La Cima Coppi

Lello aveva cominciato a pedalare da bambino, su una biciclettina blu con le rotelle; da ragazzino aveva avuto una bici celeste, con le figurine dei suoi calciatori preferiti attaccate sulla canna. La passione era divenuta sportiva allorché, a 15 anni, il padre gli aveva regalato una prestigiosa Colnago da corsa, verde oliva, con doppia moltiplica e cinque rocchetti. Da allora le varie  salite della montagna pistoiese lo avevano visto spesso protagonista. In seguito però le vicissitudini della vita adulta lo avevano allontanato dalle due ruote, portandolo a dedicarsi prevalentemente al nuoto e al trekking; finché il caso non aveva determinato il suo ritorno alle origini.

Dovendo convertire i punti della benzina in un “premio”, egli aveva optato per una mountain bike, così in voga all’inizio degli anni Duemila: abitando adesso lungo l’antica Via Francigena e in prossimità del Padule di Fucecchio, aveva pensato di andare a pedalare su quei percorsi già conosciuti a piedi. Ben presto, però, si era accorto che tale variante ciclistica non era in grado di regalargli le antiche emozioni della bici da corsa; alla quale si era perciò riconvertito, dedicandole i tre mesi primaverili e concentrandosi su percorsi sia lucchesi che valdarnesi.

Ne era così venuta fuori una tabella di allenamenti quasi professionale, che cominciava ad aprile con pedalate brevi e pianeggianti per affrontare progressivamente le montagne sino a sfidare, a fine giugno, San Pellegrino in Alpe e Abetone, insieme! Un giro massacrante, cui in seguito aveva però deciso di rinunciare: sia per l’eccessivo tempo richiesto, che proprio nelle giornate più lunghe dell’anno lo portava a terminarlo a buio; sia per la pericolosità dell’interminabile discesa finale su Bagni di Lucca, affrontata allorché energie e lucidità erano ormai ridotte al lumicino; sia perché fondamentalmente in contrasto con la sua disposizione sportiva che voleva essere quella del “cicloturista” che pedala per diletto. Il definitivo abbandono di quel temerario percorso era avvenuto l’anno che, dopo avere sollevato a fatica il cofano della bauliera, si era reso conto di non avere nelle braccia la forza sufficiente a caricare la bici.

A determinare il salto di qualità del suo impegno ciclistico era stato il dottorato di ricerca svolto all’università di Trento: da un giovane collega aveva infatti appreso dell’esistenza della “Sellaronda bike”, l’annuale pedalata dolomitica attraverso i passi Sella, Gardena, Campolongo e Pordoi, resa ancor più appassionante dalla chiusura delle strade agli autoveicoli. Ai suoi dubbi circa l’eccessiva difficoltà di quella maratona il compagno di studi e di passione aveva ribattuto che, da qualunque passo si iniziasse, ci si sarebbe ritrovati le salite successive più o meno in quota. E così per Lello era cominciata una nuova avventura sportiva; fra l’altro, cadendo quell’appuntamento verso la fine di giugno, esso sarebbe venuto a costituire la prestigiosa chiusura della sua stagione ciclistica.

Prese alla lettera le parole dell’amico, senza avere fatto alcuna ricognizione preventiva e non curandosi delle previsioni meteo, il debutto dolomitico vide Lello andare all’arrembaggio, e pagare di conseguenza un duro scotto all’inesperienza. Affrontato con eccessivo ardore il Passo Sella sotto una pioggia battente, e lasciatevi la gran parte delle sue energie, all’inizio della salita del Pordoi – rivelatasi per niente “in quota” rispetto alle altre, venendo affrontata dopo una lunga discesa – il nostro dové gettare la spugna. Il naufragio ebbe anche dei risvolti comici: perché essendo completamente inesperto del territorio attraversato egli chiese a dei ciclisti locali se esistesse in alternativa una strada di fondovalle che lo riportasse a Canazei, in modo da poter proseguire la discesa: ricevendo risposta negativa quanto divertita. Non gli rimase perciò che farsi ingloriosamente il Pordoi a piedi.

Nonostante tale fallimento, egli decise di onorare il programma che si era fatto: che prevedeva, due giorni più tardi, la sfida al Passo dello Stelvio, la mitica montagna di Fausto Coppi. Trovata anche in questo caso una giornata piovosa, a metà salita sentì che le forze erano esaurite; non gli rimase perciò che rigirarsi, per fare mestamente ritorno a Prato Stelvio. Poco prima che abbandonasse, vedendolo arrancare un giovane ciclista nel superarlo gli disse che i rapporti montati non andavano bene.

Quella prima spedizione alpina gli aveva insegnato la necessità di consultare il meteo prima di partire: perché la data della Sellaronda viene fissata da un anno a un altro, e la prova disputata anche sotto un’eventuale tormenta di neve. Il tentativo successivo lo vide così muoversi solo dopo avere guardato le previsioni; per portare a compimento la sua fatica dolomitica in sella, con enorme soddisfazione anche in quanto reduce da un infarto invernale. Ma lo Stelvio gli disse nuovamente di no: fatto qualche chilometro in più, egli dové gettare per la seconda volta la spugna.

Alla nuova delusione seguirono lunghi anni di studio, modifiche, perfezionamenti. Per prima cosa, allungò di un mese la tabella degli allenamenti, includendovi anche marzo: mese che da qualche anno aveva assunto caratteristiche ormai completamente primaverili, quando non addirittura estive. Per fare fiato, riprese a frequentare la piscina nel periodo immediatamente precedente l’inizio degli allenamenti ciclistici, fino a nuotare ininterrottamente per due ore di fila. Cambiò inoltre più volte la bici, personalizzandone i rapporti nella speranza di trovare finalmente quelli giusti ma mantenendo sempre i puntali della vecchia Colnago, in modo da pedalare con le amate scarpe da ginnastica e senza doversi riconvertire ai tacchetti.

L’anticipare l’inizio degli allenamenti di un mese comportò ovviamente una maggiore caratterizzazione della progressione delle difficoltà, con marzo praticamente dedicato a “fare la gamba” in pianura, aprile che vedeva affrontarlo le prime asperità, maggio che univa all’allungamento delle tappe salite più impegnative, e un giugno denso di “maratone” sempre più dure il cui superamento veniva a rappresentare un ideale “pass” per lo Stelvio. Il San Pellegrino in Alpe era rimasto, ma da solo: su da Pieve Fosciana e ritorno dal Passo delle Radici. Ma ogni volta che giungeva a quei maledetti due chilometri finali, prima o poi il piede andava a terra; per cui a un certo momento decise di invertire in giro, anche per evitare che su quei terribili tornanti gli scoppiasse il cuore.

Ma la maratona che chiudeva la tabella rimaneva pur sempre durissima: vialone di Marlia, Mediavalle del Serchio, Bagni di Lucca, Val di Lima, Popiglio, Piteglio, Prunetta e quindi la lunga, ondulata e per nulla facile discesa verso la Valdinievole, con ancora una dozzina di chilometri pianeggianti per venire a casa da Borgo a Buggiano. Insomma una giornata interamente dedicata alla bici, su un percorso che, se certo non poteva essere paragonato allo Stelvio, metteva comunque a dura prova la sua resistenza (oltre che il suo “soprasella”, come lo chiamava De Zan), dimostrando se fosse pronto o meno per la grande sfida.

Ma nonostante tutti questi sforzi e attenzioni, il risultato continuava ad essere lo stesso: magari fatto qualche tornante in più, fatidico arrivava il momento in cui il piede veniva poggiato a terra. Siccome però tornando in giù si accorgeva di quanta salita aveva già fatto, e gli piangeva il cuore, a un certo momento prese a raggiungere comunque la cima a piedi, rimontando in sella solo allorché giungeva al tornante ove era appostato il fotografo. Ovviamente un ciclista che sale appiedato si presta anche agli sfottò di chi lo supera pedalando; ma lui non vi rinunciava, perché l’ebbrezza di ritornare in Val Venosta passando dalla Svizzera gli attutiva in qualche modo la delusione dell’ennesimo fallimento. I tentativi andati a vuoto si succedettero un anno dietro l’altro, tanto da indurlo a pensare di rinunciare definitivamente all’impresa: anche perché, vedendo nel salire un’infinità di contenitori di prodotti dopanti ai margini della strada, e non intendendo derogare alla propria natura di sportivo “puro”, si convinse che, alla sua età, senza l’aiuto della chimica non ce l’avrebbe fatta mai.

Ma il destino a volte è strano. Ritornato a Prato Stelvio, e rifocillatosi, Lello volle mettersi alle spalle la nuova sconfitta patita salendo in macchina al Passo Resia: località che lo aveva conquistato sia perché vicina alla sorgente dell’Adige, sia perché straziata dallo Stato italiano, che nel 1950 aveva spazzato via un delizioso villaggio agro-pastorale medievale per far posto a un lago artificiale, facendo così fortemente rimpiangere agli abitanti la vecchia amministrazione austriaca, che mai avrebbe compiuto uno scempio del genere. La cosa strana fu che una volta giunto al passo, invece di salire alla sorgente o di andarsi a rivedere le vecchie foto del paese nell’apposita galleria, gli venne voglia di farsi una pedalata attorno al lago: perché aveva la bici ancora nell’auto.

La qual cosa gli provocò una sorta di autoanalisi: perché gli pareva strano che sfinito e abbacchiato com’era volesse ora rimontare in sella, poche ore dopo l’ennesimo fallimento stagionale. Continuando a riflettere, si concentrò sul fatto che non appena rientrato in paese aveva mangiato: e ripensò a quanti corridori – anche illustri campioni – fossero finiti nella polvere nelle tappe più impegnative del Giro d’Italia a causa di repentine “crisi di fame”, annunciate ed enfatizzate dai telecronisti. Donde l’illuminazione decisiva: da sempre Lello aveva delle abitudini alimentari tutte particolari, che lo portavano a saltare sia la colazione che il pranzo per puntare direttamente sulla cena. Consuetudini che venivano ovviamente stravolte in occasione delle sue imprese sportive: rientrando dall’allenamento mattutino affamato come un lupo, egli non poteva attendere la sera per mangiare, giungendo anche a ingaggiare nei chilometri finali autentiche cronometro per giungere alla trattoria prima che chiudesse. Mentre con l’esplosione della calura avendo il sangue caldo e quindi non sopportando le temperature eccessive egli aveva bisogno per portare a termine la fatica ciclistica di trangugiare vaschette di gelato e bibite ghiacciate.

Ecco dunque finalmente spiegato il puntuale fallimento sullo Stelvio, anche al termine di stagioni esaltanti. La “Cima Coppi” rappresentava un cimento assolutamente imparagonabile alle asperità affrontate in Toscana: per lunghezza, dislivello altimetrico, condizioni climatiche. Perché non avendo più quale principale obiettivo la Sellaronda il nostro approssimandosi la fine della tabella degli allenamenti aveva preso a consultare il meteo scrupolosamente, in modo da piombare ai piedi delle Alpi allorché arrivava il caldo: ed essendosi reso conto che lassù il passaggio del testimone fra inverno ed estate era il più repentino, con arrampicate fatte tra due muri di neve (caduta magari fino al giorno prima) e sotto il sole più cocente. Insomma la sua “macchina” non era mai riuscita a conquistare la vetta non per problemi al motore – come aveva sempre pensato – ma perché ad un certo punto finiva la benzina. Questo gli aveva fatto capire quell’escursione turistica al Passo Resia.

Passarono due anni senza che – per impedimenti dovuti una volta al meteo, un’altra a suoi impegni – ritornasse in Alto Adige, chiudendo così la sua stagione ciclistica con la ormai classica “maratona appenninica”. L’anno successivo, nel fare la tradizionale sgambata di inizio stagione sul litorale della Versilia egli fu investito da un automobilista distratto che usciva dal parcheggio di un bagno; fra l’altro l’impatto avvenne sulla pista ciclabile, che lui in vita sua non aveva mai preso, preferendo tirar dritto per la carreggiata stradale e lasciare quella corsia alle biciclette normali. Lello ebbe il tempo di accorgersi che quello non l’aveva visto, per cui accelerò per evitare la collisione; ciononostante, l’autovettura venne a impattare nella ruota posteriore della bici, deformandola. Pur contrariato, il nostro decise di tenere un comportamento amichevole, venendo incontro alle richieste dell’investitore che non intendeva passare attraverso l’assicurazione, preferendo pagare direttamente lui il costo della riparazione presso un biciclettaio del posto.

Essendo ora di pranzo, i due si portarono in un bar, in attesa della riapertura delle botteghe. Lello aveva notato che a Lido di Camaiore erano diversi negozi di biciclette, ma uno solo dei quali specializzato in quelle da corsa: ed era a questo che egli avrebbe voluto affidare il suo prezioso velocipede. Senonché la cameriera li informò che il primo ad aprire sarebbe stato un altro, specializzato più che altro in bici a nolo: e fu a quest’ultimo che l’investitore propose di lasciare la bici incidentata, allo scopo di guadagnare tempo. Lello acconsentì anche a questo: l’altro si era infatti impegnato a riportarlo alla macchina, lasciata a Marina di Massa. Insomma tutto un compromesso, a venir fuori da una situazione di cui egli non aveva alcuna colpa ma che nemmeno voleva complicare, visto sia che non si era fatto niente sia la bonarietà dell’investitore.

Ma i tempi per la riparazione si allungarono: la ruota nuova non era disponibile in Toscana, doveva arrivare direttamente dalla ditta veneta che la produceva. Per non perdere gli allenamenti, Lello si rivolse allora ai suoi biciclettai di fiducia, che nel rimproverarlo per l’eccessiva disponibilità nei confronti dell’investitore gli noleggiarono una splendida Bianchi usata, costosissima: la marca della bici di Coppi e del suo antico idolo Gimondi, storica rivale della Colnago. Al danno patito si aggiunsero così nuove spese; ma il gusto di pedalare su quella bici supersonica non aveva prezzo. Rientrato finalmente in possesso della propria, la tabella prevedeva che andasse ad affrontare la salita di Volterra: sulle cui rampe più dure la fatica divenne immane, e la pedalata impossibile. Incredulo, preoccupato di essere ritornato indietro nella preparazione ma al tempo stesso insospettito, egli si recò dai suoi meccanici: i quali gli confermarono la sua intuizione che l’attuale gruppo di rocchetti non era quello che gli avevano montato loro – e finalizzato proprio alle scalate più dure – invitandolo a chiedere una buona volta un congruo risarcimento a chi gli aveva procurato tutti quei danni.

Ma Lello non era il tipo da ritornare sui propri passi: quella vicenda ormai era andata così, era chiusa. Piuttosto chiese agli amici il costo di quella Bianchi che gli avevano noleggiato: roba da professionisti. Domandò allora se disponessero di una soluzione di ripiego, per fare l’ennesimo acquisto con “rottamazione”: perché era sempre a loro che si era rivolto, negli anni, al momento di cambiare la bici. Come d’incanto, dal magazzino venne fuori una elegantissima Colnago nera, con dieci rocchetti e cambio sul manubrio: fu amore a prima vista, anche per i cari ricordi evocati da quel marchio. Lello spiegò per l’ennesima volta la necessità di poter disporre di rapporti leggeri; il meccanico gli rispose che gli avrebbe risolto definitivamente il problema montandogli davanti una tripla moltiplica, in modo da consentirgli la stessa agilità di pedale della mountain bike. La bici era assai professionale, moderna, leggera: ma non di ultima generazione. Il fatto che fosse cliente da una vita, il tener conto anche dei soldi versati per il noleggio della Bianchi, la supervalutazione dell’usato, la predisposizione di Lello agli affari fece sì che egli si portasse a casa il gioiello a un prezzo più che vantaggioso.

Si era ormai a maggio, in piena sfida alle salite sempre più dure, quando una rovinosa caduta rischiò di mandare tutto in fumo. Al termine della discesa delle Pizzorne, nella zona delle Ville Lucchesi, una macchina gli tagliò la strada costringendolo a frenare bruscamente: complice l’asfalto sporco egli si ritrovò così per la prima volta per terra, a 56 anni. La botta era stata tremenda, coinvolgendo tutto il fianco sinistro; eppure, nonostante le grosse ammaccature riportate, non si era rotto niente: un miracolo. Il dolore non gli impedì di tornare a casa in bici; per poi proseguire regolarmente nelle sue scalate, delle quali veniva regolarmente a capo e in una maniera che gli pareva più facile rispetto agli anni precedenti. Fino a prendere la grande decisione, dopo averci riflettuto a lungo: quest’anno avrebbe ritentato il San Pellegrino. Ciò nonostante l’ultima volta avesse segnato sulla tabella “MAI PIÙ”, anche a seguito dello spavento provato nell’avvertire l’accenno di una nuova crisi cardiaca, intervenuta proprio al momento del massimo sforzo.

Il suo coraggio venne premiato: nell’approcciare la prima pettata del tratto più duro, alzandosi sui pedali e spostando il corpo in avanti per bilanciare l’effetto ribaltamento, l’intensità di pedalata garantitagli dalla piccola moltiplica gli consentì di superare il tremendo muro. Presa fiducia, scavalcò anche la rampa successiva, non facendosi affossare neppure dai terribili tornanti che immettono in paese e tirando dritto per il Passo di Pradaccio, per gli ultimi due chilometri di ascesa non certo allucinanti come i precedenti ma che a quel punto pesano anch’essi eccome sulle gambe. Nello scollinare al colmo dell’euforia per imboccare la discesa delle Radici, si disse: “Vuoi vedere che quest’anno domiamo pure lo Stelvio…”.

Venne il gran giorno: il “big wednesday” della situazione, che il destino volle far coincidere con il solstizio d’estate. Presa come sempre la camera a Lasa, pagò la sua cronica inadattabilità al nuovo letto passando la notte in bianco; ogni tanto – non avendo con sé l’orologio – accendeva la tv per vedere che ora fosse: ma gli pareva sbagliata, perché fuori c’era già troppa luce. Inoltre, alle 5.30 suonò la sirena di una fabbrica vicina: “cominciano presto a lavorare questi tedeschi”, si disse; ma rimase a letto, in attesa di un sonno che proprio non voleva arrivare. Alle 9 si risolse a prendere una decisione: andiamo via e proviamoci lo stesso, che tanto qua non si dorme. Una volta in macchina dové tuttavia constatare non essere le 9 bensì le 11: la sua intuizione sull’orario sbagliato era dunque stata giusta. Pensò che ai fini dell’arrampicata cambiava poco: la sera prima cenando a Prato Stelvio aveva notato di come vi fosse luce fino a tarda ora. Invece cambiava eccome: il sole già alto lo accecava, tormentando gli occhi che come sempre pagavano un duro pedaggio al mancato riposo. Era insomma come stravolto, allucinato; svuotato di energie, ancor prima di cominciare.

Di pessimo umore lasciò la macchina all’inizio del paese, iniziando a pedalare mestamente verso la salita che in 23,3 km porta dai 915 m di Prato ai 2758 del Passo. Immediatamente il sole lo prese sotto tiro per cominciare a cuocerlo; una coppia di anziani, che in precedenza aveva visto prepararsi avendo lasciato la macchina più avanti rispetto a lui, lo passò in tromba. A quel punto il proposito di rinunciare si fece più pressante: perché era chiaro che il fato aveva scelto per l’impresa della vita una giornata eccezionalmente calda. Pensò che avrebbe potuto rimandare al giorno dopo, sperando la notte di dormire, che il tempo fosse più clemente e magari partendo prima. Tantopiù che della Sellaronda in programma due giorni più tardi non gl’importava niente: lui era venuto fin quassù solamente per lanciare quella che sarebbe comunque rimasta come la sua ultima sfida allo Stelvio.

Tutto stava andando nel peggiore dei modi; ma per quanto le gambe non girassero, l’orgoglio gli impose almeno di provarci. Si disse che anche nei suoi allenamenti all’inizio pareva sempre svogliato, quasi pentito di non essersene rimasto a letto: poi però iniziava a carburare. Solo che qui era subito salita, e impegnativa; che diventava proibitiva in quelle condizioni psico-fisiche ed essendo costantemente esposto al sole. In un bagno di sudore continuò tuttavia a pedalare, nella speranza di riprendersi dopo avere pranzato al ristorante dell’albergo di Gustav Thöni, a Trafoi: l’ultimo posto utile, dal momento che dopo non avrebbe trovato più alcun tipo di ristoro, fino al Passo. Lì avrebbe deciso il da farsi; quando però lesse che al punto-tappa mancavano ancora tre chilometri, la tentazione di rinunciare fin da adesso fu fortissima; qualcosa lo spinse tuttavia ad andare avanti.

In quelle condizioni, senza trovare un metro d’ombra arrancò fino al tunnel che precede Trafoi: ove gli giunse un altro segnale. Gli pareva di ricordare che i tornanti iniziassero dopo il paese: e invece, ancor prima, avvistò il cartello che segnalava il 48°. Perché lo Stelvio ha anche questo di unico: che i gradini di quella mitica scalinata sono numerati alla rovescia. “Sono già ai tornanti – si disse – a questo punto sono obbligato a provarci”. In qualche modo si strascicò fino all’albergo, malauguratamente collocato in cima al paese; sistemata la bicicletta nel giardino, si ricordò di quanto consigliatogli una volta da un suo amico che aveva corso nei dilettanti, al quale aveva raccontato la disperazione provata tempo prima nel rendersi conto di aver affrontato un giro troppo lungo, avendo terminato le energie allorché a tornare a casa mancavano oltre 50 chilometri: “Una bella lattina di coca cola, e riparti”.

Ora la coca cola era stata la bevanda giovanile di Lello per eccellenza; da diversi decenni però l’aveva abbandonata, avendo compreso essere la causa principale della sua cronica insonnia. Ma adesso era l’unica maniera per riprendersi e far ripartire tutto l’organismo, ancora come inebetito: se ne fece perciò portare una bottiglia da un litro e mezzo, ovviamente accompagnata da un secchiello di ghiaccio. Quando si slacciò la giacchetta, vide che era letteralmente inzuppata di sudore, per quanto sin dal via l’avesse allacciata alla vita e procedendo a torso nudo. Una cosa che in tanti anni di bici non gli era mai successa: anche perché quando le giornate erano annunciate calde non si portava certo dietro la giacchetta, a costo di patire un po’ di freddo all’inizio. A testimonianza di quanto avesse sofferto in quella massacrante prima ora di salita – e in maniera così imprevista – non appena ebbe tra le mani la bottigliona ne ingurgitò i tre quarti.

L’albergo era situato in corrispondenza del 46° tornante, il cui cartello riportava anche l’indicazione dell’altitudine: 1533 m. Riflettendo sulla quota già raggiunta, Lello pensò che il dislivello che lo separava dalla vetta era più o meno lo stesso di quando saliva al Cerreto, o al Pradaccio; solo che qui i chilometri da percorrere erano assai meno. Inoltre, mentre quelle salite alternavano a rampe e tornanti tratti in pianura – se non addirittura in discesa – qua era tutto un susseguirsi di tornanti che non consentivano mai di rifiatare; una situazione semmai più simile a quella del San Pellegrino: che in queste condizioni non si sarebbe neppure sognato di affrontare. Senza contare che in quelle occasioni partiva fresco, riposato e dai piedi della montagna; quando oggi non aveva dormito, e per arrivare fino lì aveva dovuto sputare sangue.

A un certo momento il sole si oscurò: Lello allora guardò in alto, verso i ghiacciai eterni. Era a mangiare in giardino, e gli prese freddo: ma la giacchetta era ancora bagnata, per cui rinunciò a indossarla; quando però il freddo aumentò, se la mise lo stesso. Uscì dal ristorante un po’ più ottimista di quando vi era entrato, ma senza farsi illusioni; mentre il giorno prima avrebbe puntato  volentieri su di sé, ora non avrebbe scommesso neppure un centesimo.

Nell’uscire dal parcheggio dell’albergo vide una coppia di ciclisti che affrontava il tornante, per cui si tenne largo per farli sfilare all’interno: l’uomo un po’ più anziano di lui, la donna circa della sua età. Questa coppia si sarebbe rivelata decisiva per tutto il resto del percorso: Lello se li sarebbe ritrovati fermi più avanti, seduti sul muretto di un tornante a riprender fiato. Lui passava, e loro dopo un po’ lo ripassavano: era evidente come fossero più o meno nelle sue stesse condizioni, per quanto adottassero una tattica diversa; si fermarono tre volte. Con l’uomo ai vari sorpassi si scambiavano sorrisi d’incoraggiamento; ai tornanti più panoramici egli si fermava anche a riprendere il paesaggio, per poi lestamente ripartire e riportarsi sulla moglie. In una occasione filmò pure Lello: e fu un bel momento, perché significava che ormai erano compagni d’avventura.

Rimontato in sella, Lello aveva immediatamente ripreso a sudare, per cui si era spogliato di nuovo. Poco dopo era venuta giù qualche timida goccia d’acqua: “ma sì”, si era detto, “meglio la pioggia che il caldo torrido”. Senonché immediatamente il sole aveva ripreso a fiammeggiare, implacabile; tuttavia la sua sensazione era che adesso le gambe girassero, e che se fosse dipeso da loro difficilmente avrebbero mollato. Cruciale si rivelò il passaggio dal 24° tornante, metà esatta del percorso tortuoso e donde si ha la spietata panoramica del tratto rimanente: pur essendo stata costruita nel primo Ottocento, la strada pare pensata apposta per sfidare i ciclisti, dal momento che i tornanti si fanno sempre più duri e le rampe che li congiungono più lunghe e ripide. Il sole continuava a picchiare; ma Lello pensò che, essendo ormai abbondantemente sopra i 2000 metri, gli avrebbe dato sempre meno fastidio.

Di lì a poco si trovò a sorpassare un ciclista tutto particolare: un giovane, moro, probabilmente ispano, vestito normalmente e che arrancava in sella a una pittoresca bici da uomo con manubrio da corsa, tutta carica di bagagli. “Se ce la fa lui ce la devo fare anch’io”, pensò istintivamente. Era il suo unico sorpasso della giornata, e non gli faceva certo onore; lungo tutta l’ascesa aveva tuttavia notato i soliti tubetti di gel, disseminati ai margini della strada: “per questo mi passano tutti: qua va a finire che l’unico naturale sono io”, si era detto.

Quando si arriva al 14° tornante, si è ormai nel cuore della montagna e ai piedi della vetta, avendo la visione perfetta della mostruosità del tratto finale. Quello fu il momento decisivo; perché invece di arrendersi, Lello si vide scorrere davanti agli occhi, come in un flash, tutte le montagne sulle quali si allenava da una vita, che gli parve gli dicessero: “Vai: ora tocca a te. Fatti onore e sii degno di noi, che ti abbiamo preparato”. Lì si emozionò; subito dopo sentì come un improvviso afflusso di energia, insperato, da tutte le parti, e che sicuramente gli avevano mandato proprio le sue amate montagne toscane.

Intanto era giunto al 12° tornante: ove, come tre anni prima, era appostato il fotografo; ma le situazioni erano ben diverse. La volta precedente aveva mollato già da un pezzo, saliva a piedi ed era rimontato in sella giusto per farsi immortalare: beffardamente, proprio nel mentre lo sorpassavano due giovani cicliste; quando oggi era ancora nel pieno della battaglia. Quello avrebbe voluto dargli il biglietto che riportava l’orario del passaggio; ma Lello preferì proseguire nello sforzo, gridandogli che avrebbe guardato in internet. “Remember the time!”, si raccomandò allora il fotografo, avendolo evidentemente preso per straniero; “ok”, gli replicò il nostro: ma senza avere idea di che ora fosse. Il sole intanto aveva preso a combattere anche lui contro le nuvole: fino a soccombere. Per quanto Lello continuasse a sudare, si erano finalmente create le condizioni ideali per andar su: era ormai all’altezza dei ghiacciai, e lungo i rivoli d’acqua a monte della strada c’era la neve.

Nell’abbordare i tornanti più duri egli allargava per attutire la botta; mentre alcuni gli concedevano persino un attimo di respiro – dando per qualche istante l’impressione di pedalare in discesa – prima di affrontare il muro successivo. L’8° si rivelò particolarmente tremendo: ma un automobilista che veniva su lo rispettò, attendendo pazientemente che egli si riaccostasse sulla destra. Sopra di lui, al 7°, Lello rivide la coppia, che evidentemente si era fermata di nuovo; stavolta però non fece a tempo a raggiungerli, perché essendogli preso freddo a metà della rampa fu costretto a fermarsi a sua volta per mettersi la giacchetta. Ebbe così modo di gettare lo sguardo sulla cascata di tornanti sottostanti: “pazzesco”, si disse nell’osservarne la fantastica incastellatura.

Al 5° tornante di energie ne erano rimaste più poche; senonché, subito dopo, scorse la segnalazione dell’ultimo chilometro: “ogni prossimo tornante sono 200 metri in meno”, provò a rincuorarsi, “ce la posso fare”. Gli ultimi quattro tornanti sono micidiali: quasi mortali, date le condizioni in cui ci si arriva. Lì mettere il piede a terra diventa puro istinto di sopravvivenza; ma invece di farlo, Lello strinse i denti, dicendosi: “vai su a uno all’ora, che te ne frega”.

Al 1° tornante, due motociclisti fermi sulla piazzola adiacente, e che sicuramente avevano intuito quell’arrancante pedalatore non averne più, lo applaudirono; lui gli sorrise, mandandogli un bacio. Fu un altro momento toccante; perché gli parve che fossero tutti amici: ciclisti, motorizzati, la montagna, i tornanti… Stava per crollare; eppure si tese in un estremo, interminabile sforzo, andando su d’inerzia e a costo di rischiare l’infarto: di lì in poi chi avesse voluto vederlo mettere piede a terra avrebbe dovuto sparargli.

Il traguardo ancora non si vedeva, e ogni alzata di pedale equivaleva a sollevare un macigno; ma quando prima sentì l’odore dei würstel, poi vide gli stand, e capì che era a 100, 50, 30 metri dalla vetta… la fatica come per incanto svanì: era sul Passo. Scollinato, si fermò al cartello che annuncia i 2758 metri della Cima Coppi: affidato un bacio alle dita, lo toccò. Ciò che provò in quel momento, è indescrivibile.

La coppia che lo aveva accompagnato nell’impresa era già intenta ad addentare i panini; lo chiamarono, e si fecero reciprocamente i complimenti, anche per l’età: lui aveva 59 anni. Erano australiani; seduti lì accanto c’erano degli olandesi, molto più giovani: lo festeggiarono anch’essi. In quel momento Lello comprese che lo Stelvio è la salita più celebre e ambita del mondo, e che i ciclisti vengono da ogni dove per conquistarla: la sua soddisfazione, e la sua gioia, si accrebbero ulteriormente.

Quando poi dopo essersi sorteggiato un’altra coca e avere salutato la compagnia rimontò in sella per affrontare la discesa dal versante svizzero, una volta da solo si commosse.

Onorata la Sellaronda, prima di tornare a casa volle sfidare anche le Tre Cime di Lavaredo, andando su da Cortina: zigzagando su quelle tremende pettate sempre più impervie, e lottando contro l’effetto ribaltamento come sul San Pellegrino, riuscì a conquistare anche la montagna che era stata di Merckx.

Sull’onda dell’entusiasmo, l’anno dopo fece suo anche il terribile Mortirolo: la salita di Marco Pantani.

La Cima Coppiultima modifica: 2020-05-07T19:24:40+02:00da tradersimo
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