Lo scempio di Follonica

C’era una volta un delizioso ippodromo che allietava le serate estive dei villeggianti di una graziosa località balneare della Maremma toscana: Follonica. In omaggio sia alla corona di sempreverdi che faceva da cornice alla pista, sia alle pinete caratterizzanti tutta la costa maremmana, l’impianto aveva un nome che già di per sé evocava mare, estate, natura: Ippodromo dei Pini. Le “notturne” di corse al trotto che vi si svolgevano bisognava gustarsele tutte, perché non erano molte; giusto una ventina, concentrate fra luglio e agosto, e con cadenza trisettimanale: martedì, venerdì e domenica, in modo da non interferire troppo con le programmazioni altrettanto estive di Montecatini e Roma, cui erano dedicate le altre sere. Perché – come si diceva allora – Follonica rappresentava l’incontro della “forma” toscana con quella espressa da Tor di Valle.

Molto l’ippodromo sorto nel verde di Fontetonda doveva al romano Aurelio Francisci, signorile figura di “cavallaro” d’altri tempi che nel secondo dopoguerra era stato uno dei principali artefici dello sviluppo del trotto in Maremma. Già macellaro equino, negli anni Trenta Francisci prima dell’“ammazzatora” provava a far correre il cavallo finito nelle sue mani sulla vecchia pista di Villa Glori: se il test veniva superato, il sopravvissuto aveva dinanzi a sé una carriera di trottatore. Il commerciante prese il patentino di gentleman, e le vittorie cominciarono a fioccare: addirittura sette consecutive. “Ma non accettai di diventare professionista – avrebbe ricordato ultranovantenne – volevo restare gentleman, andare a cavallo per diletto. E poi a me, che ero stato macellaro, piaceva quel nome: ‘gentleman’”. In ogni caso il sor Aurelio smise di vendere carne equina, esponendo sul banco della beccheria soltanto manzo e prendendo ad allevare i cavalli nella campagna viterbese. Fortunato come proprietario, insuperabile in sediolo, Francisci sviluppò un debole per la Maremma, venendovi a trascorrere le vacanze estive.

Come tutti gli anelli di sabbia, anche quello maremmano aveva sia un evento clou che un mattatore. La serata regina, in cui l’ippodromo si vestiva a festa per accogliere i numerosi appassionati in arrivo, era rappresentata dal gran premio “Città di Follonica”, che cadeva verso la fine di luglio e aveva due particolarità: non era riservato agli anziani bensì ai 4 anni; non si svolgeva in un giorno festivo ma al venerdì. D’estate, il venerdì ippico apparteneva in un certo senso a Follonica: perché nell’arco della breve ma intensa riunione le venivano assegnate diverse corse tris, che al giocatore di cavalli stavano un po’ come le estrazioni del sabato a quello del lotto.

Mentre il re dell’ippodromo maremmano non avrebbe potuto essere che il figlio di Aurelio Francisci, Umberto, suo incontrastato dominatore per oltre un ventennio. Driver dalle mani d’oro, dal grande senso tattico e soprattutto conoscitore di ogni segreto di quella pista da mezzo miglio posta a breve distanza dal mare e tutta particolare, non particolarmente veloce e che, incassata com’era tra i pini di quel fazzoletto di terra posto al centro della città – e risparmiato dallo sviluppo urbanistico che dopo la dismissione dell’Ilva aveva visto la trasformazione di Follonica da centro siderurgico in località turistico-residenziale – pareva persino più ridotta rispetto alle tradizionali “piste piccole” che avevano fatto la storia del trotto italiano e la gioia degli appassionati.

Come per magia, in quel trotter il clima estivo e vacanziero si respirava assieme all’aria: ma non solo per la brezza marina e l’odore delle conifere. L’impianto era volutamente sobrio, offrendo agli ospiti strutture sì accoglienti ma essenziali: un po’ come i bar sulla spiaggia. Inoltre, gettando l’occhio alla curva delle scuderie da una certa ora in poi potevi assistere a scene inusuali per un ippodromo, che ti facevano capire dell’atteggiamento informale e scanzonato con cui gli stessi addetti ai lavori usavano vivere l’atipico contesto: esauriti gli impegni agonistici che avevano visto protagonisti i loro cavalli, i componenti la scuderia cenavano allegramente a bordo pista, sotto le stelle, magari gustandosi da spettatori le ultime corse. L’Ippodromo dei Pini era anche questo.

Finché un brutto giorno non fu decisa la fine della caratteristica “bomboniera” cittadina per dar vita a un mostro di cemento collocato al di là di quella linea immaginaria rappresentata dalla vecchia Aurelia, oltre la quale era peraltro tradizionalmente vietato il costruire. Il 2009 vide così l’inaugurazione di un impianto mastodontico, uno dei più grandi d’Europa e assolutamente inadeguato al contesto in cui veniva a collocarsi: la Maremma mistica e selvaggia, fascinosa plaga di butteri e fattorie, bandite e riserve naturali. Lo scempio perpetrato risultò tale sotto molti punti di vista, a partire da quello ambientale: spostato parecchio verso l’interno lungo la strada per Massa Marittima, lontano dal mare e ben fuori la stessa città, l’ippodromo perse tutta quella poesia che ne faceva praticamente un unicum nel panorama nazionale. Ma anche dal lato strettamente sportivo e spettacolare, la lunghezza di 1400 metri della pista (quasi il doppio di quella precedente) rese le corse distanti e asettiche, passando i cavalli davanti alle tribune soltanto per la partenza e l’arrivo e sacrificando così alla velocità il gusto della corsa, con il suo intrigo di tattiche, “guidate” e invenzioni.

Infine – come nella migliore tradizione italiana – vi fu lo scandalo edilizio. Cosa ben strana per un impianto ippico e più in generale sportivo, a ridosso della pista furono costruite ben 167 abitazioni, dalle concessioni destinate a ospitare i soli lavoratori della struttura al punto di essere definite come “foresterie”. Come infatti prescritto dalla Provincia di Grosseto nella convezione che aveva dato il via libera al progetto, gli alloggi avrebbero dovuto essere utilizzati “solo da personale addetto al centro ippico e non affittati, alienati, o comunque affidati a terzi”. A tale scopo era stata costituita un’associazione, la “Club House”, ai cui soli membri sarebbe spettato il diritto di acquistare o affittare quegli appartamenti.

Senonché tutta quella costruzione finì nel mirino della magistratura per lottizzazione abusiva: l’accusa era che, a fronte degli ingenti finanziamenti ricevuti dallo stato, le abitazioni in questione, lungi dall’essere riservate agli addetti ai lavori, fossero state fatte oggetto di normali compravendite immobiliari. Gli alloggi furono posti sotto sequestro, e nei guai finirono cinque persone a vario titolo legate alla costruzione e alla gestione del complesso che impropriamente veniva definito come ippodromo (e beffardamente pure “dei pini”).

In seguito l’inchiesta si allargò, con l’aggiunta alle ipotesi di reato dell’abuso d’ufficio e 61 avvisi di garanzia a colpire sia gli amministratori locali e in particolare tutti e tre i sindaci che, tra il 1995 e il 2012, si erano alternati alla guida del comune di Follonica, sia i dirigenti dell’impresa edile costruttrice che della società gestrice dell’impianto. A fare specie era soprattutto il fatto che proprio quegli anni avessero coinciso con la crisi più nera mai conosciuta dall’ippica italiana: abbandonata dallo stato e soppiantata da altri tipi di scommesse assai più in sintonia con i nuovi gusti popolari e redditizi per le casse dell’erario, essa vedeva la chiusura di vecchi quanti prestigiosi ippodromi, la drastica riduzione di corse e montepremi, l’abbandono da parte di tanti – anche gloriosi – allevamenti e scuderie.

Triste era stata del resto la fine dello stesso anello follonichese, con l’assegnazione di un’unica giornata di corse settimanale, da svolgersi tanto in estate quanto in inverno: peraltro di lunedì – ossia in quello che da sempre per l’ippica rappresentava il giorno di riposo – e con le tribune  ovviamente deserte. Come fu denunciato dai consiglieri comunali di opposizione, l’impianto era oltretutto gestito con scarsa manutenzione, e ancor meno investimenti: al punto che il fondo pista era scaduto in condizioni di degrado tali da mettere a repentaglio l’incolumità di cavalli e guidatori, oltre che il regolare svolgimento delle corse.

Per non parlare di tutte quelle strutture che avrebbero dovuto fare da corollario a quella principale, finite una peggio dell’altra nonostante l’ininterrotta erogazione dei finanziamenti pubblici. La clinica veterinaria, oggetto di un contenzioso tra comune e proprietari: fin dall’inizio mal progettata, poi modificata ma rimasta comunque inadatta alla cura e assistenza dei cavalli. I campi per i percorsi a ostacoli, posti anch’essi sotto sequestro a causa di una controversia giudiziaria cui non si era riusciti a trovare una soluzione che ne consentisse in qualche modo l’attività. La scuola di equitazione, rimasta praticamente sulla carta. Le stesse “foresterie”, che una volta dissequestrate erano divenute rifugio dei senzatetto, ma dopo che i ladri le avevano spogliate di ogni bene, compresi infissi e impianti. Lo stoccaggio delle deiezioni animali, che – come fu segnalato dal veterinario a una delegazione dell’opposizione venuta a ispezionare il complesso – non sarebbe stato conforme alla normativa. E con gli storici dipendenti dell’ippodromo licenziati.

Ma nel 2016 a dare un bel colpo di spugna a tutto quanto interveniva la classica sentenza all’italiana, per cui in nome della legge andavano assolti tutti tranne che la giustizia. L’abuso d’ufficio non costituiva reato, mentre riguardo all’accusa di lottizzazione abusiva scattava la prescrizione sia per le varie amministrazioni comunali succedutesi che per tutti gli altri imputati. Tuttavia la procura grossetana impugnò la sentenza: per cui il destino dell’impianto follonichese rimaneva sospeso nel limbo.

Ma che fine aveva fatto nel frattempo l’ippodromo di Fontetonda? Svoltasi l’ultima corsa il 3 luglio 2009, si disse che sulle sue ceneri sarebbe sorto un non meglio precisato “centro studi”.

Invece a tutt’oggi al suo posto non c’è niente. Solo tanta nostalgia.

Bibliografia

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Lo scempio di Follonicaultima modifica: 2018-09-18T21:17:26+02:00da tradersimo
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