Valore psicologico del Giocatore di Dostoevskij

Romanzo autobiografico, scritto nel 1866 in appena quattro settimane per assolvere a dei debiti di gioco interrompendo la stesura del più ambizioso Delitto e castigo, Il giocatore di Dostoevskij si rivela comunque un capolavoro per l’eccezionale descrizione che vi troviamo del gioco d’azzardo, analizzato in tutte le sue sfumature mediante l’introduzione di varie figure-campione che tipizzano i molteplici modi di vivere tale mondo.

Come in un film vediamo così alternarsi al tavolo verde personaggi dagli scopi più diversi: dai ricchi esponenti della nobiltà ottocentesca che giocano per puro divertimento avendo scelto per le vacanze la località termale più alla moda, ai poveretti che inseguendo un sogno di ricchezza finiscono con il lasciarvi regolarmente tutti i propri averi, ai perdigiorno e lestofanti che bazzicano il casinò come avvoltoi, profittandosi della debolezza e dell’esaltazione che caratterizza i giocatori, sfruttandoli e derubandoli. Con impareggiabile ironia vengono inoltre caratterizzate le varie nazionalità europee, con la descrizione di pregi e difetti di ciascuna delle figure elette a loro rappresentanti, e in un continuo interscambio delle varie monete nazionali a quantificare vincite e perdite, in modo da accrescere il carattere vorticoso e caotico delle emozioni trasmesse dalla spirale del gioco.

La vicenda è ambientata in Germania, nell’immaginaria città di Ruletenburg, il cui casinò attira molti turisti: probabilmente l’autore si è ispirato a Wiesbaden, ove tre anni prima egli aveva preso il vizio del gioco e ove il romanzo fu composto. Spesso Dostoevskij si trovava infatti costretto a riparare all’estero per sottrarsi all’assillo dei creditori: per questo molti dei suoi capolavori sono stati scritti lontano dalla patria (a cominciare dall’Idiota, impostato a Firenze). In proposito la moglie – giovane stenografa ingaggiata proprio per velocizzare la stesura del Giocatore in modo da onorare la scadenza concordata con l’editore – nelle sue memorie racconta di come Fëdor, persa al casinò pure la camicia, le si presentasse all’albergo implorandola di consegnargli le residue gioie, fino all’ultima spilla, per ributtarsi alla roulette nella speranza di rifarsi: lei intelligentemente lo assecondava, avendo compreso come solo una volta rimasto completamente al verde il grande scrittore avrebbe accantonato il gioco e ripreso in mano la penna, unico mezzo di salvezza.

Sono dunque i soldi i veri protagonisti del brillante e dinamico romanzo; nel quale a svolgere la funzione di narratore è il giovane Alekséj Ivànovic, precettore presso una stravagante famiglia russa composta da un anziano e patetico generale follemente innamorato di una giovane avventuriera francese, Mademoiselle Blanche, dai due bambini dei quali Alekséi è il maestro e dalla figliastra del generale, Polina Aleksàndrovna, della quale Ivànovic è perdutamente innamorato ma senza esserne ricambiato. Attorno a loro gravitano Mister Astley, ricco inglese oltremodo timido e riservato ma dalla grande dignità ed onestà, a sua volta innamorato di Polina, ed un “francesino” vacuo, borioso e interessato, il marchese Des Grieux, amato dalla stessa Aleksàndrovna.

Pur di suscitare l’interesse di Polina Alekséi giunge a burlarsi di un barone tedesco, rischiando di provocare una sfida a duello; ma soprattutto accetta di recarsi a giocare lui per conto della giovane: la quale necessita di molto denaro per via del dissesto economico della famiglia, sull’orlo della rovina a causa sia dell’inettitudine del generale che dei maneggi dello stesso Des Grieux, che ne ha ipotecato il patrimonio. Dopo che Astley lo ha illuminato sui capricci che spesso la pallina regala alle sequenze di gioco (rimanendo il distaccato inglese “tutta la mattinata presso i tavoli, ma non puntando nemmeno una volta”), il russo fa il proprio debutto alla roulette con i settecento fiorini ricevuti da Polina, vincendone mille, portandoli immediatamente alla ragazza e rifiutandosi di  accettare la metà della vincita. La volta successiva però il giovane si fa prendere la mano dal gioco: vinti in meno di cinque minuti quattromila fiorini, li piazza tutti in un colpo, perdendo; dopodiché, “infervoratosi”, gioca tutto quanto gli resta, perdendo nuovamente e “allontanandosi dal tavolo come inebetito”.

Sulle ceneri di tale prima défaillance irrompe sulla scena la figura di gran lunga più memorabile del romanzo: quella della babúlinka Antonída Vasílevna Taràseviceva, “possidente e signora moscovita”, l’anziana “nonnina” sulla cui eredità la sciagurata famiglia del generale ha puntato tutto. A lungo i nostri attendono infatti meschinamente dalla Russia la notizia del decesso della vegliarda, data per moribonda e la cui dipartita consentirebbe loro di saldare i debiti con Des Grieux e quindi di celebrare i matrimoni fra lo stesso marchese e Polina e fra il generale e la sua amata mademoiselle. Senonché la ricchissima nonna “per la quale si mandavano e ricevevano telegrammi, che stava morendo e non era morta” piomba a Ruletenburg gettando nella costernazione i familiari: sia per il fatto di mostrarsi ben viva e vegeta, sia perché non perde occasione per mortificare il generale, soprattutto ripetendogli che non gli darà un soldo. “Beh, eccomi! Invece del telegramma! – sbotta rompendo il loro sgomento silenzio nel vederla comparire – Ma voi pensavate tutti che avessi già tirato il calzino e vi avessi lasciato l’eredità? So bene come tu di qua spedissi i telegrammi: immagino il denaro che ci avrai speso! Da qui son cari. E io gambe in spalla, e son venuta qua”.

In realtà la donna, paralitica, dev’essere trasportata su una poltrona: il che, unito alla sua condizione sociale che incute in tutti riverenza e soggezione, nonché alla sfrontatezza sarcastica e pungente della sua lingua, ne fa un personaggio dalla teatralità unica. Per gli indebitati e ipotecati familiari nonché per il loro subdolo creditore la situazione precipita ulteriormente allorché la scalpitante màtuska manifesta la volontà di cimentarsi lei stessa alla roulette, assumendo quale accompagnatore e consigliere proprio Alekséj. All’inizio le cose paiono mettersi bene per la principiante giocatrice: eppure anch’essa finirà vittima della mutevolezza della fortuna e della incapacità di dominarsi, lasciando sul tavolo la gran parte dei propri averi.

A quel punto la catastrofe si abbatte sulla depauperata nonna, e di conseguenza sui suoi familiari: i quali invano le hanno tentate tutte per strapparla al casinò, ma venendone malamente frustrati. La reazione a catena che si determina in seno alla venale compagnia vede infatti la Blanche perdere interesse per il suo promesso sposo ormai privo di ogni speranza di riscatto, ed il non meno cinico Des Grieux abbandonare a sé stessa Polina per tornarsene su due piedi in Francia. È allora Alekséj a prendersi a cuore le sorti della sventurata giovane, dopo che lei affranta gli si è inaspettatamente presentata alla camera dell’albergo dove alloggia per sfogarsi leggendogli quanto a proposito del credito vantato non ha mancato di scriverle nel congedarsi l’opportunistico marchese: “Oh, con che felicità getterei su quel viso abietto questi cinquantamila franchi e gli tirerei uno sputo… e ce lo spalmerei su!”.

Credendo di ravvisare nel comportamento di Polina – compromettente per una ragazza – una dichiarazione d’amore nei suoi confronti, Ivànovic decide di tornare a giocare per lei al casinò, ma stavolta con soldi propri. Dopo un inizio alterno, in cui il giovane rischia più volte di perdere tutto, la sorte incomincia ad arridergli in maniera sfacciata, in un crescendo impetuoso e inarrestabile, facendogli sbancare un tavolo dopo l’altro, giocando senza alcun calcolo e in un turbinio di emozioni indicibile, e allorché più d’uno dei giocatori presenti non manca di consigliargli di andarsene. Lui invece continua: ma solo fino a un certo punto. “”Monsieur a gagné déjà cent mille fiorins“, risonò accanto a me una voce. Io di colpo tornai in me. Come? Quella sera avevo vinto centomila fiorini! A che scopo mi occorreva di più?”. Corrispondendo infatti quella cifra a duecentomila franchi, ogni problema dell’amata è risolto: è allora da lei che si precipita, ancora eccitato per quanto accadutogli.

“Polina, ecco venticinquemila fiorini: sono cinquantamila franchi, anche più. Prendete, domani gettateglieli in faccia”. La reazione non è però quella sperata; orgogliosamente la giovane si rifiuta di accettare quel denaro, paragonandolo anzi al vile marchese: “Voi date molto – proferì sorridendo – l’amante di Des Grieux non vale cinquantamila franchi”. La notte che i due trascorrono insieme non muta la posizione della ragazza: la quale, come in preda ad una “momentanea follia”, finisce per abbandonarlo, andando a rifugiarsi da Astley. Ma inopinatamente neppure Alekséj rimane con le mani in mano, venendo convinto dalla Blanche a recarsi con lei a Parigi: ove, abbindolandolo con la sua avvenente bellezza, la mantenuta non tarda a sperperarne il tesoretto, spendendo e spandendo “quasi per un mese”. Dopodiché la coppia viene raggiunta dal generale: il quale riesce finalmente a sposare la sua bellona.

Ad Ivànovic non resta allora che riprendere a bazzicare le sale da gioco, adattandosi al contempo a fare il lacchè e finendo persino in prigione per un debito insoluto, potendo uscirne solo grazie all’intervento di uno sconosciuto benefattore che ne paga la cauzione. Fino al sorprendente incontro con Astley, che ha luogo durante una pausa fuori dal casinò di Homburg, mentre egli sta riflettendo sul modo migliore di puntare gli ultimi cinquanta fiorini rimastigli; con l’inglese che lo ragguaglia su Polina, da lungo tempo malata ma almeno economicamente risanatasi dopo che la babúlinka – finalmente deceduta – le ha lasciato l’equivalente di settemila sterline. La giovane vive adesso in Svizzera, con la sorella di Astley e la sua famiglia: per questo egli è così informato su di lei. Finché l’uomo non rivela ad Alekséj il vero scopo della sua presenza lì, tutt’altro che casuale: è stata Polina ad incaricarlo di andare a cercare Ivànovic, non avendo mai smesso di amarlo.

Gentleman fino in fondo, nonostante lo scambio di idee tutt’altro che amichevole avuto con il russo, e la disistima provata per lui e la sua condotta di vita, Astley ben conoscendo la precarietà della sua situazione gli offre del denaro: “Eccovi da parte mia dieci luigi; di più non vi darò, perché tanto li perdereste al gioco”. Alekséj non li vorrebbe, ma l’altro insiste: “Io sono convinto che voi siete ancora un galantuomo, e ve li do come un amico può darli a un vero amico. Se potessi avere la certezza che piantereste subito il gioco e Homburg e andreste al vostro paese, sarei pronto a darvi senz’altro mille sterline, per l’inizio di una nuova vita. Ma vi do soltanto dieci luigi, appunto perché so che in questo momento mille sterline o dieci luigi sono per voi assolutamente la stessa cosa: perdereste comunque tutto al gioco”. Stavolta il nostro li accetta, ma a patto che Astley gli consenta di abbracciarlo prima di congedarsi: il che l’inglese concede di buon grado.

A questo punto la vita di Alekséj potrebbe davvero essere dinanzi a una svolta, potendo egli scegliere tra varie opzioni. Voltare definitivamente pagina, raggiungendo Polina e riscattando nell’amore la sua viziosa giovinezza; più semplicemente ritornare in Russia – come suggeritogli da Astley – ma chiudendo comunque con il suo balordo passato; oppure fare come nulla fosse, proseguendo sulla sua strada di perdizione e rimandando al futuro la sua redenzione.

Ma il giocatore resta sempre al fondo un debole e un vile, incapace di scelte forti e coraggiose, e la cui incorreggibile dipendenza – come Dostoevskij ben sa – non riesce a fargli superare la pulsione più semplice e immediata che è quella di correre al tavolo verde fino a dare fondo a tutto quanto possiede. Trovando anche la sua malata ma fervida mente le giustificazioni più adeguate da offrire alla coscienza: la quale ha ben chiaro quanto la via del gioco sia rovinosa, e che non vi sia lezione passata che tenga, nonostante la presunzione di chi ne è schiavo di avere finalmente capito come condursi una volta sedutosi a quel maledetto tavolo.

“Sappia Polina che posso ancora essere un uomo. Basta soltanto… Ormai, del resto, è tardi. Ma domani… Oh, io ho un presentimento, e non può essere altrimenti! Ora ho quindici luigi, e io cominciai con quindici fiorini! Se si comincia con prudenza… possibile, possibile che io sia un tal bambinello? Possibile che non capisca di essere un uomo perduto? Ma perché poi non posso risorgere? Sì! Basta soltanto essere calcolatore e paziente, almeno una volta nella vita, ed ecco tutto! Basta soltanto avere del carattere, almeno una volta, e in un’ora posso mutare tutto un destino! L’essenziale è il carattere. Basta ricordare quel che mi accadde in questo senso sette mesi fa a Ruletenburg, prima della mia perdita definitiva! Oh, quello sì che fu un bel caso di risolutezza: avevo perduto tutto allora, tutto… Esco dal casinò, guardo, nella tasca del panciotto mi balla ancora un fiorino: “Ah, dunque ci sarà di che desinare!” pensai; ma, fatti un centinaio di passi, cambiai idea e tornai indietro. Quella volta puntai sul manque: e davvero c’è qualcosa di speciale nella tua sensazione, allorché solo, in terra straniera, lontano dalla patria, dagli amici e senza sapere quel che oggi mangerai punti l’ultimo fiorino, proprio l’ultimo! Vinsi, e dopo venti minuti uscii dal casinò con centosettanta fiorini in tasca. Questo è un fatto! Ecco quel che può significare, a volte, l’ultimo fiorino! E se io allora mi fossi perduto d’animo, se non avessi osato risolvermi?… Domani, domani tutto finirà!”.

Ma al fascino dell’avvincente trama va come detto aggiunto quello delle molteplici pagine in cui l’autore descrive mirabilmente la psicologia del giocatore, con i suoi calcoli e i suoi studi, le sue manie e le sue tare, le sue esaltazioni ed i suoi tonfi. All’inizio Alekséj deve vincere una certa riluttanza a rimanere in quell’ambiente così “moralmente brutto e sudicio”, caratterizzato da tanto “miserabili sale”; da tale impasse lo salva tuttavia la considerazione che, “per quanto sia ridicolo aspettarsi dalla roulette un cambiamento radicale e definitivo del proprio destino, ancor più ridicola mi sembra l’opinione corrente – ammessa da tutti – che sia sciocco e assurdo aspettarsi qualcosa dal gioco. E perché il gioco sarebbe peggiore di un qualsiasi altro mezzo per far denaro, ad esempio del commercio? Io non vedo proprio nulla di sudicio nel desiderio di vincere più rapidamente e più che si può”. Per poi constatare come, a differenza che nella gran parte della vita di società, al casinò “non si facciano vicendevoli cerimonie, ma si agisca apertamente e francamente: a che pro ingannare sé stessi?”. Ma senza al tempo stesso nascondersi il senso di ridicolo suscitato da tutti quei perdigiorno, così compunti nemmeno fossero a scuola: “Particolarmente poco bello, a prima vista, era in tutta quella marmaglia di biscaioli il rispetto per la propria occupazione, quell’aspetto serio e perfino riverente con cui tutti stavano ai tavoli”.

Giungiamo così a quelle caratterizzazioni in cui il sommo romanziere-psicologo dà il meglio di sé. Fondamentale anzitutto la distinzione fra il gioco “da gentleman e quello plebeo, interessato, tipico di ogni sorta di canaglie”: “Il gentleman può puntare cinque o dieci luigi, raramente di più; anche mille franchi, se è molto ricco: ma solo per puro gioco, per semplice spasso, per seguire l’andamento di vincite e perdite, e senza interessarsi affatto alla vincita per sé stessa. Dopo avere vinto egli può mettersi a ridere forte, fare a qualcuno di quelli che gli stanno intorno un’osservazione; perfino puntare di nuovo, e raddoppiare la posta; ma unicamente per pura curiosità, per osservare le probabilità, fare calcoli: non per il desiderio plebeo di guadagnare. Insomma tutti questi tavoli da gioco non deve considerarli altrimenti che come un passatempo, organizzato soltanto per il suo piacere: l’avidità di lucro e la trappoleria su cui è basato il banco non deve neppure sospettarle. Non ci sarebbe anzi da meravigliarsi se a lui paresse che anche gli altri giocatori – tutti quei pezzenti che tremano su un fiorino – fossero altrettanto ricconi e gentlemen quanto lui, e giocassero unicamente per puro spasso e divertimento”.

Ma ecco ad esemplificare il concetto scorrere davanti ai nostri occhi un campionario di figure. Una signorina, figlia di aristocratici, punta alla roulette le monete d’oro ricevute dai genitori: “che vinca o che perda, non manca di sorridere, allontanandosi sempre soddisfattissima”. Più complessa la situazione del nostro disgraziato generale, sospeso fra l’impellente necessità di denaro e l’ossequio per l’etichetta. Punta trecento franchi d’oro sul nero, e vince; lascia la vincita lì, e raddoppia nuovamente; non ritira il denaro neppure stavolta, ma viene fuori il rosso: via d’un colpo i milleduecento franchi cumulati. “Egli si allontanò con un sorriso e si mantenne in tono. Io sono persuaso che sentì rodersi il cuore, e che se la posta fosse stata due o tre volte più alta, non sarebbe rimasto impassibile e avrebbe lasciato trasparire la delusione”. Non ha invece di questi problemi un francese “che prima vince e poi perde una trentina di migliaia di franchi con aria allegra e senza alcuna agitazione. Un vero gentleman, avesse perduto anche tutto il suo patrimonio, non deve scomporsi: il denaro deve rimanere talmente al di sotto della sua qualità di gentleman da non meritare che egli se ne dia pensiero”.

Curiosa la considerazione che ne segue: “Sarebbe certamente oltremodo aristocratico non notare affatto il sudiciume di tutta questa marmaglia e di tutto l’ambiente. A volte tuttavia non risulta meno aristocratico anche il metodo opposto: notare cioè, guardare attentamente e perfino esaminare – magari con l’occhialino – tutta questa canaglia; ma non altrimenti che prendendo tutta questa folla e questa sporcizia per un divertimento sui generis, quasi una rappresentazione organizzata per lo svago del gentleman”.

Un’altra discriminante è data dall’orario: dal momento infatti che le capatine al casinò di chi gioca per diletto non devono certo giungere a inficiarne la normalità della vacanza, dedicando il gentleman la gran parte del tempo alle terme, al relax, alla socialità, e soprattutto ritirandosi ad una certa ora della sera per riposarsi o svagarsi, “dopo le dieci rimangono presso i tavoli da gioco i veri, accaniti giocatori per i quali, nelle località termali, esiste unicamente la roulette: sono venuti solo per essa, fanno ben poco caso a quanto succede attorno a loro non interessandosi a niente per la durata dell’intera stagione, solamente giocano da mattina a notte e sarebbero disposti a farlo anche per tutta la notte fino all’alba, se solo potessero. E se ne vanno sempre indispettiti, quando a mezzanotte la roulette viene chiusa. E quando il croupier anziano, approssimandosi l’ora di chiusura, annuncia: Les trois derniers coups, messieurs!, essi arrivano talvolta a puntare in questi tre ultimi colpi tutto quanto hanno in tasca: per cui è proprio allora che si rovinano maggiormente”. Nella sua febbre il giocatore vive come in un mondo a sé, il suo tempo non è dettato dall’orologio bensì dal gioco e soprattutto egli non è capace di pensare ad un utilizzo diverso del proprio denaro: per cui, se il casinò chiude, a che scopo tenerselo in tasca?

Con felice ironia viene quindi sottolineato il contrasto fra i calcoli razionalizzanti di quanti s’illudono di poter applicare la logica alle presunte “sequenze” di numeri e l’assoluta casualità – per quanto talvolta non priva di bizzarrie – che governa in realtà il succedersi delle uscite. “Mi parve che il calcolo conti in definitiva abbastanza poco e non abbia affatto quell’importanza che gli attribuiscono molti giocatori: i quali stanno seduti davanti a dei foglietti scompartiti in colonnine, segnano i colpi, contano, deducono le probabilità, fanno calcoli, infine puntano e… perdono esattamente come noi, comuni mortali, che giochiamo a casaccio. Ma in compenso ne trassi una considerazione che mi pare giusta: effettivamente nel succedersi delle fortuite combinazioni parrebbe essere non una sistematicità, ma un certo qual ordine; il che naturalmente è stranissimo.

“Accade ad esempio che dopo la dozzina media esca l’ultima; due volte, mettiamo, il colpo batte sull’ultima per poi passare alla prima. Da questa passa di nuovo alla media, vi batte tre o quattro volte di fila per poi tornare all’ultima; donde, nuovamente dopo due o tre colpi, passa alla prima, per battervi una volta e tornare ancora tre volte sulla media: e in tal modo si va avanti per un’ora e mezzo, anche due ore. Uno, tre e due; uno, tre e due: è un fatto assai divertente. Qualche giorno, qualche mattina le cose poi vanno così: il rosso si alterna al nero e viceversa, quasi senza alcun ordine, in continuazione, in modo da non avere più di due o tre uscite di fila sia del rosso che del nero. Il giorno dopo invece – o la sera stessa – esce consecutivamente soltanto il rosso, superando magari i ventidue colpi di fila, e così prosegue per un certo tempo: pure per l’intera giornata”.

Di tale allucinazione che caratterizza l’approccio al tavolo verde del giocatore “plebeo” finisce purtroppo con il cadere vittima la stessa babúlinka. La prima volta infatti la donna, recatasi al casinò con l’intenzione di puntare qualche spicciolo e unicamente per soddisfare la propria curiosità, giocando d’istinto e azzeccando una serie di colpi arditi quanto fortunati vince la bellezza di dodicimila fiorini, grazie in particolare alla sua perseveranza sullo zero che esce per ben tre volte su una decina di colpi, e completando il proprio trionfo puntando due volte sul rosso: la prima l’intera vincita, la seconda solo la metà. Quest’ultimo particolare sta a significare la padronanza della situazione che anche dinanzi al perseverare della fortuna ha saputo mantenere la debuttante giocatrice: la quale, rimasta consapevole del carattere episodico della vincita, ha come chiesto alla sorte di quantificarne lei la definitiva entità, avendo evidentemente già deciso essere quella l’ultima sua puntata.

Nel valutare tale frequenza dello zero Alekséj non manca di rilevare come esso due giorni avanti fosse sì uscito tre volte a fila, ma suscitando il commento di un giocatore “che annotava zelantemente i colpi su un foglietto: il quale aveva osservato a voce alta che non più in là del giorno prima quello stesso zéro era uscito in tutte le ventiquattro ore una sola volta”. Perché questa è un’altra caratteristica della minorazione di chi trascorre le proprie giornate nelle sale da gioco: salire in cattedra, con inutili e non richieste osservazioni che vorrebbero farne risaltare agli occhi degli altri la dottrina. Alla preoccupazione espressa dal suo consigliere di non ostinarsi su quel numero date le “trentasei probabilità contrarie” tuttavia l’euforica màtuska ha continuato a fare di testa propria, proclamando: “Voglio piuttosto morire, ma resterò qui fino allo zéro!”. Per poi rivolgersi a lui “con furiosa espressione di trionfo”, come a dire: “Vedi che avevo ragione io?”.

In ogni caso la donna in occasione del suo esordio alla roulette ha saputo rimanere coi piedi per terra, abbandonando il casinò una volta incassata l’ultima vincita; realismo che invece non caratterizza il suo ritorno nella sala, allorché ella pone le basi della propria rovina anzitutto recandovisi già in uno “stato di impazienza e irritazione”, quindi incaponendosi sulle due giocate che ne hanno propiziato la precedente vincita con poste che divengono presto elevate. “Ma alla quinta volta che lo zéro non uscì, la nonna fu stufa. “Manda al diavolo questo ignobile zeruccio. To’, punta quattromila fiorini, tutti sul rosso”, ordinò”. Beffardamente però esce proprio lo zero; al che la sconcertata giocatrice ha una buffa reazione cui qualcuno non manca di ridere, ma che in realtà ne trasmette tutta la pena: “Mandò un “ah!” e batté insieme le mani da farsi udire in tutta la sala”. Ormai la poveretta non è più una spensierata turista capitata qua per curiosità e diletto bensì a tutti gli effetti una ludopatica: a meno di un provvidenziale ravvedimento, l’intero suo patrimonio appare a questo punto in pericolo, foss’anche proprietaria di tutta la Russia.

Difatti puntualmente dinanzi a lei si spalanca il baratro: dato fondo alla vincita, non le resta che cambiare i titoli che ha con sé, e al vampiresco tasso offerto dalla prima banca cui si è rivolto il suo accompagnatore; il cui impiegato ha peraltro accettato di recarsi da lei una volta saputo della sua infermità. “Che tu possa strozzarti col mio denaro! Cambia da lui, Alekséj Ivànovic: non c’è tempo, altrimenti si andrebbe da un altro…”, sollecita contro ogni buon senso presa solo dalla smania di tornare al banco. “Non punterò mai più su quel maledetto zéro, e nemmeno sul rosso”, promette: e ovviamente esce lo zero, mandando in fumo anche i dodicimila fiorini testé rimediati, e dopo che l’avveduto Alekséj, intuita la gravità del momento, ha scelto il silenzio, rifiutandosi di assecondarla in quella che è ormai diventata una corsa al suicidio.

Che in un barlume di lucidità la babúlinka parrebbe voler evitare: “Che grulla! Che grullona!Vecchia, vecchia grullona che sei!”, si rinfaccia a voce alta. Per poi ordinare: “Torniamo indietro, a Mosca! Quindicimila rubli d’argento ho buttato via al gioco”. Purtroppo per lei però al treno della sera mancano ancora due ore, più che sufficienti per cambiare idea; Ivànovic si vede così nuovamente convocato: “Voglio piuttosto morire, ma mi rifarò! Su, march, senza interrogatori. Là si gioca fino a mezzanotte, non è vero?”. La somma ricavata grazie al cambio degli ultimi titoli prende così una via del tutto diversa rispetto a quella della biglietteria della stazione; senonché lo scrupoloso giovane stavolta si tira indietro, preferendo restituire alla donna il denaro con cui lei lo ha ricompensato dei suoi servigi piuttosto che farsi complice della sua rovina.

Difatti, persi quella sera altri diecimila rubli, la sciagurata completa l’opera il giorno successivo, “reggendo per sette od otto ore, seduta in poltrona e senza scostarsi dal tavolo”, affidandosi a squallidi “polacchini” che si altalenano al suo fianco, giocando a casaccio, riempiendosi soprattutto le tasche del denaro sottrattole spudoratamente e accapigliandosi anche fra di loro sulle puntate da fare: al punto che in più occasioni si giunge all’assurdità che parte della posta della donna finisce sul rosso, parte sul nero. Finché la ormai disperata Antonída non è costretta a rivolgersi allo stesso croupier, “quasi in lacrime”, perché la liberi lui da quelle iene allontanandole dal tavolo: al che i furfanti reagiscono accusandola a loro volta di disonestà nei loro confronti.

Così umiliata e derelitta, quella che fino al giorno prima si presentava come una facoltosa ed autorevole nobildonna moscovita – per quanto pittoresca sia per la menomazione accusata che per il piglio autoritario – diviene ora l’oggetto del ludibrio generale: “Tutti i frequentatori delle acque, di ogni nazione, quelli comuni e quelli più illustri, accorrevano a vedere une comtesse russe tombée en enfance che aveva già perduto “parecchi milioni””.

In realtà la donna ha lasciato quel giorno sul tavolo novantamila rubli: perse anche le ultime monete, riaccompagnata disfatta all’albergo ella “ha chiesto soltanto un po’ d’acqua da bere, si è segnata e a letto, addormentandosi subito”; unico modo di sottrarsi ai terribili rimorsi della coscienza, in attesa che la mente possa farsi una ragione di quanto accaduto. E allorché Alekséj viene nuovamente convocato al suo cospetto affinché le procuri i soldi per tornare a casa, della fierezza e della baldanza dell’anziana signora non è più niente: “la sua voce ed il suo tono erano nettamente mutati”.

Riacquistata finalmente coscienza di sé, l’abbacchiata babúlinka mostra di avere ritrovato anche la dignità: “Scusate se vi ho disturbato ancora una volta, perdonate a una vecchia. Io, caro mio, ho lasciato là tutto, quasi centomila rubli: hai avuto ragione ieri a non venire con me. Ora sono senza denaro: non ho più un centesimo. Non voglio indugiare neanche un minuto; alle nove e mezzo partirò. Ho mandato a cercare di quel tuo inglese, Astley, e voglio chiedergli tremila franchi per una settimana: persuadilo tu affinché non pensi nulla di male, e non mi dica di no. Sono ancora abbastanza ricca: ho tre poderi e due case. E anche denaro se ne troverà ancora: non l’avevo preso tutto con me. Dico questo perché tu non abbia dubbi”.

Parole che sottintendono tante cose. Primo: il rimorso di non avere dato retta ad Alekséj, di non aver saputo riflettere sul significato della sua indisponibilità ad accompagnarla di nuovo al casinò – a costo di restituirle la mancia – presagendo egli il peggio. Secondo: la determinazione a partire al più presto, onde sottrarsi finalmente a quell’inferno prima che il demone del gioco s’impossessi nuovamente di lei, facendola finire in miseria. Terzo: l’auto-consolazione di possedere ancora qualcosa, di non avere sperperato proprio tutto; ma accompagnata dalla consapevolezza che, se avesse avuto ancora disponibilità – e se si fosse trattenuta lì – sicuramente nel tentativo di rifarsi ella avrebbe polverizzato ogni residuo avere.

Valore psicologico del Giocatore di Dostoevskijultima modifica: 2017-07-26T20:58:46+02:00da tradersimo
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