Le polemiche a quel punto si sprecano: quanto scritto appare del tutto inopportuno, rendendo il lungo e tormentato dibattito precedente completamente inutile; paradossalmente, se proprio la vecchia lapide era inamovibile, tanto valeva a questo punto lasciarla da sola. Quello che sconcerta maggiormente è ovviamente la riproposizione delle malefatte tedesche, arcinote e annualmente rievocate ovunque siano state commesse, ma che in questo caso dovevano rimanere fuori: proprio questo era del resto lo scopo della riscrittura. Inoltre, quel richiamo ai “complici repubblichini” indigna l’opinione pubblica di destra: perché mentre altri presidenti della repubblica – come Pertini e Ciampi – si sono mossi in direzione della pacificazione nazionale su quanto accaduto in quello sciagurato periodo storico (al pari di un autorevole esponente della sinistra come Violante, una volta eletto presidente della camera), Scalfaro continua a scavare il fossato della divisione e dell’odio. Così, accanto alla lapide “bugiarda”, abbiamo adesso pure quella “mascalzona”.

Ma le evoluzioni del partito post-comunista sono ormai rapide e imprevedibili: specie con l’avvento dell’epoca renziana. Nel 2015, il consiglio comunale delibera la rimozione dal municipio di entrambe le discusse targhe, per essere collocate nell’erigendo museo della memoria, ubicato sotto i loggiati di San Domenico: d’ora in poi, chi vorrà leggersele dovrà andare lì. Stavolta è così la sinistra dura e pura ad insorgere, proclamando che di quei tragici fatti è bene si continui ad avere “una memoria non condivisa”.

A questo punto anche chi aveva storto il naso alla notizia che le due lapidi infami, invece di sparire definitivamente, sarebbero finite in un museo (della memoria poi: non della vergogna), comprende il motivo di tale scelta. Anche il Pd renziano – specie in Toscana – con la sinistra più radicale deve pur sempre continuare a dialogare: donde l’escamotage di quella collocazione “museale”, dove i nostalgici di guerra civile e antifascismo prolungati ad oltranza potranno comunque continuare a rimirare quei due capolavori di fanatismo e ipocrisia.

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La strage di San Miniato: sessant’anni di menzogneultima modifica: 2017-11-10T23:01:17+01:00da tradersimo
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