La morte di Italo Balbo fu una disgrazia

Le circostanze della morte di Italo Balbo, avvenuta a Tobruk il 28 giugno 1940, hanno sempre suscitato l’interesse degli studiosi per il fatto che negli ultimi anni il governatore della Libia aveva assunto posizioni assai critiche nei confronti degli sviluppi della politica fascista: le leggi razziali, il Patto d’acciaio, l’intervento italiano nel secondo conflitto mondiale. Ad avvalorare la “teoria del complotto” stava poi la presenza a bordo del Savoia-Marchetti pilotato da Balbo del giornalista Nello Quilici, capo dell’ufficio stampa libico dell’aviatore nonché direttore del Corriere Padano: il giornale fondato dallo stesso quadrumviro ferrarese che, con le sue ardite posizioni controcorrente, aveva sfidato più volte la censura del regime.

Il giorno successivo la sciagura il Comando supremo diramò un bollettino in cui si annunciava che Balbo era caduto sul “campo dell’onore”, al ritorno da una missione bellica sul territorio egiziano. Mussolini dichiarò due giorni di lutto nazionale, mentre le salme dei caduti venivano portate prima a Bengasi, quindi a Tripoli, ove furono sepolte; per rimanervi fino al 1970, allorché l’ondata di nazionalismo scatenata dal colpo di stato guidato da Gheddafi indusse le autorità italiane a rimpatriarle, destinandole al “Quadrato degli Atlantici” appositamente costituito presso il cimitero di Orbetello.

Per ragioni di segretezza i particolari dell’incidente non furono forniti; ma la mancanza di spiegazioni plausibili non mancò di dare la stura ai pettegolezzi, come riferito da una testimonianza dell’epoca. “La strana morte del Maresciallo dell’aria è ormai sulla bocca di tutti. Le voci che il suo aereo sia stato abbattuto per ordine di Roma si intensificano a tal punto che la polizia non fa a tempo a raccoglierle tutte. Mussolini è nervoso e l’idea che si possa pensare che sia stato lui a liquidare il famoso gerarca gli provoca attacchi di ulcera. La situazione peggiora quando gli comunicano che anche i familiari di Balbo sostengono tale versione e che in particolare la vedova manifesta apertamente a tutti coloro che si recano a farle visita la propria convinzione circa il suo coinvolgimento: “Lui mi manderà al confino, ma io dico tutto. Italo non voleva la guerra, si era sempre opposto. Diceva che non eravamo preparati”. D’altra parte, data la nota rivalità esistente fra il dittatore e l’eroico trasvolatore non ha mancato di prendere subito piede l’ipotesi del sabotaggio: di conseguenza, la voce che sia stato il Duce a ordire la liquidazione del pericoloso concorrente è dilagata dai salotti-bene della capitale sino all’ultimo bar di periferia”.

Rifiutando dunque la versione ufficiale che voleva l’aereo pilotato da Balbo precipitato per una disgrazia, le malelingue vollero vedere dietro l’episodio un complotto con il quale Mussolini si sarebbe sbarazzato in un sol colpo del più prestigioso degli esponenti del regime critici nei suoi confronti nonché del più autorevole candidato alla sua successione. Ma anche – occorre ricordarlo – del glorioso aeronauta, del leggendario trasvolatore atlantico celebrato in tutto il mondo e al quale a Chicago era stata addirittura dedicata una strada: insomma un gesto del tutto improvvido e sconsiderato da parte del capo del governo italiano. E per dare credibilità al quale si vociferò che contrariamente a quanto ufficialmente dichiarato il governatore libico fosse in realtà diretto proprio a Roma, allo scopo di recarsi a Palazzo Venezia per protestare contro la conduzione della guerra ed in particolare contro la vile aggressione alla già martoriata Francia.

A sostegno di una simile ipotesi non esiste in ogni caso alcun elemento (a meno che non si vogliano considerare tali le dicerie e gli umanamente comprensibili sospetti dei familiari del Maresciallo): al punto che chi si ostina a sostenerla è costretto ad aggrapparsi quale “indizio” ad una frase con cui il Duce ebbe a commemorare l’ex ras di Ferrara come “un bell’alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario”, aggiungendo: “il solo che sarebbe stato capace di uccidermi”. Ossia un tipico esempio della retorica mussoliniana – di taglio prettamente giornalistico – in cui, dopo la consueta terna delle caratterizzazioni, l’asserzione finale conferisce alla frase quel tocco di truculenza e teatralità tanto caro all’eloquio del dittatore. Nulla, in ogni caso, che si possa anche lontanamente ricollegare all’incidente aereo in questione.

La teoria del complotto trascura peraltro completamente un’altra pista: quella che porterebbe al ministro degli esteri nonché genero del Duce, Galeazzo Ciano; il quale avrebbe avuto eccome motivo di gioire dell’eliminazione del suo più pericoloso concorrente alla successione al suocero. Senza considerare che del ferrarese – anche in prospettiva dell’altro cambio della guardia che si profilava all’orizzonte: quello tra Vittorio Emanuele III e il figlio Umberto – si diceva fosse addirittura l’amante della principessa Maria José.

La vera rivalità era dunque – semmai – quella tra Balbo e Ciano: il cui diario trasuda di passaggi ostili verso il governatore della Libia, denotando una particolare soddisfazione nel registrare tutti quegli episodi, giudizi, pettegolezzi che gli parrebbero indebolire la posizione dell’antagonista. Dal canto suo Mussolini si era reso conto di quanto provato dal genero nei confronti del grande aviatore; per cui non mancava di calcare la mano tutte le volte che parlava – o meglio sparlava – di lui, evidentemente proprio allo scopo di compiacere il marito della primogenita e pupilla Edda.

Il 31 agosto ‘37 il ministro annota: “Medici [sottosegretario alla presidenza del consiglio] mi riferisce di avere parlato chiaro al Principe Umberto sul conto di Balbo e di avergli aperto gli occhi sul molto incerto lealismo monarchico del ferrarese. Gli avrebbe invece esaltato il mio, ed il Principe avrebbe annuito”.  Il 2 novembre: “Colloquio con Balbo. Come sempre acido e infido”.

Il 14 dicembre: “Ho riferito al Duce che Balbo in casa Colonna si è scagliato contro l’Asse Roma-Berlino. Informazione sicura: riferita da D’Ajeta [funzionario della segreteria dello stesso Ciano] che era presente. Il Capo si è molto sdegnato. Poi, parlando di Balbo, ha detto: “Ecco un uomo del quale non garantisco l’avvenire””. E il giorno successivo: “Ricevuto Balbo, al quale ho domandato se era vero che egli fosse ostile alla politica dell’Asse. Con molte reticenze, lo ha essenzialmente confermato. Dice che non si fida dei tedeschi. Che un giorno ci abbandoneranno. Che forse saranno contro di noi. Mi ha detto, nel complesso, cose banali. Lo fa per far la fronda. E si è offeso quando ho detto che era il principe di Condé. Non sapeva chi fosse. Ingegno scarso, grande ambizione, assoluta infedeltà, capace di tutto: ecco Balbo. Conviene tenerlo d’occhio”.

Il 18 marzo ‘38: “Alla Camera, col Duce e Starace, abbiamo parlato di Balbo e riferito certi suoi atteggiamenti. Il Duce lo odia. Ha detto che gli farà fare la fine di Arpinati [già potente “ras” bolognese, poi sottosegretario agli interni e infine inviato al confino]. Ma a tal scopo non bastano le chiacchiere: ci vuole un incidente, uno scandalo a cui appigliarsi. Ho domandato a Starace se aveva capito il latino. Dice di sì e pensa valersi del Console generale della Milizia Giannantoni. Io penso piuttosto a Muti [anch’egli console generale della Milizia], intelligente e fedele, ottimo per far scivolare il Balbo”. Il 18 giugno: “Breve colloquio con Balbo. Acido e ostile a tutto. Parla male dei tedeschi, difende gli ebrei, attacca Starace, critica il voi e la questione del saluto romano. […] A Riccione riferisco al Duce il colloquio con Balbo. Reagisce fortemente. Dice: “Quell’uomo farà la fine di Arpinati, e anche peggio. Se tenterà di muovere un dito gli metto le manette””. Il 23 giugno: “In fondo Balbo è un uomo facile ad essere dominato e anche roulé [fatto fesso]”.

Dopo l’annessione dell’Austria, le mire hitleriane puntano alla Cecoslovacchia: con quella che Ciano definisce come una “manovra”, Mussolini incarica il Maresciallo dell’aria di recarsi in Germania allo scopo di riferirgli sullo stato dell’aviazione tedesca. Il 16 agosto il ministro degli esteri annota: “Il Duce mi parla del viaggio di Balbo. Poiché costui sembra preoccuparsi dei motivi reconditi della sua missione, mi autorizza a dirgli che egli desiderava avere in lui il più competente (“il che non è vero”, ha subito aggiunto!) osservatore della potenza aerea tedesca, mentre spira aria di legnate. Balbo, quando gli ho detto questo, è stato felice. Del resto è incantato del viaggio, dei tedeschi, dell’aeronautica, di tutto. Adesso che la sua vanità è stata lusingata, parla come il più convinto sostenitore dell’Asse. Succo della sua relazione: aeronautica tedesca potentissima, molto più progredita della nostra dal punto di vista tecnico. Con lui abbiamo parlato a lungo: in stato di euforia per il viaggio in Germania, aveva abbandonato il suo atteggiamento critico nei confronti di tutto e tutti. Balbo è un gran ragazzone, viziato e irrequieto, vivace e ignorante, che a volte potrebbe essere noioso. Pericoloso, non credo perché non ha i mezzi per esserlo”. E il giorno successivo: “Riferisco al Duce il mio colloquio con Balbo. Gli confermo che non si è accorto della manovra e che anzi è felice di quello che giudica un suo successo. Mussolini risponde: “Si è sempre felici quando non si capisce””.

Il 21 marzo ‘39 si riunisce il Gran consiglio del fascismo: “Il Duce parla della necessità di adottare una politica di intransigente fedeltà all’Asse. Pronuncia un meraviglioso discorso: polemico, logico, freddo, eroico. Balbo e De Bono “frondano”. Anzi Balbo pronuncia una frase infelice: “Lustrate le scarpe alla Germania”. Reagisco con grande violenza documentando la costante fierezza della politica mussoliniana. Il Duce approva e mi dice che Balbo rimarrà sempre “il porco democratico che fu oratore della Loggia Girolamo Savonarola di Ferrara””, annota compiaciuto il ministro degli esteri trovando così il modo di rimarcare i compromettenti trascorsi massonici del rivale. E due giorni più tardi: “Inaugurazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. È stata cambiata la formula del giuramento: non si giura più fedeltà ai “reali successori”. Si fa naturalmente un gran parlare di questo fatto e i più scalmanati sono i soliti Balbo e De Bono, che ne approfittano per la loro personale speculazioncella antifascista”.

Il 31 ottobre si ha il cambio della guardia al vertice del Partito fascista: all’ormai logoro Starace subentra Muti, sponsorizzato da Ciano che si dice certo che il nuovo segretario lo “seguirà come un bambino”. Nella stessa giornata Mussolini licenzia dal governo tutti i ministri considerati vicini alla Germania, sostituendoli con personaggi altrettanto graditi al genero. Il cui ruolo appare ormai quello del “delfino” designato; per ostacolarne l’ascesa, si forma allora in seno al Gran Consiglio un asse comprendente i quadrumviri superstiti: ossia lo stesso Balbo, De Bono e De Vecchi. Inoltre – spettando a quell’organo costituzionale anche il compito di compilare e tenere aggiornata una lista di nomi da sottoporre al re in caso di successione alla guida del governo – alla vecchia guardia viene proposto un triumvirato cui affidare le sorti del fascismo in caso di morte o impossibilità da parte del Duce; mentre i nomi di Balbo e Grandi fanno registrare l’unanimità dei consensi, quello del parvenu Ciano viene seduta stante rigettato dagli “antemarcia”: i quali, non considerandolo un vero camerata ma piuttosto un molle giovanotto borghese dalla smisurata ambizione, ne disconoscono l’affermazione politica attribuendola esclusivamente al suo matrimonio.

Frizioni che indurranno Mussolini a non convocare più il Gran consiglio dopo la seduta del 7 dicembre, dedicata alla politica estera. Che il ministro commenta così: “Il Duce era molto soddisfatto della mia relazione. Invece furioso contro Balbo, che sul Corriere Padano continua a svolgere una campagna troppo apertamente anticomunista per non capire che sta facendo del tiro indiretto contro la Germania. “Se crede – ha detto il Duce in presenza mia e di Pavolini – di pescare nel torbido all’interno, si ricordi che io sono in grado di mettere al muro chiunque, nessuno escluso”. Agghiacciante anticipazione di quanto avverrà al processo di Verona, ma a parti invertite: Mussolini farà infatti “mettere al muro” lo stesso Ciano, e proprio per mano del suo vecchio amico Pavolini.

L’ostilità accumulata dal livornese nei confronti della Germania a seguito del suo “tradimento” circa l’anticipo dei tempi della guerra rispetto a quanto concordato in occasione della stipula del Patto d’acciaio produce un riavvicinamento con il rivale di cui fa fede la pagina del diario del 2 giugno ‘40. “Vedo a lungo Balbo che si prepara a tornare in Libia. È deciso a fare del suo meglio, ma non crede che si tratti di guerra rapida e facile. L’armamento a sua disposizione è sufficiente solo per un conflitto di corta durata. Ma se le previsioni in questo senso dovessero fallire? Comunque, è un soldato e si batterà con la più accesa decisione. Naturalmente, non ritira neppure una delle sue riserve su tutta la politica dell’Asse. Balbo non discute i tedeschi: li odia. Ed è quest’odio insanabile che guida tutto il suo ragionamento”. La concordanza antigermanica non impedisce tuttavia al ministro di annotare, il 20 giugno, di un Mussolini “molto indignato con Balbo” poiché sinora il governatore avrebbe “raccolto in Cirenaica una buona serie di insuccessi, nonostante la grande quantità di uomini e materiale a sua disposizione”.

In qualità di comandante delle forze italiane nell’Africa settentrionale, il ferrarese aveva più volte denunciato – e con la franchezza che lo contraddistingueva – le croniche deficienze caratterizzanti l’armamento italiano, e riguardanti soprattutto mezzi anticarro e corazzati, in previsione degli imminenti scontri sul fronte libico-egiziano. Quel giorno, in particolare, egli aveva inviato a Roma un telegramma dal tono drammatico: “Il combattimento assume il carattere della carne contro il ferro”; giungendo a proporre al Duce – proprio lui così antinazista – di richiedere gli armamenti necessari a Hitler.

Suggerimento destinato a cadere nel vuoto; anche perché, confidando Mussolini e i vertici militari in un imminente sbarco tedesco in Inghilterra che avrebbe ovviamente distolto le truppe britanniche dal fronte coloniale, le aspettative romane andavano nel senso esattamente opposto: al punto che il 25 giugno il capo di stato maggiore Badoglio avvertì Balbo di tenersi pronto ad avanzare verso est. Alla mancata comprensione della situazione libica da parte di Roma il governatore reagì impegnandosi personalmente al fronte, cercando di ovviare con la propria presenza a quella schiacciante inferiorità italiana da lui invano segnalata e impegnandosi in prima linea in audaci azioni, effettuate soprattutto allo scopo di rinfrancare il morale delle truppe: a cominciare da quella che sortì la cattura di un’autoblindo nemica penetrata nel deserto cirenaico.

Questo il ricordo vergato da Ciano il giorno successivo la disgrazia. “È morto Balbo. Un tragico equivoco ha causato la sua fine: l’antiaerea di Tobruk ha tirato sul suo apparecchio, scambiandolo per un velivolo inglese, e lo ha abbattuto. La notizia mi ha rattristato molto. Balbo non meritava questa fine: era esuberante, irrequieto, amava la vita in ogni sua manifestazione. Aveva più impeto che ingegno, più vivacità che acume. Ma era un uomo dabbene, e anche nella lotta politica – che il suo temperamento fazioso ricercava – non si sarebbe mai abbassato ad espedienti disonoranti o ambigui. Non aveva voluto la guerra e l’aveva osteggiata sino all’ultimo. Ma, una volta decisa, aveva parlato con me un linguaggio da soldato fedele e si preparava – se la sorte lo avesse assistito – ad operare con decisione e audacia. Il ricordo di Balbo rimarrà a lungo tra gli italiani, perché era, soprattutto, un italiano con i grandi difetti e le grandi qualità della nostra razza”.

Da notare che le maldicenze del diario non si fermeranno neppure dinanzi alla morte, e giungendo meschinamente ad addossare al defunto Maresciallo persino la disfatta africana. Il 21 luglio ‘42, a proposito della visita appena compiuta da Mussolini sul fronte libico, Ciano ne riferisce il giudizio secondo il quale “gli arabi si portano malissimo, la politica di Balbo è fallita in pieno e l’unica opera buona da lui fatta è stata la Balbia”, ossia la lunghissima litoranea.

Mentre stando alla testimonianza di Rommel, nel corso di un viaggio in Germania e civettando con donnette appena conosciute il ministro degli esteri avrebbe “scherzato con compiacimento sulla morte di Balbo”.

Sul modo in cui il Duce avrebbe appreso della disgrazia abbiamo invece la testimonianza dello stesso Badoglio: “Ero con lui in Piemonte quando ci giunse un radiogramma che ci annunziava che Balbo era morto in un incidente di volo. Mussolini accolse la notizia senza mostrare il minimo turbamento. Forse la scomparsa dell’unico gerarca che osasse tenergli testa non gli era del tutto sgradita. Ad ogni modo non disse una parola e mi domandò solo chi potevamo destinare a succedergli”.

In realtà la vicenda della morte del governatore libico venne chiarita già all’epoca, e a seguito di un’inchiesta ordinata immediatamente dallo stesso Mussolini: si direbbe proprio allo scopo di soffocare sul nascere ogni speculazione mirata a gettare sul suo conto delle ombre; senonché non ne furono rese pubbliche le risultanze. Già tre giorni dopo la disgrazia sul tavolo del dittatore giungeva così la relazione del generale Perino, che si trovava a bordo dell’altro aereo italiano coinvolto nel tragico episodio, e la cui scoperta dobbiamo allo storico Arrigo Petacco, che l’ha rinvenuta tra le carte riservate del Duce.

“Il 28 giugno, dopo aver conferito col Maresciallo Balbo, in Derna, circa le esigenze dei reparti e delle basi, fui invitato a colazione alla sua mensa. Erano presenti: i generali Tellera, Porro e Silvestri, il console della Milizia Caretti, il tenente colonnello Sorrentino, il maggiore Frailich, i capitani Brunelli e Quilici, il tenente Lino Balbo [nipote di Italo]. Pervenuta comunicazione dal comando delle truppe del settore Est della rioccupazione di alcuni terreni prossimi al confine, tra i quali quello dell’aeroporto di manovra di Sidi Azeis, il Maresciallo Balbo, che già da alcuni giorni aveva mostrato desiderio di recarsi in quella località, decise immediatamente di portarsi in volo, con l’intenzione principale di passare in rivista la Divisione libica – che aveva effettuato la rioccupazione – e tenere rapporto agli ufficiali di quei reparti. I presenti – tutti – interpellati, manifestarono il desiderio di far parte della spedizione al seguito del Maresciallo. Seduta stante, S. E. Balbo impartì questi ordini: “Il generale Silvestri si rechi subito a Sidi Azeis con scorta di cinque apparecchi da caccia per avvertire i reparti libici dell’ispezione che avrà luogo fra qualche ora. Lo stesso Silvestri, partendo con un apparecchio Ghibli dall’aeroporto di Tobruk, dia ordine ad altri cinque caccia di restare pronti a decollare dalle 17.15 in poi, per far scorta a due apparecchi S. M. 79 che, transitando su Tobruk, si recheranno a Sidi Azeis”. I due S. M. 79 erano quelli rispettivamente assegnati alle persone di Balbo e Porro. Il Maresciallo, prima di lasciare la mensa, dette l’appuntamento per le 16.45 all’aeroporto di Derna dal quale sarebbe partito alle 17. Egli stesso stabilì la suddivisione dei presenti tra i due velivoli e decise che sul suo, oltre a Frailich e agli specialisti, avrebbero dovuto prendere posto Caretti, Brunelli, Quilici, Lino Balbo e il tenente Florio; mentre i rimanenti vennero destinati all’aereo di Porro: sul quale, oltre al sottoscritto, al capitano Leardi e agli specialisti, salirono Tellera, Sorrentino e il capitano Goldoni. Partiti da Derna alle 17, gli apparecchi diressero in sezione, ravvicinati, sull’aeroporto di Tobruk per rilevare i cinque caccia che dovevano scortarli. Appena giuntivi (a quota poco superiore ai 1.000 metri) ci accorgemmo che sull’aeroporto stavano cadendo delle bombe i cui effetti già si dimostravano palesi, risultando che due degli apparecchi a terra erano in fiamme. L’aereo del Maresciallo non deviò dalla rotta e transitò alla stessa quota sul campo che, in quell’istante, era bersaglio dell’offensiva nemica. Due o tre bombe caddero ancora. Nessuno di noi, pur sforzandosi di farlo, riuscì a scorgere gli apparecchi inglesi che bombardavano. Essi dovevano essere ad altissima quota, in non grande numero data la non rilevante quantità di bombe da essi sganciate (circa 50). Quasi sulla verticale dell’aeroporto, fummo investiti da una centratissima salva di artiglieria – sparavano le batterie costiere e quelle di una nostra nave ancorata nella baia di Tobruk [si trattava dell’incrociatore San Giorgio] – e da proiettili traccianti da mitragliera da 20 millimetri. Istintivamente gli apparecchi, disunendosi dalla formazione, scapparono in direzione opposta: il nostro, verso il mare; quello di Balbo – alla nostra destra – verso terra. Intanto, il tiro già aggiustato delle batterie continuava. Vedemmo l’aereo del Maresciallo scivolare repentinamente su un’ala e quindi precipitare verso il suolo dove, dopo l’urto, si incendiava. Anche il nostro velivolo era stato colpito in varie parti da schegge e da proiettili di mitragliatrice. Consigliammo perciò Porro di dirigersi per l’atterraggio verso l’aeroporto più prossimo onde toglierci da una posizione sempre più pericolosa. Poco dopo atterrammo nel campo di El Gazala da dove subito, in automobile, raggiungemmo Tobruk. Sul posto fu constatato che l’apparecchio di Balbo, colpito in pieno da un proiettile di artiglieria, era caduto in scivolata incendiandosi all’urto. Tutti i componenti dell’equipaggio erano deceduti all’istante. La sera stessa Porro partì per partecipare la notizia ai familiari del Maresciallo, che si trovavano a Cirene. Lo scrivente, rientrato nella notte a El Gazala, proseguì il mattino seguente la missione di cui era stato incaricato”.

Gli “specialisti” periti nello schianto erano il capitano Cappannini e il maresciallo Berti. Stando a tale dettagliata ricostruzione – alla quale non si vede perché non si debba dare credito – la morte del grande aviatore fu dunque dovuta ad una tragica fatalità, nata dalla sua decisione di recarsi a ispezionare quei territori di confine proprio quel giorno e dovendo passare da Tobruk: la sfortuna vi giocò quindi un ruolo decisivo. Del medesimo avviso si sono sempre dichiarati illustri studiosi del fascismo: a cominciare da Renzo De Felice e Indro Montanelli. Per quanto il primo non abbia mancato di osservare: “Che Mussolini per motivi personali non dovesse sembrare troppo addolorato da questo incidente è certo; ma ancor più certamente se ne rallegrò in vista di una conferenza di pace per una vittoria che riteneva sicura e ormai vicina. Quel giorno avrebbe posto sulla bilancia delle trattative – a favore dell’Italia – la perdita del suo Maresciallo dell’aria”.

Il 26 agosto 1997, poi, il Resto del Carlino pubblicò un’intervista al comandante del reparto di artiglieria responsabile dell’abbattimento, il capopezzo Claudio Marzola (peraltro anch’egli ferrarese), il quale circostanziò i termini dell’incidente. “Quel giorno in batteria non c’era nemmeno un ufficiale; io avevo vent’anni, ed ero un ragazzino spaventato dalla guerra. Dall’alba stavamo subendo incursioni di bombardieri inglesi: incalzavano e solcavano il cielo ogni quarto d’ora. Abbiamo visto due aerei sopraggiungere sulla stessa rotta utilizzata dai nemici: si vedevano male, non c’erano segni di riconoscimento e abbiamo aperto il fuoco. Diedi io l’ordine di sparare a raffica con le nostre tre mitragliatrici Breda con proiettili da 20 millimetri traccianti, esplosivi e perforanti. I primi colpi ci diedero la certezza che ne avevamo colpito uno, e solo dopo che si fu avvicinato lasciando una scia di fumo potei riconoscere la sagoma del S. M. 79. Era spacciato, ci passò sopra per schiantarsi subito dopo, poco lontano, incendiandosi. Quando recuperammo qualche giaccone, riconoscendolo, scoprimmo che avevamo ucciso Balbo. Fu una tragedia. Non vi fu alcuna congiura, alcun ordine di esecuzione; per cui parlare di “omicidio di regime” costituisce soltanto una stupidaggine: una vera sciocchezza”.

Nel 2004, infine, il figlio di Quilici, Folco, pubblicò un libro nel quale, producendo ulteriori documenti e testimonianze, avvalorava a sua volta la versione dell’incidente. Le circostanze della morte di Balbo non furono dunque altro che un’avvisaglia di come in quella sciagurata, assurda guerra dichiarata da Mussolini tutto dovesse andare storto: i bombardieri inglesi, che dall’alba facevano quello che volevano nel cielo di Tobruk, non furono neppure impensieriti dalla contraerea; mentre i due apparecchi italiani vennero immediatamente bersagliati, senza prestare alcuna attenzione né all’inconfondibile sagoma del Savoia-Marchetti né all’altrettanto caratteristico rombo del suo potente motore, e non ponendocisi neppure il problema del perché volassero così bassi rispetto agli altri.

Nel rinnovato interesse per la vicenda determinato dalla pubblicazione del libro emerse un particolare sino ad allora sconosciuto all’opinione pubblica: il giorno dell’abbattimento dell’apparecchio di Balbo era presente in rada anche il sommergibile Bragadin, il quale si unì anch’esso al fuoco antiaereo per poi ripartire da Tobruk la sera stessa, nella confusione che seguì l’incidente. Particolare che non mancò di rinnovare l’ipotesi della cospirazione: del resto tanto cara a quella “dietrologia” tradizionalmente caratterizzante la pubblicistica nazionale.

In realtà in tutta questa vicenda la cosa che fa più scalpore è un’altra: al paese di origine di Balbo, Quartesana, sulla lapide che ricorda i caduti del secondo conflitto mondiale non figura il nome del Maresciallo dell’aria, fermamente contrario alla guerra per poi diventarne la sua prima e più sfortunata vittima.

Bibliografia

P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1946.

D. Grandi, Il mio paese, Il Mulino, Bologna, 1985.

A. Petacco, L’archivio segreto di Mussolini, Mondadori, Milano, 1997.

R. De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano, 2000.

F. Quilici, Tobruk 1940, Mondadori, Milano, 2004.

G. Ciano, Diario 1937-1943, BUR, Milano, 2006.

Red., Italo Balbo, “Leonardo.it” (in cronologia.leonardo.it).

A. Alpozzi, 28 giugno 1940, Tobruk, “L’Italia coloniale” (in italiacoloniale.com), 28 giugno 2018.

La morte di Italo Balbo fu una disgraziaultima modifica: 2019-03-12T20:54:06+01:00da tradersimo
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