Moby Prince: l’ultimo mistero d’Italia

Il disastro del Moby Prince può essere considerato come l’ultimo dei “misteri d’Italia” che hanno funestato la storia della cosiddetta “prima repubblica”.

Alle 22.03 di mercoledì 10 aprile 1991 il traghetto, di proprietà della compagnia Navarma, salpa dal porto di Livorno diretto a Olbia, avendo a bordo i 66 componenti l’equipaggio e 75 passeggeri. Superata 10 minuti più tardi la diga della Vegliaia, alle 22.25, allorché si trova a due miglia e mezzo dalla costa, la nave entra in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, appartenente alla società di Stato Snam. Lo scontro apre uno squarcio nella fiancata destra della nave cisterna, dalla quale fuoriescono centinaia di tonnellate di greggio, riversandosi sul Moby Prince; le scintille scaturite dall’impatto provocano inoltre un incendio, che non coinvolge l’equipaggio della petroliera ma causa la morte di quasi tutte le persone a bordo del traghetto: a salvarsi sarà soltanto il mozzo Alessio Bertrand.

La lunga istruttoria condotta dalla Procura di Livorno per omissione di soccorso e omicidio colposo vede il proscioglimento dell’armatore della Navarma, Achille Onorato, e del comandante dell’Agip Abruzzo, Renato Superina. Ad essere rinviati a giudizio sono invece il terzo ufficiale di coperta della petroliera Valentino Rolla, per omicidio colposo plurimo e incendio colposo; il comandante in seconda della Capitaneria di porto di Livorno Angelo Cedro e l’ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, accusati di omicidio colposo plurimo per non avere attivato i soccorsi con tempestività; il marinaio di leva Gianluigi Spartano, imputato per omicidio colposo non avendo trasmesso la richiesta di soccorso ricevuta dal traghetto. Nel procedimento non è coinvolto il comandante della Capitaneria labronica, ammiraglio Sergio Albanese: il quale quella sera non era in sede, trovandosi a La Spezia.

Iniziatosi soltanto nel novembre ‘95, durato due anni e caratterizzato da momenti di forte tensione, il processo di primo grado vede l’assoluzione di tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”. Le cause del disastro vengono individuate nella nebbia, che avrebbe limitato fortemente la visibilità, e nel conseguente errore umano, da addebitarsi al comando del traghetto; il cui radar sarebbe stato per giunta malauguratamente spento.

La nebbia in particolare era stata indicata quale causa dell’incidente fin da subito, alle 3 del mattino dell’11 aprile, dallo stesso Albanese. In sede processuale, tuttavia, essa finirà con l’assumere sembianze diverse: quelle di una sostanza strana, ineffabile e cangiante. Per ovviare alle numerose testimonianze di segno opposto, infatti, nelle motivazioni della sentenza la si definirà volta volta come “fumo”, “vapore”, “nube biancastra”; la quale si sarebbe sprigionata – per cause altrettanto misteriose – dalla stessa petroliera e proprio al momento del transito del Moby.

Nel ‘98 la carcassa del traghetto – rimasta ormeggiata alla banchina del porto dopo essere stata posta sotto sequestro probatorio – affonda; una volta recuperata, viene demolita. L’anno successivo la Corte d’appello di Firenze conferma tutte le assoluzioni tranne quella del Rolla, condannato per non aver attivato a sua volta il radar che, stante la nebbia, avrebbe consentito di individuare la nave passeggeri avvicinarsi alla petroliera in rotta di collisione; su quell’unica, tardiva condanna interviene tuttavia la prescrizione.

Da notare come nelle motivazioni il tribunale di secondo grado rilevi la “sommarietà” dell’inchiesta condotta dalla Capitaneria livornese, “per alcuni versi la più importante perché interviene nell’immediatezza del fatto ed è in qualche modo in grado di indirizzare i successivi accertamenti e di influire sulle stesse indagini penali”, prospettando l’anomalia determinata dalla circostanza che a condurla “possano essere stati alcuni dei possibili responsabili del disastro”. Si noti l’estrema cautela con cui viene mosso il rilievo, utilizzando la forma ipotetica e potenziale. In ogni caso, la Cassazione ratifica.

A fianco del principale ha luogo un secondo, strano procedimento giudiziario, che vede comparire dinanzi al pretore di Livorno un nostromo della Navarma, autoaccusatosi di avere manomesso un pezzo del timone della nave, assieme a un tecnico della stessa compagnia addetto alle manutenzioni. L’accusa è di frode processuale, dettata da finalità assicurative: i due si sarebbero introdotti nel relitto del traghetto allo scopo di modificarne la situazione mediante la manipolazione dell’orientamento della leva del timone, onde addossare l’intera responsabilità della vicenda al comando dello stesso Moby. Pur concordando con l’accusa sulla responsabilità degli imputati, il pretore li assolve per “difetto di punibilità”, con la motivazione che la manomissione da loro effettuata non ha tratto in inganno i periti successivamente saliti a bordo per gli accertamenti e quindi, seppur deprecabile, non è penalmente perseguibile. Per quanto singolare, pure questa sentenza vede la conferma nei due successivi gradi di giudizio.

Nonostante la sostanziale concordanza dei vari tribunali, la sequenza di depistaggi, incongruenze, anomalie, reticenze, omissioni che caratterizzano la complessa vicenda è infinita; ci limiteremo perciò a prendere in considerazione le più significative. La prima riguarda la figura del comandante del traghetto, Ugo Chessa, la cui valentia era unanimemente riconosciuta: non a caso la Navarma aveva affidato a lui uno dei gioielli della propria flotta. Costruito nel ‘67 in Gran Bretagna per una compagnia olandese, il Moby Prince stazzava oltre 6000 tonnellate ed era dotato di quattro motori diesel che gli consentivano una velocità massima di 19 nodi; lungo oltre 130 metri e largo 20, aveva una capacità di carico di 1500 passeggeri e 360 veicoli. Esso era divenuto di proprietà della Navarma nell’86.

Per addossare a Chessa la responsabilità dell’incidente, la sentenza di primo grado gli imputa di non aver saputo gestire la critica situazione determinata dalla nebbia sottovalutandola e confidando eccessivamente in sé stesso: egli si sarebbe fatto prendere la mano proprio dal suo “eccesso di esperienza”. Motivazione che appare alquanto risibile, e in base a una considerazione assai semplice: anche un pescatore nel manovrare il proprio piccolo peschereccio, persino un dilettante con la sua barca domenicale sanno che il momento più delicato della navigazione è proprio quello iniziale dell’uscita dal porto, nel quale occorre prestare la massima attenzione al pericolo rappresentato dalla presenza di altre imbarcazioni. Figurarsi un comandante del valore di Chessa, abituato alla responsabilità di avere a bordo un gran numero di persone.

In realtà l’infamia nei confronti del comando del Moby era iniziata già il giorno successivo la tragedia, allorché da parte dello stesso governo – presieduto da Andreotti – per bocca del ministro della marina mercantile si era parlato di “errore umano”: e per alimentare tale versione i mezzi d’informazione non avevano mancato di dare risalto al fatto che al momento della collisione si stava disputando la semifinale di Coppa delle Coppe Barcellona-Juventus. I responsabili del traghetto sarebbero dunque stati distratti dalla partita, proprio nel momento in cui si era levata quella fantomatica nebbia.

Circostanza quest’ultima smentita – per quanto indirettamente – subito dopo la collisione dallo stesso marconista dell’Agip Abruzzo; il quale, nel segnalare alla Capitaneria di porto di Viareggio (evidentemente l’unica che gli ha risposto) la posizione della petroliera, e non trovando immediata comprensione, dice concitatamente: “Livorno ci vede: ci vede con gli occhi!”. Il significato che vuole avere tale affermazione è evidente: siamo talmente vicini al porto da essere ben visibili da terra a occhio nudo. Ma essa sottintende implicitamente anche il fatto che non vi siano ostacoli atmosferici a impedire tale vista.

L’appellarsi alla nebbia consente di obnubilare – è proprio il caso di dirlo – un elemento tutt’altro che secondario: e cioè la presenza quella sera nella rada livornese di numerose navi militarizzate americane. Si tratta di una circostanza tutto sommato normale, data la vicinanza con la base statunitense di Camp Darby; inoltre, la Guerra del golfo è terminata da poco più di un mese, con un frenetico viavai di uomini, mezzi, attrezzature che interessa in quei giorni la pineta del Tombolo. Eppure, le zone d’ombra sono molteplici.

Con una lettera che porta la data del 15 marzo ‘91, il “Terminal Battaglione Italia” (l’ufficio italiano del Comando traffico militare del Dipartimento della difesa americano) comunica alle nostre autorità un elenco di navi militarizzate che trasportano materiale di proprietà del governo statunitense e destinato alla base pisana, specificando che esse, poste sotto il diretto controllo del Dipartimento militare Usa, sono da considerarsi come “esenti da qualsiasi tassa o visita di controllo a bordo”. Si tratta di tre unità: la Cape Breton, la Efdim Junior e la Gallant II. Dalla lettura del brogliaccio dell’Avvisatore marittimo tali imbarcazioni risultano effettivamente ormeggiate nella rada livornese la sera del 10 aprile; ve ne sono però almeno altre quattro, non segnalate nella medesima informativa ma che risultano anch’esse legate ai trasporti dell’esercito americano: la Cape Syros, la Cape Flattery, la Cape Farewell e la Margaret Lykes.

Benché di notte siano vietate le movimentazioni pericolose, una di queste unità viene notata mentre è impegnata in operazioni di scarico. Il testimone è l’ufficiale della Guardia di finanza Cesare Gentile; il primo ad accorrere sul luogo del disastro, in quanto capitano di corvetta di servizio quella sera. Al processo egli confermerà quanto scritto nel rapporto redatto il giorno successivo: “C’era una giornata chiarissima, e ho constatato la posizione delle varie navi in rada. Ho visto a nord una barca che imbarcava le armi; a nord c’era una nave grossa, illuminata, che era quella che stava facendo il carico delle armi”. Ma la testimonianza scomparirà dagli atti; neppure vi entra, invece, l’annotazione riportata sul registro del Comune di Pisa che segnala l’apertura quella sera del ponte sul canale dei Navicelli: unica via d’acqua per accedere a Camp Darby. Il cui comando si rifiuta peraltro di fornire i tracciati radar delle imbarcazioni legate alla base americana. Tali e tante risultano dunque le anomalie, da far pensare che da parte statunitense si sia inteso coprire un traffico d’armi di natura illecita.

A rafforzare tale sospetto, il fatto che alcune di quelle navi che si trovavano a Livorno utilizzassero nei messaggi radio nomi di copertura. È sicuramente il caso della “Theresa”, dalla quale mezz’ora dopo la collisione viene inviata in lingua inglese questa comunicazione: “Qui è Theresa, a nave uno in rada a Livorno: mi allontano”. Si tratta evidentemente di nomi in codice, dal momento che nessuna unità presente in porto quella sera è registrata né come Theresa, né – ovviamente – come “nave uno”. All’identificazione di quella imbarcazione che si allontana dal luogo del disastro si dedica, su incarico dell’Associazione dei familiari delle vittime, lo Studio Bardazza; il quale, dopo lunghi anni di assidue ricerche, giunge a ipotizzare che possa trattarsi di una delle navi segnalate dal comando americano, e precisamente la Gallant II: la voce registrata sarebbe dunque quella del comandante greco Theodossiu.

A conferma di ciò, nel 2005, nel suo libro Moby Prince: un caso ancora aperto, Enrico Fedrighini pubblica una lettera dello stesso Theodossiu, nella quale si legge: “Dopo aver visto fumo e fiamme, non sapendo se la nave incendiata fosse ferma o in movimento ho deciso di allontanarmi dalla zona per via del mio carico, di origine militare”. Per quanto Theodossiu non spieghi il motivo per cui utilizzasse nomi di copertura, abbiamo l’ammissione che Gallant II-Theresa fosse presente sul luogo e al momento dell’incidente; ma stante l’assenza di indagini in merito da parte della Procura livornese, il suo coinvolgimento nella dinamica dello stesso resta indimostrabile.

Parimenti inquietante risulta la presenza quella stessa sera nel porto di Livorno del peschereccio somalo “21 Oktobar II”: dietro la cui parvenza di “nave fattoria” destinata al commercio del pesce si cela il trasporto illecito di armi tra La Spezia, Marina di Carrara, Livorno e Gaeta, effettuato grazie alla compiacenza di diversi funzionari italiani. Non a caso, l’imbarcazione è stata donata alla Somalia proprio dall’Italia, nell’ambito della cooperazione allo sviluppo: evidentemente uno sviluppo dell’illegalità, per indagare sulla quale sarebbe stata assassinata nel ‘94 Ilaria Alpi. Insomma un ulteriore elemento che rende la vicenda sempre più torbida, e che porterà qualcuno a collegare la dinamica dell’incidente livornese ai traffici di armi e rifiuti tossici che coinvolge Italia e Somalia.

Subito dopo la collisione, il marconista del Moby lascia la sala radio per recarsi in plancia, sul ponte comando; ciò in ottemperanza al regolamento, il quale prevede che in caso di allarme l’addetto radio si rechi dal comandante onde poter ricevere da quest’ultimo ordini diretti. La prova di tale circostanza sta nel fatto che il “mayday” – ossia la richiesta di soccorso – viene lanciato tramite il ricetrasmettitore portatile della plancia. Per quanto il segnale sia disturbato nella parte centrale del messaggio, si sentono distintamente le parole “Moby Prince Moby Prince, mayday mayday” all’inizio, e “prendiamo fuoco” alla fine. Ciononostante, la Capitaneria di porto tace, derogando completamente dal proprio ruolo e non impartendo alcun ordine per le operazioni di soccorso: così, alle invocazioni di aiuto seguono lunghi minuti di silenzio. In un’agghiacciante registrazione si sente anzi l’addetto radio che fischietta beffardamente; per poi di rivolgere al traghetto un pesante insulto.

Ad aggravare la posizione della Capitaneria sta inoltre il fatto che quella sera l’unica nave a lasciare la banchina è stata il Moby; con il quale alle 22.23 – dunque due minuti prima dell’incidente – c’è stato anche un contatto audio, sul canale 16 di Livorno Radio. Non potevano dunque sussistere dubbi circa l’identità del richiedente aiuto.

Secondo la sentenza le 140 vittime sarebbero decedute tutte nel giro di 30 minuti: circostanza smentita dalla quantità di monossido di carbonio rinvenuta nei polmoni di molte di esse, la quale al contrario indica come siano sopravvissute a lungo allo scoppio dell’incendio. Ancora mezz’ora dopo l’impatto, inoltre, il marconista del traghetto continua a chiamare soccorso, ormai sconsolatamente: “Stiamo aspettando qui, ma nessuno viene ad aiutarci”. Ma la testimonianza più importante – per quanto ignorata dalla corte nelle sue conclusioni – è quella resa dall’illustre anatomo-patologo Angelo Fiori: “I dati ci dicono che c’è stato un gruppo di persone che non è morto in mezz’ora, e secondo me neppure in un’ora: ma che probabilmente sono sopravvissuti anche per qualche ora”.

In particolare, un gruppo di passeggeri ha tentato di mettersi in salvo scendendo nel garage, la parte della nave più fredda in quanto più lontana dalle fiamme: ciò è testimoniato dalle numerose impronte di mani ritrovate sulla carrozzeria dei veicoli, non coperte da fuliggine e quindi successive al rogo, e che non possono essere state lasciate dai soccorritori essendo ben visibili anche nei video girati dai vigili del fuoco, i primi a salire sulla nave una volta che questa è stata rimorchiata in porto. Evidentemente qualche ora dopo la collisione tali superstiti hanno compiuto un estremo tentativo di salvarsi portandosi nella zona più marginale rispetto all’incendio.

È solo per miracolo che si salva Bertrand, grazie all’intervento della motovedetta della Guardia di finanza. Il mozzo racconterà così la sua drammatica esperienza: “Per metterci in salvo, assieme a due miei amici abbiamo sfondato una porta; ma non abbiamo potuto buttarci a mare perché c’era petrolio. Loro due sono morti per il fumo; io per salvarmi mi sono aggrappato ai ferri della passeggiata e sono rimasto lì due ore. È arrivata la Finanza e mi hanno detto di buttarmi in mare”. Bertrand farà anche giustizia delle calunnie rivolte al comandante Chessa e ai suoi collaboratori, precisando di avere portato loro dei panini poco dopo la partenza, che erano tutti al loro posto e che nessuno dei responsabili della navigazione stava guardando la televisione.

Alle 6.45 del mattino, da un’altra nave viene lanciato il “mayday relay” per i soccorsi al Moby: procedura cui si ricorre allorché appare evidente che le richieste precedenti non sono state recepite. Una volta attivatisi, i soccorsi si sono infatti interamente concentrati sull’Agip, il cui comandante ha del resto fatto di tutto per attivare l’attenzione dei soccorritori sulla petroliera: questo ci dicono le registrazioni radio. “Capitaneria, Agip Abruzzo! Siamo incendiati! Siamo incendiati! Ci è venuta una nave addosso!”, esordisce concitatamente Superina.

Il quale, richiesto di indicare di quale nave di tratti, risponde: “Sembra una bettolina”. Dopodiché, nello specificare ai vigili del fuoco il tipo di petrolio trasportato egli non ha più dubbi sulla tipologia dell’imbarcazione investitrice, dal momento che precisa: “Non sappiamo cosa ha a bordo la bettolina che ci è venuta addosso”. Ma la bettolina è un’imbarcazione molto più piccola di un traghetto: specie di uno dalla mole imponente quale il Moby Prince; oltre ad avere una valenza decisamente minore in caso di incidente – e di conseguenza nella priorità dei soccorsi – trasportando essa materiali e non passeggeri. “La nave che ci è venuta addosso è incendiata anche lei – prosegue il comandante – però non so dove si trova, non lo so: state attenti a non scambiare lei per noi!”. Ne vede le fiamme ma non sa dov’è: mah.

Ma non è solo questo esordio a fare di Superina – a dispetto del suo proscioglimento da ogni accusa – una delle figure più ambigue dell’intera vicenda. Nel segnalare la posizione della petroliera subito dopo l’impatto, egli la colloca “45 gradi a sud della Vegliaia”: punto che si trova all’interno di un braccio di mare interdetto sia all’ancoraggio che alla pesca. E che la nave cisterna avesse gettato gli ormeggi in una zona proibita è confermato da diversi soggetti: dall’Avvisatore marittimo, anzitutto; dal pilota di un aereo civile in atterraggio sull’aeroporto di Pisa, che alle 22.40 comunica alla torre di controllo di trovarsi sulla verticale del punto di collisione; dal comandante dell’Agip Napoli – la seconda petroliera presente in rada quella sera – Vito Cannavina, che ne ha verificato la posizione con il radar.

Alle 22.31, resosi conto che la Capitaneria non ha ancora compreso la gravità di quanto accaduto, Cannavina lancia a sua volta un drammatico messaggio: “L’Abruzzo si è incendiata, probabilmente è entrata in collisione con una nave che le è andata addosso. È in rada a Livorno, a un miglio e mezzo da me: bisogna far uscire immediatamente i mezzi antincendio!”, ad ulteriore conferma della perfetta visibilità esistente. Una testimonianza estremamente scomoda: al punto che il comandante dell’Agip Napoli sarà escluso dal processo, ufficialmente impossibilitato a parteciparvi per motivi di lavoro. A filtrare le sue dichiarazioni sarà così lo stesso ufficio stampa della Snam.

Sulla posizione dell’Agip Abruzzo al momento dell’impatto, Superina darà successivamente ben tre diverse coordinate, collocandola fuori dall’area interessata dal divieto; ignorando tali contraddizioni, la sentenza stabilirà che essa si trovava in zona consentita all’attracco. Al momento in cui abbandona la nave in fiamme, egli si dimentica inoltre di portare con sé il giornale di bordo, sul quale è registrata ogni attività dell’imbarcazione. Per tre giorni nessuna delle autorità preposte alle indagini si preoccupa di cercarlo; finché nella plancia non scoppia un nuovo incendio, che manda il registro in fumo. Ora la vita della petroliera potrà essere ricostruita solo grazie alle testimonianze del personale: in primis, dello stesso Superina.

Ancora, appena sceso sul molo il comandante dell’Agip Abruzzo afferma ai microfoni dell’emittente livornese Telegranducato: “Il terzo aveva già il radar in funzione, tutto quanto, e ha visto che questa nave veniva addosso; poi all’ultimo momento si pensava che accostasse”. Al contrario, nella deposizione resa all’autorità giudiziaria tre giorni più tardi dichiarerà: “Nessuno si era accorto dell’avvicinamento del traghetto, perché il radar non era acceso”. Versione destinata a diventare quella ufficiale, per la condanna – prescritta – del Rolla.

Le rivelazioni contenute nel libro di Fedrighini inducono i figli del comandante Chessa a chiedere la riapertura dell’inchiesta, con particolare riferimento alla “pista americana”; richiesta recepita dalla Procura, che nel 2006 apre un nuovo fascicolo. Ma anche tale supplemento investigativo è destinato a concludersi con un nulla di fatto: quattro anni più tardi, il caso viene definitivamente archiviato.

Nel 2011, per il ventennale della sciagura, la trasmissione di Rai3 “La Storia siamo noi” le dedica una puntata (intitolata Moby Prince: il porto delle nebbie) in cui le conclusioni cui è giunta la giustizia vengono messe pesantemente in discussione: a cominciare da quanto stabilito riguardo alle morti. A tale scopo viene trasmesso un filmato d’archivio, realizzato la mattina dell’11 aprile ‘91 e destinato ad assestare alle risultanze giudiziarie il colpo del KO.

La prima immagine mostra il Moby ancora fumante, con sullo sfondo l’Agip Abruzzo dalla quale si alza a sua volta una colonna di fumo. Sono le 7.30 quando sul traghetto, agganciato e trainato in porto, passa un elicottero dei carabinieri; l’obiettivo della telecamera mostra prima la fiancata della nave, quindi la poppa, completamente bruciate. Ed è in particolare la parte posteriore a richiamare l’attenzione dello spettatore; sul ponte si scorge qualcosa, una sagoma che stona con la devastazione circostante: una “macchia rossa”. La focalizzazione dell’immagine consente di identificarne la natura: si tratta del corpo di un passeggero, disteso in posizione supina e con le braccia stese a croce.

Com’è possibile – si chiede il commentatore – che tale corpo appaia integro, e con i vestiti intatti, quando tutt’attorno la nave è completamente bruciata? “L’unica spiegazione è che l’uomo è arrivato lì dopo le fiamme; probabilmente viene da sotto, dall’interno. È rimasto vivo tutta la notte: e poi, quando ha sentito il rumore dei soccorritori, alla luce del giorno ha trovato la forza di salire, uscire sul ponte ancora rovente per farsi vedere. È arrivato fin lì, e poi ha perso i sensi”, evidentemente a causa del calore sprigionato dalle lamiere. Purtroppo per lui, però, non si trattava dei soccorritori bensì del rimorchiatore; l’unica a fare qualcosa per chi era a bordo del Moby è stata infatti la motovedetta della Finanza, che ha salvato Bertrand. Quando due ore più tardi i vigili del fuoco salgono sul traghetto, quel corpo appare completamente carbonizzato.

A distanza di tanti anni e a dispetto degli esiti giudiziari, la politica decide finalmente di sposare quella voglia di giustizia mai sopita nei familiari delle vittime, e fatta propria dall’intera città di Livorno: nel 2016 l’incarico di fare luce sui tanti lati oscuri del caso viene affidato a una commissione d’inchiesta del Senato, dotata di pieni poteri anche riguardo alla richiesta di documenti a Paesi stranieri, e i cui lavori andranno avanti per i restanti due anni della legislatura, con oltre settanta audizioni, migliaia di documenti passati al vaglio, sei perizie, analisi ad alta tecnologia sui filmati dell’epoca, rivelazioni su tanti aspetti mai indagati.

La prima delle verità “ufficiali” ad essere ribaltata è quella riguardante il doloroso capitolo dei soccorsi, rivelatisi nei confronti del Moby Prince inesistenti: essi rimasero infatti concentrati sull’Agip Abruzzo anche dopo che a bordo della petroliera non c’era più nessuno. A tale proposito si apprende che già venti giorni dopo l’incidente il comandante generale delle Capitanerie di porto, Giuseppe Francese, aveva inviato al Ministero dell’interno un dossier che denunciava tale circostanza: insabbiato pure quello.

Ma ad ammetterlo implicitamente è lo stesso ammiraglio Albanese; il quale per tutta la durata della deposizione dà l’impressione di arrampicarsi sugli specchi, con la confusione dialettica a rispecchiare la sua evidente difficoltà. “Il coordinamento quella sera era il complesso dell’emergenza. Non si pensava… il Moby Prince purtroppo dopo quel… quando ci siamo resi conto che non c’era più niente da fare, è diventato un corollario de… si trattava di spegnere, di salvare quei corpi, di avere in mano una possibilità di salvare il salvabile, ma non era… l’emergenza era quella petroliera in fiamme che era una bomba atomica, perché voi non immaginate i danni che sarebbe successo non dal punto di vista ecologico: dal punto di vista degli uomini che stavano lì, se fosse scoppiata una petroliera”.

Il comandante della Capitaneria labronica non accetta che si continui a puntare il dito unicamente contro i soccorsi; per questo egli si ostina a sostenere la tesi della morte di tutti quanti nel volgere di pochi minuti, contestando che a bordo si sia avuto il tempo di organizzarsi, anche per l’immediata propagazione delle fiamme. “Io mi chiedo ancora se è possibile che questi passeggeri abbiano dopo l’impatto trovato la forza di indossare un salvagente, perché ho forti dubbi su questo discorso. Perché non si può disinvoltamente dire: li abbiamo trovati già coi salvagente nella sala Deluxe. Per arrivare alla sala Deluxe ci sono due ponti di differenza fra le cabine, le scale: pensate all’affollamento della gente che va nella sala Deluxe. E quindi ci sono tanti aspetti sulle cause e responsabilità che vengono completamente ignorati. Si pensa solo ai soccorsi”.

Quale affollamento, se i passeggeri erano soltanto 75, a fronte dei 1500 ospitabili dalla nave? Ma a smentire una simile conclusione stanno gli esiti delle perizie realizzate dai consulenti dei familiari delle vittime: i quali consentono, dopo lunghi anni di pesanti illazioni e calunnie, di valutare finalmente i marittimi del Moby quali “uomini dal comportamento eroico”. Subito dopo l’impatto e lo scatenarsi del rogo, tutti si prodigarono nel tentativo di salvare sé stessi e i passeggeri: a testimoniarlo sono anzitutto le manichette antincendio, che furono srotolate e utilizzate. I marinai seppero mantenere il massimo sangue freddo, fronteggiando al meglio la situazione e spartendosi i compiti: una parte, costituendo il drappello antincendio e lottando contro le fiamme; l’altra, facendo radunare i passeggeri nel salone centrale e indossare loro i giubbotti salvagente.

Contro l’evidenza di testimonianze e filmati che provano la perfetta visibilità di quella sera, Albanese afferma: “Quando il Moby Prince ha lasciato il porto di Livorno era limpida la serata: vedevano le secche, vedevano la Meloria, vedevano la Gorgona, vedevano tutte le navi in rada. Quando è partito era una bella serata. Ma quando è arrivato lì il Moby Prince… eh, purtroppo è stato investito anche lui dalla nebbia. Quindi questi sono i discorsi che sembrano contraddittori”.

L’anziano comandante trova inoltre un implacabile inquisitore nel senatore livornese Altero Matteoli. “Nella nota che ci manda, lei dice che la Moby Prince navigava nelle acque portuali ad una velocità di 20 nodi, invece di andare a 5 nodi. Lei non c’era, era a La Spezia: come fa a sapere questo? Chi gliel’ha detto? Sembra quasi che quello che è accaduto sia dovuto alla velocità del traghetto… – I 20 nodi sono stati appurati in base alla contorsione delle lamiere… da tutti questi calcoli è venuto fuori che la nave viaggiava in quella zona che sono ancora considerate acque portuali non, come dice il nostro regolamento, a 5 nodi, ma a quasi 40 km all’ora”.

Quest’ultimo argomento assimilerebbe dunque completamente il caso del Moby Prince a quello del Titanic: anche in quell’occasione le cause della fatale collisione del transatlantico con l’iceberg furono infatti identificate nella nebbia, nell’errore umano e nell’eccessiva velocità. Ma l’incongruenza delle dichiarazioni dell’ammiraglio è evidente: come può viaggiare a 20 nodi una nave i cui motori sono in grado di sviluppare una velocità massima di 19? Così come altrettanto fuori discussione appare il fatto che andando così veloce al traghetto sarebbe occorso molto meno di 22 minuti per giungere sul luogo della collisione. Ma soprattutto: come avrebbe potuto una nave di tali dimensioni essere già lanciata “a tutta” appena fuori dalla diga che delimita il porto? Forse un aliscafo ci sarebbe riuscito: non certo il Moby Prince.

Matteoli passa quindi a contestare la sicumera con cui Albanese ha escluso la possibilità di salvare le 140 vittime, a dispetto di quanto affermato dalle perizie. “”Ormai erano morti”: lo dice lei che ormai erano morti. Lei non può prendere le relazioni dei tecnici come pare a lei, perché in una di queste si dice: “La vita a bordo è stata di alcune ore: e quindi se i soccorsi fossero giunti in tempo si sarebbero salvate delle vite umane”. Io non credo che siano state ore; ma sicuramente nemmeno pochi attimi. I soccorsi non sono arrivati: e nessuno di voi, che vi era preposto in quei momenti, ci ha saputo dare una spiegazione del perché i soccorsi non sono arrivati in tempo”.

Al già complesso scenario si aggiunge un ulteriore diversivo con la deposizione dell’ex ministro degli interni Scotti: il quale consegna alla commissione un’informazione riservata trasmessagli nel ‘92 dal Dipartimento della pubblica sicurezza con cui si fa esplicito riferimento all’esplosione a bordo del Moby di un ordigno. Lo scoppio sarebbe avvenuto nel locale eliche di prua, la cui struttura si presentava deformata; secondo le analisi condotte sul relitto del traghetto dalla polizia scientifica, inoltre, a provocare la deflagrazione sarebbe stato un composto di tritolo e nitrato di ammonio. Su tale aspetto aveva successivamente indagato la Criminalpol, dedicandogli una sezione della relazione sulla sciagura livornese e allargando la gamma dei possibili esplosivi utilizzati a gelatine, dinamiti, plastici da demolizione come il Semtex, utilizzato sia dagli eserciti del Blocco orientale che da varie organizzazioni terroristiche.

Si tratta a nostro avviso di un tentativo di depistaggio. Il traghetto sarebbe stato fatto oggetto di un attentato, finalizzato data la collocazione dell’ordigno non a provocare vittime bensì a sabotarne la navigazione; l’esplosione – evidentemente programmata dagli attentatori in modo che avvenisse non appena la nave si fosse trovata fuori dal porto – sarebbe tuttavia avvenuta proprio al momento del passaggio accanto all’Agip Abruzzo, in modo da causare la collisione, l’incendio e quindi la strage. Un’ipotesi oltremodo macchinosa, che pare fatta apposta per mascherare un altro tipo di incidente che potrebbe aver mandato il Moby a cozzare contro la petroliera.

Approvata all’unanimità, la relazione finale redatta dalla commissione non pretende di “aver chiarito tutti i punti oscuri, ma può affermare con sicurezza di aver raggiunto una ricostruzione del fatto decisamente più vicina alla realtà, e con novità chiare e precise” rispetto alle due inchieste condotte dalla magistratura livornese. “Non è tutta la verità, ma di sicuro è una verità più ricca di quella che sino a questo momento è stata proposta”. “Stupore” viene inoltre espresso per quanto dichiarato dai più compromessi tra quanti sono stati chiamati a deporre, rivelatisi “convergenti nel negare evidenze in atti a loro attribuiti o di fornire versioni inverosimili degli eventi”.

La prima conclusione è quella che porta a escludere la nebbia quale causa anche marginale del disastro. Di qualunque sostanza si sia trattato, per i senatori non fu essa a provocare l’incidente: “Numerosi testimoni qualificati hanno fornito l’immagine di una serata serena con ottima visibilità”. A conferma di tale dato è inoltre un filmato amatoriale girato dalla costa pochi minuti dopo l’impatto, la cui ottimizzazione da parte del reparto scientifico dei carabinieri consente di affermare che “la nebbia ha immotivatamente costituito una, se non la principale, causa di giustificazione del conclamato caos organizzativo che ha contraddistinto la fase dei soccorsi da parte della Capitaneria di porto”.

Contro la quale le accuse formulate nel documento sono molteplici. Essa non contattò mai né il traghetto, né le altre imbarcazioni appena uscite dal porto (delle quali il Moby era l’unica nave); non fece niente per spegnere l’incendio a bordo né per portare soccorso alle persone imbarcate; omise di valutare l’incidente nella sua gravità, mancando in particolare di coinvolgere il comando della Marina militare: atto che avrebbe dovuto essere il primo, data la risibilità dei mezzi di soccorso a disposizione della stessa Capitaneria. La quale neppure aveva mai provveduto a istituire attività di formazione e addestramento per fronteggiare emergenze del genere.

Un contesto tale da suscitare lo “sconcerto” dei parlamentari, i quali scrivono in particolare: “Non è dato comprendere come e per quali motivi il comando della Capitaneria non sia riuscito a correlare l’avvenuta partenza di un’unica nave dal porto con la collisione”. Aggiungendo: “La commissione ritiene che si possa ravvisare una responsabilità sulla morte di alcuni passeggeri e membri dell’equipaggio che sono sopravvissuti con certezza oltre i 30 minuti definiti dalla sentenza”. A tale proposito, vengono finalmente messe nero su bianco tutte quelle risultanze che impediscono di sostenere la tesi dell’inutilità di qualsiasi intervento dato che nel giro di mezz’ora a bordo erano già tutti morti.

Anche a voler prescindere dal salvataggio di Bertrand – avvenuto ben oltre il termine stabilito dai giudici – ci sono le decine di vittime trovate nel salone centrale con in tasca le istruzioni per il salvataggio, il salvagente addosso, i bagagli vicini. La squadra antincendio era al proprio posto, a poppa, con le pompe srotolate. Uno dei baristi fu rinvenuto in mare, morto per annegamento e con l’orologio fermo sulle 6. I cadaveri di un passeggero e di un macchinista furono ritrovati nella sala macchine, ove avevano inutilmente cercato la salvezza; mentre quello di un cameriere fu fotografato dai vigili del fuoco una decina di ore dopo l’incidente ancora integro, accanto ad altri carbonizzati: come se fosse appena uscito da un’area risparmiata dal rogo. Circostanze alle quali si ovviò mettendo fretta ai medici legali, cui fu imposto di soprassedere ad accertamenti degni di questo nome: “Colpisce che sui corpi delle vittime non sia stata fatta alcuna indagine per definire le cause di morte, ma ci si sia limitati al solo riconoscimento”.

Ma è questo solo uno dei punti di un’inchiesta “carente e condizionata da diversi fattori esterni”: il più scandaloso dei quali sta sicuramente nel fatto che per le sue indagini la Procura livornese si sia avvalsa dell’inchiesta amministrativa condotta dalla stessa Capitaneria. Si tratta di un rapporto firmato da quattro ufficiali, tre dei quali avevano partecipato attivamente a tutte le operazioni di soccorso. A proposito di essi, quanto a suo tempo timidamente ipotizzato dal tribunale di secondo grado viene adesso chiaramente esplicitato: “È di tutta evidenza che costoro ben difficilmente avrebbero potuto essere dotati di quella terzietà che deve necessariamente contraddistinguere l’operato di qualsivoglia attività investigativa”.

I lavori della commissione amplificano le ombre sulla condotta tenuta da Superina. Dopo le testimonianze di alcuni ufficiali dell’Agip Abruzzo che hanno escluso che la nave venuta a collisione con la petroliera potesse avere le dimensioni di una bettolina (chi ha detto di avere visto la “sagoma di una grossa imbarcazione”; chi vi ha riconosciuto i “finestroni” tipici delle navi passeggeri), attribuendo l’errore di valutazione iniziale alla concitazione causata dall’emergenza, lo stesso video filmato dalla costa mostra come le due navi coinvolte nell’incidente siano rimaste agganciate per 10 minuti. Donde le critiche al comando della nave cisterna: “Il periodo di incaglio rende difficilmente comprensibile il comportamento tenuto dall’equipaggio della petroliera sul mancato riconoscimento del traghetto”. Inoltre “appare evidente che anche dopo l’abbandono nave, conclusa l’emergenza, non vi sia stato il minimo contributo a segnalare la presenza del secondo natante”. In conclusione, le dichiarazioni rese dal personale dell’Agip Abruzzo “appaiono coordinate e finalizzate a sollevare da qualsiasi responsabilità la società armatrice e il comando della petroliera”.

Ma anche il capitolo riguardante l’operato della Procura labronica assume le sembianze del dossier; a cominciare dalla denuncia dello scarso impegno investigativo, dal momento che all’inchiesta fu assegnato un solo magistrato. Gli sbagli furono tanti, il primo dei quali addirittura grottesco: riguardo la Navarma, fu indagato Achille Onorato invece del vero armatore, e cioè il figlio Vincenzo. “A tale singolare errore non fu mai posto rimedio tanto che sull’armatore e, cosa ben più grave, sulla società Navarma che egli rappresentava non c’è stata alcuna forma di approfondimento investigativo”. Inoltre, l’Agip Abruzzo fu dissequestrata già tre mesi dopo l’incidente; i periti inviati dalla Procura fecero un unico e assai approssimativo sopralluogo sulla nave, successivamente restituita alla proprietà, per una decisione “al di fuori di ogni logica investigativa e non giustificabile da ragioni tecniche”.

Molteplici furono le mancanze e gli inadempimenti fatti registrare dall’inchiesta livornese circa la petroliera. Il genere e la quantità del carico non furono investigati, bensì assunti per autocertificazione. Anche riguardo al viaggio che l’aveva vista approdare nelle acque livornesi il 9 aprile, il magistrato prese per buona la versione offerta dalla Snam, secondo la quale la nave sarebbe giunta in soli cinque giorni dall’Egitto: nemmeno fosse stata impegnata in una regata. Ma i registri del Lloyd’s List Intelligence di Londra – il servizio di informazioni commerciali attinente i traffici marittimi internazionali – avrebbero consentito di acclarare la verità. Secondo i dati forniti dall’agenzia inglese, l’Agip Abruzzo aveva lasciato l’Egitto già il 7 marzo, ma avendo quale prima destinazione Fiumicino; di qui si era portata a Genova e solo successivamente aveva fatto rotta su Livorno. Ecco dunque spiegata anche la fine fatta fare al giornale di bordo.

La mendacità delle notizie fornite dalla società armatrice solleva così ulteriori dubbi circa la natura di quel viaggio, e soprattutto su quantità e genere del petrolio trasportato; particolari ormai destinati a rimanere ignoti, e che possono aver anch’essi contribuito – accanto al posizionamento in una parte di rada vietata – all’equivoco atteggiamento tenuto dal comandante Superina. Ma i misteri riguardanti l’Agip Abruzzo e il suo carico non finiscono qui: il perito incaricato dal tribunale di accertare tipologia e quantità del greggio poté farlo soltanto dopo che questo fu trasferito su un’altra petroliera della compagnia, dato che il permesso di salire a bordo della nave incidentata gli era stato negato dallo stesso comandante Albanese. E così il cerchio si chiude.

Una nuova ipotesi investigativa viene avanzata nel 2019 dal perito Gabriele Bardazza e dal giornalista Francesco Sanna nel libro Il caso Moby Prince. L’inchiesta nasce dal contenuto di un documento del Sismi del 2004, ma reso pubblico soltanto nel 2017, secondo il quale la tragedia di Livorno sarebbe da mettere in relazione con un traffico internazionale di rifiuti o scorie pericolose, se non di armi. Secondo i due autori, a segnare il destino del Moby sarebbe stata una doppia collisione: la prima, con una nave probabilmente statunitense, come testimoniato dai segni delle sue gru di bordo rimasti impressi sulla fiancata sinistra del traghetto; la seconda, dopo una necessaria virata a destra, con la petroliera. Con tutt’attorno varie unità navali – comprese chiatte e bettoline – a delineare un affollato scenario di traffici illeciti.

Neppure si vuole escludere però la variante della scarsa visibilità: sull’Agip Abruzzo qualcosa sarebbe andato storto, facendo sviluppare un incendio, spegnere le luci di posizione e sprigionarsi una nube di vapore che avrebbe impedito al Moby di avvistare le due navi con cui si è scontrato. Ma è l’ipotesi successiva a risultare la più agghiacciante: non è da escludere che i ritardi nei soccorsi al traghetto siano da attribuirsi alla volontà di coprire quanto stava accadendo in rada, consentendo l’allontanamento delle imbarcazioni coinvolte nelle attività clandestine.

A sostegno di ciò, nel dossier si mette in dubbio che le registrazioni audio “ufficiali” effettuate da Livorno Radio, utilizzate al processo e date in pasto all’opinione pubblica, corrispondano effettivamente a quelle originali. In particolare, numerosi soggetti avrebbero ascoltato via radio il “mayday” lanciato dal Moby, comprendendolo distintamente nella sua interezza e non trovandone il segnale né debole né pieno di interferenze.

In conclusione, possiamo affermare che sulla tragedia livornese siano mancate almeno cinque inchieste: sulla Navarma; sulla Snam e sull’Agip Abruzzo; sulle navi americane presenti in rada e sulla reticenza delle autorità statunitensi; sui traffici di contrabbando che avevano quale teatro il porto toscano; e conseguentemente sulla corruzione che ammorbava il sistema portuale italiano, negli anni immediatamente precedenti Tangentopoli. È un po’ come se per strada succedesse un incidente: e si scoprisse che tra i responsabili, i coinvolti, i testimoni, chi era lì per qualche necessità, chi vi si trovava a passare per caso, non ce n’è uno in regola. Questa è l’Italia.

Al contrario, la Procura di Livorno si limita ad aprire un unico fascicolo – riguardante i reati più generici e scontati – e affidato a un solo magistrato. Perché? La risposta più plausibile è che a condizionare tutto l’iter giudiziario sia stato qualcuno di molto potente, che non ha dovuto neppure agitarsi più di tanto per farsi obbedire: perché l’Italia gli era già succube di suo. Una unità navale ricollegabile a tale potenza dové rimanere coinvolta nella dinamica dell’incidente che portò il Moby Prince a scontrarsi con l’Agip Abruzzo. Insomma una disgrazia, che sarebbe potuta accadere a chiunque: ma quello che si doveva nascondere non era tanto l’incidente in sé, quanto il fatto che la nave in questione si trovava in quelle acque clandestinamente, a svolgervi un’attività illecita, e assieme ad altre egualmente fuorilegge.

Non scopriamo noi che dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale e il suo ingresso nella Nato l’Italia è divenuta, di fatto, un Paese a sovranità limitata: specie in certe occasioni che hanno visto impegnati forze militari o comunque cittadini statunitensi, e in cui non tutto è andato per il verso giusto. Ci limiteremo a elencarne le più eclatanti.

Nel 1980, la vicenda di Ustica vede tutta una serie di menzogne e depistaggi analoghi a quelli riscontrati nel caso del Moby Prince: e c’è addirittura chi sostiene che il successivo attentato alla stazione di Bologna non sia stato altro che un diversivo per l’opinione pubblica. Nel ‘98, i responsabili della strage del Cermis vengono sottratti alla giustizia italiana, affidati a quella americana e quindi assolti. Ancora nel 2011, una giovane americana studentessa all’università di Perugia, già condannata in primo grado per l’omicidio di una collega inglese, viene assolta in appello, scarcerata e quindi lasciata libera di fare ritorno negli Usa, nonostante l’iter giudiziario non sia ancora concluso. La Cassazione annulla l’assoluzione, ordinando un nuovo processo: il quale sancisce nuovamente la colpevolezza della statunitense. A quel punto, all’evidente scopo di evitare ulteriori complicazioni diplomatiche e a costo di fare una bella pernacchia alla giustizia italiana, è la stessa Corte suprema a decidere per l’assoluzione definitiva, senza ulteriori processi.

Perché una cittadina americana non può stare a marcire nelle carceri di un Paese ridicolo, corrotto, mafioso, scombinato, screditato come l’Italia: neppure se è una feroce assassina. Alla stessa maniera, la morte di 140 cittadini italiani non merita giustizia, se ad andarci di mezzo è l’onorabilità della prima potenza mondiale.

Moby Prince: l’ultimo mistero d’Italiaultima modifica: 2020-05-18T21:36:59+02:00da tradersimo
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