Il caso Montessori

La rottura fra la pedagogista Maria Montessori e il fascismo rappresenta un caso mai del tutto chiarito. Conseguita una certa notorietà in Italia ma avendo scelto di diffondere il proprio innovativo metodo soprattutto all’estero, l’intellettuale marchigiana si era alfine stabilita in Spagna, trattenendovisi un decennio per fare ritorno in patria nel 1924. Evento dal regime celebrato con la massima enfasi, come testimoniato dalle parole celebrate nell’occasione dallo stesso Mussolini: “Il telegrafo Marconi e il metodo Montessori esprimono due forze, due genialità congiunte nel nome augusto della patria per compiere il disegno che certamente la provvidenza di Dio ci ha tracciato”.

Da parte sua l’educatrice, interessata a che la sua didattica potesse conoscere la miglior fortuna anche in Italia, non esitò ad abbracciare il nuovo corso politico. Grande regista del connubio tra il metodo montessoriano e la nuova scuola fascista fu Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini e a sua volta insigne pedagogista. Conseguentemente, nello stesso ‘24 il Duce commissionò un’inchiesta sulla situazione delle scuole che all’estero si richiamavano al modello Montessori: la quale sortì risultati più che lusinghieri, convincendolo a incoraggiare lo sviluppo di tale indirizzo pedagogico prettamente italiano che dando lustro al Paese si sposava alla perfezione con quell’esaltazione patriottica che stava in cima all’agenda del regime.

I risultati di tale promozione furono molteplici: l’elevazione dell’Opera Montessori a ente morale, con la nomina dello stesso Gentile a presidente e la costituzione di un consiglio di amministrazione del quale entrarono a far parte le migliori personalità sia del mondo scolastico che di quello culturale; l’elargizione da parte dello Stato di finanziamenti, onde favorire l’ottimizzazione dei rapporti fra le scuole montessoriane sparse per il mondo; l’apertura di nuove “Case dei bambini”. Rivolte ai bimbi dai 3 ai 6 anni e costituenti da sempre il cuore della pedagogia montessoriana, queste ultime venivano ulteriormente valorizzate mediante l’inserimento nella riforma gentiliana e il riconoscimento del loro pieno valore scolastico in quanto considerate propedeutiche all’istruzione elementare.

Data la contrapposizione filosofica che contrassegnava i due pedagogisti, la didattica impartita nelle Case veniva peraltro a rappresentare un curioso incontro di elementi piuttosto eterogenei: segno evidente che entrambi avevano accantonato ogni pregiudizio di carattere teorico per rendere un servigio al governo e quindi al Paese. Punta di diamante del pensiero idealistico italiano, Gentile puntava infatti alla creazione di un’unità astratta e superiore tra docente e discente, da realizzarsi sotto l’egida dello “spirito”; del resto nella sua concezione l’istituzione scolastica voleva essere selettiva, elitaria e “aristocratica”, ossia finalizzata a far emergere i migliori.

Decisamente più riconducibile, per sensibilità e formazione, alla temperie del Positivismo, la Montessori poneva invece alla base di ogni processo educativo e formativo il rispetto dell’individualità infantile, la cui base di partenza non poteva essere che l’attenta osservazione della spontanea attività di ciascun bambino. Questo senza alcuna discriminazione di ordine sociale o culturale: non a caso, la prima Casa aveva visto la luce nel popolare quartiere romano di San Lorenzo.

Conseguentemente, la scuola montessoriana non voleva essere un semplice luogo di accoglienza, ma appunto una “casa”: un centro di sviluppo intellettuale e morale in cui ai piccoli, all’interno di ambienti spaziosi, puliti e ordinati, veniva lasciata l’opportunità di muoversi, sperimentare, scegliere gli esercizi più congeniali alle loro attitudini, acquisendo al tempo stesso amore per l’ordine, la pulizia, il bello e apprendendo il valore del lavoro. Ma non per questo la “più fascista delle riforme” – secondo la definizione dello stesso Mussolini – veniva messa in un canto: in ossequio alle nuove disposizioni governative, anche in questo tipo di istituti si eseguivano canti, preghiere, disegno libero; con la devozione al re e l’omaggio alla bandiera a infondere nei bambini il sentimento patriottico.

Nel ‘26 la Montessori aderiva ufficialmente al Partito fascista, divenendone membro onorario. Gli anni successivi videro la fervente camerata di Chiaravalle indefessa organizzatrice di convegni pedagogici; mentre a illustrare l’attività dell’Opera sorgevano riviste e bollettini. Fino alla consacrazione, giunta nel ‘29 mediante l’apertura, a Roma, della Regia Scuola di Metodo Montessori – primo istituto secondario di questo tipo – con l’assegnazione da parte dello Stato alla stessa educatrice “dell’organizzazione e della direzione di questa importante scuola, dalla quale debbono uscire le insegnanti destinate a diffondere il Metodo in Italia”, e nella quale si insegnava anche la dottrina fascista. A quel punto asili e scuole elementari fecero a gara a porsi sotto l’egida dell’indirizzo didattico in auge, dal regime promosso a ogni piè sospinto. Allorché dall’estero i riconoscimenti al Metodo erano unanimi, la Montessori poteva ben rallegrarsi del fatto che anche in patria i suoi criteri educativi avessero ormai permeato di sé l’intero tessuto scolastico.

Ne fa fede la lettera da lei inviata al capo del governo in occasione dell’istituzione del nuovo indirizzo di studi superiori. “L’atto con il quale l’E. V. ha istituito una R. Scuola per la formazione delle educatrici dell’infanzia secondo il mio metodo viene a coronare il lungo mio lavoro a favore di un sistema educativo squisitamente italiano, che ha portato in onore pel mondo il nome della Patria, e viene ad esaudire uno dei miei più ardenti voti: quello di veder fiorire in Roma una scuola a me affidata, dove mi possa applicare a completare il mio metodo. E ardisco chiedere che mi sia concesso l’onore di essere ricevuta dalla Eccellenza Vostra: per manifestare la gratitudine del mio animo a Colui che dando nuova vita all’Italia ha voluto accogliere e dar valore anche all’opera mia. Nella fiduciosa attesa di ottenere l’alto onore di essere ancora una volta ammessa alla Sua Presenza, rinnovo all’E. V. i miei sentimenti di devozione profonda”.

Quale prima traccia del dissidio che avrebbe successivamente portato la Montessori a divorziare dal regime potremmo individuare il mutamento d’opinione che indusse Mussolini sia a emarginare progressivamente la persona di Gentile che – soprattutto – a boicottare la politica culturale e scolastica perseguita da quello che era pur stato l’estensore del Manifesto degli intellettuali fascisti. Nonostante le leggi “liberticide” che tra ‘25 e ‘26 avevano segnato l’avvento della dittatura, infatti, grazie all’impegno del filosofo siciliano l’intero ambito culturale aveva continuato a beneficiare di una certa tolleranza, la prova più eclatante della quale sta nel fatto che egli poté chiamare a collaborare all’Enciclopedia Italiana anche intellettuali non allineati, se non addirittura antifascisti.

A segnare l’inizio della compressione di tali residui spazi di manovra fu il 1929, anno in cui il ministero della Pubblica Istruzione divenne dell’Educazione Nazionale: variazione nominale dietro la quale stava evidentemente il disegno di fascistizzare completamente tanto l’ambito scolastico quanto quello accademico. Ai maestri elementari fu imposta la promessa solenne di istruire gli alunni “al culto della Patria e all’ossequio alle istituzioni dello Stato”; ogni loro autonomia didattica veniva inoltre annullata mediante l’introduzione del testo unico, per la gran parte dedicato alla celebrazione del regime e delle sue realizzazioni, al culto della persona del suo capo, all’esaltazione delle gesta eroiche dei grandi patrioti della storia nazionale.

A condurre l’indagine più approfondita sui possibili motivi del deterioramento dei rapporti tra l’educatrice e la dittatura è stata Giuliana Marazzi, nel saggio in cui ha dettagliatamente ricostruito i rapporti tra la Montessori e Mussolini. Secondo l’ipotesi tracciata dalla studiosa, la penalizzazione subita nel nuovo clima politico dai principi di originalità e personalità sarebbe venuta a sopprimere l’elemento portante della pedagogia montessoriana, basata sull’individuazione e la valorizzazione dell’individualità del bambino. Non per questo però i rapporti tra l’Opera e il governo si incrinarono, se è vero che proprio nel ‘29 la collaborazione raggiunse anzi il suo punto più alto.

Né la situazione mutò a seguito delle misure successivamente adottate dal regime, e che videro istituti culturali e università sottoposti a un controllo sempre più capillare e sistematico, cristallizzato prima dal provvedimento che sancì il giuramento di fedeltà per i docenti universitari, quindi da quello con cui l’iscrizione al Partito fascista veniva dichiarata requisito fondamentale per concorrere ai pubblici uffici, e quindi anche all’insegnamento. Contestualmente, la stessa riforma gentiliana veniva accantonata, e in barba ai precedenti incensamenti mussoliniani: con l’ulteriore giro di vite impresso dalla dittatura ogni possibile margine di tolleranza e di autonomia veniva soppresso a vantaggio di una concezione della vita pubblica vieppiù intransigente e totalitaria.

A conferma di ciò intervenne, alla fine del ‘31, l’insediamento alla guida del Pnf di Starace: personaggio al quale Mussolini demandò in pratica il compito di trasformare l’Italia in una caserma, nella quale i cittadini dovevano essere istruiti a “credere obbedire combattere” fin da piccoli. Per prima cosa, il nuovo segretario pose sotto il diretto controllo del partito le varie organizzazioni giovanili, a cominciare dall’Opera nazionale balilla il cui precipuo compito era quello di formare i combattenti “per la guerra di domani”, come dettava del resto Giovinezza. Ogni altra forma di indottrinamento giovanile veniva esclusa, o comunque pesantemente limitata come nel caso dell’Azione Cattolica (fra l’altro all’indomani dei Patti Lateranensi, cui si era giunti tanto faticosamente). “Libro e moschetto, fascista perfetto” divenne più che mai il motto che sintetizzava l’ideale pedagogico mussoliniano.

Scavando tra le righe del rapporto tra le due parti in causa, alla radice della rottura la Marazzi non pone tuttavia una questione legata a grandi ideali bensì un episodio di bassa lega, verificatosi nel ‘32 e che ebbe quale protagonista una delle principali collaboratrici della Montessori: l’insegnante di pedagogia, nonché direttrice della Regia Scuola, Giuliana Sorge. Costei fu segnalata alla polizia da qualche informatore per avere proferito sul luogo di lavoro parole ingiuriose nei confronti del capo del governo, quindi arrestata e sospesa dall’incarico in virtù del decreto che prevedeva il licenziamento per i docenti valutati come incompatibili con la politica attuata dal regime.

Senonché a salvare la Sorge fu lo stesso Mussolini: il quale, accogliendo le suppliche della donna che professava la propria innocenza, dispose la revoca del provvedimento, con conseguente riabilitazione. Il gesto dimostra inequivocabilmente la buona disposizione del regime nei confronti dell’istituzione montessoriana: anzi, fu probabilmente la stima personale nutrita dal Duce nei confronti della fondatrice a muoverlo a quel passo. Fatto sta che la Sorge, nell’indirizzargli la propria riconoscenza, non si limitò a ringraziare il dittatore di quanto fatto per lei, ma colse l’occasione per denunciargli la mancanza di “simpatia e protezione” nei confronti del Metodo da parte delle autorità scolastiche italiane, lamentandosi in particolare del fatto che l’unica scuola di formazione di indirizzo montessoriano fosse rimasta quella romana. La scrivente si lamentava inoltre del fatto che all’interno dell’istituto che aveva diretto circolassero “facili voci disgregatrici, per offendere e per stroncare”.

A tale proposito la Marazzi spiega: “Le “voci” a cui si riferisce la Sorge erano quasi certamente quelle di due insegnanti della scuola fortemente impregnate di spirito fascista: quella di matematica, Lo Preiato, e quella di cultura fascista, Prini. Entrambe erano infastidite da come veniva gestita la scuola, “che tutto è fuorché italiana e fascista”, come scriveva la Prini, la quale si definiva “una fascista al cento per cento” a cui premeva “che le maestre montessoriane comprendano e amino il Fascismo e il Duce per il bene del Paese””. L’istituto sarebbe dunque stato attraversato da contrasti ideologici, veleni e maldicenze.

A creare un altro problema fu la stessa Montessori, al momento della sostituzione della Sorge, reintegrata ma assegnata ad altro incarico. La pedagogista propose al governo il nome di un’altra sua favorita; la quale però poneva come condizione quella di rinnovare tutto il personale docente, valutato come incompetente e inadeguato all’applicazione del Metodo: ed è difficile immaginare che una simile offensiva non fosse stata concordata con la stessa fondatrice.

Ma il ministro Ercole non si mostrò del medesimo avviso, rigettando entrambe le richieste e insediando al vertice della Regia Scuola una personalità estranea al mondo montessoriano ma che in compenso dava ampie garanzie riguardo alla fedeltà dell’istituzione al regime: nomina che avrebbe provocato l’indignazione della pedagogista marchigiana. Secondo la ricostruzione offertaci dal saggio, tale divergenza di vedute diede infatti inizio “ad una estenuante contesa tra la Montessori e le autorità per la scelta del personale docente”, avendo evidentemente l’educatrice ormai fatto la sua scelta di mettere da parte ogni motivo di opportunità irrigidendosi sulla necessità per le insegnanti di attenersi scrupolosamente al Metodo: e questo – si badi bene – all’interno di una istituzione nata per volontà della dittatura e nel nome della monarchia.

L’accurata ricerca si sofferma inoltre sul cambio della guardia avvenuto al vertice dell’Opera Montessori nel ‘30, fra il grande protettore Gentile – da anni però declassato al ruolo di enciclopedista del regime – e l’influente gerarca Bodrero. Ben presto tra la fondatrice e il nuovo presidente emersero dei dissapori, derivanti dal fatto che, piuttosto che rispettare la struttura dell’organizzazione così come si era autonomamente delineata negli anni, costui aveva imposto un rigido controllo su tutte le attività dell’Opera, ricorrendo anche all’ausilio di associazioni straniere impossessatesi abusivamente del “marchio” Montessori e finendo così con lo snaturare il Metodo sia nella forma che nei contenuti.

Preoccupata di tutelare la fedeltà della propria creatura agli ideali originari, nel ‘32 la pedagogista giunse a esternare le proprie critiche alla strategia attuata dalla presidenza; le quali indussero Bodrero a cautelarsi rivolgendosi direttamente al Duce, con una relazione in cui difendeva il proprio operato chiarendo anzitutto che il suo ricorso a quelle società straniere era dovuto proprio alla necessità di tutelare l’integrità del Metodo. Del resto – spiega la Marazzi – “il presidente dell’Opera doveva mediare le diverse esigenze, cercando di coniugare le aspettative della Montessori, che diveniva sempre più intransigente, a quelle del regime, orientato verso una più ferrea fascistizzazione dell’educazione e ad egemonizzare la diffusione del metodo nel mondo. Bodrero, in sostanza, cercava di espandere il movimento montessoriano operando attraverso le richieste pervenute al ministero per la diffusione delle riviste, la promozione delle scuole presso i provveditori e dando maggior risalto all’ente dell’Opera; ma, allo stesso tempo, riteneva doveroso riferire a Mussolini le compromettenti affermazioni della Montessori”.

Il fatto che Bodrero mestasse nel torbido per mettere in cattiva luce la fondatrice e far risaltare il proprio ruolo agli occhi del capo del governo è testimoniato dalla sconcertante vicenda legata all’intervento tenuto quello stesso anno dalla Montessori al Club internazionale per la pace di Ginevra, il cui testo egli si premurò di inviare al Duce; giungendo peraltro secondo, dal momento che la stessa pedagogista aveva già provveduto a trasmetterlo a Palazzo Venezia.

“A questo dibattito – puntualizza l’autrice – erano convenute le rappresentanti delle maggiori organizzazioni internazionali femminili. Gli interessi e gli obiettivi di queste associazioni erano i più svariati: il voto alle donne, il diritto di cittadinanza per la donna sposata, l’uguaglianza dei diritti tra i sessi, l’educazione, la libertà e, soprattutto, la pace. E proprio riguardo a quest’ultimo argomento, secondo Bodrero, il discorso della Montessori deve essere stato di perfetto gradimento per quel pubblico”.

Inusitata appare la durezza con cui il presidente dell’Opera commentava quell’intervento, tenuto al Club per la pace e nella città sede della Società delle Nazioni (nata dopo il conflitto mondiale e con finalità prettamente pacifiste): ove sarebbe stato davvero impensabile attendersi una concione inneggiante alla guerra, da parte di chicchessia. “L’applicazione del suo metodo alla pace è giustificata dall’occasione del discorso ma risulta grottesca e puerile. C’è il solito motivo rousseauiano, con equivoci grossolani: ci sarebbe per esempio da domandare all’oratrice se è capace di trovare od inventare un gioco per bambini che non contenga in sé l’embrione della guerra; o se saprebbe togliere dalla scuola, cioè dalla natura umana, il sentimento al meno dell’emulazione, che contiene anch’esso un principio di guerra”. Nella stolida nota inviata a Mussolini si contestava in particolare il passaggio in cui l’educatrice aveva esaltato la pace come “il trionfo della giustizia e dell’amore tra gli uomini: essa indica un mondo migliore ove regna l’armonia”.

Da quel discorso la Montessori trasse un opuscolo, nel quale si evidenziavano i legami esistenti tra l’educazione e la pace. Secondo il suo punto di vista, solo una giusta educazione avrebbe prodotto “un tipo di uomo migliore, un uomo dotato di caratteristiche superiori che lo facciano apparire come appartenente ad una nuova razza: il superuomo del quale Nietzsche ebbe il luminoso presentimento”. Ma nonostante tale richiamo al teorico della volontà di potenza, “pace, libertà, amore – commenta la Marazzi – erano parole che mal si conciliavano con i valori propugnati dalla mentalità fascista, e le idee di un personaggio pubblico come la dottoressa non potevano certo passare inosservate, soprattutto se in contrapposizione a quelle imperanti”.

I passi compiuti dalla pedagogista l’anno successivo segnarono il suo distacco dal regime: rassegnò le dimissioni sia dall’Opera che dalla Regia Scuola, chiedendo inoltre che il richiamo al suo nome venisse eliminato dalla denominazione dell’istituto, ormai lontano le mille miglia dal metodo originario. Né a nulla valsero le dimissioni tempestivamente presentate dallo stesso Bodrero: “La dottoressa era sempre più orientata verso l’interruzione dei rapporti con le autorità italiane: anche se, ancora una volta, nell’aprile del ‘34, accettò di organizzare un congresso pedagogico internazionale a Roma, con l’avallo del governo”. Con quest’ultima contraddizione che la saggista non manca di sottolineare si chiuse l’esperienza italiana della Montessori, che di lì a poco si trasferì definitivamente all’estero.

E così quello dell’educatrice marchigiana resta un caso unico nel panorama di quegli anni, non essendo la sua vicenda assimilabile né a quella degli intellettuali antifascisti espatriati all’avvento della dittatura – lei anzi rientrò – né a quella di un Croce, rimasto in Italia pur essendo entrato in rotta di collisione con il fascismo. La Montessori scelse di andarsene, a 64 anni, dopo aver accettato dal regime i massimi riconoscimenti e onorificenze: ponendosi in tal modo nella curiosa condizione di non poter essere considerata una bandiera né del fascismo, né dell’antifascismo.

Bibliografia: G. Marazzi, Montessori e Mussolini: la collaborazione e la rottura, in dprs.uniroma1.it.

Il caso Montessoriultima modifica: 2020-09-21T23:19:32+02:00da tradersimo
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