La narrativa di Corrado Leoni

Nato nel 1942 a Dro (Trento), conseguita la maturità classica Corrado Leoni emigra in Germania, occupandosi presso la Siemens ove ha modo di ricoprire anche l’incarico di rappresentante sindacale; frequenta inoltre un corso di informatica presso l’università di Francoforte. Dopo questa prima esperienza all’estero rientra in Italia impegnandosi nell’Enaip, l’ente per l’istruzione professionale gestito dall’Acli; sino a fare ritorno in terra tedesca come direttore dell’ufficio francofortese per la formazione degli immigrati italiani. Con la facoltà trentina di Sociologia ormai squassata da contestazione e qualunquismo, il nostro studente lavoratore sceglie la più seria e affidabile Economia e commercio, laureandosi in economia politica – con tesi su Lo sviluppo economico della Repubblica Federale Tedesca (1950-1978) – e optando per l’insegnamento nella scuola superiore, che lo vedrà docente di economia aziendale in vari istituti della provincia di Genova.

Una volta in pensione Leoni si ritira in uno sperduto paesino della Lunigiana orientale (terra di cui è originaria la moglie), per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa – attraverso la quale egli rivivrà le principali tappe della sua vita – nonché alla politica e alla pubblicistica. Conquistato dallo spirito della gente apuana egli si attiva nella costituzione della Pro loco, ridando vita a tradizionali feste paesane (a cominciare dalla sagra dei pomi di Codiponte), ripristinando usanze dimenticate – come il tiro della forma – e promuovendo la conoscenza del territorio lunense mediante la pubblicazione del volume Le pievi romaniche in Lunigiana.

Il suo esordio letterario avviene nel 2011, con la pubblicazione del romanzo Nane. La Resistenza vista dagli occhi di un bambino, ambientato nella valle del Sarca. Il piccolo protagonista del racconto inizia a prendere coscienza degli accadimenti che si susseguono attorno a lui e a condividerli con i grandi, dalla cui voce apprende delle vicende tipiche della civiltà contadina ormai al tramonto: le giornate trascorse tra campi, botteghe artigianali, stalle, cantine.

Sinché a prendere il sopravvento nella trama della narrazione non è la Storia: prima attraverso la rievocazione per bocca degli adulti delle vicende della Grande guerra – vera e propria svolta epocale nella vita di tanti giovani figli di quell’Italia povera e rurale – quindi passando criticamente al vaglio i principali eventi caratterizzanti il ventennio fascista. Sino a giungere alla pagina più tragica per il nostro Paese: la catastrofe della seconda guerra mondiale, la caduta di Mussolini, l’occupazione tedesca, l’Italia spaccata in due.

Tristi fatti che vengono osservati dal protagonista con i suoi occhi di fanciullo, ma interpretati con la coscienza di un adulto. Il risultato è un giudizio sulla parabola politica del Duce del tutto negativo, che fondandosi sul semplice buon senso popolare ne sottolinea impietosamente tutti i limiti dell’uomo ancor prima che dello statista, soffermandosi in particolare su quella incontenibile mania di grandezza che specie dopo l’ascesa dell’alleato-rivale Hitler finì col fargli perdere ogni contatto con la realtà.

Sullo sfondo emergono inoltre molte figure tipiche dell’epoca: a cominciare dai tanti balordi di paese che sposando la causa mussoliniana, riparandosi dietro l’orbace e facendosi forza della stolta protervia fascista pensarono di dare un senso ad una vita altrimenti vuota ed inutile. Ma sul finire del racconto c’è spazio anche per un commovente omaggio ad un incolpevole esponente della parte pendente: il tenero soldato tedesco Kurt, innamoratosi di una ragazza del posto al punto di passarle parte della propria paga e di riempirle la casa di tutto quanto lasciato dal suo battaglione al momento della ritirata. Raggi di umanità che non smisero di brillare neppure nella drammaticità della guerra, e tra la generale malignità della gente: della quale l’autore non manca di sottolineare bassezze e meschinità.

Nello stesso anno Leoni pubblica il più corposo Migrare. Vi si narra la vicenda di Aldo, studente sessantottino che nel 1970 sceglie di trasferirsi nella Repubblica federale tedesca sia sulla spinta del diffuso impegno sociale a sostegno degli immigrati italiani che per mantenersi agli studi. Ben presto però il giovane si troverà coinvolto in situazioni impreviste; finché il contatto con una cultura diversa dalla sua non lo porterà a modificare la propria mentalità. Le leggi tedesche sull’immigrazione sanciscono del resto ingressi quanto mai regolari, controllati e tendenti a trasformare nel tempo il lavoratore straniero in “ospite”. Centrale nell’economia del racconto risulta poi l’incontro del protagonista con Clea: nel loro entusiasmo giovanile, nella loro ingenua disponibilità verso i più deboli e bisognosi i due prendono a coltivare un’affinità mistica e rispettosa, sino ad innamorarsi.

Anche in questo romanzo fa capolino la Storia: anzitutto con le campali vicende del Sessantotto tridentino, che vide la facoltà di Sociologia assurgere ad antesignana della contestazione nazionale ed un manipolo di teste calde affluite da ogni parte d’Italia tenere a lungo sotto scacco autorità accademiche, istituzioni e a un certo punto l’intera città, ormai divenuta ostile a quell’orda di giovani “putane” e “capeloni” usi a bivaccare giorno e notte dentro l’università in spregio ad ogni decoro e costume dell’epoca.

Ma leggendo la ricostruzione che del fenomeno migratorio di quegli anni fa Leoni non si può mancare di fare un paragone con l’attuale piaga rappresentata dall’immigrazione per l’Italia. In Germania il controllo sui nuovi “ospiti” era difatti ferreo: basti dire che per un passeggero recidivo nel non pagare il biglietto dell’autobus era previsto il carcere, e l’ammanco dovuto recuperato direttamente mediante detrazione dalla busta paga. Nel caso di reati particolarmente infamanti, poi, era la stessa comunità dei lavoratori italiani ad intervenire contro il malfattore, onde tutelare il buon nome nazionale. L’esatto opposto insomma di quanto accade attualmente nel nostro Paese: ove una gestione dell’immigrazione quanto mai confusa, indulgente, lassista finisce con il ritorcersi pesantemente contro lo stesso popolo ospitante, violandone le leggi, snaturandone regole e costumi ed annullandone inesorabilmente l’identità.

Breve quanto caustico nei confronti della Chiesa cattolica risulta Il prete e il diavolo (2013), apologo che prende spunto dalle tentazioni di Gesù narrate nel Vangelo di Luca. Concepito come un serrato quanto pungente dialogo tra i due personaggi enunciati nel titolo, il racconto affronta in maniera quanto mai critica le problematiche più spinose e tradizionali del cattolicesimo, cui l’illuminista Leoni rimprovera di non aver saputo emanciparsi nei duemila anni della sua storia né, sul piano dottrinale, dal manicheismo riadattato in chiave agostiniana né, su quello gerarchico, dalla rigidità della struttura ereditata dall’impero romano.

A fare le spese di tutto ciò è secondo il nostro la comunicazione clericale, vista come unilaterale e gerarchica dall’alto verso il basso, ignorando o reprimendo la sessualità umana, nel romanzo esaltata come il principio e la base della comunicazione interpersonale, nel contesto di una rivisitazione teologica tesa ad interpretare lo stesso dogma dell’Incarnazione quale manifesto di un’interrelazione di tipo orizzontale. Il trionfo di tale concezione è dato dal conclusivo sposalizio del protagonista in abito talare, don Giovanni, con Maddalena, quale affermazione della supremazia dello spirito e dell’amore, al di là di tutte le leggi e nell’auspicio che queste divengano, da fardelli inutili e insopportabili quali spesso si presentano, i volani promotori della libertà dell’uomo.

Nell’opera non mancano riferimenti agli eventi portanti della vita della Chiesa negli anni in cui è ambientato il racconto: dall’evoluzione del complesso rapporto tra Chiesa e Stato laico alla discussione sul celibato sacerdotale; dagli scritti di Ratzinger al Concordato del 1984: dal socialista Leoni accusato di avere perpetuato il primato della cultura religiosa con il sancire l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Cosicché “la boria laicista di Craxi cedeva alle gerarchie ecclesiastiche la laicità dello Stato, svuotando l’idea socialista di riformismo, di fiducia nell’uomo, nella sua capacità di programmare il proprio futuro ed il proprio benessere”.

Nella protagonista del romanzo Il cavaliere senza cavallo, del 2014, rivivono autobiograficamente le principali pagine che hanno segnato la vita dell’autore: l’insegnamento, la politica, la critica dell’economia capitalista (condotta da posizioni decisamente più riformiste che rivoluzionarie). Il sarcastico titolo dell’opera – nella quale emergono non di rado elementi di sociologia e antropologia culturale – intende mettere alla berlina chiunque nel perseguire i propri obiettivi denoti superficialità, qualunquismo, disonestà; a cominciare dai governanti incompetenti: “il politico che cita le leggi senza conoscerle o inventandole, è un cavaliere senza cavallo”.

Trentina, rimasta orfana della madre in tenera età Anna è studentessa ginnasiale nel momento in cui a Sociologia si scatena quella violenta contestazione che farà dell’austera città del Concilio il terreno di coltura del Sessantotto italiano (nonché del terrorismo brigatista). Iscrittasi a Economia e commercio, non volendo gravare troppo sulle spalle del padre la giovane si dà da fare con lezioni private e collaborazioni con l’Acli: sino a trasferirsi in Germania per impiegarsi presso l’università di Francoforte. Una volta laureatasi sceglie la carriera scolastica, finendo a insegnare materie economiche in un istituto tecnico commerciale di Genova.

Nonostante nella scuola domini la medesima tendenza politica di sinistra alla quale lei stessa appartiene, la battagliera Anna scava ben presto un fossato tra sé e i colleghi: il suo spirito fortemente critico, l’ostentato anticonformismo, l’assoluta mancanza di diplomazia la pongono spesso in situazioni conflittuali e imbarazzanti con gli altri insegnanti, con il preside, con gli stessi alunni.

Ed è forse nel dipingere tali deprimenti scenette che l’autore dà il meglio di sé, fotografando tutta la desolazione caratterizzante il mondo della scuola. La frustrazione dei docenti anzitutto, che da economica diviene esistenziale per l’infinito protrarsi della precarietà, l’aleatorietà dell’immissione in ruolo, la pochezza dello stipendio: misero se paragonato a quello di altre categorie professionali di laureati e specializzati, al punto di portare non pochi insegnanti a maledire l’indirizzo di studi scelto in gioventù; cui vanno aggiunte la drammatica assenza di possibilità di carriera come di incentivi nonché la totale irrilevanza sociale del ruolo ricoperto.

La boriosa incompetenza dei dirigenti scolastici, spesso insegnanti falliti promossi a manager. La pena di collegi docenti e consigli di classe, vero e proprio schiaffo all’intelligenza dei più capaci e preparati. La beffa degli insegnanti di religione promossi a ruolo in barba a tutti gli altri precari solo in quanto nominati dal vescovo. E poi l’ipocrisia dei rapporti fra colleghi, la commedia della cena finale degli alunni di quinta, la sceneggiata degli scrutini, la farsa degli esami di Stato…

Sessualmente inquieta (come del resto la gran parte dei personaggi che animano la narrativa leoniana), iper-evoluta ed emancipata, la terzomondista Anna non trova di meglio che sposarsi con un mancato collega nero, giunto pieno di entusiasmo addirittura dal Ruanda per laurearsi e insegnare nel capoluogo ligure ma inopinatamente escluso dalle graduatorie – nonostante l’abilitazione brillantemente conseguita – in quanto straniero. Mossa a compassione dalla disperazione in cui piomba il poveretto nell’apprendere l’infausta notizia, la giovane decide su due piedi di voler condividere con l’immigrato il proprio futuro piccolo-borghese, avendone due figli altrettanto neri di cui andrà fiera e cui si affezionerà ancor più allorquando il deluso marito avrà inopinatamente fatto ritorno in Africa.

Nel racconto non mancano forti prese di posizione sull’attualità politica: innanzitutto contro Berlusconi – non per altro il “Cavaliere” per antonomasia – accusato in generale per la sua strategia di propinare agli italiani tutta una serie di bugie diabolicamente ripetute all’infinito sino a spacciarle per verità assolute, nonché per la sua concezione opportunistica e strumentale della democrazia per cui chi è stato votato dal popolo è implicitamente autorizzato a combinarne di tutti i colori; in particolare per avere sabotato la riforma dei cicli scolastici Berlinguer-De Mauro (ereditata dalla legislatura precedente) per sostituirla con quella Moratti.

Ma la pagina più accorata è sicuramente quella in cui Anna-Leoni denuncia l’impianto generale della scuola italiana, da decenni di malgoverno (democristiano e non) e con la benedizione della famigerata “triplice” svilita a mero ammortizzatore sociale in cui piazzare schiere di disoccupati, mediocri, falliti provenienti soprattutto dalle regioni meridionali, improvvidamente laureatisi in discipline sostanzialmente inutili al mercato professionale e quindi costretti a ripiegare sull’insegnamento onde poter coltivare un minimo di prospettive di vita. Così, in nome del più selvaggio clientelismo politico-sindacale, si è scelto di sacrificare il merito, l’impegno, la competenza facendo valere quale unica progressione stipendiale gli scatti di anzianità.

Inevitabile risulta allora – ancora una volta – il paragone con la realtà tedesca: “In Germania premiano in primo luogo il merito; chi ha voglia di lavorare e impegnarsi trova occupazione e si è pagati per ciò che si fa, non per l’anzianità acquisita. Hanno la consapevolezza che il diritto al lavoro va coniugato con il dovere al lavoro: il che vuol dire che lo stipendio è una conseguenza del lavoro e non una premessa. I diritti seguono ai doveri, altrimenti si cade in una superficialità economica e sociale, nella deresponsabilizzazione!”, sentenzia la protagonista in sala insegnanti, guardandosi bene dall’affrontare argomenti che suonino più leggeri e ruffiani alle orecchie altrui. Naturale a quel punto la risposta della invidiosa collega, la quale avverte la propria inferiorità intellettuale – e probabilmente anche tutta la propria mediocrità – al cospetto della sempre ligia, mai banale e accomodante Anna: “Se ti piaceva tanto la vita in Germania, perché non ci sei rimasta?”.

L’encomiabile intento originale della Costituzione di fondare l’Italia sul lavoro è stato dunque snaturato: nel senso che alla concezione dell’impegno lavorativo come dovere sociale e strumento di realizzazione personale del cittadino è subentrata quella della corsa al “posto”, ossia all’occupazione (meglio se parassitaria) finalizzata unicamente alla riscossione dello stipendio. E per la nostra critica professoressa il motivo per cui la carta costituzionale è rimasta incompiuta va ricercato nel fatto che “le parti sociali tirano ad interpretarla secondo schemi ideologici anziché di servizio al popolo sovrano”.

Ancor meno rosee appaiono le prospettive per le generazioni a venire: “Principio base dell’economia contadina è sempre stato di accantonare una parte del raccolto per la semina, consapevoli che se si consuma la semina, non ci sarà più raccolto né futuro. Ora ci si trova nella condizione di aver mangiato e consumato anche la semina dei figli dei figli, e si tenta di coprire il maltolto collettivo con il piagnisteo del precariato; mentre fiumi, boschi, campi sono abbandonati al degrado verde, attribuendo alla parola ‘conservazione’ il significato di abbandono e trascuratezza”.

Tutto ciò porta la disincantata e ruvida Anna a rifiutarsi di alimentare ipocritamente nei giovani studenti facili illusioni. Sino a ribattere allo sfrontato figlio di papà che le ha impietosamente sbattuto in faccia tutta la miseria dei suoi 1200 euro al mese che anche lui ha poco da stare allegro: “Perché tra qualche anno il tuo datore di lavoro sarà un immigrato: uno di quelli che tu disprezzi senza averne motivo”. Chissà che non sia proprio lo sciagurato coniuge africano di ritorno.

Donna Luigia. Profuga e partigiana segna l’anno successivo il ritorno di Leoni ai temi portanti della sua opera prima: la civiltà contadina, la guerra, la resistenza. Il romanzo ha ambizioni di filosofia della storia, annunciate sin dall’introduzione con il tracciare un disegno illuministico dell’alternarsi delle ideologie e degli imperi che segnano l’evoluzione della società sino allo spartiacque rappresentato dalla prima guerra mondiale.

È infatti con il grande conflitto bellico che “viene a cadere definitivamente questa magia ideologica e produttiva secondo la quale la guerra e la sua conduzione erano la principale fonte di ideali, di identità etnica, di potere aggregante tra i popoli, che potevano sopravvivere perché sudditi in ogni aspetto della vita: nascita, educazione, usi e costumi, lavoro, destini personali e collettivi, benessere; tutto ciò attraverso espansioni e reciproche e alterne occupazioni sotto l’insegna dell’arte della guerra, origine prima di aggregazione tra i popoli, anche se tremendamente tragica”.

Tale gravame filosofico aleggia anche sul corpo della narrazione, al punto di indurre l’autore ad interromperne la vivezza mediante un concettoso post scriptum: “L’agire è condizionato dal contingente, la storia è determinata dall’utopia e da una spinta ideale. La storia non può esser ridotta a una somma di fatti o di episodi e neppure a un amalgama degli stessi; la storia è fatta dalla spinta morale dell’umanità verso un ideale di libertà, di partecipazione, del bello, del benessere, della vita condivisa, di una condizione ideale, che in tempo di guerra e di miseria si focalizza in una lotta per la convivenza civile e per una condizione di benessere: gli episodi belli o brutti, eroici o vigliacchi, giusti o ingiusti, s’annegano in essa; solo i parassiti confondono gli episodi con la storia e li utilizzano per il proprio soddisfacimento etico ed economico”.

In contrasto con tale concezione ottimistica e provvidenziale del cammino storico appare allora la conclusione del racconto, che vede Leoni tirare amaramente le somme di quanto lasciato in eredità alle sue amate vallate trentine dal secondo conflitto mondiale: “Il periodo tra la fine dell’occupazione e del regime ed il ritorno alla normalità durò mesi, anni: forse incombe tuttora con il perbenismo, il qualunquismo, la pretesa di fare di un diritto un privilegio esclusivo nel preferire la conservazione alla crescita economico-sociale, nel conservare le rendite di posizione con l’appartenenza a gruppi di potere legati o a un’ideologia o a un gruppo di potere o a una professione di fede, anziché a una compartecipazione nella creazione e condivisione del bene comune e di una vita civile”.

Prodromo di tale infausto explicit è del resto la fine che viene fatta fare al povero soldato Kurt, il cui sogno di una vita serena in Italia da costruire sulle rovine della guerra – che pure in Nane era stato fatto intravedere – viene infranto dalle schioppettate di un paesano meschino quanto feroce. “Le ultime truppe tedesche erano partite la sera, Kurt aveva comunicato ai camerati che si sarebbe messo in moto all’alba e li avrebbe raggiunti subito dopo Trento. Lucia aspettava un figlio. Voleva rimanere da lei ancora una notte. Le aveva promesso che, appena definiti i termini della pace e appena licenziato dall’esercito, sarebbe tornato da lei e insieme avrebbero deciso dove sistemarsi.

“Alle prime luci si alzò, svegliò Lucia, la invitò a stare a letto, uscì furtivo e, attraversando i campi, si diresse verso il fiume, la via meno frequentata, più nascosta e sicura per raggiungere i colleghi. Tonio, vicino di casa e da sempre pretendente di Lucia, lo vide uscire. Gli balenò un’idea: seguirlo e ucciderlo, sarebbe stato premiato con le onoranze da partigiano e avrebbe avuto la sua donna. Prese il fucile, attraversò i campi più a monte di Kurt e, quando lo vide allo scoperto guadare un tratto del fiume, fece fuoco e lo uccise”. Quasi l’autore abbia avuto un ripensamento rispetto al precedente lieto fine: la guerra non può propiziare alcun tipo di soluzione idillica, dietro di sé deve lasciare solo morte e distruzione.

Al punto che a volte, nel pauroso dissesto morale causato dal conflitto – soprattutto in quei territori rimasti sino all’ultimo soggetti agli occupanti germanici – ad una capra può andare meglio che a un cristiano. Leoni è a tale proposito fedele cronista nel riportare una scena classica degli ultimi tempi di guerra: quella che vede i tedeschi consapevolmente perdenti, disperati e affamati venire a battere le coloniche per poter mettere sotto i denti qualcosa, dovendo per giunta inventarsi scuse a mitigare l’imbarazzo di chi si è presentato quale popolo non solo conquistatore ma anche di lignaggio superiore.

“Anche noi mangiamo, abbiamo bisogno di requisire delle bestie perché i partigiani hanno assaltato e derubato un convoglio con i rifornimenti subito dopo Trento. Siamo costretti nostro malgrado a importunare la brava gente che lavora nei campi: prendiamo una capra, ne avete due”. Il contadino però li avvisa che quella su cui hanno messo gli occhi è vicina a partorire: “Non conviene ucciderla ora, di solito fa due capretti, è di razza buona”. Inattesa giunge allora la grazia per la povera bestia: “Non si sa se commossi dall’ardire di Tullio o se per convenienza o nel sentire la parola ‘razza’, fatto sta che decisero di lasciare la capra nella stalla con il proposito e l’avviso di venire a prendere un capretto per l’imminente Pasqua. Anche loro erano cristiani e a certe tradizioni non si rinunciava”.

Passando ad analizzare la trama del romanzo, ci troviamo di fronte a un’altra autobiografia al femminile, per quanto ideale: l’infanzia della protagonista si svolge infatti proprio a Dro, ai primi del Novecento e quindi ancora in territorio soggetto all’impero austro-ungarico. Della sua figura l’autore intende tuttavia fare prototipo per celebrare l’intero genere femminile, dalle guerre mondiali reso “ganglio vitale necessario ed efficiente della vita sociale, tanto da poter fare a meno del mondo maschile per organizzare la vita economico-sociale di intere comunità e popolazioni”.

“A ciò si aggiunga il protagonismo della donna nel mondo cinematografico, tanto da diventare un modello di comportamento civile-sociale e  suscitare la consapevolezza di protagonismo anche nella vita sessuale, non solo mirante alla procreazione, ma ad una partecipazione affettiva paritaria coniugata con quella sociale anche attraverso la partecipazione al voto nella scelta delle classi dirigenti. Donna Luigia ne è testimone e protagonista senza perdersi nei fanatismi o nel moralismo bigotto o nella passività frustrante casalinga, ma orgogliosa e cosciente che l’esser donna è la premessa di un coinvolgimento globale ed esauriente nella vita familiare, sociale, economica, affettiva”.

Al momento dell’entrata in guerra dell’Italia contro Germania e Austria a seguito del “ribaltone” del 24 maggio 1915 anche la famiglia di Luigia (la quale nonostante il trattamento onorifico conferitole non è altro che una povera contadina: neppure troppo fascinosa nella persona, essendo per giunta nanerottola) viene perciò costretta dalle autorità ad allontanarsi da quella zona così a ridosso del fronte finendo profuga nientemeno che nel paese natale del Führer: Braunau. Segnata da quell’esperienza vissuta per le baracche assieme alla madre e ai tre fratellini, la donna rientra al paesello per diventare la nuora saggia e operosa proprio del Nane, da bambino qual era trasformato con un’invenzione letteraria in maturo padre di famiglia: espediente che dà modo all’autore di celebrare ancora una volta nostalgicamente i riti della civiltà contadina della sua terra, con la centralità della famiglia, la simbiosi con il bestiame (fino alla descrizione dei particolari più crudi della vita animale), le usanze paesane, le ascendenze idiomatiche, i richiami paesaggistici.

A questo punto la narrazione scivola velocemente verso il suo punto focale: il dramma della guerra, il crollo degli ideali di grandezza propinati per vent’anni dal regime fascista, l’impietoso svelamento di tutta la miopia del Duce, condottiero guerrafondaio, megalomane e privo di dignità nell’asservirsi a Hitler e sulla pelle di un povero popolo incolpevole quanto disgraziato. Leoni si sofferma in particolare sulla iattura rappresentata per le comunità sudtirolesi dal trattato di Saint Germain, che nel 1919 vide improvvidamente assegnare l’Alto Adige all’Italia senza alcun obbligo di tutela da parte del governo di Roma nei confronti della popolazione germanofona e ponendo così un problema che la rozza grossolanità della politica fascista avrebbe successivamente creduto di risolvere nel peggiore dei modi, creando in realtà ulteriori malcontenti che sarebbero emersi in tutta la loro gravità il giorno dell’Anschluss.

“Mussolini e D’Annunzio vollero ribattezzare paesi e villaggi del sud Tirolo, che non avevano un nome nella lingua italiana, attribuendone uno con assonanza italiana quasi sempre senza tener conto del significato del nome della località nella lingua tedesca. Fu una sprezzante iniziativa di italianizzazione di località da sempre di madrelingua tedesca, ora territorio italiano, ma nelle quali nessuno parlava italiano. Si attribuirono nomi di fantasia come Castelrotto a una località dal nome Kastelruht, Colmano a una che si chiamava Kohlmann: il che divenne un marchio che umiliò le popolazioni di lingua tedesca dell’Alto Adige. Per questo motivo molti uomini altoatesini, al momento dell’occupazione e dell’annessione dell’Austria al terzo Reich fatta da Hitler, optarono per l’Austria, pur di liberarsi dal regime di Mussolini che, ironia della sorte, si schierò di lì a poco in guerra a fianco di Hitler”.

All’elenco si potrebbe aggiungere il paese forse più penalizzato da tali ridicole storpiature: Kolfuschg, che dall’ottusa toponomastica del regime si vide appioppato il sinistro appellativo di Colfosco. Meschino, oltraggioso epilogo di una guerra assurda: il sacrificio di dieci milioni dei migliori giovani di mezzo mondo dai rispettivi regnanti mandati a morire in quelle maledette trincee utilizzato per violentare la natura di un’intera regione da sempre germanica, in un goffo quanto demenziale tentativo di italianizzarla.

Pasoliniana nella sua icasticità riesce poi la raffigurazione del clima da basso impero che caratterizzò agli occhi della gente il periodo della Repubblica sociale: “Balilla decappottabili, Lancia Augusta, Rolls Royce, Volkswagen giungevano cariche di graduati tedeschi e italiani in compagnia di splendide donne. Sigaretta in bocca, cappellino multicolore, pelliccia d’inverno o leggera camicetta d’estate, erano un’attrazione, uno spettacolo, il movente di fantasie morbose per gli uomini e di invidiosi sguardi delle donne”.

Più seri e dignitosi rispetto a tanta luccicante quanto squallida decadenza appaiono allora i dialoghi fra due contadini come Nane e il figlio, oggetto dei quali è la società migliore da costruire per il domani. “A Tullio piaceva ragionare. Era un idealista. Sognava pace e giustizia sociale per tutti. Il pensiero socialista dell’eguaglianza politica e sociale, che idealmente unisce popoli e genti nel condividere la creatività e le caratteristiche dei singoli, era oggetto dei suoi pensieri e, quando parlava, sembrava un filosofo”.

Ma allorché il giovane nella sua utopia si spinge a mostrare simpatia per il comunismo, che “ha come scopo di darsi tutti una mano, siamo compagni di viaggio, tutti lavorano secondo le proprie capacità”, il più pragmatico genitore non ci sta: “Ma i nostri campi, le nostre case, rimangono a noi o vanno a proprietà comune? – Sì, sì, i campi e le case rimangono a noi. Ma un carro, ad esempio, possiamo comprarlo in società e quando qualcuno ne ha bisogno lo adopera – Sì, bravo. Un carro si usa tutti i giorni! Lavoriamo a turno? Se quando tocca a me piove, come faccio a terminare i lavori nei campi? E i buoi, anche quelli in comune? Non ne sono convinto!

“Sono più propenso verso il socialismo. Ciascuno ha la sua proprietà, il suo carro, i suoi buoi regolarmente acquistati con il lavoro. Si costituisce un punto vendita in comune, un negozio in cooperativa dove si raccolgono i prodotti della campagna e si vendono al dettaglio. La cooperativa acquista all’ingrosso concime, antiparassitari, sementi o altro per i soci. Il programma dei comunisti non mi piace! Vuole abolire la proprietà privata! Cosa vuol dire? Ciò che si accumula con il proprio lavoro appartiene a chi lo ha acquisito con il lavoro. Il lavoro crea la proprietà e dà libertà. Secondo i tuoi ragionamenti, quanti fannulloni vivrebbero di assistenza? Siamo usciti dalla soggezione dei nobili, degli aristocratici, del clero, dobbiamo evitare di esser soggiogati dai fannulloni in nome di un comunismo che non tenga conto del lavoro. Persino i preti dicono che il vangelo annuncia: chi non lavora non mangi!”.

Ma è alfine la figura di Luigia ad assurgere idealmente a protagonista della resistenza, senza peraltro che la donna abbia attuato alcuna scelta armata o al limite fiancheggiatrice e venendo dunque gratificata anche della qualifica di “partigiana” pur essendo rimasta alla finestra: in lei infatti Leoni intende raffigurare l’“interprete dell’autentica voglia di libertà presente nell’animo delle persone libere del popolo, che sta prendendo coscienza di esser sovrano”. Ed è proprio attraverso il suo sentire che l’autore torna a descrivere quei tipici personaggi che finirono con l’incarnare la parabola del regime agli occhi della gente: specie quella più semplice e disincantata delle campagne.

“Luigia vide da lontano venire in bicicletta due uomini e, man mano che si avvicinavano, distingueva che erano vestiti da gerarchi fascisti. “Guai in vista”, pensò, e si preparò ad accoglierli dopo aver messo accuratamente il suo anello d’oro nel macinino da caffè. Erano gli stessi che nove anni prima erano venuti a chiedere gli anelli nuziali da dare alla Patria per la conquista dell’Impero”. Appreso che i due stanno cercando dei giovani paesani disertori della leva di Salò, la donna li indirizza: “Nel fienile ci sono degli sfollati: vedete se li trovate tra loro – Non ci interessano quei pezzenti, morti di fame e pidocchiosi: cerchiamo dei disertori”.

Dall’indignazione della donna per la sprezzante risposta ricevuta scaturisce il ritratto dell’aspetto più vacuo e protervo del decaduto regime e dei suoi scherani: “Luigia li avrebbe pestati di botte, quei due farabutti, per il disprezzo verso quegli sfollati, molti di loro reduci dai campi di concentramento dopo aver combattuto su più fronti per il duce e il re. Quei due figuri e mascalzoni erano entrati nel partito fascista, avevano fatto carriera al servizio del podestà, avevano deciso che la loro presenza era più importante in patria dove potevano mostrare il loro lato da maschio italiano alle donne dei soldati al fronte, controllare le teste calde, divertirsi a dare l’olio di ricino ai facinorosi comunisti, evitare di rischiare la pelle al fronte, ben s’intende sempre per il duce e il re!”.

La soddisfazione però la fiera contadina se la toglie una volta finita la guerra e passata per i fortunati fascistoni sopravvissuti la burrasca, allorché alla domenica vede l’ex podestà “familiarizzare accanto alla chiesa per rientrare in società e combinare chissà quali altre porcherie come se nulla fosse successo”. Eccola allora farsi largo tra la gente, avvicinarsi lei così piccoletta a quel pezzo d’uomo, sollevarsi sulle punte dei piedi e sferrargli due sonori ceffoni sulle guance, per vendicare altrettante umiliazioni subite dalla sua famiglia.

Al marito, reo di avere a suo tempo evitato l’arruolamento nell’esercito adducendo banali motivazioni di ordine familiare, rivoltosi al Fascio locale per chiedere un sussidio era stato infatti sarcasticamente ribattuto di rivolgersi al “principino” di casa Savoia. Mentre la figliola, che un giorno aveva osato presentarsi a scuola senza la divisa da giovane italiana, si era vista senza troppi complimenti rispedire a casa dalla maestra nonché moglie del podestà: un’invasata (a sua volta prototipo di tante donne del regime ciniche esaltate opportuniste) che sino all’ultimo aveva propinato ai ragazzi la favola della terribile “arma segreta” con cui il Führer avrebbe alfine ribaltato l’esito del conflitto, “sconfiggendo tutti i nemici del Reich e di Mussolini”.

Così l’idealista Leoni fa calare il sipario su tutte le tragedie della guerra, sostituendo ai plotoni d’esecuzione i manrovesci di Luigia e al sangue scorso a fiumi la vergogna provata dal potente primo cittadino in camicia nera nell’essere pubblicamente schiaffeggiato dall’ultima villana del paese.

Sull’onda della notorietà – anche nazionale – acquisita grazie a questo romanzo lo scrittore trentino pubblica nel corso del 2016 due volumi. Il primo è un pamphlet con cui l’ex sindacalista Leoni intende denunciare la degenerazione del sindacalismo nazionale: La miseria del sindacato italiano. Dialogo tra nonno e nipote.

Il saggio si rivela ben congegnato, immaginato sotto forma di dialogo tra un nonno assai preparato su quanto accaduto in materia di conquiste dei lavoratori dai tempi della rivoluzione industriale fino ai giorni nostri ed un critico e talvolta impertinente nipote che ha appena concordato con il docente di riferimento l’argomento della sua tesi di laurea triennale: il sindacato. Ma dietro tale espediente letterario si cela l’obiettivo dell’autore: mostrare come quelle propinate da testi accademici e corsi universitari altro non siano che verità di comodo sulla nostra storia, versioni quando acritiche e celebrative, quando superficiali e riduttive ad uso e consumo di quegli studenti senza grandi pretese che l’odierna scuola italiana sforna per poi affidare appunto agli sbrigativi corsi di laurea “triennali”.

Ecco allora il “nonno” portavoce – oltre che presumibilmente coetaneo – dell’autore aprire gli occhi al giovane laureando, ammannendogli pillole di saggezza e citazioni (una delle quali tratta dallo stesso Leoni) ma soprattutto rileggendo un secolo di battaglie operaie sino ad interrogarsi sull’effettiva attuazione di due dettati costituzionali: diritto di sciopero e personalità giuridica delle organizzazioni sindacali. L’analisi leoniana parte dal 1904, allorché il nostro Paese conobbe il primo sciopero generale della sua storia a seguito dell’iniziativa dei sindacalisti rivoluzionari di Labriola: agitazione decisa per motivi prettamente politici, visto che nell’intendimento dei suoi promotori essa avrebbe dovuto rappresentare la scintilla dell’auspicata rivoluzione proletaria.

Calcolo destinato tuttavia a fallire grazie all’avvedutezza di Giolitti: il quale lasciò esaurire e sfogare lo sciopero limitandosi a garantire l’ordine pubblico. Donde il plauso dell’autore allo statista liberale sia per non avere inviato in quella occasione “l’esercito a reprimere i manifestanti: e ciò che sembrò una debolezza per la borghesia divenne la carta vincente per il futuro dei lavoratori”; sia per le sue successive dimissioni da capo del governo, date “da uomo saggio e seguendo una sua visione politica razionale e ponderata all’evolversi graduale della società, per non cedere alle pressioni dei rivoluzionari anarco-massimalisti ed alle richieste della classe borghese”. E se egli non riuscì ad imporsi nelle elezioni politiche tenutesi in quello stesso anno fu solo perché “non si ottiene il consenso con il buon governo, ma con l’abilità nel comunicare”.

Per quanto non lo citi direttamente, la riconoscenza del riformista e moderato Leoni – sempre obiettivo e mai partigiano dinanzi alla realtà della Storia – va poi allo stesso Mussolini, sicuramente memore dei propri trascorsi socialisti al momento della creazione dell’Inps: l’istituto con cui nel ’33 il regime fascista si preoccupò di garantire la previdenza sociale ai lavoratori, gettando così le basi del sistema pensionistico nazionale.

Mentre dopo la guerra, nonostante una costituzione repubblicana “illuminata”, sono purtroppo sopravvissute – nei partiti come nello stesso sindacato – “alcune ideologie preponderanti, retaggio della radicalizzazione ideologica passata: il comunismo rivoluzionario massimalista, il cattolicesimo oscurantista e autoreferenziale, il socialismo riformista contornato da aspirazioni liberali repubblicane; senza dimenticare una fascia di popolazione che aveva goduto di privilegi durante il Fascismo di cui ora aveva grande nostalgia”.

È proprio a questo punto che la riflessione dell’autore entra nel vivo, chiedendosi come sia stato possibile che il sindacalismo italiano sia scaduto fino all’attuale “miseria”, al punto da costringere i cittadini a “vivere in un caos intollerabile, che ben poco tiene conto del popolo sovrano che vive in una Repubblica”, snaturando completamente il diritto di sciopero: “diritto personale che va esercitato per tutelare interessi collettivi e non individuali!”.

Leoni si concentra allora sulle vicissitudini del principale e più antico sindacato nazionale, la Cgil, rilevando come esso abbia progressivamente abbandonato quello spirito che ne aveva caratterizzato la ricostituzione postfascista. Viene così celebrata la figura di Giuseppe Di Vittorio, “padre e promotore del sindacato in Italia”, ricordandone in particolare l’impegno profuso in seno all’assemblea costituente in merito alla definizione del sistema delle libertà sindacali. Lungimirante soprattutto il programma di rinascita nazionale dal sindacalista pugliese delineato per cui per risollevarsi dalle macerie della guerra occorrevano anzitutto operosità e concordia. “Che visione democratica della vita civile e sociale: altro che scioperi selvaggi o programmati per rendere più incerta e dura la vita dei cittadini nel loro quotidiano”.

Desolante riesce allora confrontare la nobiltà di quella concezione unitaria e disinteressata della battaglia sindacale con l’attuale disgregazione del sindacato, che dopo il potere di veto a lungo goduto dalla “triplice” nel corso della “prima repubblica” (e che soltanto Craxi osò mettere in discussione, spaccandola e sfidando apertamente la Cgil) ha visto il rapido proliferare di innumerevoli sindacati autonomi rispondenti ed “esigenze settarie”, a metodi “clientelari” che li portano a spendersi per elargire “favori personali e non collettivi, minando in questo modo i principi di solidarietà del Sindacato”. E che squallore comparare alla lezione di Di Vittorio la deriva caratterizzante l’attuale leadership del sindacato post-comunista: al punto che “c’è da chiedersi se Landini e la Camusso si siano mai presi la briga di leggere qualcosa del loro padre fondatore: per non dire altro”.

Capillare risulta quindi l’analisi dei principali momenti che hanno segnato tale progressivo disfacimento. Anzitutto lo spiazzamento patito dal sindacato da parte dei movimenti studenteschi post-sessantottini, con la subordinazione dei politicamente ancora acerbi operai ai più emancipati e ideologizzati studenti. Ciclo peraltro destinato a concludersi tragicamente nel ’79, con l’assassinio dell’operaio e sindacalista comunista Guido Rossa: perpetrando il quale le Brigate Rosse sancirono l’insanabile dicotomia fra due modi antitetici di concepire la lotta proletaria.

Il patto Lama-Agnelli del ’75 sul punto di contingenza: il quale al momento poté anche rappresentare “un valido accordo tra i lavoratori e la Fiat”; ma essendo inevitabilmente destinato a generare disuguaglianze, nonché una ricaduta inflazionista sul sistema economico italiano che il leader della Cgil non si rivelò capace di prevedere. Al pari dell’insensibilità manifestata dal sindacato dinanzi al fenomeno dello spopolamento delle campagne, causato da una improvvida “rincorsa salariale” che aveva finito col porre l’agricoltura in una posizione di marginalità rispetto al mondo industriale: “Il mondo contadino, che era la perla delle colline declinanti dalle Alpi e dagli Appennini, è stato distrutto dalla superficialità con cui è stato presentato e gestito il mondo produttivo industriale e dei servizi. Anche in questo contesto il Sindacato ha mostrato miopia preferendo l’aggregazione delle persone in centri produttivi o nei supermercati per poterli meglio controllare, condizionare, avere l’iscrizione”.

Per non parlare dell’errore commesso nel criminalizzare intere categorie di lavoratori autonomi: “Laddove il proletariato cresceva, godeva di stipendi fissi e in continuo aumento con regolare pagamento delle tasse e dei contributi, i piccoli settori imprenditoriali rappresentavano un peso marginale, non integrato al processo produttivo, evasori: tanto che commerciante e artigiano erano diventati sinonimo di ladro e il contadino un orpello del passato, ignorante ed emarginato”.

Quindi le degenerazioni di un’economia eccessivamente statalizzata, in cui “i dipendenti di molte aziende pubbliche erano equiparati a quelli statali o comunali e il clientelismo nelle assunzioni e nella gestione era la regola, alla quale non sfuggiva il Sindacato, ritagliandosi anzi sempre più spazi di movimento privilegiato fino a diventare anche arrogante”. Uno scenario insomma “più vicino all’organizzazione lavorativa dei paesi comunisti che di quelli gestiti da un’economia mista”.

Inevitabile a quel punto la svolta sancita dall’avvento alla guida della Fiat di Marchionne, la cui politica industriale ha rappresentato “una risposta corretta per svincolare l’azienda dall’assistenzialismo statale e incanalarla in un processo di autonomia produttiva e di risposta salariale partecipativa e legata alla produttività, anche attraverso il referendum tra i lavoratori”, destinato peraltro ad infliggere una nuova sconfitta alla Cgil.

La medesima onestà intellettuale porta il progressista Leoni a rivolgere un ancor più sorprendente plauso alla “famigerata legge Fornero”: a dargliene lo spunto è una circostanza risalente ai tempi della scuola. “Ricordo che una professoressa per sette anni aveva fatto delle supplenze: sempre presente. Appena assunta in ruolo dopo poco è entrata in maternità; scelta importante. Ha avuto tre figli di seguito; nel frattempo aveva maturato quindici anni di anzianità di lavoro, quattro le sono stati abbonati per carico familiare, ed è andata in pensione a trentanove anni. Una situazione insostenibile, a cui quella legge ha messo definitivamente fine, legando la pensione ad un’età adeguata alla nostra società e ai contributi versati. I tuoi figli e nostri nipoti la ringrazieranno per il suo coraggio, anche se matureranno altre situazioni come la pensione integrativa, che sostituirà le liquidazioni”.

Da rivedere anche l’assegno di maternità: inizialmente assai meritorio ma riguardo al quale il sindacato si è ad un certo punto “distratto”. “Ma ti sembra possibile che vi sia una così enorme disparità di assegno tra un giudice o deputato donna, un’operaia, un’impiegata o una casalinga? L’ultima non riceve nulla, se non saltuariamente un assegno, impiegata e operaia ricevono i loro stipendi di mille, millecinquecento euro: ma una deputata o una giudice o una dirigente sindacale ricevono dai cinque ai ben diecimila euro al mese. Ti sembra giusto?”.

Ed è ancora dalla sciagurata scuola italiana che viene l’esempio più desolante di frammentazione sindacale, partecipando a trattative e firma contrattuale ben diciotto organizzazioni, “frutto delle clientele e dimostrazione della pochezza di attenzione verso gli studenti”. Così come danni ha fatto quella concezione per certi aspetti giacobina che ha voluto la scuola “uguale per tutti”; cui si è peraltro sommata l’incapacità da parte delle istituzioni di attuare una qualche politica occupazionale atta a fronteggiare l’esplosione del mercato del lavoro determinata da globalizzazione e fenomeno immigratorio.

“La crescita intellettuale di ciascuno di noi è molto diversificata; chi ha più capacità manuali non deve esser costretto a interminabili lezioni teoriche che lo avviliscono, impoverendo tutto il mondo dei mestieri, che è andato scomparendo dopo gli anni Ottanta e Novanta, lasciando uno spazio enorme alla richiesta di manodopera straniera: conciatori, muratori, manovali, falegnami, calzolai, cuochi, camerieri, assistenti domiciliari, idraulici… Spazi occupati dagli immigrati proprio per la carenza di attenzione all’evolversi del mondo del lavoro, alla rigidità sindacale e alla sua rinuncia alla Formazione nella maggior parte delle Regioni”.

Se allora le regioni hanno fallito, per garantire ai giovani una formazione professionale adeguata non resta che privatizzarne la gestione; ed al nipote che gli obietta che la scuola dovrebbe essere in ogni caso “gestita da Stato ed enti pubblici per renderla più vicina al cittadino”, il nonno ribatte: “Anche un bar fa servizio pubblico, eppure è gestito da privati. La Formazione professionale non va confusa con l’Istruzione superiore degli Istituti professionali, che fanno capo al Ministero della Pubblica Istruzione”.

Tirando le somme, Leoni ritiene assolutamente indispensabili “una scrematura dei sindacati, molti dei quali sono semplicemente pretestuosamente e ideologicamente protestatari, in nessun modo rispettosi del benessere collettivo”; ed una legge sullo sciopero, con la quale “si alzerebbe il grado del confronto tra le parti e si avvierebbe una nuova fase mirante alla collaborazione costruttiva e di compartecipazione aziendale rispetto alla conflittualità permanente”.

Il nipote a questo punto si mostra convinto; ma al tempo stesso consapevole del conflitto che potrebbe determinarsi con le posizioni “politicamente corrette” praticate a livello accademico: “Oh, nonno! Parlerò con il mio professore: se mi caccia, vengo da te e ricominciamo a ragionare”. Sempre meglio l’onestà intellettuale che un titolo di studio fasullo, ottenuto solo grazie a conformismo e compiacenza nei confronti del pensiero dominante.

Assai felice l’esito del romanzo con cui Leoni si ripresenta al suo ormai affezionato pubblico nelle vesti di narratore: compito non facile, specie in considerazione del successo riscosso da Donna Luigia. Invece Ma’ecchia. L’ape regina non solo non delude, ma si presenta come la più riuscita delle opere del nostro: un testo limpido, maturo, in cui lo scrittore trentino mostra di avere finalmente risolto quella commistione tra slancio narrativo e concettosità che ne ha talvolta condizionato la vena.

Il racconto rappresenta inoltre un omaggio ai luoghi di cui Leoni si sente ormai figlio adottivo, essendo ambientato proprio in quella terra di confine tra Lunigiana e Garfagnana che è l’alta Val d’Aulella: della quale egli rimarca sentitamente l’“unicità”, celebrandone più volte l’incanto suscitato dalla vista dei maestosi paesaggi appenninico-apuani. Le corde del cuore vengono del resto tirate in ballo sin dalla polemica dedica, che raccorda in pratica i due scritti leoniani del 2016: “In memoria della mitica civiltà contadina sopravvissuta per millenni “a peste fame et bello”, distrutta dalla disattenzione del clero, dalla superficialità della borghesia, dalla supponenza della classe operaia, nella disgregazione clientelare della politica”.

Alle intromissioni teorico-filosofiche l’autore mostra stavolta di preferire le massime della saggezza contadina, che non appesantiscono la narrazione ma anzi la insaporiscono. Soltanto in una occasione egli si lascia andare ad una ambiziosa considerazione da filosofo della storia, che suona stonata rispetto all’incedere arioso e lineare del racconto. Si tratta della curiosa domanda posta al lettore nel rilevare come la protagonista, Vittorio Emanuele III e l’anarchico Bresci – l’assassino di Umberto I – siano nati nel medesimo anno: “Chi avrà influenzato in modo più duraturo lo scorrere del tempo e il flusso degli avvenimenti; chi avrà avuto più influsso creativo nell’evolversi del cosmo: Maria, Bresci oppure il re fuggiasco?”. Nessuno dei tre, gli risponderebbe Pascal: perché dinanzi all’immensità dell’infinito e agli imperscrutabili disegni della provvidenza l’uomo non è che una nullità.

Felice riesce invece la suddivisione del testo in due parti, delle quali il romanzo vero e proprio costituisce la seconda. Nella prima Leoni si cala infatti nei panni del ricercatore storico, attingendo a piene mani a testi e documenti vari per ricostruire la storia dell’arteria destinata a cambiare profondamente la vita della gente di quelle vallate: la “Strada dell’Alto Circondario”, progettata all’indomani dell’Unità d’Italia per unire Castelnuovo Garfagnana a Fivizzano valicando il passo dei Carpinelli e che già nel 1883 poteva considerarsi compiuta, “spianando costoni di colline e costruendo ponti a volta di romana memoria, rendendo così anche più veloci gli approvvigionamenti di materiale e di uomini, attraendo l’attenzione dei nuovi ricchi, motivandoli ad acquistare poderi a coltivazione di viti, oliveti, pascoli, campi a granaglie”.

Fino ad allora infatti per spostarsi da un luogo all’altro occorreva sfruttare i percorsi offerti da madre natura: i quali potevano seguire il corso dei torrenti o sfruttare i crinali montani e collinari, all’interno di un sistema viario rigidamente dettato dai potentati locali rappresentati più anticamente dai castelli, in epoca moderna dai vari ducati succedutisi nel controllare questa regione di confine storicamente contesa. Così a sentieri, viottoli, mulattiere subentrava finalmente la strada “carrabile”: con il fragore delle mine che ne scandivano la costruzione a preannunciare alla popolazione l’avvento di una nuova era.

Il cantiere non rappresenta soltanto una buona opportunità di lavoro per tanti contadini di quelle montagne, ma anche l’occasione per propiziare fidanzamenti tra giovani in età di matrimonio che non si sarebbero altrimenti mai incontrati. È il caso di Sante, garfagnino di Pontecosi, e Maria, bionda beltà di Pugliano: e a fare da galeotta è la canicola di un meriggio di solleone. “La fontana di Pugliano era un punto di incontro per raccogliere e distribuire l’acqua, e Maria era assidua nel portarla agli operai: anche perché per il servizio veniva dato qualche soldo. Appena aveva uno spazio di tempo dalle incombenze della stalla e della campagna, ora che i fratelli eran ormai grandicelli e potevano badare a se stessi, andava alla fontana e si metteva a disposizione.

“L’estate era iniziata e il sole cocente già a metà giugno e a luglio sembrava non dare tregua. Lei si caricava di due secchi posti all’estremità di una brentola e saliva verso Metra fermandosi a versare acqua a chiunque lo chiedesse. Un odore di sudore l’attrasse, per lei particolare, unico. Un odore leggero di aglio diluito e ammorbidito dal sudore la indusse a porre il suo sguardo su un giovane abbrunato dai raggi del sole, esile ma nerboruto, attento a collocare le pietre una sopra l’altra per creare un muro di contenimento. Aveva una camicia fradicia dal sudore che grondava lento e inesorabile ad ogni movimento fino a penetrare negli occhi. Fece uno sbuffo, si tolse i capelli dagli occhi, con la manica della camicia fece il gesto di asciugarsi il sudore, quando una voce chiese: “Desiderate un po’ d’acqua?””.

Il dialogo che segue suscita il colpo di fulmine fra l’ammirato operaio, felice di apprendere che l’avvenente acquaiola non è sposata né fidanzata, e la villanella, attratta sia dall’aspetto fisico che dal ragionare schietto e scanzonato di lui, simpaticamente ispirato dalle romantiche storie dei canti a maggio. “Salutò, proseguì nella distribuzione ma il suo cuore era stranamente turbato e la sua mente invasa dalle sue immagini, anche quelle più strane: il volto, le braccia nerborute, gli occhi rigati da ciglia e sopracciglia tendenti al biondo di color celeste, i folti capelli rossicci resi più chiari dalla polvere, la fronte alta e spaziosa, le mani callose e sapienti; immaginava il petto villoso e poi non osava andare oltre e ritornava il turbinio di immagini, fino a turbare anche il suo sonno e a spingerla già di buon mattino del giorno seguente a cercarlo e a chiedere il suo nome. “Sante, mi chiamo. Ma vi piaccio davvero, allora si può fare. Non subito, se sapete aspettare, metto insieme una dote ed intanto ci frequentiamo, ci diamo una mano, programmiamo il nostro futuro””.

L’innamorata Maria sa ben attendere il suo promesso sposo e a tempo debito i due convolano a nozze, mettendo al mondo uno dietro l’altro cinque figlioli in quel di Metra. Nell’ambito del matrimonio la donna finisce con l’incarnare alla perfezione l’ideale femminile della società rurale, mettendo a frutto nel migliore dei modi i semi ricevuti attraverso l’educazione dalla famiglia sino a divenire il faro dell’intero villaggio. La sua ispirata personalità diviene così il risultato di un felice connubio fra la moralità dell’ambiente in cui vive ed una intensa interiorità .

“Maria cresce in un contesto contadino dove la vita si impasta del lavoro nei campi con le nascite degli umani alternate a quelle degli animali in uno stretto nesso vitale con il mutare annuale e perpetuo delle stagioni, che rappresentano il ciclo della vita. Il tutto condito dal messaggio cristiano che per lei diventa il nutrimento spirituale e intellettuale: dai racconti della vita e del messaggio di Gesù assorbe la convinzione, che per lei è fede, che Gesù al suo passaggio lasci un flusso di positività, che esprime con parole che invitano ad aver fiducia in se stessi e che spesso passa attraverso l’imposizione delle mani, da cui esce un flusso salvifico. Essa apprende e trasmette questa positività tanto da diventare centro di attenzione salutare per chi a lei si affida con semplicità: uomini e animali ne traggono beneficio”.

Finché con sapiente dosaggio fra realtà e immaginazione l’autore introduce nel racconto la figura quasi manzoniana del Ministro, divenuto con l’avvento della nuova strada il dominus di queste terre.

“Uno sconosciuto si era presentato agli operai come sovrintendente dei lavori. Un signore distinto, vestito alla moda, con gilet e calzoni stretti fin dentro gli stivali: nelle stagioni più fredde o con la pioggia indossava un mantello cerato con fodera interna in piuma d’oca, staccabile nelle stagioni più miti; in estate un abbigliamento leggero, con camicette di lino sbottonate fino a far intravedere il petto villoso vellutato da una folta peluria castana, che si intravedeva nel suo cavalcare da un posto di lavoro all’altro, tanto da attirare l’attenzione e solleticare la fantasia di molte donne e l’invidia degli operai affaticati e zuppi di sudore.

“Circolava con il suo cavallo da una postazione all’altra, all’inizio riservato ed altero, poi loquace e paternalista. Aveva comperato una casa a Metra e – si mormorava – due poderi a Sermezzana, tre a Lugigliano, due a Pretella, uno a Castiglione della Ginestra. La gente pettegolava incuriosita agli angoli dei borghi, sui cigli delle strade, nelle stalle, nelle aie, trasmettendo l’un l’altro notizie appena accennate, che venivano colorite da particolari fantasiosi; tutti si chiedevano da dove venisse: ma soprattutto si domandavano l’origine di tanto potere e di tanta ricchezza”.

Chiacchiericcio che l’ambizioso quanto scaltro personaggio sa gestire nella maniera a lui più conveniente, in base ad un freddo calcolo, mantenendo i primi tempi un atteggiamento distaccato e superiore, in modo da “creare attorno alla sua figura rispetto e timore: due sentimenti che mescolati assieme creano un alone di potere”. Quindi, una volta “stabiliti i termini del suo potere, riconosciuto come un essere fuori del comune, non tanto per le sue abilità o cultura, ma per la sua condotta di vita fuori dalla portata dei locali, egli iniziò a frequentare i notabili del paese, il clero, gli insegnanti: tutti quelli che per censo potevano dare il loro voto per scegliere gli amministratori delle comunità locali, provinciali e nazionali rilasciando loro notizie, episodi e fatti del suo passato che, travasati da bocca a bocca, arrivavano alla gente contadina ampliati e avvolti nel mistero. Faceva trapelare notizie mirate a suscitare ammirazione, storie raccontate per creare un alone di mistero, affermazioni per incutere timore, distribuzione di compensi da suscitare invidia, acquisti per marcare la propria differenza e superiorità di censo”.

Il Ministro irrompe nella vita dei nostri coniugi suoi mezzadri la mattina in cui, nel controllare da cavallo i lavori nelle sue terre, invece di tirar dritto come suo solito limitandosi a salutare i braccianti si ferma ad interloquire con Sante, interrompendone il lavoro alla vanga e prospettandogli una “vantaggiosa proposta”. Avendo ricevuto tempo addietro dal padrone un anticipo di denaro, il contadino pensa istintivamente che a ciò sia dovuta la visita: “Con la vendita dei primi frutti, con il raccolto dei cereali e con lavoro in aggiunta presso la vostra casa in un paio di anni riusciremo a pagare il debito. Le malattie sono una condanna per la povera gente, i nostri figli sono ciò che di più prezioso abbiamo e per loro siamo disposti ad ogni sacrificio. Già due sono morti per disgrazia e per il tifo; Mistica e Adelmo crescono sani, ma abbiamo speso un capitale in medicine e ricostituenti. Biagio per ora sembra star bene, anche se mia moglie dice che è fiacco nella poppata e teme che abbia qualche malattia sconosciuta: ma per i nostri figli siamo disposti ad altri sacrifici”, si premura di giustificarsi.

Senonché le mire del signorotto vanno in altra direzione: “Come sapete ho scelto voi per i miei poderi, perché siete laboriosi, non vi lamentate, onorate gli impegni, siete schietti e sinceri senza mostrare arroganza. La mia proposta riguarda vostra moglie: meticolosa, creativa, attenta all’igiene e alla pulizia, esperta nell’assistere le partorienti e nel dare loro utili consigli, sempre di buon umore tanto da esser ben accetta a tutti e – si mormora – anche fautrice di misteriose e benefiche iniziative”. Ruffiano preambolo che induce il diffidente villano ad un “innominabile pensiero”: “Ehi, signore dei miei stivali, non chiederai mica che mia moglie giaccia con te a compenso dei debiti, come preteso da alcuni prepotenti, pidocchi rifatti, che approfittano delle disgrazie dei mezzadri per estendere la loro padronanza anche su mogli e figlie?”.

La dignità prima di tutto: mai l’uomo sarebbe disposto ad un baratto del genere, a costo di finire in disgrazia. Ma anche gelosia, eccessiva ed ingenua: perché è impensabile che il piacente e mondano Ministro, con tutte le occasioni che avrà per le mani, abbia messo gli occhi addosso proprio ad un’umile contadina non più di primo pelo e con sulle spalle già cinque, consecutive gravidanze.

Intuitone il turbamento, l’altro tuttavia lo rassicura, spiegandogli che la proposta riguarda la necessità di una balia per una famiglia ebrea residente in Tunisia ma attualmente in Versilia per affari: “La signora ha partorito due gemelli al settimo mese e non è in grado di allattarli adeguatamente: ho pensato a tua moglie perché è ancora nel pieno delle sue forze fisiche, ha partorito da poco ed è in grado di dare il latte per molti mesi. Maria verrà trattata come una principessa, non le faranno mancare nulla, le verrà dato il giusto compenso: e per mostrarti il mio riconoscimento e quanto per me sia importante la vostra disponibilità, vi vengo incontro proponendovi il solo rimborso del prestito senza l’aumento degli interessi”.

Allorché il marito le comunica della impegnativa richiesta del padrone, la devota contadina reagisce ponendosi proprio scrupoli di fede: “Dovrei partire per un luogo così lontano, al servizio di infedeli?”. Poi però a prevalere è la ragionevolezza: “Sante e Maria si guardarono negli occhi: la miseria era troppa per rinunciare ad un’offerta così vantaggiosa. Sarebbero stati lontani per un lungo periodo di tempo, ma si sentivano giovani e non volevano ridursi a una vita di stenti, senza prospettive di un futuro, con il rischio che un loro rifiuto poteva motivare e indurre il Ministro ad allontanarli con una scusa dai suoi poderi, annullando il contratto di mezzadria”.

Ma per prendere la decisione definitiva è necessario un ulteriore, più istintuale passaggio: “Si avvicinarono per sentire anche le sensazioni che i loro corpi emanavano; perché i contadini, oltre all’udito e alla vista, hanno molto sviluppati anche l’olfatto ed il tatto, che riescono a trasmettere sensazioni occulte per i più, ma riconoscono e confermano o rifiutano i suoni uditi e le cose viste al pari degli animali domestici: che istintivamente sanno di chi fidarsi, da chi accettare il cibo, a chi rivolgere un chiamo per esser accuditi. Stettero vicini per alcuni minuti, in silenzio; sentivano il loro respiro e fin quasi il battito del cuore, avvolti dalla luce, dal tepore, dai suoni che la natura offre nel primo mattino delle giornate serene di maggio: frusciare di foglie e di insetti, cinguettii, belati, purezza dell’aria”.

Prima di partire Maria si affida alla protezione della Madonna della Guardia, confessandosi da don Antonio che ha appena dato vita a quel santuario sul monte Argegna destinato ad unire nel suo culto le genti di Lunigiana e Garfagnana. In Tunisia trascorrerà oltre un anno, perfettamente calata nel nuovo ruolo e facendosi onore: ma fremendo di gioia il giorno in cui potrà finalmente “riprendersi la visione dei suoi monti, che tanto le erano mancati”. Ecco il treno giungere ad Aulla: ed è con lirismo che Leoni dipinge quest’altra pagina di sapore manzoniano, vera e propria dichiarazione d’amore nei confronti di una vallata.

“La carrozza aveva preso la direzione verso oriente accolta come in una culla tra i pendii delle Alpi Apuane le cui guglie ispiravano pensieri di eterna immensità e gli Appennini ascendenti dolcemente verso il cielo ed ora verdeggianti a ricordare i prati sempre verdi del paradiso biblico. Un profondo senso di pace era sceso nell’animo di Maria. Si sentiva felice e soddisfatta, orgogliosa persino al pensiero di aver affrontato l’ignoto e di aver contribuito al benessere dei propri cari. Superate le strettoie e le gole che portano a Casola, al montare della carrozza attraverso Vigneta intravide in alto sulla guglia di una collina il borgo natio di Pugliano. La commozione la colse e sentì riempirsi il cuore di vita e gonfiare come il fluire del latte nel suo seno. Corse con gli occhi a ricordare i pendii, i pianori, le cime delle montagne, a nominar i borghi che come gemme costellavano l’ampia distesa: Reusa, Vedriano, Castiglione, Offiano, Regnano, il monte Grosso, il monte Tondo ed immobile e aspra la parete irta della Nuda. A schiera le Alpi Apuane cambiavano il loro aspetto ad ogni cambio d’angolo, ad ogni curva, ad ogni pendio fino a quando arrivata la carrozza ai piedi di Metra le apparvero come un miraggio di eternità, estese verso l’infinito orizzonte ed incombenti come braccia materne ad accogliere e custodire la vita dell’uomo”.

Tutto il paese è assiepato davanti alla chiesa a salutare il ritorno di Maria; da una parte Sante, con accanto Mistica e Adelmo ma senza il piccolino. Preoccupata la donna ne chiede allora al marito: “Biagio? – Sicuramente è tornato tra gli angeli”. Ringraziati i paesani per la manifestazione di affetto (“Vi ho sempre ricordati nelle mie preghiere”), Maria è finalmente a casa, a raccontare ai familiari le vicende del proprio soggiorno africano: “storie che i bambini ascoltarono come favole, tanto che di lì a poco si addormentarono”.

Dopodiché “la primavera avanzata, la lontananza, il vuoto creato dalla perdita di Biagio, l’affetto coltivato nelle notti solitarie, i ricordi, la speranza di una vita confortata anche da una migliore situazione economica, la voglia di vivere portarono Maria e Sante a giacere insieme in un amplesso tante volte immaginato, lasciandosi andare ad un pudico piacere del corpo divenuto anche balsamo per l’anima. Nacque una bambina e Maria chiese a Sante di chiamarla Ivonne, a perpetuo suggello del loro coraggio di vivere”. Cui seguirà Modesto, ultimogenito; con l’operosa madre che saprà alternare alle incombenze domestiche il lavoro al telaio, avviato grazie al gruzzoletto messo insieme in Tunisia.

Secondo un registro caro all’autore, il secondo tempo del racconto vede intrecciarsi alle vicissitudini familiari dei protagonisti gli eventi della Storia. Qui Leoni è bravo nel ricostruirci fedelmente riti ed usanze della civiltà contadina apuana: dalla centralità dell’allevamento del bestiame, all’utilizzo di caratteristici quanto antichi strumenti, ai contratti in cui parola e stretta di mano valevano più di qualunque scrittura. Evento particolarmente traumatico nella vita della famiglia si rivela il catastrofico terremoto del 1920, che oltre alla casa si porta via Sante, infermo e febbricitante e quindi allettato invece di trovarsi già da un pezzo nei campi al pari degli altri contadini alle 8 di quel fatale mattino di inizio settembre.

La cinquantenne Maria diviene allora più che mai “ape regina” nel mandare avanti lei tutto quanto: soprattutto nell’inculcare in figli e nipoti con il suo quotidiano esempio quei sacri valori cui nell’arco della sua intensa vita mai ha derogato. Sino a guadagnarsi l’appellativo dialettale di “Ma’ecchia”: “madre vecchia” nel senso di mamma, suocera e nonna sagace e venerata. Ma non certo per vivere di ricordi e veglie al camino: nella narrazione è ancora tempo per qualche zampata, specie nello sfacelo della guerra segnato dall’avvento di quella sciagurata “Repubblica di Salò” asservita all’alleato germanico. È notoriamente questo il periodo prediletto dallo scrittore trentino, che si rivela ancora una volta impagabile nel dipingere inopinate scenette che preannunciano la tragedia che di lì a poco si abbatterà su questa terra sfortunatamente posta a ridosso della Linea gotica.

In luogo dell’agognata fine del conflitto mondiale un giorno la gente vede sopraggiungere lungo la rotabile “una macchina nera che sembrava quella dei carabinieri, dietro una camionetta che nell’avvicinarsi mostrava una bandiera tricolore sventolante e dentro quattro personaggi vestiti da gerarchi fascisti, di seguito camionette e camion con insegne sconosciute”. Spiega allora qualcuno più infervorato degli altri trattarsi delle insegne dell’esercito tedesco: “Mussolini ha costituito un nuovo stato, una repubblica per riparare allo sfregio fatto dal re, che si è rifugiato tra le braccia di inglesi e americani. Il duce è ritornato a salvare l’onore dell’Italia e a mantenere l’alleanza con la Germania di Hitler”. A questo punto, “mentre gli altri seguono a bocca aperta il passaggio di quel piccolo esercito, Ma’ecchia ha uno scatto di stizza e alzando la corona del rosario fa un gesto di sfida: “Senza re, senza patria, senza Dio!””.

Per poi esplicitare ancor meglio il concetto allorché i medesimi “repubblichini” le si presentano all’uscio a farsi propaganda, e dopo che le è stato per giunta richiamato alle armi Modesto, già in età matura e padre a sua volta. “Via da questa casa, rinnegati e traditori. Viva il re. Viva la religione. Viva la patria. Su di voi annunciatori di sciagure scenda l’ira di Dio”. Maria avverte quest’altra catastrofe che di lì a poco si abbatterà sul capo della sua gente per mano di plotoni d’esecuzione nazifascisti e bombardieri angloamericani; ma ciò che più le riesce incomprensibile è che ciò debba avvenire a seguito della violazione di quei sacri principi retaggio di una tradizione millenaria ed incarnati dai simboli del Trono e dell’Altare.

Nella sua compiuta rivisitazione storica – che assume stavolta le dimensioni di un affresco – oltre a restituirci mentalità e costumi di un’epoca, mirabilmente impersonati dalla figura della protagonista, Leoni è riuscito anche a ricostruire fedelmente aspetti e momenti di una vita quotidiana così semplice e sana eppure perduta per sempre, facendo peraltro rivivere quelli che per la gente di questa terra furono a lungo dei veri e propri personaggi: il sacerdote artefice della Madonna dell’Argegna al pari di altri parroci non meno amati, il mugnaio di Montefiore, il segretario del Fascio di Metra.

Il 2017 vede il ritorno leoniano alla saggistica con la pubblicazione de Il parco buoi. APOTA. Dialogo tra nonno e nipote. Nella prefazione l’opuscolo viene presentato dall’editore come “una vera e propria guida alla finanza per dilettanti”, in cui il “parco buoi” è costituito dal popolo dei risparmiatori, mentre il concetto di ‘apota’ viene indicato come quel “filtro razionale che dovrebbe guidare ogni decisione” di chi si accinge a investire i propri quattrini. L’autore torna dunque alle sue radici culturali e professionali, che lo hanno visto prima laurearsi in Economia e commercio e quindi docente di economia aziendale. Ed il carattere un po’ “nostalgico” del saggio – che formalmente riprende la formula dialogica dal nostro già utilizzata per La miseria del sindacato italiano – viene fuori anche dal suo essere centrato sulla passione degli italiani per il gioco in borsa: una moda esplosa nel clima dell’economia espansiva (e corrotta) degli anni Ottanta, perdurata per tutto il decennio successivo ma con il nuovo millennio drasticamente ridimensionata dagli effetti di una crisi ormai sedimentata e apparentemente insuperabile.

È navigando in internet che Leoni s’imbatte nel termine apòta, di origine greca e significante “chi non beve”; ma dal caustico Prezzolini riutilizzato nel dibattito politico che nel fatidico 1922 vedeva il desolante tramonto dell’età liberale nel senso figurato di “chi non se la beve”: ossia l’opposto del credulone, del tipo incline ai facili entusiasmi che incapace “di un pensiero libero e di continuare a tenere dritta la barra della razionalità” finisce con il decretare la rovina propria e la fortuna altrui. Perché in economia – come ci ricorda l’autore – “se c’è uno che guadagna, c’è sempre un altro che perde”; concetto del resto ben esplicitato dalla saggezza popolare, nello spiegarci che tutte le mattine escono di casa un furbo e un fesso: se s’incontrano, l’affare è fatto.

È quindi un Leoni pedagogo e, in quanto “nonno” – ossia in virtù della sua esperienza in materia – dispensatore di saggezza a guidare il nipote-lettore attraverso il mondo della finanza: ossia quella “grande ragnatela che affascina, attrae, convince sempre più numerose persone a lasciarsi coinvolgere come se fosse una grande innocua sala da gioco, dove ciascuno si può cimentare e magari avere anche la fortuna di vincere”. Insomma un ritorno nelle vesti – per quanto letterarie – di insegnante di economia che vuol rappresentare una reazione di fronte al bombardamento di annunci e telefonate che, sfruttando la micidiale potenza divulgativa garantita dalla “rete” nonché l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti della privacy telefonica di ciascuno, promettono ai fruitori di computer e smartphone (quindi praticamente a tutti) di arricchire in breve tempo solo mettendosi nelle mani di questi sedicenti, spregiudicati operatori finanziari le cui capacità supererebbero ogni criticità economica, nazionale come internazionale.

Ecco allora il professor Leoni aprire gli occhi all’aspirante milionario spiegandogli anzitutto la natura eminentemente speculativa dell’investimento che gli viene proposto. “Sicuramente affidarsi a trader professionisti che utilizzano calcoli matematici e statistici sulle probabilità di mutamenti sociali e di tendenza al consumo o al risparmio può apparire rassicurante e vantaggioso: anche perché gli annunci spianano la strada, esemplificando il compito del risparmiatore a seguire e copiare l’esperienza del trader di successo”. Ma attenzione: allorché infatti “si mira a trarre vantaggi scommettendo sul buon andamento o meno di una società in un recente o remoto futuro, si entra nel mondo delle probabilità, che si avvicina molto al gioco d’azzardo: benché, nell’ambito del mercato finanziario, la conoscenza dell’andamento societario e lo studio della redditività dell’azienda tramite la lettura dei risultati economici dai bilanci offrano informazioni interessanti, anche se non sicure al cento per cento, per fare scelte oculate e vantaggiose; posto tuttavia come premessa che la vita sociale, politica ed economica scorra in modo regolare senza fatti eccezionali come guerre, disastri ambientali, notizie false o tendenziose, rivolte ad agitare l’animo dei risparmiatori, oggetto di preda come un parco buoi per gli esperti speculatori”.

Riappare sulla scena il “nipote” del precedente dialogo sul sindacato e il discorso da economico si fa politico: dal momento che il facilmente entusiasmabile ragazzo – “in piena fase adolescenziale”, ma dalla quale “vorrebbe uscire per assumersi le proprie responsabilità individuali e sociali” – è rimasto folgorato dalla accattivante proposta elettorale lanciata dal Movimento Cinque Stelle. “Nonno! Nonno! Piove la manna dal cielo! Evviva il reddito di cittadinanza! Guadagnare senza lavorare! Una pacchia!”. Secondo Leoni tuttavia non è giusto percepire tale profitto “senza muovere un dito, come riconoscimento di essere cittadini italiani e di vivere sul suolo italico”: altrimenti la Costituzione non avrebbe dichiarato la nostra repubblica “fondata sul lavoro” né avrebbe fissato il “principio lavorista” per cui “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Donde la prima lezione al giovincello: “La moneta è un misuratore della ricchezza rappresentata da beni e servizi; nel momento in cui determina se stessa o sostituti della stessa, esula dallo scopo per il quale è stata creata e cade in derivazioni di misurazione che possono creare ricchezza speculativa, ma che nel tempo ritorna, con il peso della forza gravitazionale, a misurare il bene o il servizio per cui è stata creata: e in quel momento vi può essere un impatto simile al terremoto da scontro tra masse magmatiche, producendo uno sconquasso economico”, come dimostra la storia degli ultimi due secoli.

Tra riferimenti a Marx e a Keynes, si fanno in particolare gli esempi dell’inflazione che determinò il fallimento della Repubblica di Weimar e della grande crisi del 1929 causata dal crollo della Borsa di Wall Street. Per poi tracciare l’elogio del risparmio, “retaggio che viene dalla saggezza contadina: se del grano raccolto non conservi una parte per seminarla, l’anno successivo morirai di fame, perché senza semina non avrai raccolto: a meno che tu non vada a occupare e rapinare il raccolto altrui, come si era soliti fare con le guerre. Il risparmio è come la semente da spargere nel campo per avere altro raccolto; esso non è fine a se stesso ma va investito: altrimenti è inutile, come mettere i soldi sotto il materasso o non far fruttare i propri talenti – riferimento evangelico – o mangiarsi la semente o ancor peggio buttarla al vento senza criterio”.

Dopo un richiamo ai dipendenti pubblici, che “dovrebbero mettere un tappeto rosso davanti a imprenditori e lavoratori privati che, con i tributi, sostengono la spesa pubblica, e mostrare disponibilità e rispetto ogniqualvolta viene chiesta loro una prestazione dovuta da mansioni e compiti burocraticamente previsti”, l’autore osserva come nel corso del ventesimo secolo, attuando la dottrina keynesiana, lo Stato sia più o meno consapevolmente divenuto “un intermediario finanziario concorrente alla borsa valori e al libero mercato, tanto da diventare preponderante e talvolta invasivo, poiché chi ne dirige le sorti spesso propone, guida e spinge a sfornare una legislazione favorevole a interessi finanziari privati, talvolta marcatamente speculativi”. Qui Leoni preferisce – forse per carità di patria – richiamarsi alle speculazioni borsistiche che negli Usa di un secolo fa determinarono la fortuna della famiglia Kennedy piuttosto che ricordare quanto decretato nel nostro Paese per favorire le banche dai governi succedutisi negli ultimi anni, segnatamente quello presieduto da Renzi.

I governi dell’ultima fase della “prima repubblica”, invece, sono tuttora responsabili dell’esplosione del debito pubblico: “ma la gente era soddisfatta e votava i politici che promettevano una presenza più incisiva e diffusa dello Stato nella vita economica; ad ogni crisi il governo faceva fronte raccogliendo finanziamenti presso investitori e risparmiatori a tassi di interesse molto alti, rendendo tutti soddisfatti”. Inoltre, in quegli anni “la politica è stata premiata dall’assunzione negli enti pubblici di migliaia di dipendenti pagati con l’emissione di BOT e CCT, portando la disoccupazione ai minimi storici: il trionfo della politica, osannata ancor oggi dai nostalgici di Craxi, Andreotti, Forlani”. Quando poi il peso del debito pubblico divenne insostenibile, si fu costretti a vendere quote delle grandi imprese di Stato come Enel, Poste, Sip, Eni, Italsider: del resto il malgoverno “partitocratico” aveva precipitato le aziende pubbliche “in un vortice clientelare e improduttivo, tanto che lo Stato era costretto a intervenire di anno in anno a coprire perdite di aziende divenute obsolete e decotte nella loro organizzazione”.

La svolta rappresentata negli anni Ottanta dal superamento della crisi del decennio precedente ha fra le altre conseguenze quella di un ritorno di fiamma per la borsa: destinato però a risolversi, specie con il nuovo millennio, in una gigantesca trappola speculativa vittima sacrificale della quale non può essere che il nostro “parco buoi”. “L’economia – ricorda Leoni – è una scienza complessa, che utilizza come supporto interpretativo e di proposta matematica, statistica, giurisprudenza, sociologia: ma è una scienza che deve interpretare e dare risposte a delle persone e quindi è anche una disciplina ben radicata nella società con i suoi usi, costumi, bisogni, diritti e doveri. I bisogni degli uomini e delle società sono in continua evoluzione e le risposte devono essere dinamiche”. Ben poco ricollegabile a tale scienza parrebbe dunque la speculazione sulle società finanziarie: la quale “può avere un occasionale successo nel breve periodo”; qualora però investitori più accorti vadano a controllare le carte delle società in portafoglio, se ne potrà facilmente rivelare la vera natura: quella cioè di società “in possesso di titoli di poco o nullo valore e tendenzialmente in perdita”.

L’anziano ma aggiornato nonno non manca infine di mettere in guardia il nipote dall’ultimo ritrovato escogitato dalla spregiudicata tecnologia della rete: i bitcoin. “Questa moneta virtuale non ha garanzie legali, cioè non è emessa da nessuno Stato ed è sospettata di essere la moneta con cui pagare il riscatto per riabilitare, liberare e ripulire i computer dai virus con cui vengono ciclicamente infestati”. Così l’autore trova dunque il modo di ritornare su quella cattedra da lui occupata per una vita aggiornando l’argomento delle proprie lezioni sino ai temi (più o meno) economici attuali, del tutto inimmaginabili nei testi scolastici di appena pochi lustri fa che certo non avrebbero potuto includere – non tanto per motivi di tempistica quanto di serietà – quella dall’opinione pubblica eufemisticamente ribattezzata come “finanza creativa”.

Ed è appunto questa l’impressione che ci lascia la lettura dell’opuscolo: quella di una rivalutazione nostalgica – per quanto critica – del passato, dalla saggezza contadina alla moderna concezione economica scaturita dall’Illuminismo, sino ad arrivare alle travagliate vicende finanziarie novecentesche ed ai disastri provocati dagli ultimi governi nazionali. Come se un filo diretto collegasse il progressivo allontanamento dalle istanze della gente da parte della politica nonché il suo ripudio di ogni ancoraggio morale alle truffaldine speculazioni ordite da questi filibustieri della finanza che nell’italico paese di acchiappacitrulli di “creativo” hanno solo la garanzia dell’impunità, non rappresentando essi che l’ultima, sofisticata versione dei lestofanti del gioco delle tre carte.

Nel 2018 Leoni si ripresenta al suo affezionato pubblico con il romanzo Gli sposi profeti, il cui tema appare di stringente attualità: i rapporti interreligiosi, e in particolare fra cattolicesimo ed Islam. “Stiamo diventando un popolo che non ama la propria terra – si legge nella Riflessione introduttiva – i propri figli, le proprie tradizioni perché utilizziamo la terra, i figli, le tradizioni come strumento di pregiudizi e di odio. La linfa di un popolo è il rinnovamento culturale e generazionale che può svilupparsi dal superamento della monocultura per esser fecondati dalla diversità nel confronto e nel rispetto”. L’autore si sofferma quindi sul concetto di “prossimo”, sottolineando come l’attuale contesto sociale ed in particolare l’influsso dei media accrescano a dismisura la “pochezza dell’uomo”, dimentico del fatto che la Bibbia, “fonte da cui scaturiscono le tre religioni monoteistiche, lancia una lode all’unico Dio”. “Prima di Cristo, prima di Abramo, prima di Maometto, prima di Budda, prima c’era l’uomo… e prima ancora l’universo”.

Donde l’appello alla solidarietà: “Chi gode nel proclamare pregiudizi, negatività, esclusione è un sadico che tenta di coinvolgere più gente possibile e librarsi in un sottile masochismo collettivo quale premessa dell’autodistruzione. Abitiamo in uno Stato dove l’istruzione, la sanità, la giustizia sono la base di una piacevole vita civile, che il disprezzo per la nobile arte della politica vuole distruggere abbassando il confronto a litigio, la cultura a pregiudizio, la solidarietà ad assistenzialismo, la salute a intervento taumaturgico, la legge a servizio del proprio capriccio, l’abulia alla creatività lavorativa, l’ignoranza a virtù. La promozione del pensiero negativo come mentalità dominante distrugge l’aspirazione al cambiamento come premessa indispensabile per creare la base di ogni futura civiltà solidale e creativa di prosperità e benessere”.

Orfano di padre, il trentenne Silvano, impiegato di banca della provincia trentina solito trasformarsi al sabato sera in crapulone manifestando una particolare devozione per Bacco, una volta alza a tal punto il gomito da vedersi costretto a rinunciare a tornare a casa per dormire in macchina. Allorché la luce del mattino illumina la scena, preoccupata una giovane che abita lì davanti si avvicina all’auto per sincerarsi delle condizioni di salute dell’individuo: constatato che è vivo e vegeto, per quanto in preda a una bella sbronza, lo invita a salire in casa per preparargli un caffè e fargli anche un bel massaggio rilassante. Dopodiché si presenta: “Il mio nome è Assaadah, che in italiano significa Felicità. Vengo dal Marocco e sono da pochi giorni a servizio da questi signori”.

Finalmente riacquistata la lucidità necessaria a ripartire Silvano si accomiata, per raggiungere il consorzio della “Famiglia cooperativa”, gestito dalla madre Anna la quale gli ingiunge di portare la spesa all’anziana zia Adelina, loro benefattrice attualmente inferma. Ma il suo pensiero è ancora fermo all’incantevole visione legata all’incontro di poc’anzi: “Ho visto una donna con il velo. Sembrava l’immagine della Madonna. Un viso delicato, avvolto da un velo azzurro che si raccoglieva sotto il collo e lasciava cadere un lembo triangolare sulla schiena. Era vestita come la nonna quando andava a Messa!”, confida alla madre la quale tuttavia invece di dargli spago lo richiama alle incombenze religiose della giornata festiva.

Anche ad Adelina l’ancor imbambolato giovanotto comunica della celestiale apparizione occorsagli: “Zia, questa mattina ho visto la madonna; aveva un copricapo come te, più giovane”. Ma senza ricevere neppure in questo caso soddisfazione: la vegliarda sta seguendo la messa alla tv, e lo spedisce a sua volta in chiesa, come si fa con un bambino. Dopo la funzione, Silvano ritorna alla carica con Adelina – sua abituale confidente – per dettagliarle sia dello svolgimento della notte brava, sia dell’incontro con la sua “madonna”: non mancando di caricarlo versandogli un vermouth dopo l’altro, la devota zia gli tiene allora un’autentica lezione di storia delle religioni incentrata sul tema dell’ecumenismo. Senza tuttavia riuscire a interromperne la fissa: “Ho visto una donna bellissima. Mi ha occupato la mente anche durante tutta la messa. Mi prende da dentro, mi appare con un sorriso abbagliante, sento il suo respiro alitare sul volto, una voce strana e suadente…”. Al che la zia gli dà la sua benedizione: “Ho capito. Ti sei innamorato. Era ora e buon per te!”.

Non altrettanto idilliaco si presenta il rapporto tra il giovane e la madre: Anna soffre di sensi di colpa per il fatto di non aver saputo dare al figlio un’educazione adeguata, soprattutto in relazione al suo etilismo, per sottrarlo al quale lo sprona a partecipare agli incontri degli “alcolisti anonimi”. Silvano da parte sua non accetta di essere trattato come un minorato, e le si ribella: “Non ho bisogno della tua compassione! Sono un uomo ormai, apprezzato dagli amici, competente sul lavoro, impegnato nel volontariato: solo in casa mi sento una nullità”. Ciononostante, nei giorni successivi egli continua a riferire alla madre del pensiero che lo ossessiona, confidandole anche di essere passato nuovamente dall’abitazione della donna velata che gli ha tolto il sonno ma senza trovare il coraggio di suonare il campanello.

Dopo che ad inficiare la linearità della narrazione sono intervenute varie digressioni di ordine sia storico (sul Movimento dei focolari, cui la famiglia protagonista del racconto è fervida componente; sulla religiosità trentina; sui conti Madruzzo) che orografico, la vena voyeuristica leoniana trova ancora una volta modo di fare capolino mediante la dettagliata descrizione dell’amplesso avuto dall’amico del cuore del protagonista, Leonardo – sociologo in ossequio alla facoltà trentina di moda, nonché abitualmente omosessuale – con una donna sposata quanto libidinosa disposta a pagare anche profumatamente i propri amanti occasionali. Non risparmiandosi proprio nulla, l’autore racconta successivamente della volta in cui i due pervertiti amici “giocarono a fare gli spadaccini” con i rispettivi organi sessuali “ritti come spade”, dandoci dentro sino all’epilogo assai poco romanzesco e sicuramente indegno di D’Artagnan.

Intanto Silvano va avanti con le sue sbronze prefestive, avendo fatto della domenica “il centro della settimana e delle sue occupazioni amatoriali” e purgandola poi al lunedì, “il giorno più duro per i bevitori, anche se la fatica psicologica del rientro soffoca l’animo di quasi tutti i prestatori d’opera”. Ed è proprio un lunedì che, nel rientrare dal lavoro, avvista sulla strada la sua “madonna marocchina”, facendosi riconoscere e dandole un passaggio, dopo averne vinto l’iniziale ritrosia. Nel frattempo la straniera è stata licenziata, trascorrendo le proprie giornate tra lavori occasionali, pellegrinaggi per uffici di collocamento e sindacati e dormendo presso conoscenti. Allo sbando, e lungi dal prendere in considerazione l’idea di tornarsene a casa sua, neppure può ripiegare presso la famiglia del fratello del defunto marito, anch’essa in Italia: richiamandosi a una tradizione tribale che lo autorizza a giacere con lei onde proseguire la stirpe, il sozzo cognato le farebbe infatti sicuramente la festa. Donde la scelta disperata di compiere un estremo tentativo per essere riassunta dalla famiglia presso cui stava a servizio: motivo per cui si è messa in marcia.

A quel punto l’interessato Silvano tira fuori il coniglio dal cilindro: dato che ultimamente la zia sta perdendo dei colpi, propone ad Assaadah di andare a sentire se Adelina fosse interessata ad assumerla come badante. Accondiscendente la magrebina, ci si reca dalla vecchia, alla quale nel corso della presentazione l’udito fa un brutto scherzo: “Un nome biblico. Sara, la moglie di Abramo da cui ebbe il figlio Isacco”, la ribattezza. Al che la giovane, sentendo aria di sistemazione, prende la palla al balzo: “Va bene. Mi chiami Sara. Anche per noi Abramo è un grande profeta”. Vista e presa. Fuori di sé dalla gioia, l’innamorato può allora correre a comunicare la notizia alla madre, il cui commento è fin troppo scontato: “la Provvidenza”. Per poi recarsi entrambi a cena dalla zia: ove Silvano, vedendo per la prima volta la sua bellona senza il velo, può finalmente valutarne appieno le prorompenti grazie.

Terminato il pasto, si recita il rosario, con Sara – anch’essa pienamente partecipe dell’assidua catechesi caratterizzante la famiglia – che non manca di sottolinearne le affinità con la preghiera islamica. Allo scindersi del quartetto, ci si ritrova tutti più felici: le due donne destinate a convivere trovando l’una nell’altra compagnia, conforto e sostegno; ma anche mamma e figliolo, avviati verso un nuovo rapporto destinato a superare le ombre del passato. Adelina e la sua assistente prendono a passare le giornate collazionando i testi sacri delle rispettive religioni; mentre Silvano “entra in uno stato di grazia: entusiasmo sul lavoro, condivisione attiva nella gestione del negozio, attesa speranzosa nell’incontrare Sara e frequentare la zia, presso la quale ora si recano ogni sera” a degustare i piatti tipici marocchini, la cui verdura è garanzia di salute per tutti.

Ad approfittare della cucina nordafricana è allora anche il parroco, intervenendo al pranzo domenicale: ancora un confronto interreligioso, con Sara che perfettamente calata nel proprio ruolo assume sempre più le sembianze di una teologa, per la soddisfazione di Adelina. Ma la carne è debole, e Silvano ha voglia di passare dalle parole ai fatti, facendolo notare alla concupita: “Da quando sei arrivata non siamo mai stati insieme da soli – La volontà di Allah”, l’elusiva risposta. Sorbitosi il racconto delle peripezie che hanno portato la vedovella in Trentino, il giovane si deve accontentare di un casto bacio sulla guancia; sufficiente tuttavia a fargli comprendere che con lei “non vuole un’avventura, ma una vera storia d’amore: magari costruire una famiglia”. L’extracomunitaria però non è in regola con il permesso di soggiorno, non potendo di conseguenza essere assunta regolarmente e avendo dinanzi a sé due alternative: un lungo iter burocratico, attivabile solo rientrando in Marocco; il matrimonio con un cittadino italiano.

Rimandando ad un secondo momento la celebrazione religiosa – necessitante dell’autorizzazione diocesana – d’intesa con l’amata Silvano avvia il procedimento per il matrimonio civile, mentre la sensuale vicinanza all’astemio Allah lo porta ad abbandonare il suo Bacco, per la gioia della madre. La frequentazione tra i promessi sposi procede su un doppio binario: da una parte il moralismo rappresentato dal paravento delle ricorrenti comparazioni religiose; dall’altra il desiderio carnale suscitato dai baci “astutamente dati sull’orecchio” dalla sveglia musulmana a “far arrapare Silvano”. Fino alla pagina – a metà fra una novella del Boccaccio e un pezzo degli Squallor – in cui la pruriginosa donna saluta l’erezione sfoggiata dal fidanzato come uno “spettacolo mai visto”, avendo sino ad allora conosciuto solo falli circoncisi; per poi concederglisi in un’“estasi d’amore” resa ancor più voluttuosa dal fatto che prima di attraversare il Mediterraneo l’ardente odalisca di Marrakech, nel timore di possibili violenze, si è premunita contro l’eventualità di gravidanze indesiderate.

Nel frattempo le condizioni di Adelina si aggravano, proprio in coincidenza con l’arrivo in paese del fratello missionario: personaggio che in una famiglia del genere non poteva del resto mancare. Pure la dipartita della matriarca offre a Sara l’occasione per pontificare sui riti sepolcrali islamici; e ad officiare le esequie della sorella è proprio padre Giovanni, tenendovi un sermone nel quale ne celebra l’ecumenismo come teso a “conoscere e condividere ciò che unisce e non ciò che divide rispetto a tutte le altre religioni”.

Forte della propria consolidata esperienza terzomondista, il sacerdote ha parole di critica nei confronti dei costumi affermatisi nel mondo più evoluto: “In occidente e in Italia sembra di moda l’abbandono della religione tradizionale cristiana, e vi è anche chi deride i musulmani perché seguono le loro tradizioni. Poi si osservano schiere di persone che si recano allo stadio come se andassero a un rito religioso; ma ancora più curioso è l’affluire in massa nei centri commerciali come se fossero un luogo di culto del benessere: niente di strano in ciò, perché ‘religione’ significa proprio legame stretto e affettivo con qualcosa o con qualcuno. C’è da chiedersi se la nostra civiltà sia così progredita, vista la sua ossessiva dipendenza dal consumo, oppure se sia opportuna una riflessione che ci porti a considerare con attenzione le relazioni umane e il confronto creativo tra le varie espressioni di vita sociale e religiosa”.

A proposito poi del celebre aforisma marxiano per cui “la religione è l’oppio del popolo”, il moderno missionario non si ferma alla prevalente interpretazione negativa, proponendone una assai più ampia e propositiva. “Per vivere siamo continuamente spinti a legarci a qualcosa, per cui anche le manifestazioni rituali, folkloristiche, di costume o legate alle tradizioni popolari diventano un momento vitale con ciò che ci circonda: manifestazioni religiose, credenze in un Dio, fascino verso il mondo circostante con la sua luminosa offerta commerciale, nell’avventura, nelle proprie capacità, nella società e nell’amore: la relazione è come l’aria che si respira. L’assioma di Marx viene così a illuminare ogni nostro comportamento relazionale, che trova nella religio un balsamo di cui l’uomo non può fare a meno, in qualsiasi modo questa religio si manifesti: un oppio balsamico. Niente di più efficacemente espressivo per marcare la piacevolezza della comunicazione. È l’eterno connubio tra due esseri che si incontrano, nella conoscenza si legano, dalla conoscenza nasce l’amore”.

Così dalle ceneri di Adelina e passando per il teorico del materialismo comunista si ha anche un’implicita benedizione per i due protagonisti del racconto: “Sembrava che l’omelia fosse rivolta a Silvano e alla sua famiglia, che avevano accolto in casa un’infedele per la tradizione, ma una donna dinamica per la fede”. Alla quale viene consentito di abitare la dimora appartenuta alla defunta, ricevendovi il fidanzato che viene però mandato in bianco per il Ramadan, “momento di attesa e di astinenza” che Sara propone di impiegare in opere di carità. Per nulla entusiasta la reazione del voglioso giovanotto, dinanzi al quale si profila un mese in cui dovrà arrangiarsi da solo: “Silvano sbuffò, prese la sua giacca e tornò dalla madre”. Purtroppo l’obbligo religioso impone alla musulmana il sacrificio di un capretto, e il succube fidanzato si adegua anche a questa crudele usanza, procurandole la vittima sacrificale; la quale però nottetempo se la svigna, lasciando Sara con un palmo di naso.

Rivelandosi le pastoie burocratiche più complicate del previsto e superato dalla donna il pregiudizio legato al culto cristiano delle immagini sacre, è proprio lei a proporre a Silvano di sposarsi in chiesa secondo il rito cattolico, allo scopo di facilitare le cose e potendo peraltro contare sull’influenza dello zio prete. Nel trionfo del provincialismo più gretto, sulla “rivoluzione sociologica in atto” il paese intanto si divide: “chi a favore e chi contro, anche nella constatazione che Silvano era pur sempre un buon partito per le ragazze del luogo, che se lo lasciavano scappare per la scelta di una straniera e per di più marocchina”. Uniti in matrimonio da padre Giovanni, gli “sposi profeti” avranno due figli, con la descrizione di scenette di vita familiare che insistono ancora una volta su note di tipo voyeuristico.

L’impressione è che, dopo avere dato il meglio negli ultimi lavori, creativi e spumeggianti, Leoni si sia qui un po’ ripiegato su sé stesso, riproponendo i limiti degli esordi. La rimpatriata letteraria per le valli trentine della sua giovinezza avrebbe dunque voluto essere l’occasione per un saggio sull’integrazione religiosa, sottolineando l’emancipazione delle famiglie sue conterranee più aperte, strizzando l’occhio all’attualità immigratoria e globalizzante ed esaltando la potenza salvifica e rigeneratrice dell’amore, specie se vissuto in una prospettiva di fede. Quel che viene fuori è invece un pistolotto tendente a celebrare acriticamente luoghi comuni del filone “buonista” e “politicamente corretto”, in cui protagonisti e situazioni appaiono sovente fuori misura, eccessivi: sostanzialmente poco credibili.

Anche gli aspetti più licenziosi e lascivi – sui quali sarebbe forse stato più sobrio ed elegante sorvolare, lasciandoli all’immaginazione di chi legge – vengono puntualmente descritti fin nei minimi dettagli. Cadute di stile, comicità involontarie, citazioni compiaciute di autori di successo, insistenza su notizie con cui si tenta di supplire all’aridità narrativa con il riportare vicende storiche che il lettore – se interessato – potrebbe tranquillamente approfondire in wikipedia fanno il resto. Fra tante figure bacchettone eppure fortemente peccatrici (in pensieri, parole, opere ed omissioni), si salva il personaggio di padre Giovanni, che ha dedicato la vita all’amore per il prossimo ma senza perdere quel briciolo d’ironia senza il quale l’attuazione del Vangelo nella vita di tutti i giorni diviene impossibile.

Nel medesimo anno grazie alla sua fama di scrittore e saggista Leoni viene ingaggiato dall’ex poliziotto carrarino Andrea Vinchesi per stendere a quattro mani il saggio Una storia di libertà. Vinchesi faceva parte dell’operazione di polizia scattata all’alba del 22 ottobre 1975 e finalizzata all’arresto di due malviventi versiliesi ricercati per rapine a banche e uffici postali, ma risoltasi in un massacro: la strage di Querceta, che vide l’uccisione di tre agenti e con un quarto gravemente ferito. Allertati dall’arrivo delle camionette i criminali accolsero infatti i poliziotti a raffiche di mitra; per poi sfruttare al meglio la temperie degli “anni di piombo” – a cominciare dalle pratiche del Soccorso Rosso – dichiarandosi prigionieri politici: quando la matrice eversiva del loro gesto era tutta da dimostrare.

Condannati all’ergastolo per omicidio volontario, pur non pentendosi i due sedicenti terroristi si dissociarono dalla lotta armata, potendo in ogni caso beneficiare degli sconti di pena previsti dalla legge Gozzini: dopo la riduzione del carcere a vita a 30 anni di detenzione, grazie ad abbuoni, sconti e permessi i due assassini riuscirono in pratica a limitare il periodo di permanenza nelle patrie galere a quello che in un paese normale essi avrebbero dovuto scontare per le sole rapine commesse. Insomma un classico esempio di malagiustizia, tutto italiano, con il crisma di leggi e sentenze dello Stato e nel massimo spregio della memoria delle vittime, onorate di una medaglia d’oro che risultava a quel punto oltremodo beffarda.

Il titolo del saggio si riferisce alla successiva esperienza del Vinchesi, rimasto pressoché illeso nel cruento episodio ma la cui psiche ha subito un trauma indelebile, al punto di dover lasciare la polizia. Insignito anch’egli di medaglia d’oro, il carrarino ha successivamente intrapreso varie attività, dalla politica all’imprenditoria, divenendo un protagonista della vita sociale apuana e facendosi conoscere anche all’estero: di tale sua “seconda vita” il libro intende essere il documentato resoconto, ma finendo con l’assumere le sembianze di una celebrativa bacheca.

I due autori hanno sicuramente il merito di avere riportato d’attualità un fatto dimenticato del cuore di quel periodo così tragico della nostra storia di cui si tende a ricordare solo i fatti più eclatanti, con gli ex terroristi purtroppo di volta in volta celebrati come conferenzieri universitari, commentatori politici, opinionisti televisivi, scrittori di successo. Da un lavoro del genere ci saremmo aspettati anzitutto un approfondimento del clima di quegli anni: del perché le forze di polizia venissero mandate allo sbaraglio da uno Stato inefficiente, colluso e corrotto; del motivo per cui la politica non sapesse andare oltre dichiarazioni e commemorazioni; della logica che ha fatto sì che chi aveva insanguinato quel decennio seminando morte e dolore in centinaia di famiglie non abbia adeguatamente pagato. Tantopiù che l’episodio in questione vi viene presentato come uno snodo cruciale nell’ambito della “strategia della tensione”: senza però produrre uno straccio di prova in tal senso.

Al contrario, il saggio finisce con il privilegiare aspetti marginali e insignificanti, non trovando di meglio che riportare gli atti parlamentari relativi alla strage: sicuramente il luogo meno indicato ove andare a cercare la verità. Insomma un’occasione perduta per fare chiarezza su uno degli infiniti “misteri d’Italia”. Peccato.

La narrativa di Corrado Leoniultima modifica: 2019-04-10T20:42:35+02:00da tradersimo
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