Sennò che fai, mi cacci?

A dieci anni di distanza, desidero rendere noti certi retroscena della direzione nazionale del Popolo della libertà tenutasi il 22 aprile 2010 a Roma, all’Auditorium della Conciliazione, alla quale presenziai come giornalista.

L’assemblea era stata convocata nel pieno dello scontro politico e personale che vedeva contrapposti il presidente del partito nonché capo del governo Silvio Berlusconi e il presidente della Camera Gianfranco Fini. Quest’ultimo da alcuni anni, essendo ancora presidente di Alleanza nazionale, aveva intrapreso una radicale revisione delle proprie idee politiche, sino ad abbracciare posizioni appartenenti al patrimonio ideologico della sinistra, su vari temi, a cominciare da quello dell’immigrazione: il che – in maniera persino grottesca – lo aveva portato a rinnegare la stessa legge che portava anche il suo nome, la “Bossi-Fini”, con tutta una serie di dichiarazioni e di minacce che avevano rischiato di far saltare l’accordo di governo con la Lega.

Stupefacente era stato anche il cambiamento di idea su Mussolini e il fascismo. Mentre da segretario del Movimento sociale Fini era giunto a celebrare il Duce come “il più grande statista del Novecento”, nel 2003, nel corso di un viaggio in Israele in veste di vicepresidente del consiglio, il leader di An aveva detto del regime mussoliniano peste e corna, fino a classificarlo come “una parte del male assoluto”. Ora è evidente che il capo del partito della destra italiana non potrà mai condannare il fascismo tout court; la sua abilità starà anzi proprio nell’accomodare, nel distinguere, nel sofisticare: insomma nel salvare il salvabile. Magari riadattando ai nuovi tempi il motto caro a Giorgio Almirante: “né rinnegare né restaurare”.

L’impressione era che Fini, una volta intrapreso quel percorso di modernizzazione ideologica resosi necessario dopo che Berlusconi ebbe “sdoganato” il Msi facendone una forza di governo, non avesse saputo più fermarsi, continuando ad abiurare tutto e finendo con il coprirsi di ridicolo; il che creava non pochi problemi a chi continuava a riconoscersi pienamente nei valori tradizionali della Destra. Per rendere l’idea, ricorderò una boutade di cui fui oggetto io stesso. Un mio amico di sinistra, con il quale spesso discutevamo di politica, un giorno mi accolse rivolgendomi questa provocatoria domanda: “Ma Fini vuol diventare segretario del Partito democratico?!”.

Stupefatto da un simile rinnegamento delle proprie radici, io mi chiesi se la nostra storia politica offrisse precedenti del genere. Il caso più eclatante che mi saltava alla mente era proprio quello di Mussolini: il quale da socialista era diventato fascista. Ma rispetto a Fini c’erano due differenze sostanziali: il fascismo delle origini aveva molti dei caratteri del socialismo, prima che nelle sue vene si iniettasse prepotentemente il sangue reazionario dello squadrismo; Mussolini non era mai stato il lider maximo del Psi. Perché io ritenevo che a un semplice militante potesse anche essere consentito un simile voltafaccia: ma non ad un capo.

A tale proposito mi chiedevo cosa sarebbe successo se da un giorno a un altro Almirante fosse diventato marxista, Togliatti avesse preso a tessere le lodi del capitalismo e De Gasperi si fosse professato ateo. Sarebbero rimasti alla testa dei rispettivi partiti? Avrebbero continuato ad essere eletti in parlamento? L’opinione pubblica sarebbe rimasta indifferente? Mi rispondevo che non sarebbe stato possibile: quei leader avrebbero perso ogni credibilità, vedendosi probabilmente costretti ad abbandonare anche la politica.

Ma l’interrogativo che il simpatizzante di destra si poneva sempre più spesso era anche un altro: come mai lo stato maggiore di An – i cosiddetti colonnelli – lo tiene ancora lì nonostante questo sia diventato di sinistra? La risposta che ci si dava era più sentimentale che razionale: siccome era stato il grande Almirante, poco prima di lasciarci, a designare Fini quale suo successore alla guida della Fiamma, nessuno dei dirigenti del partito osava mettere in discussione la decisione del venerato capo carismatico missino. Solo che adesso era la stessa Donna Assunta Almirante a sottolineare il diuturno scempio finiano di quanto ricevuto in eredità dal consorte; ma rimaneva vox clamantis in deserto, essendo evidentemente i vari colonnelli interessati più alle proprie personali carriere che non alle eresie ideologiche del leader.

Da un certo momento, poi, doveva essere stato lo stesso Berlusconi a difendere Fini dai più critici dei suoi: nel senso che – lui uomo di calcio – aveva inteso ossequiare il principio per cui “squadra che vince non si cambia”. Da quando il Cavaliere era entrato in politica, i due avevano sempre marciato all’unisono: al punto che il bolognese ne era considerato come il naturale successore alla guida dei moderati. Ma al di là di questo, la sconcertante deriva finiana aveva fatto intendere soprattutto una cosa: e cioè che nell’exploit della destra seguito allo sfacelo di Tangentopoli il pupillo di Almirante non aveva avuto grandi meriti. Egli non aveva fatto altro che cogliere il destro offertogli dalla sorte, compiendo scelte pressoché obbligate e seguendo le indicazioni suggeritegli dallo stesso leader di Forza Italia. Il ridimensionamento del suo spessore politico appariva dunque drastico.

Avvicinandosi le politiche del 2008, Berlusconi premette perché An e Fi si fondessero nel Popolo della libertà: lo scopo era quello di evitare che, nella prevista vittoria del centrodestra, il Pd risultasse comunque il primo partito. Il progetto aveva sempre incontrato l’ostilità di Fini; stavolta tuttavia i colonnelli si fecero sentire, inducendo il capo a cedere. Dopo la schiacciante affermazione elettorale, il numero due del Pdl scelse di non entrare nel governo con la Lega, preferendo farsi eleggere alla presidenza della Camera.

Lì i più idealisti della destra presero un bell’abbaglio. Ci si illuse che l’ex segretario del partito post-fascista avesse scelto tale carica per proseguire lungo quel percorso di pacificazione nazionale intrapreso a suo tempo da Luciano Violante, che da presidente di Montecitorio eletto dalla sinistra aveva spezzato una lancia a favore dei “ragazzi di Salò”, ponendo così le basi per l’auspicato superamento dei veleni lasciati in eredità alla politica e alla società italiana dalla guerra civile.

Niente di tutto questo: Fini aveva in mente ben altri “revisionismi”, assai più prosaici e meschini. Come primo atto, egli fece modificare i pulsanti con cui i deputati esprimevano il voto in modo da impedire il fenomeno dei “pianisti”: ossia coloro che votavano anche per i vicini di seggio assenti. Cosa ben strana per un esponente della maggioranza, dal momento che la variazione pareva fatta apposta per favorire – o se vogliamo tutelare – l’opposizione. Da parte del Pdl si scelse di non dare peso alla cosa; eppure, le mosse successive del presidente della Camera avrebbero mostrato come quella stramba iniziativa non fosse stata altro che la dichiarazione di guerra a Berlusconi e al suo governo.

Contro il presidente del consiglio Fini diede ben presto il via a uno stillicidio di dichiarazioni che, in maniera più o meno esplicita, riprendevano i tradizionali cavalli di battaglia antiberlusconiani della sinistra: dal conflitto d’interessi, al suo coinvolgimento in innumerevoli procedimenti giudiziari, alle leggi ad personam; cui si aggiungeva l’accusa politica al Pdl di sudditanza nei confronti della Lega. A quel punto venne naturale spiegare un simile astio con la contrarietà dell’ex presidente di An alla fusione; egli si sarebbe insomma risentito nei confronti del Cavaliere per il fatto di essere stato privato del partito di cui da sempre era il despota, venendo degradato al ruolo di comprimario. A tale rancore si aggiungeva l’invidia nei confronti dei successi della Lega, cui ormai si rivolgeva l’elettorato di destra più sconcertato dall’infinito trasformismo finiano.

Si cominciò allora a capire il motivo per cui a un rinnovato impegno di governo Fini avesse preferito il più defilato seggio istituzionale. E dalle parti del centrodestra si udì finalmente pronunciare nei confronti del presidente della Camera il termine giusto, “traditore”: perché a Berlusconi egli doveva tutto. Era stato l’imprenditore milanese, nel ‘93, allorché il segretario del Msi era trionfalmente giunto al ballottaggio per l’elezione a sindaco di Roma, a dichiarare pubblicamente che se fosse stato un elettore della Capitale sicuramente si sarebbe espresso per lui. Presa di posizione che fece scalpore, anche perché nella gestione delle sue televisioni il Cavaliere aveva sempre badato a non compromettersi con nessuna parte politica; quando con quell’esplicito schierarsi a destra egli si alienò inevitabilmente le simpatie di una buona fetta dell’opinione pubblica. Ed era stato sempre grazie a Berlusconi che il maestrino di Bologna era divenuto un importante uomo di governo; per poi farsi elevare alla terza carica dello Stato.

Fu in ogni caso il direttore del “Giornale” Vittorio Feltri, nel settembre 2009, a dare per primo pieno risalto a un argomento divenuto cruciale per la parte più avvertita del popolo della destra, ma al quale i mezzi d’informazione parevano non dare importanza, con l’editoriale Dove vuole arrivare il “compagno” Fini. Le acrobazie ideologico-politiche compiute dall’“inquilino di Montecitorio” (come Feltri aveva preso a designarlo, spregiativamente) vi venivano spiegate con un obiettivo a lungo termine: quello di essere elevato al Quirinale con i voti della sinistra. L’articolo si concludeva con l’invito a Fini a “rientrare nei ranghi”, in modo da “non essere più ridicolo”.

La qual cosa non era avvenuta; anzi, a mandare l’ex leader di An sempre più fuori dai gangheri era stata l’escalation di successi fatti registrare in rapida successione dal centrodestra, che dopo avere vinto anche le Europee (che avevano visto la Lega superare il 10%) aveva calato il tris con un’affermazione alle Amministrative del 2010 che era andata oltre ogni previsione. Il presidente della Camera aveva finito con lo smarcarsi completamente dal partito, evitando di presenziare alle sue riunioni e disertando perfino il comizio conclusivo della campagna per le regionali a Piazza San Giovanni.

Fini era ormai un corpo estraneo allo schieramento che lo aveva visto per anni come uno dei massimi esponenti; ma lo erano anche i suoi fedelissimi, che non perdevano occasione – sui loro fogli come in televisione – per sputare veleno contro Berlusconi e il Pdl, ormai considerati come i nemici giurati. Ovviamente l’opinione pubblica di sinistra gongolava nell’assistere a tale lotta intestina: allorché lo schieramento progressista era all’angolo, tramortito e disfatto da una simile sequenza di sberle, e senza un leader che apparisse in grado di risollevarne le sorti, il presidente della Camera era considerato come il vero capo dell’opposizione.

A quel punto la cosa più naturale sarebbe stata che Fini lasciasse la carica istituzionale, con le dimissioni: perché il regolamento non prevede la possibilità di una mozione di sfiducia nei confronti dei presidenti delle assemblee parlamentari. In tal modo egli avrebbe riguadagnato un qualche titolo per portare avanti la sua nuova battaglia politica, mostrando di preferire alla poltrona l’idealità; ma si guardò bene dal farlo, ribattendo a chi lo contestava che le sue prese di posizione avvenivano altrove rispetto allo scranno più alto di Montecitorio, nella conduzione dei cui lavori egli rivendicava la più salomonica delle imparzialità.

Fino a un certo momento, l’inedita quanto scabrosa situazione andò avanti senza che Berlusconi prendesse alcuna iniziativa in merito. La condotta del presidente del consiglio era dettata da tre ordini di considerazioni: il timore che la fronda finiana potesse allargarsi proprio a seguito di un suo intervento punitivo, fino a mettere in discussione gli stessi numeri della sua maggioranza; la preoccupazione di apparire come il padre-padrone del Pdl, che reprimeva l’opposizione interna invece di accettarne le critiche; la speranza che Fini prima o poi la smettesse, e che si potesse giungere a una tregua. Invece accadde l’esatto contrario; con il fondo che fu toccato la sera che, in televisione, esponenti finiani con la bava alla bocca ne dissero di tutti i colori contro colleghi fedeli al Cavaliere e al suo governo.

Fu allora che decisi di far sentire la mia voce, avendo la fortuna di trovare ospitalità su un quotidiano on line alla cui lettura mi ero appassionato, rispecchiando esso le mie posizioni: Il predellino di Giorgio Stracquadanio. Vi pubblicai diversi articoli, nei quali sostenevo la necessità che Berlusconi espellesse una buona volta dal partito i ribelli, a qualunque costo. L’aspetto che mi indignava maggiormente era che Fini e soci avessero accettato di entrare nel Pdl, ricavandone seggi e prebende, per poi tradire il mandato ricevuto dagli elettori e fare alla sinistra il più bel regalo che potesse ricevere; proprio loro che provenivano dal vecchio e glorioso Msi, dalla sinistra a lungo discriminato e vituperato, in spregio ai suoi tanti elettori e quindi allo stesso principio democratico.

La naturale conseguenza fu la decisione di recarmi a quella direzione nazionale: la cui sola convocazione in quella sede sapeva tanto di resa dei conti. Solitamente, una direzione nazionale si tiene nella sede del partito; al limite – viste le abitudini berlusconiane – nella stessa residenza romana del presidente del consiglio. La scelta di riunirla in un auditorium, coram populo, preludeva già a qualcosa di grosso.

Le mie aspettative non andarono deluse. Ai giornalisti era stata riservata la saletta che funge da anticamera del salone dell’Auditorium, fornita di monitor che consentivano di seguire lo svolgersi dell’assemblea; l’ordine dei cui lavori fece subito capire che più che di una direzione si trattava di un’autocelebrazione del partito: una sorta di convention, in pompa magna. In maniera piuttosto singolare per un’assise del genere, i vari ministri si susseguivano al microfono, illustrando la bontà del proprio operato e magnificando il governo; il cui capo stava seduto lì di fianco, sul palco, avendo accanto i coordinatori del partito La Russa e Verdini. A un certo punto si vide arrivare Fini, che prese posto in prima fila proprio accanto a Bonaiuti, braccio destro di Berlusconi.

La discussione politica entrò nel vivo solo con l’intervento del terzo dei coordinatori del Pdl, Bondi; il quale senza giri di parole andò dritto al nodo della questione, domandandosi ripetutamente e retoricamente il motivo per cui la rivolta finiana si fosse scatenata proprio quando il centrodestra aveva raggiunto l’apice del consenso, e quale senso potesse avere. Si trattò di un discorso appassionato e calibrato al tempo stesso: Bondi aveva assolto egregiamente al compito di dare fuoco alle polveri. Dopodiché ricominciò la litania degli autoincensamenti governativi.

Fini stava lì, snobbato, ignorato, in attesa che venisse il proprio turno: il quale però non arrivava mai. A un certo momento i suoi segni di impazienza si fecero palesi; al vederlo scalpitare, con un tono fra il sorpreso e il premuroso Berlusconi gli disse che, per quanto la scaletta prevista fosse diversa, se voleva poteva tenere adesso il suo intervento. A quel punto l’attenzione di tutti si fece massima: ma le attese andarono deluse.

Fini parlò per un’ora non avendo praticamente niente da dire. Impacciato, in evidente difficoltà, senza un filo logico di fondo, a tratti quasi balbettando, a giustificazione dei propri attacchi tirò fuori una serie di argomenti l’uno più risibile dell’altro; nessuno, comunque, in grado di giustificare la pesante situazione in cui aveva messo il partito dinanzi all’opinione pubblica. Verdini lo guardava con espressione severa, La Russa più attonita; dei tre Berlusconi era comunque quello che faceva maggiore ricorso alla mimica, mostrandosi ora ironico, ora irritato, ora sdegnato. Al termine fu lo stesso Cavaliere a riprendere il microfono, contestando a sua volta sia le motivazioni addotte dall’avversario, sia la sua assenza dalla vita del partito, sia lo sconsiderato atteggiamento tenuto dai suoi sodali in tv.

Lo scontro assunse ben presto i toni della corrida, con Berlusconi che tra le acclamazioni della parte della sala schierata con lui martellava l’ex alleato, fino a rendere pubblico che pochi giorni prima costui gli aveva detto di essersi pentito di avere contribuito a dar vita al Pdl e di voler costituire gruppi parlamentari autonomi; e Fini che a quel punto perse le staffe, alzandosi, puntando l’indice contro l’oratore e polemizzando rabbiosamente con lui.

In tale clima di rissa il capo del Pdl giunse al perentorio invito finale: “Io ritengo che un presidente della Camera non debba poter fare dichiarazioni politiche, né l’attività dell’uomo politico. Vuoi avere la possibilità di fare queste dichiarazioni? Ti accogliamo a braccia aperte: le fai da uomo politico nel partito e non da presidente della Camera”. Mentre la sala esplodeva in un’ovazione, Fini replicò, con un sorriso sarcastico: “Sennò che fai, mi cacci?”. Dopodiché tornò ad alzarsi, si avvicinò al palco e gesticolando disse a Berlusconi: “Tanto io non me ne vado, né mi dimetto”. Tutti balzarono in piedi per vedere come andava a finire; ma il ribelle tornò al proprio posto, rimettendosi a sedere.

Per me fu un duro colpo: la figuraccia era stata colossale. La spaccatura interna al partito era stata evidenziata e pubblicizzata al massimo, in una maniera così plateale e devastante che io, pur seguendo la politica da una vita, non avevo mai visto. “A cosa è servita questa giornata?”, mi chiedevo sconsolato, nel mentre vedevo i giornalisti della sinistra – i cui volti conoscevo dalla televisione – godersela, raggianti. Non occorreva essere dei politologi per comprendere che da quel violento match il Pdl e il suo leader uscivano con le ossa rotte, mentre Fini – a dispetto della sua ormai conclamata nullità politica – specie agli occhi dell’antiberlusconismo diventava una sorta di eroe. Soprattutto, egli rimaneva dentro al partito e non mollava la poltrona di Montecitorio.

Sul marciapiede di via della Conciliazione antistante l’Auditorium vennero nell’arco della giornata diversi esponenti del Pdl, anche di un certo rilievo: chi per farsi intervistare, chi per fumare, chi per prendere una boccata d’aria. Riconoscendoli, io timidamente mi avvicinavo, cercando di attaccar bottone; devo dire che furono tutti estremamente gentili e disponibili nei miei confronti, accettando di scambiare due chiacchiere. Forse fu la delusione che avevo dipinta in volto a muoverli a compassione: chissà. Fatto sta che da quei fugaci ma significativi scambi di opinione io mi feci un’idea ben precisa circa lo scopo per cui era stata convocata quella riunione, comprendendo anche il perché di certe sue stranezze.

Quel giorno in via della Conciliazione era andata in scena una commedia, che negli intendimenti di chi l’aveva allestita e pianificata avrebbe dovuto risolversi in una trappola ai danni del presidente della Camera, la cui psicologia era stata accuratamente studiata allo scopo di farlo cadere in fallo. A differenza dell’immagine di “uomo di ghiaccio” che egli amava dare di sé, e che ne faceva quasi la personificazione del self control (apatico, compassato, mai sopra le righe: per certi aspetti quasi imbalsamato), ad una osservazione più attenta Fini si era rivelato come un soggetto dalla forte emotività, il cui segnale più evidente – mi fu detto – era dato dal tremolio delle mani allorché doveva intervenire in prima persona o assumere decisioni delicate circa la conduzione di Montecitorio.

Io stesso del resto osservandolo in televisione avevo fatto caso a diversi elementi che denotavano l’esistenza di falle nella sua personalità: la passione maniacale per l’abbronzatura; l’eleganza affettata, affidata non alla classe del portamento o dell’eloquio, bensì all’ostentata ricercatezza del vestire; il fatto che mentre parlava la sua mano non stesse mai ferma, correndo dalla cravatta, alla camicia, alla tasca. Se da una parte tali atteggiamenti indicavano l’assenza in quell’uomo di spontaneità, naturalezza, disinvoltura, dall’altra ne segnalavano il senso di disagio e imbarazzo provato nell’essere al centro dell’attenzione: cosa ben strana per un politico di quel livello. L’impressione era insomma che dietro la parvenza di impeccabile damerino si celasse un soggetto nervoso, inquieto, instabile: e non solo dal punto di vista ideologico.

Non essendo stato possibile impallinarlo alla Camera – dove nonostante la sua evidente ansietà la topica non era venuta – quella direzione nazionale era stata convocata e congegnata proprio allo scopo di fargli saltare i nervi. Con ogni probabilità, egli era giunto nella sala poco prima dell’ora convenuta per il suo intervento; e invece aveva dovuto restarsene lì a lungo, a friggere, a sorbirsi i peana ministeriali al governo presieduto dal suo odiato nemico, conditi dalle rampogne di  Bondi.  Allorché aveva mostrato di essere arrivato al punto di ebollizione, callidamente Berlusconi gli aveva dato la parola. Dopodiché era arrivata la gogna: il Cavaliere lo aveva bacchettato in maniera sempre più veemente, fino a svergognarlo davanti a tutti e alzando la voce come si fa con un monellaccio che proprio non ne vuol sapere di mettere la testa a posto.

A quelle bordate Fini aveva reagito accalorandosi, paonazzo in volto, con espressione cattiva, scattando in piedi e puntando il dito contro il suo tonante inquisitore; per poi ritornare padrone di sé, e rimettersi seduto. Fino alla tirata d’orecchie conclusiva: “se vuoi fare come ti pare, ti devi dimettere da presidente della Camera”. Di nuovo quello reagisce, controbatte; ma in maniera controllata, ed esibendo il suo sorrisino beffardo. Subito dopo però si alza nuovamente: e stavolta punta contro il palco, agitando ancora la mano.

Ecco il momento tanto atteso; tutti trattengono il fiato. Perché se dopo la sfuriata Fini prende la porta e se ne va – magari mandando Berlusconi a quel paese – è fatta: si è messo da solo fuori dal partito.

E invece quello torna nuovamente a sedersi.

Sennò che fai, mi cacci?ultima modifica: 2020-05-31T11:29:56+02:00da tradersimo
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