Straniero indesiderabile di Pietro Riccobaldi

In Straniero indesiderabile Pietro Riccobaldi ripercorre la propria tormentata esperienza di emigrato, avvenuta in anni dalla forte tensione politica. Il pregio principale dell’opera sta nell’offrire numerosi spunti di riflessione su diverse pagine della Storia novecentesca, della quale vengono rivelati episodi inediti.

Nato nel 1901 a Manarola, come tutti i figli delle Cinque Terre l’autore cresce avendo quali quotidiane compagne la fame e la miseria. “L’unica risorsa era il vino, prodotto da terra avara che richiedeva durissimo lavoro e sovrumani sacrifici. Emigrare, cercare lavoro fuori era considerato come una dichiarazione di resa; quasi tutti rimanevano perciò aggrappati ai loro vigneti, orgogliosi di essere proprietari, di lavorare in proprio. Solo alcuni – pochissimi – cercavano lavoro nelle ferrovie o nelle fabbriche a La Spezia: ma con salari da fame”.

La vita era durissima, anche per i bambini, a coltivare quei fazzoletti di terra strappati alla roccia e trasformati in “terrazzi” solo grazie al sacrificio di generazioni. “Tutto l’inverno su nelle vigne; e nell’estate, in attesa della vendemmia, non si stava certo in riposo. Tutte le mattine, verso le tre, da sei anni in su, chi poteva camminare doveva alzarsi per andare nel bosco a far strame per le pecore o legna per l’inverno. Ogni famiglia aveva due o tre pecore e – non tutte – anche il maiale. Lo strame faceva letto fresco alle pecore e diventava letame per la vigna; ma serviva da letto anche per le nostre latrine”.

In tale desolante scenario, l’arrampicata notturna dal mare al vigneto regala se non altro la sfavillante visione della città e del suo golfo, assieme a fantasie che solleticano lo stomaco. “Quando arrivavamo sul monte a volte era ancora buio, vedevamo La Spezia e il porto e le navi: tutto illuminato di luci elettriche, uno spettacolo eccitante che mi piaceva tanto. Pensavo anche a tutte quelle belle rosette calde che sicuramente a La Spezia a quell’ora venivano sfornate: “er pan da’ Spèza”, come appunto lo chiamavamo. Quante ne avrei mangiate! Avevo undici anni quando la luce elettrica arrivò a Manarola: lo spettacolo di La Spezia illuminata perse un po’ del suo fascino”.

Reso omaggio alle usanze e ai personaggi più pittoreschi della sua terra, alle credenze che avevano il compito di colorare in qualche maniera lo squallore della quotidianità, alla centralità rappresentata per i ragazzi di quei paesi dalla chiesa, Riccobaldi ci narra di come egli si stancasse ben presto di quella vita fatta solo di “fame e letame”, fino a ottenere a dodici anni dal padre il permesso di andare alla Spezia ad apprendere un mestiere, trovando lavoro presso un’officina meccanica, per 40 centesimi a settimana. “Ero felice, ma non imparavo nulla: allora gli apprendisti sostituivano i muli. A coppie ci mandavano in giro per la città con il carretto carico di cancelli, tubi, sbarre di ferro, finestre metalliche e di tutto quanto veniva prodotto nelle officine. Uno si metteva fra le stanghe e tirava, l’altro spingeva. A volte i materiali dovevano essere portati abbastanza lontano: impiegavamo tutta la mattinata”. La musica non cambia allorché il ragazzo passa ad altre officine.

Il 3 luglio 1916 le esigenze del conflitto mondiale fanno vivere alla città una delle pagine più dolorose della sua storia: sul molo Pirelli l’esplosione di alcuni carri ferroviari carichi di tritolo provoca la morte di quasi 300 marinai, intenti a spingerli a braccia. Trovandosi a breve distanza, Pietro ha modo di assistere al tragico episodio e all’apocalittico scenario che ne consegue, coinvolgendo tutta la zona del porto.

Ormai giovanotto, egli riesce a entrare in Arsenale: “qualche lira in tasca l’avevo, fumavo e mi piaceva tanto il ballo”; passione che ne farà l’organizzatore delle feste danzanti manarolesi. Il racconto autobiografico entra nel vivo allorché, nel ‘20, Riccobaldi parte per il servizio militare, in Marina. La dannunziana “impresa di Fiume” è in pieno svolgimento: il nostro viene imbarcato come fuochista sul cacciatorpediniere Espero, inviato sull’Adriatico nell’ambito del blocco navale con cui il governo Giolitti tenta di far recedere il Poeta soldato dalla sua dirompente iniziativa. Ma come ci spiega l’autore, la “linea dura” tenuta ufficialmente da Roma è solo una finzione per compiacere le diplomazie internazionali.

“Il governo italiano diceva di essere contrario a questa avventura; ma sotto sotto c’era chi spingeva, tanto che alcune navi – ricordo la Francesco Nullo e la Bronzetti – erano passate dalla parte di D’Annunzio. Anche in terra furono mandati dei reparti a porre l’assedio alla città, ma era tutto un gioco: anziché bloccare, i comandi facevano passare non soltanto i viveri e tutto quanto occorreva d’altro, ma interi reparti e anche navi”. La “rivolta” patriottica coinvolge anche l’Espero e lo stesso manarolese, “non perché capissi le menate di D’Annunzio ma così, per spirito ribelle, per il gusto di essere contro l’autorità in genere”.

E così una sera il sergente torpediniere postosi a capo dell’ammutinamento “si affiancò sul ponte al brigadiere dei carabinieri per tastare il polso a riguardo dell’impresa fiumana. Le loro idee coincidevano e il brigadiere assicurò che quella notte i carabinieri “avrebbero dormito”. Sulla mezzanotte, come stabilito, ognuno andò al posto suo. Io facevo parte del gruppo che doveva bloccare il comandante: con degli strafilaggi da branda lo legammo da capo a piedi senza che opponesse resistenza. Alla fine, disse sorridendo, nella sua parlata toscana: “Madonna bona, m’avete legato come un salame””. Lo stesso trattamento viene riservato agli altri ufficiali.

Nell’accogliere i nuovi adepti D’Annunzio sa tener fede alla propria fama di aulico poeta, declamando: “Espero, stella diana, stella mattutina: con questo nome – lo sapevo – non potevi non passare dalla mia parte”. Spesso i “legionari” vengono radunati per ascoltare le “concioni” con cui i “pezzi grossi” spiegano come la vittoria italiana sia stata “mutilata” al tavolo della pace parigina. Ma in realtà al nostro “di Fiume e D’Annunzio non importava un bel niente: l’importante era poter passare i mesi che ancora mi rimanevano nel migliore dei modi”.

Intanto però le pressioni degli Alleati mettono fretta al governo italiano; fino all’invio a Fiume della corazzata Andrea Doria, con l’incarico di risolvere definitivamente la questione, per quello che passerà alla storia come il “Natale di sangue”. Giunta il 26 dicembre la nave nel golfo, con il megafono il comandante concede all’Espero quindici minuti per uscire dal porto, avendo i siluri riposti in chiglia e le cappe ai cannoni. In realtà, l’ammiraglio è rimasto vittima di un equivoco: veduta sprigionarsi dal cacciatorpediniere una fumata nera, ne ha dedotto che le sue caldaie siano accese; quando invece sono state appena spente, e proprio perché quel fumo non potesse essere interpretato come una provocazione nei confronti della Doria. Per cui – anche volendo – quell’ordine non potrebbe essere eseguito.

Senonché gli ammutinati hanno già deciso altrimenti. Armatosi a sua volta di megafono, il sergente cerca un compagno dalla voce stentorea per dettargli la risposta da dare alla corazzata, e trovandolo proprio in Riccobaldi. “”Doria, noi eseguiamo solo gli ordini di D’Annunzio”, urlai nel megafono. Avrei voluto aggiungere “per il bene dell’Italia”; ma non ci fu tempo, perché la risposta della corazzata fu fulminea: sei cannonate. Le prime due in aria, le altre contro la plancia di comando che si incendiò e i fumaioli, tre in fila, furono traforati con un sol colpo. Le cannonate non arrivavano mai senza danno: fra il nostro equipaggio ci fu un morto, alcuni feriti e l’incendio a bordo; divampando il quale, ci venne ordinato di buttarci in mare. Il freddo era intenso; mi buttai anch’io, ben vestito e indossando anche un paio di stivali. All’inizio, imbottito com’ero, nuotavo senza sforzo e non sentivo nemmeno troppo freddo: ma di lì a poco dovetti faticare per tenermi a galla e raggiungere la banchina, che per fortuna era poco lontana”.

L’equipaggio dell’Espero viene trasferito sulla Cortellazzo e portato a Venezia. “Credevamo di  essere puniti per la nostra ribellione, e invece ci furono date 500 lire come premio: una discreta somma per quei tempi. Per un paio di settimane frequentai teatri, ristoranti di lusso e qualche donnina, come un milionario. Rimasi a Venezia per alcuni mesi imbarcato su un rimorchiatore, ma con il desiderio di essere trasferito a La Spezia. Finalmente fu bandito un concorso per allievi motoristi con sede al Varignano: feci domanda, fui accettato e trasferito”. Pietro viene destinato in Puglia: prima Bari, poi Taranto. Intanto il giorno del congedo si avvicina: da una parte al nostro ripugna il dover tornare alle misere occupazioni manarolesi; dall’altra però sente di non voler neppure fare il marinaio a vita. E così alla fine al comandante che non intendendo rinunciare alla valentia del suo motorista di fiducia le tenta tutte per indurlo a raffermarsi, risponde di no: “Mi arrangerò”.

Una volta tornato al paese, a Riccobaldi va meglio di quanto sperato: essendo stata ripristinata una teleferica già utilizzata per la guerra e riconvertita per il trasporto dei prodotti agricoli, forte di quanto riportato nel suo documento militare viene assunto come motorista dalla cooperativa che gestisce l’impianto. Un giorno però, a causa di un suo errore nella manovra, si sfiora la sciagura: il carrello sfugge al controllo prendendo a correre come impazzito lungo il cavo portante. Tutti i contadini al lavoro nei dintorni si accorgono del pericolo, e trattengono il fiato; fortuna vuole che al primo traliccio le ruote della navetta saltino via dal cavo, mandando a schiantare nel deserto campo sottostante tanto il carrello quanto i barili di vino trasportati. Concausa dell’incidente è stata l’usura di alcuni pezzi del dispositivo di sicurezza; del resto la cooperativa non dispone di finanziamenti, risultandole un problema perfino l’acquisto della benzina. Pietro si ingegna di rimediare a tali mancanze con degli espedienti di fortuna; finché non si stufa e lascia quel lavoro, peraltro poco prima che la cooperativa fallisca.

Ma a rappresentare il vero e proprio spartiacque nella vita dell’autore è l’avvento del fascismo, “la peste nera sparsasi per tutta l’Italia e giunta anche a Manarola”. E sarà proprio lui a provocare la prima “spedizione punitiva” contro il paese, negando una domenica, da responsabile della sala da ballo, l’accesso gratuito al gruppetto di camicie nere giunte dalla Spezia. La sera, mentre si trova con i compagni nella piazzetta dell’Arpaju, ecco ritornare i facinorosi cittadini, ma con l’aggiunta di camerati locali e perdipiù la scorta di due guardie di finanza. La pena da infliggere ai ragazzi del ballo è presto detta: l’accesso alla sala costava una lira? “”Questa è la lira”, e giù uno schiaffone. “E questa è un’altra lira”, e giù un altro schiaffone”. Ma quando arriva il suo turno, il furbo manarolese ha la pensata di dire che è stato a Fiume con D’Annunzio; circostanza immediatamente confermata da un fascista del posto suo amico.

La clamorosa notizia manda all’aria ogni piano punitivo; perché per il fascismo “romantico” dei primordi un legionario fiumano non solo è intoccabile: è un mito. E così il racconto ci regala una delle pagine più gustose: “Per quella sera me la cavai; ma con la storia di D’Annunzio e di Fiume mi nacquero ben presto fastidi assai più seri. Per i fascisti D’Annunzio e Fiume erano realtà sacre: più in là non era facile andare. Ai loro occhi io ero dunque una specie di eroe; sicché mi volevano con loro a tutti i costi. Il mio amico fascista mi parlava spesso di questi loro propositi: “Devi venire con noi – mi diceva – ti devi iscrivere al Fascio: per il tuo bene, il tuo futuro e anche per il paese”. Ma io da quell’orecchio non ci sentivo e cercavo di barcamenarmi. Accompagnato da lui dovetti anche andare a parlare con un capo, un “pezzo grosso” che abitava a Corniglia: voleva conoscere “l’eroe di Fiume””.

L’incontro ha luogo tra minacce e blandizie: qualora si iscrivesse al Fascio, il caporione si dice in grado di garantire al riottoso e disoccupato conterraneo l’assunzione in Arsenale, nonché la nomina a caposquadra della Milizia. Ma il nostro temporeggia: “Ero preoccupato e speravo tanto che i fascisti si dimenticassero di me”. Seconda convocazione: “Il tuo passato così glorioso ti rende automaticamente fascista”, prova nuovamente a convincerlo il cornigliese, mostrando anche una punta d’invidia per la sua esperienza fiumana. Stavolta Pietro si fa più coraggioso: proclamata la propria indifferenza verso la politica e condannata la violenza praticata da alcuni fascisti del suo paese, ne fa i nomi, chiedendo che vengano espulsi dal partito. “Lo faremo: ma intanto tu devi iscriverti al Fascio”, il reiterato invito; il quale non riesce tuttavia a fare breccia nel suo animo.

Il 28 ottobre 1923, il primo anniversario della Marcia su Roma si celebra anche a Manarola: Riccobaldi ha ormai fatto la sua scelta, e il mancato saluto al gagliardetto fascista gli fa rimediare il manrovescio in precedenza evitato grazie a D’Annunzio. “È un pezzo che ti aspettavo, mascalzone! – Chi è più mascalzone di te?”, la sua temeraria replica a colui che lo ha percosso. “Ci fu la zuffa, comparvero le pistole. I fascisti erano sempre armati; ma i carabinieri non vedevano mai niente. Non era così per noi antifascisti; guai se fossimo stati sorpresi con un’arma qualsiasi, un pugnale, peggio una pistola: saremmo stati subito arrestati. In qualche modo però bisognava pur difendersi e io mi portavo sempre in tasca una grossa chiave”. È con questa che egli cerca di colpire alla testa l’avversario; si intromettono altri ed è il solito fascista suo amico a trascinarlo via: “Vai a casa – mi disse – se no stasera finisci nel canale””.

L’incidente ha un seguito dopo che lo stesso Pietro ha inviato al Fascio spezzino un reclamo su quanto accaduto; a convincerlo all’improbabile passo sono stati “alcuni compagni che ancora non credevano che i fascisti fossero tutti della stessa pasta”. Viene così ricevuto dall’indiscusso “ras” cittadino, Guido Bosero, il quale gli garantisce che all’occorrenza con la sua squadra saprà “ripulire Manarola dalla canaglia sovversiva”. “Bene, eccellenza – ribatte il sempre più audace antifascista – se verrà a far pulizia noi l’aiuteremo: ma sia ben chiaro che la canaglia non siamo noi, ma questi qua”, indicando i camerati manarolesi, presenti nella sala schierati sull’attenti.

Naturalmente insulti, minacce, maltrattamenti nei confronti di chi si oppone alla protervia fascista proseguono. Ma le forme di dissenso possono essere le più diverse: il ballo anzitutto, che a detta dell’autore indispettisce non poco i torvi fascisti per il semplice fatto di mostrare “la gente assieme, allegra, libera, lontana da loro”. Con i compagni se ne inventa anche un’altra, sempre sul tema musicale: “Avevamo comprato un grammofono che allora, particolarmente per i nostri paesi, era una grande meraviglia; lo tenevamo su un tavolino accostato alla finestra aperta, con la tromba fuori così che tutti potessero ascoltare. Fra i dischi di opere, sinfonie, canti popolari, avevamo anche la Risata: un disco con una gran risata, che non finiva mai; lo mettevamo quando vedevamo passare i fascisti. Alla risata clamorosa del disco si univano quelle di tutti coloro che sentivano: si affacciavano alle finestre e ridevano a voce alta, per il disco e anche per il livore dei fascisti”.

Ma il lungo capitolo dedicato alla violenta tenzone politica in atto prima dell’avvento della dittatura ci riserva anche una pagina di intensa umanità. Con uno dei “teppisti” cittadini che vengono a supportare i fascisti locali, Pino, quando ha lavorato in Arsenale Riccobaldi è stato amico: “mi era simpatico, ci dividevamo le sigarette e ci passavamo la cicca a vicenda”; tanto che rivederlo “vestito da centurione fascista mi fece proprio una brutta impressione”. Non solo: nell’incontrarlo costui finge di non conoscerlo, e usando le maniere più brusche. Finché un giorno che si trova in abiti civili, l’ex collega non lo abbraccia con slancio. “Ma che diavolo stai combinando a Manarola?”, gli chiede allora il nostro. “Caro Pietro, devi sapere che i fascisti tuoi paesani vogliono che ti faccia la pelle: puoi ringraziare le sigarette che ci siamo divise. Comunque fammi il favore, quando sai che sono a Manarola: cerca di sparire dalla circolazione, altrimenti sono obbligato a dartele, e non mi piace”. Al nostro però lasciare da soli gli altri parrebbe una viltà; per cui gli risponde: “Dammele, ma non picchiare troppo forte: insomma, fa’ finta…”. “Ripensavo a tutti gli spintoni, le scrollate, gli insulti ricevuti: proprio male non avevo mai sentito. Così, ogni volta che incontravo il Pino i maltrattamenti non me li levava nessuno: ma erano per finta!”.

Alle elezioni del ‘24 i Riccobaldi votano compattamente per il Partito popolare, in quanto ritenuto l’unico in grado di contendere la vittoria al “listone” fascista. Al seggio, la solita compresenza di camicie nere cittadine e locali provoca l’ennesimo battibecco con Pietro, invitato da uno spezzino a recarsi nella vicina casa di un camerata per “imparare a votare”. “Io so votare: non ho bisogno che nessuno mi insegni”, la sua ferma replica. “Lascia perdere – interviene allora un manarolese, rivolto all’altro – con quel tipo lì non c’è niente da fare”. Ma i “consiglieri” non mollano: “Senti, perché non parliamo? Vieni con noi, nella nostra sede, e così parliamo – Se avete qualcosa da dire, dite pure: non ci sono segreti tra me e voi”. A tale provocatoria risposta quelli passano dalle parole ai fatti, immobilizzando il ribelle onde impedirgli il voto; ma a sua difesa interviene l’influente proprietario della sala da ballo: “Finitela: tanto un voto più, un voto meno fa lo stesso”. Nel frattempo, il brigadiere dei carabinieri finge come al solito di non vedere.

La vittoria del Fascio risulta schiacciante, anche a Manarola. Dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria, per gli antifascisti la situazione si fa quantomai critica, sia sul piano lavorativo che su quello della sicurezza personale; alle Cinque Terre in particolare l’episodio più grave ha luogo a Riomaggiore, ove viene ucciso il giovane Andrea Maineri. Donde la decisione del nostro di espatriare, scegliendo gli Stati Uniti.

Qui ha inizio la seconda parte del racconto, cui il libro deve il titolo. Perché negli Usa Riccobaldi rimarrà a lungo “straniero indesiderabile”, in quanto giuntovi clandestinamente e impossibilitato a regolarizzare la propria posizione, se non venendo a patti con la disonestà e la corruzione dilaganti nella società americana. Il che pone un problema, che la coscienza dell’autore non ha voluto affrontare ma che rimarchiamo noi: per non scendere a compromessi con un regime illiberale, egli ha scelto di rifugiarsi in una democrazia che dietro il paravento della statua della libertà trova la propria quintessenza nell’arricchimento personale, e conseguentemente nell’immoralità, nel malaffare, nella mafiosità. Al tempo stesso al nostro memorialista va tuttavia riconosciuto il merito di non averci nascosto niente del marciume con cui si è regolarmente trovato a dover fare i conti nella sua lunga permanenza oltreoceano.

Tanto per cominciare, egli deve versare una mazzetta di 4.000 lire per potersi imbarcare sul piroscafo Fert che, assieme all’amico Paolo, da Genova lo porterà a New Orleans, svolgendovi la mansione di fuochista. A dire il vero Pietro avrebbe preferito andare a tentare la fortuna direttamente a New York; è il compagno d’avventura a convincerlo a ripiegare sulla Pennsylvania, ove, a Scranton, il fratello Jack possiede un bar. Si tratta in realtà di una baracca, che alla principale funzione di abitazione aggiunge, la domenica, quella di mescita per gli emigrati europei di varie nazionalità che lavorano nelle circostanti miniere di carbone, e residenti in altrettante catapecchie. Facendo lo stesso Jack il minatore, Paolo ne diviene l’aiutante; mentre Riccobaldi inizialmente fa il disoccupato e l’ospite: per dare un qualche contributo all’economia domestica prende allora a esibirsi come cantante nel saloon, facendone aumentare gli incassi. Per poi occuparsi anch’egli in miniera, sempre grazie all’aiuto di Jack; finché l’indizione di un lunghissimo sciopero non lo costringe a cercarsi un altro lavoro.

Che trova presso un’impresa che sta costruendo un grande lago artificiale: calati dentro profonde fosse, gli operai debbono spalare il fango. Ed è qui che riaffiora lo spirito ribelle del nostro: “Era ottobre, cominciava a far freddo; bagnati e infangati dentro alla trincea tutto il giorno… rimpiangevo la miniera. Sul bordo della trincea, un uomo dai capelli rossi andava avanti e indietro; parlava forte, il pusher, urlava: “Hurry up, hurry up“, ripeteva senza sosta. Credendo che fosse soddisfatto del nostro lavoro, lo guardavo con un sorriso di simpatia; ma mi accorsi che i miei compagni non ridevano: anzi, quando lo vedevano arrivare aumentavano il ritmo. “Cosa dice?”, chiesi a un napoletano che era nella buca con me. “È arrabbiato: ci maledice, perché lavoriamo poco; “iamme, iamme”, dice”. Aspettai che Pelo rosso fosse sopra di me e, come se non lo avessi visto, gli scaraventai una palata di fango addosso. A gesti mi fece capire di salire, mi diede un biglietto e mi spedì in ufficio a riscuotere la paga. Ero licenziato: ma l’anima mia rideva”.

Dopo avere fatto il lavapiatti a Brooklyn – sfruttando l’ospitalità di parenti – Pietro molla pure questo lavoro per fare ritorno a Scranton, nella speranza che lo sciopero abbia termine; nel frattempo si fidanza con una ragazza di origine italiana, dedicandosi allo studio dell’inglese. Ripreso il lavoro in miniera e sposatosi nel ‘30, nell’era del proibizionismo egli non si perita di arrotondare con il commercio clandestino delle bevande alcooliche; 100 dollari il pizzo da corrispondere mensilmente ai corrotti poliziotti per la gestione dell’abusivo locale. È grazie ai proventi di tale attività che gli sposini possono accendere un mutuo per comprarsi una casa.

Dopo sette anni di vita negli Stati Uniti, pur avendo raggiunto una discreta posizione economica e sposato una cittadina americana, Riccobaldi sente di dover sanare la propria condizione di “indesiderabile”, privo com’è di passaporto e continuando ad usare quale documento d’identificazione il foglio a suo tempo rilasciatogli a bordo del Fert; si vede perciò costretto a versare centinaia di dollari per foraggiare disonesti personaggi che lucrano sulle situazioni illegali come la sua. Sapendo però rendersi protagonista anche di un gesto di onestà, la volta che il cassiere della banca riscontra un ammanco di 500 dollari: controllati i soldi ritirati quel giorno e rilevata l’eccedenza, il manarolese la restituisce seduta stante al bancario, impegnato nel giro di tutti i clienti serviti in giornata.

Specie con l’aggravarsi della crisi economica seguita al crollo borsistico del ‘29, questi immigrati non regolarizzati divengono un vero e proprio business. “Loro forse non lo sapevano: ma erano il grande “affare” del momento. Imprenditori, commercianti, padroni in genere; avvocati, poliziotti, funzionari, faccendieri: tutti vi vivevano e prosperavano sopra. E c’erano anche gli aspetti politici e l’attività delle comunità nazionali che in qualche modo cercavano di difendere gli interessi dei loro associati”. Di un altro imbroglio si rende allora complice lo stesso console italiano di New York, nel prendere per buono un certificato di residenza del nostro che sa essere falso: e così l’antifascista di Manarola non si fa scrupoli neppure di avvalersi della “buona disposizione” di questo funzionario del governo Mussolini, pur di ottenere l’agognato passaporto.

Dopodiché un ulteriore escamotage viene ordito dall’avvocato – di origine siciliana – cui Pietro si è affidato. Per completare la regolarizzazione occorre che egli esca dal territorio statunitense per poi rientrarvi per ricongiungersi alla moglie: e così egli finisce alle Bermude. Come concordato, dopo due mesi di “vacanza” giunge la richiesta della consorte; Riccobaldi si presenta perciò dal console americano; il quale, dal modo in cui si esprime, parrebbe un ammiratore del dittatore italiano, e segnatamente della disciplina con cui governa il Paese. “Sicché tu sei stato per sette anni sul territorio degli Stati Uniti illegalmente. Se ti avesse preso Mussolini, ti avrebbe dato quello che meritavi: la galera. Purtroppo la legge è in tuo favore, per cui devo lasciarti andare; ma se dipendesse da me, ti tratterei come ti avrebbe trattato Mussolini: ti sbatterei in galera”, gli dice.

Per poi però rabbonirsi alla lettura del suo fascicolo personale: “Vedo che sei un uomo di buona volontà. Ti sei comprato una casa, hai anche mille dollari in banca… e sei pure un uomo onesto”, aggiunge riferendosi alla restituzione dei 500 dollari; dopodiché firma il documento tanto agognato. Rientrato a Scranton, forte della sua regolarizzazione Pietro prova a recuperare almeno una parte dei soldi sottrattigli dai manigoldi cui si era affidato da “indesiderabile”. Come risposta, uno di costoro apre la finestra, dicendogli: “Tieni presente che siamo al sesto piano”. Al che il nostro decide di lasciar perdere.

Nel ‘32 la situazione economica statunitense si fa catastrofica: 15 milioni di disoccupati, con ininterrotte manifestazioni di protesta. Perso il lavoro in miniera, a Riccobaldi non rimane che il bar, a sua volta penalizzato dal fatto che gli avventori – ossia gli stessi minatori – rimasti disoccupati bevono meno e spesso neppure pagano. Si vede perciò costretto a ripiegare su quei commerci con cui i più cercano di ovviare alla miseria: prima carbone, poi detersivi, infine frutta e verdura. Anche in questo caso la truffa è all’ordine del giorno, trattandosi di frutta scadente, o passata, le mele quasi tutte marce; occorre perciò trovare il merlo giusto, recitare la parte al momento della vendita e soprattutto evitare di imbattersi due volte nello stesso acquirente. Oltre a ciò, Pietro fa per l’ennesima volta carte false per ottenere il sussidio di disoccupazione, che non gli spetterebbe in quanto proprietario dell’abitazione.

La crisi pone fine alla presidenza Hoover sancendo l’inizio dell’era Roosevelt, dall’autore già apprezzato quale governatore dello Stato di New York per la sua politica favorevole ai ceti popolari e che giungerà a definire come “il miglior presidente di questo secolo”. Anch’egli ha del resto a beneficiare delle iniziative del New Deal; la paga – mezzo dollaro l’ora – non è granché; ma se non altro il manarolese “non deve più fare l’imbroglione per vivere”. La casa viene allietata dalla nascita di una figlia; diverse disavventure sono tuttavia all’orizzonte. Non pagando più da anni le rate del mutuo, perde la casa; inoltre, una volta scoperta la frode lo Stato chiede la restituzione del sussidio indebitamente percepito: 700 dollari, ma che grazie a un altro maneggio vengono ridotti a 200.

Con il cambio di gestione della Casa Bianca ha termine il proibizionismo, per cui Riccobaldi può se non altro ripartire alla luce del sole con il bar; di conseguenza, torna mensilmente a presentarsi il “poliziotto-esattore” per il centone di mazzetta. Alcool e prostituzione marciano in coppia, “unione felice che durava da sempre e accontentava tutti: autorità, polizia e bande di malviventi camorristi. Un affare immenso! Ogni tanto saltava fuori qualche savonarola che bandiva la sua crociata per “pulire la città””. Ma per durare poco: la “santa alleanza” composta da autorità, polizia e malavita riesce sempre “a incastrarlo e a mostrarlo all’opinione pubblica come un impostore”.

L’autore ha così modo di narrarci uno degli episodi più buffi del libro: la brutta fine toccata al pastore protestante Hallenback, datosi parecchio da fare tra pubblicazioni e conferenze moralizzatrici. Fino alla mattina in cui giornali non ne sbattono la foto in prima pagina, ma non per tesserne le lodi; per il personaggio in questione la notizia non potrebbe anzi risultare più infamante: la notte è stato arrestato in un bordello. Insomma un classico da contrappasso dantesco; o se vogliamo, da soggetto di un film con Ugo Tognazzi. “Con la complicità di una prostituta le autorità di polizia gli avevano teso un tranello: era andato per parlare, per convincere le giovani donne a “tornare sulla retta via” e l’avevano preso con le mani nel sacco. Del reverendo Hallenback predicatore moralista di giorno e “puttaniere” di notte non si sentì più parlare”.

Decorsi cinque anni dall’“avventura” alle Bermude e dal conseguente ingresso regolare sul suolo statunitense, a Pietro viene riconosciuta la cittadinanza americana. Nella città dei minatori a prevalere è il verbo comunista, specie adesso che la disoccupazione è alle stelle: anch’egli non manca di iscriversi alla rossa Worker’s Alliance. “Da tempo avevo capito che non bastava accendere ogni mattina la radio sperando in buone notizie e che combattere il capitalismo americano che ci affamava era come combattere Mussolini e il fascismo”. Il passo successivo è il suo ingresso nell’Iwo, l’organizzazione operaia legata al Partito comunista americano; al quale egli finisce con l’aderire dopo lo scoppio della guerra di Spagna.

Il perdurare della depressione riduce Scranton a una città fantasma; donde la decisione del nostro di spostarsi a New York, impiegandosi nuovamente come lavapiatti a 10 dollari a settimana e passando da un ristorante all’altro. La casa trovata a Manhattan è una topaia, per cui Riccobaldi firma ancora una volta il falso, dichiarando di risiedervi da nove anni e producendo quale prova l’atto di matrimonio: “nessuno pensò mai di controllare, e così nel ‘41 mi fu assegnato dal Comune un confortevole appartamento”. Sono gli anni del sindaco La Guardia, per il quale egli simpatizza. Prosegue al contempo nell’impegno politico-sindacale iscrivendosi ai Lavoratori della mensa, “una delle organizzazioni operaie più progressiste della città”.

Pietro riesce a farsi assumere nel prestigioso ristorante Toffenetti a costo di accettare il lavoro più gravoso: quello di lavatore di marmitte talmente grandi da costringerlo a saltarci dentro, “come da ragazzo a Manarola nei tini e nelle botti”. In tale locale il sindacato non è mai entrato: d’intesa con il partito, egli dà allora vita a un’iniziativa di proselitismo, che viene però bruscamente interrotta dal suo licenziamento. Nel frattempo – specie in considerazione della sua militanza comunista – si premura di modificare il proprio cognome, “per un minimo di vigilanza e precauzione”, presentandosi all’occorrenza come Baldi.

Allorché gli Usa entrano nel conflitto mondiale, sono in molti a non condividere la scelta della Casa Bianca; l’autore si schiera invece convintamente dalla parte di Roosevelt, al punto da partecipare attivamente nel ‘44 alla campagna per la sua rielezione. Lavora sempre nella ristorazione, ma stavolta come cameriere; pochi giorni dopo la fine della guerra, nel locale ha luogo un episodio che non fa onore alla divisa indossata dai protagonisti: i quali trovano comunque pane per i loro denti. “Una sera entrò nel ristorante un gruppo di sei ufficiali di aviazione, molto giovani, sedendosi a un tavolo del mio settore; erano molto allegri e chiassosi. Capirono che ero italiano; uno si rivolse a me e disse: “Cassino è il tuo paese di origine? Hai dei parenti da quelle parti? Gliele abbiamo date a quei fascisti là… è tutto polverizzato: la pietra più grossa rimasta è come il mio pugno”. “No – risposi – non provengo da Cassino: io sono di Milano, la città dove i partigiani hanno preso Mussolini e i suoi e li hanno messi a testa in giù””.

Ma la piaga più invereconda della società americana è la discriminazione razziale: la quale – come egli può constatare quotidianamente – non colpisce soltanto i lavoratori, ma anche i clienti di colore. “Si usavano mille accorgimenti per scoraggiarli a frequentare i ristoranti, si mettevano i cartellini “riservato” sui tavoli che in realtà erano liberi, per lo stesso menu c’erano due liste: una riservata ai bianchi e una per i negri con i prezzi maggiorati. I clienti “indesiderati” – sempre negri o portoricani – venivano invitati ad accomodarsi in settori di separazione. Non poche volte mi sono sentito dire: “Pietro, vedi quella ragazza negra? Vai e servila male””.

La critica situazione postbellica non consente al manarolese di fare ritorno in Italia prima del maggio ‘46, e ancora una volta in maniera truffaldina. Data l’impossibilità di ottenere il passaporto, è infatti solo grazie a un’iscrizione fasulla al sindacato marittimo che egli riesce a imbarcarsi come marinaio sul piroscafo Elmira Victory, che sbarca a Napoli l’11 giugno: a cominciare dal porto, la città mostra ancora tutte le devastazioni dei bombardamenti. Il referendum che ha sancito la vittoria della repubblica si è svolto appena nove giorni prima; ma all’occhio attento del nostro non sfugge che qui le aspettative erano diverse. “Sulle cantonate c’erano ancora i manifesti della campagna per il referendum istituzionale e si capiva che a Napoli la monarchia aveva una sua roccaforte, tanto numerose erano le scritte in suo favore”. Ottenuta una breve licenza e attraversata una Penisola altrettanto devastata, Pietro ha appena il tempo di rivedere Manarola e salutare familiari ed amici.

Gli va meglio un paio di mesi dopo, allorché, in occasione del secondo viaggio della nave, assolda un marinaio perché lo sostituisca nel suo incarico di ingrassatore nel tratto da Napoli a Trieste. Può così trascorrere a casa dieci giorni; ma la sua manovra viene scoperta dal comandante dopo che l’altro ingrassatore ufficiale (uno squilibrato americano che ha già fatto fuori un coolie in Cina, cavandosela con una multa di 25 dollari) è stato arrestato per aver ucciso un ragazzo che lavorava nel porto napoletano – centro di smistamento dei loschi traffici di marca statunitense – rimediando appena due anni di carcere.

Ormai provetto cameriere e quindi ben remunerato, nel ‘48 Pietro può regalare alla famiglia un lungo viaggio in Italia: “Eravamo turisti, serviti e riveriti: ci sentivamo proprio “Americani””. Il suo lavoro successivo è in un night club: anche qui trucchi e raggiri, specie a danno dei clienti più alticci. “Dirigenti, ragazze compiacenti, camerieri e buttafuori avevano tutti un unico compito: spennare il pollo”. In particolare, la malandrina intesa fra entraîneuse e camerieri fa sì che il malcapitato, pregustando una notte di passione, paghi diverse volte la medesima bottiglia di champagne, la quale “da 25 dollari gli viene così a costare anche 100”. Sino alla beffa finale: “regolarmente, a notte inoltrata, il cliente, completamente ubriaco, anziché nel letto della “bambola bionda” si ritrovava disteso sul marciapiede in condizioni pietose, con un poliziotto che, battendogli il manganello sulle suole delle scarpe, minacciava di portarlo dentro se non spariva subito”.

Dopo l’avvento della guerra fredda, il maccartismo rappresenta per gli Stati Uniti “uno dei periodi più oscuri e disonorevoli della loro storia”. Riccobaldi si appassiona al caso dei coniugi Rosenberg – comunisti ed ebrei condannati alla sedia elettrica con l’accusa di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica – sino a partecipare alla marcia di protesta organizzata attorno alla Casa Bianca.

Nel ‘57, il desiderio di compiere un nuovo viaggio in Italia lo obbliga alla domanda per il passaporto: nel redigere la quale egli nega di essere stato un militante comunista. Dopo la sua partenza però il Dipartimento di Stato scopre il falso, inviandogli un dossier nel quale sono elencate tutte le attività da lui svolte sotto l’egida della falce e martello e invitandolo a presentarsi all’ufficio competente per i dovuti chiarimenti. Invece di farlo, Pietro si rammarica dell’incompletezza del fascicolo addebitatogli: “Mi sentivo defraudato: l’efficienza dell’FBI e dei suoi spioni in tanti anni non aveva capito che gli attivisti comunisti Baldi e Riccobaldi erano la stessa persona”.

Assieme alla famiglia decide di trascorrere la vecchiaia a Manarola, per cui riprende la cittadinanza italiana. Un giorno gli viene nostalgia di New York: ormai anziano, vorrebbe tornare a rivederla. Ma nel frattempo le leggi non sono cambiate: “Troppa inquisizione, troppa vessazione morale: avrei dovuto dire troppe bugie. Mi scoraggiai, lasciai perdere”.

Straniero indesiderabile di Pietro Riccobaldiultima modifica: 2020-06-25T19:03:03+02:00da tradersimo
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