La vergogna USA: il campo di concentramento di Coltano

Il PWE 337  Al termine della Seconda guerra mondiale la tenuta pisana di Coltano fu protagonista di una terribile vicenda, legata all’apertura di un campo di concentramento da parte della Quinta Armata americana.

Nel risalire la Penisola gli Alleati la costellarono di campi di internamento per prigionieri di guerra: i PWE – Prisoners of War Encampments – i quali sarebbero stati alla fine oltre 400. Tali campi seguivano una numerazione progressiva che rifletteva la lenta ritirata tedesca verso la Linea Gotica: il primo in terra toscana fu aperto a Scandicci, sotto forma di baraccopoli, nel vasto perimetro della Caserma “Gonzaga”, contrassegnato con il numero 334 e nel quale, dopo il trasferimento degli uomini a Coltano, sarebbero rimaste solo donne (accusate di avere militato nelle formazioni della Repubblica Sociale o comunque collaborato con i tedeschi).

Quelli successivi furono allestiti nell’area pisana; ciò sia per motivi logistici che per la vicinanza al comando generale cui essi facevano capo, l’MTO-Usa Prisoners War, con sede a Livorno. Il 335 sorse a Metato, per essere adibito a campo di punizione per gli stessi americani – militari e non – che si fossero macchiati di reati particolarmente gravi (stupratori incalliti delle nostre donne, insubordinati, collaborazionisti); i tre successivi a Coltano; mentre il 339 fu insediato nella pineta di San Rossore, utilizzando il campo in baracche e tende ove nel periodo della RSI erano stati reclusi i prigionieri alleati.

Per aprire i tre campi di Coltano, nell’aprile 1945 il comando della Quinta Armata requisì altrettanti appezzamenti di terreno situati in vari punti della tenuta e di proprietà dell’Opera Nazionale Combattenti, la quale durante il periodo fascista aveva provveduto alla bonifica della zona. Sfrattate le famiglie dei coloni, l’intensa opera di distruzione condotta a mezzo di ruspe e diserbanti dai soldati della 92ª Divisione Buffalo ridusse così ad aree desertiche le terre verdeggianti e rigogliose dei poderi Col Caprile, Hermada, Oslavia, San Gabriele, Vittorio Veneto, Col Beretta, Latina, Piave, Grappa, San Michele, Asiago. Nel volgere di pochi giorni, 191 ettari di campagna coltivata a grano e frutta furono cancellati per far posto al più vasto campo di prigionia d’Italia: si trattò un destino beffardo per la tenuta pisana, che a differenza di altre località sedi di bonifica aveva superato più o meno indenne il passaggio del fronte e che adesso si vedeva sfregiata nelle sue zone più fertili proprio per mano dei “liberatori”.

Sulle ceneri dei terreni poderali sorsero i tre campi, ciascuno dell’estensione di una quarantina di ettari: alla pineta dell’Isola il PWE 336, riservato ai soldati germanici; alla pineta delle Serre il 337, destinato agli italiani; al Biscottino il 338, per i collaborazionisti dell’esercito tedesco, in particolare polacchi e sovietici. A gestirli gli stessi statunitensi della Buffalo, variegata divisione della Quinta Armata comprendente bianchi, neri, asiatici naturalizzati americani e la Legione Ebraica; mentre all’espletamento di varie mansioni di servizio (di ordine burocratico, alimentare e disciplinare) fu sorprendentemente preposto un folto drappello di prigionieri della Wehrmacht, così come nell’ospedaletto da campo furono impiegati anche medici tedeschi.

Le tre strutture detentive rimasero in attività sei mesi, da maggio a ottobre ‘45; ma con la differenza che alla fine di agosto quella riservata agli italiani – nella quale nel frattempo erano stati concentrati tutti i nostri connazionali internati nei PWE toscani – passò sotto la responsabilità del governo di Roma. In quello sciagurato semestre la limitazione delle libertà personali riguardò anche la popolazione di Coltano, sottoposta a tutta una serie di imposizioni e controlli, con perquisizioni delle abitazioni e l’obbligo di esibire il lasciapassare ad ogni uscita da casa.

Ricostruire la storia del PWE 337 non è facile, andandosi a scoprire una delle tante “verità nascoste” del secondo conflitto mondiale che per motivi sia di opportunità che di vergogna la parte vincitrice avrebbe voluto abbandonate all’oblio per sempre; ma quanto faticosamente emerso dalla ricerca storica consente di affermare che si trattò di una vicenda criminale: sin dal suo concepimento. Non è infatti un caso che il campo venisse edificato in così breve tempo: la tecnica semplice e poco costosa che ne caratterizzò la costruzione stava evidentemente a significare lo scarso valore attribuito dal comando americano al genere di umanità che avrebbe dovuto popolarlo.

La vastissima area fu chiusa con una duplice recinzione parallela, costituita da alte reti metalliche; nel corridoio determinatosi furono piazzate delle torri di guardia, ove stazionavano le sentinelle armate di mitragliatrici e munite di potenti riflettori. Dall’ingresso del recinto si dipartiva uno stradone ghiaioso che divideva il campo esattamente a metà; ciò allo scopo di suddividerne la superficie in dieci settori, per separare i quali fu fatto largo impiego di filo spinato. La zona prospiciente l’ingresso ospitava, su entrambi i lati, le grandi tende e baracche del comando del campo, l’ufficio matricola, il parlatorio, le mense dei sorveglianti, i forni, i magazzini di viveri e materiali, le officine meccaniche e di falegnameria. In fondo allo stradone si apriva un altro grande cancello, che fungeva da porta carraia.

Le anomalie incominciano allorché si scopre chi albergava in quello denominato dai suoi stessi istitutori come Fascist’ criminal camp: perché non vi furono reclusi solo i repubblichini di Salò. Il primo settore – posizionato sulla destra rispetto all’ingresso – era riservato ai prigionieri-guardiani germanici, che potevano fruire di tende alte e spaziose, cucine e servizi igienici. La composizione del secondo risultava sicuramente la più singolare: partigiani che non avevano ottemperato all’ordine di deporre le armi e sedicenti tali arrestati in quanto privi di documenti; reduci dalla prigionia tedesca, veri o falsi che fossero; disertori dell’esercito repubblichino; ladruncoli sorpresi a rubare materiale della Quinta Armata; civili internati per le cause più diverse: alcuni in quanto sospettati di avere fatto parte dei servizi segreti della RSI, altri arrestati a caso per le strade mentre imprecavano contro le colonne degli sconfitti, altri ancora finiti a Coltano solo per avere malauguratamente chiesto un passaggio ai camion americani che dal Nord vi trasportavano i prigionieri.

Il grosso dei detenuti era ovviamente rappresentato dagli appartenenti alle varie Forze Armate e formazioni militari della RSI: soldati, graduati e sottufficiali occupavano i settori 3, 4, 6, 7 e 8; mentre il 5 era riservato agli ufficiali di ogni corpo e grado, dal più giovane sottotenente al più anziano generale. Il nono, inizialmente preposto alla sosta e allo smistamento delle matricole, fu assimilato ai precedenti dopo il considerevole aumento della quantità dei reclusi; il decimo ospitava il lazaret, l’ospedaletto da campo.

Per quanto riguarda il numero complessivo dei nostri connazionali internati a Coltano, non essendo esso mai stato comunicato dalle autorità alleate (al pari del resto di ogni altro genere di notizie riguardanti quel campo), non ci resterà che provare a dedurlo approssimativamente, basandoci su tre documenti rimasti in qualche modo agli atti. Il primo – rinvenuto fortunosamente – è un foglio di prelevamento viveri originale dell’amministrazione del PWE, datato 19 agosto 1945 e sul quale è riportata con scrittura manuale la cifra di 38.550. Gli altri due si riferiscono al periodo in cui il campo era passato sotto la giurisdizione italiana: pur essendo entrambi di origine governativa, essi presentano una discrepanza piuttosto rilevante riguardo al totale dei prigionieri.

In una comunicazione emessa dal Ministero della guerra in data 20 settembre a firma del ministro Jacini essa supera i 32.000 elementi, così suddivisi: 3.472 ufficiali dell’Esercito, 122 della Marina, 59 dell’Aeronautica; 24.717 appartenenti alla truppa; 359 civili; 994 partigiani; 2506 disertori dell’esercito repubblicano. Mentre da un documento ascrivibile al Ministero dell’interno e relativo alla commissione giudiziaria chiamata a valutare le responsabilità degli internati apprendiamo che questi erano poco meno di 35.000. Considerando quanti erano stati in precedenza liberati e quanti – in numero presumibilmente assai maggiore – erano deceduti si dovrà concludere che nell’arco di quei sei mesi abbiano complessivamente soggiornato a Coltano dai 35.000 ai 40.000 italiani.

I più prestigiosi esponenti della RSI scampati alle mattanze partigiane erano tutti presenti, a cominciare dallo stato maggiore: i generali D’Alba, Farina, Agosti, Frigerio, Bonomi, Adami Rossi, Gambara, Carloni, Canevari. Le Medaglie d’oro Mario Arillo, valoroso sommergibilista, e Aldo Vidussoni, mutilato ed ex segretario del Partito Nazionale Fascista. Il maggiore Edoardo Sala, comandante del Reggimento Arditi paracadutisti “Folgore”, distintosi nel contrastare i carri armati americani sul fronte di Nettuno. Il tenente colonnello Federigo Degli Oddi, che alla testa del suo battaglione di SS italiane si era opposto anch’egli all’avanzata alleata verso Roma. L’altro ex segretario del PNF Francesco Giunta, a lungo braccio destro di Mussolini e poi governatore della Dalmazia. L’ultimo federale repubblicano di Milano Vincenzo Costa.

Ma oltre a militari e gerarchi, furono reclusi a Coltano innumerevoli altri personaggi, illustri o destinati a diventarlo: i giornalisti Vito Mussolini, Enrico Ameri, Mauro De Mauro; il marciatore Giuseppe Dordoni, futuro campione olimpico, e il calciatore Luigi Scarabello, medaglia d’oro con la nazionale alle Olimpiadi di Berlino e in seguito attore; gli intellettuali Pio Filippani Ronconi, Ezio Maria Grey, Giovanni Prodi; i futuri politici Mirko Tremaglia e Giuseppe Turini. A fare la parte del leone erano tuttavia quelli che nei decenni successivi sarebbero stati grandi protagonisti nel mondo dello spettacolo: Giorgio Albertazzi, Dario Fo, Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Enrico Maria Salerno, Luciano Salce.

A Coltano ebbe a trascorrere quindici giorni terribili anche Ezra Pound, il celebre poeta statunitense entusiasmatosi per il fascismo al punto di trasferirsi in Italia per sostenerne la causa fino alla caduta della RSI. A darcene notizia è lo stesso maggiore Sala, nelle sue memorie: “considerato traditore fu rinchiuso in una gabbia di filo spinato priva di copertura e servizi; il cibo gli veniva passato attraverso i fili, e durante il giorno si teneva le mani sulla testa per non essere bruciato dal sole”. Presenza confermata da un altro ex prigioniero, Dario Buzzi, il cui ingresso nel PWE 337 risale alla metà di maggio: “Nel campo c’era Ezra Pound, isolato al sole; io non ci ho mai parlato, non sapevo nemmeno chi era, ma lo vedevo dentro questo recinto al sole. Chi fosse l’ho saputo dopo: anche perché a Coltano eravamo circa in 40.000. La prigione aveva forma quadrata, circondata da reticolati, senza nessun posto per stare seduti o in piedi, sotto il sole cocente: lui doveva stare lì”. Del medesimo tenore la testimonianza del coltanese Nello Bernardini: “Pound era rinchiuso in un piccolo recinto, forse di due metri per due, nei pressi di un traliccio in ferro che si trovava nella vigna del podere Asiago. Non ricordo chi mi disse che quello era un grande scrittore. Io mi girai e lo vidi: era piccolo, magrolino, con la barba lunga; passeggiava di fondo in cima, di cima in fondo al recinto, come un animale in gabbia, con le mani giunte dietro la schiena. Sembrava stesse sempre pensando”.

Siamo in grado di datare la permanenza di Pound a Coltano sia grazie alla testimonianza di Buzzi che a un documento ufficiale: la foto segnaletica scattatagli il 26 maggio ‘45 all’ingresso nel PWE 335, ove fu portato per ordine del Disciplinary Training Center onde essere aggregato agli altri prigionieri americani. Essendo stato catturato dai partigiani il 3 maggio nella sua residenza di Rapallo, consegnato ai militari statunitensi e da questi incarcerato per un breve periodo a Genova, il suo soggiorno nel PWE 337 andrà collocato nelle due settimane precedenti il trasferimento a Metato, ove sarebbe rimasto sino ai primi di novembre.

Accusato di collaborazionismo, nel PWE 335 Pound trascorse le prime tre settimane segregato dentro una delle celle di sicurezza poste al centro del campo e riservate ai condannati a morte, costretto a vivere giorno e notte in tale gabbia metallica, anch’essa di due metri per lato, sotto una tettoia di lamiera, avendo per giaciglio il nudo cemento, venendo alimentato lì stesso e dovendovi espletare i propri bisogni fisiologici, tormentato non solo dagli agenti atmosferici ma anche dai potenti riflettori puntatigli addosso giorno e notte.

Al momento in cui i suoi vicini di gabbia ne uscivano per andare al patibolo, usavano congedarsi da lui facendogli il gesto del cappio: non sapendo il poeta quale sorte lo attendesse, l’insieme di tutte queste vessazioni finì con il minarne oltre al fisico la psiche, sino a farlo venir meno. Apparendo le sue condizioni gravi e non prevedendo evidentemente gli ordini superiori la sua morte, egli fu soccorso e ricoverato in infermeria, ove gli sarebbe stato consentito di scrivere a mano durante il giorno e battere a macchina nelle ore serali. Poté quindi attendere alle sue poesie, parte delle quali aveva annotato su pezzi di carta di fortuna, compresa quella destinata all’utilizzo meno nobile: nacquero così i Canti pisani.

La gestione italiana  Restando l’esistenza di tali PWE ignota ai più, la gestione americana del 337 si protrasse fino al 30 agosto, giorno del passaggio di consegne con il governo italiano, il quale ne affidò la responsabilità al Ministero della guerra e la conduzione al III Reggimento Guardie, comandato dal colonnello Francesco Marinari.

Diversi documenti attestano dello sconcerto e della riprovazione che si impadronirono di chi, a vario titolo, ebbe a toccare con mano la drammaticità delle condizioni di vita degli internati. La prima è la lettera che un partigiano pisano, Eriberto Storti, indirizzò il 2 settembre al Comitato di Liberazione Nazionale di Pisa in previsione della visita alla città del capo del governo e ministro dell’interno Parri, allo scopo di protestare contro l’equiparazione operata nel PWE 337 tra fascisti e antifascisti. “Abbiamo saputo della venuta del presidente del consiglio e vi rivolgiamo la preghiera di trasmettergli la lettera acclusa, scritta da Patrioti e disertori dell’esercito repubblichino da dieci mesi prigionieri di guerra che chiedono giustizia. Dopo i mesi di prigionia, dopo le sofferenze morali e materiali della vita partigiana, non è cosa giusta che noi si sia oggi trattati alla stregua dei più feroci e pericolosi criminali fascisti”.

Chi in quei giorni si attivò al massimo sollecitando i vertici dello Stato a prendere le dovute iniziative per alleviare la disperata situazione dei reclusi fu il prefetto di Pisa Vincenzo Peruzzo. Dalla lettera inviata l’8 settembre allo stesso Parri, in particolare, risaltano sia la sua umanità, allorché nel rivolgersi a uno dei leader dell’antifascismo mostra di prendere a cuore le sorti di quei ragazzi chiamati alle armi dai vari bandi emanati dalla RSI, presentandoli come costretti a combattere per il nazifascismo pena la morte e le ritorsioni sui familiari, sia il suo coraggio, vista la fermezza con cui richiama il capo del governo ad assumersi le proprie responsabilità.

“Nel Campo prigionia di Coltano n° 337 vi sono oltre 32.000 internati, tra cui moltissimi ragazzi tra i 13 e i 17 anni e molti giovani delle classi ‘23-‘24-‘25 obbligati, sotto pena di fucilazione e di rappresaglie per le loro famiglie, a prestare servizio nell’esercito repubblicano. Vi sono inoltre civili erroneamente rastrellati, partigiani internati soltanto perché privi di documenti di identificazione; altri per avere usufruito degli automezzi che trasportavano i prigionieri ai diversi campi di concentramento; altri, prigionieri in Germania, che alla data della capitolazione tentavano di raggiungere le proprie famiglie. Vi sono infine vecchi fino a 75 anni, grandi invalidi mancanti di un arto, tubercolotici, anche bisognevoli di urgenti cure e di atti operatori. Tutta questa gente vive in promiscuità con elementi gravemente compromessi politicamente, molti dei quali già colpiti da mandato di cattura e sulla cui sorte occorrerebbe provvedere d’urgenza costituendo essi un grave pericolo per la sicurezza e la disciplina del campo di concentramento, pericolo che potrebbe realizzarsi da un momento all’altro: ripeto, da un momento all’altro. Quale Prefetto e quale italiano, sento di dover far presente tale grave situazione e di invocare l’urgenza di un intervento immediato del Governo perché siano emanati gli opportuni provvedimenti che, oltre a scongiurare il pericolo di gravi perturbamenti dell’ordine pubblico, risponderebbero a criteri di equità e di giustizia. Concludo rilevando che tale spettacolo di miseria non può certo contribuire a farci guadagnare qualche punto di prestigio nei riguardi degli Alleati”.

La situazione rischiò di diventare incontrollabile allorché due testate (una locale, il “Tirreno”; l’altra nazionale, la comunista “Rinascita”) resero pubblica la vicenda del PWE 337. La notizia indusse molte persone a precipitarvisi, nella speranza di ritrovarvi il familiare da mesi scomparso nel nulla. Sfidando la drammatica situazione dei collegamenti (le linee ferroviarie erano ancora quasi tutte interrotte, i ponti a terra, le strade devastate dai bombardamenti) da ogni parte d’Italia una marea di congiunti si mise così in viaggio per raggiungere Pisa. L’esodo provocò un vero e proprio assedio al campo, favorendo anche le evasioni: tra coloro che riuscirono a eludere la sorveglianza delle guardie profittando della confusione fu De Mauro.

Per ovviare alla caotica situazione Marinari fissò, il 10 settembre, una serie di Norme per la concessione di permessi di colloqui dei prigionieri coi famigliari, con tanto di turni settimanali a seconda della regione di provenienza.  1 L’ammissione ai colloqui coi prigionieri non è un diritto, ma una concessione a favore delle famiglie  2 Saranno ammessi ai colloqui con precedenza le donne gravide, le madri con bambini lattanti  3 I colloqui avranno luogo: lunedì e giovedì, Sicilia Sardegna Calabria Puglie Lucania Campania Abruzzi Venezia Giulia Veneto; martedì e venerdì, Lazio Marche Umbria Lombardia Piemonte; mercoledì e sabato, Liguria Toscana Emilia  4 Per nessun motivo saranno concessi permessi nei giorni di domenica  5 Il permesso sarà dato una sola volta e a un solo famigliare (eccezione genitori, moglie e figli)  6 Alle persone sorprese a gironzolare attorno al campo non saranno concessi permessi di colloqui

A quel punto la pressione sul capo del governo aumentò: facendosi interprete del disagio e della preoccupazione generali per una situazione ormai vicina al collasso e le cui conseguenze avrebbero potuto ripercuotersi sull’intera città, il presidente del CLN pisano Antonio Tozzi indirizzò al Viminale un accorato telegramma. “Questo CLN esaminata posizione campo concentramento Coltano recentemente trasferito autorità italiana; constatato che fra oltre trentamila persone ivi raccolte sono molti ragazzi et individui senza colpa accomunati con criminali fascisti, segnala urgentissima necessità discriminazione et smobilitazione. Urgenza viene aumentata dalla fondata previsione che avvicinandosi stagione piogge condizioni igieniche campo non possono ritenersi buone con pericolo anche cittadinanza pisana. Comitato preoccupasi inoltre deficienze rifornimenti alimentari provincia causa mantenimento campo et presenza Pisa moltissime famiglie di internati. Segnala infine pericolo sicurezza pubblica per eventuali manifestazioni scontento dentro et fuori campo”.

Per qualche giorno da parte di Roma perdurò il silenzio, costringendo Peruzzo a rivolgere al governo un secondo appello (formalmente indirizzato ai Ministeri dell’interno e della guerra) perché si ponesse fine a quello “spettacolo triste, anzi tremendo”. Trovandosi da parte sua a dover gestire una situazione così confusa, il 12 settembre era lo stesso Marinari a scrivere al Ministero della guerra per chiedergli istruzioni circa il trattamento da riservare agli internati: in particolare, se li si dovesse considerare come prigionieri di guerra o detenuti politici. Un’altra sollecitazione giungeva al medesimo dicastero dal Viminale: “Urge che la posizione degli internati sia definita, non solo per stabilirne il trattamento, ma anche per dar modo ai familiari di avere notizie concrete circa la sorte dei loro congiunti. Vi sono genitori venuti dalla Venezia Giulia e dal Friuli che in quattro mesi non sono riusciti a ottenere neanche un breve colloquio. Il nostro Governo finora è stato assente. Solo attraverso l’Arcivescovado di Pisa e la Croce Rossa Italiana si è potuto ottenere qualche rarissimo scambio di messaggi fra internati e familiari”.

Il 14 settembre Parri rispose a Tozzi: “Si è già disposto invio Ispettore Generale Pubblica Sicurezza per Campo di Coltano. Provvedimenti sono in corso per ovviare necessità più urgenti. Confidasi anche collaborazione attiva cotesto comitato e cittadinanza”. Ancora quindici giorni dopo l’attribuzione al governo italiano della responsabilità del campo, dunque, nulla era stato fatto di concreto né per migliorare le condizioni di vita dei prigionieri né per giungere a una rapida liberazione degli innocenti: inerzia denunciata con forza dalle colonne de “L’Uomo qualunque”.

“Da circa due settimane il campo di concentramento di Coltano è passato dal controllo delle autorità alleate alla dipendenza dalle autorità italiane. Questo mostruoso campo di concentramento racchiude 32.000 persone di ogni età e di ogni condizione sociale, le quali attendono che la loro sorte sia finalmente decisa. La massima parte è costituita da militari che hanno prestato servizio sotto il governo repubblicano o per sfuggire ai campi di concentramento della Germania, o sotto la minaccia di rappresaglie, o indottivi dalla fame. Vi sono inoltre numerose persone arrestate durante l’avanzata degli Alleati solo perché erano sprovvisti di documenti. Vi sono ancora partigiani che non avendo potuto comprovare la loro qualità, ed essendo stati trovati armati, vennero internati; infine vi sono 1.500 giovani di età inferiore ai 18 anni, e alcuni di età inferiore ai 13 anni. Nella massa si contano numerosi mutilati, tubercolotici e ammalati vari. Il governo quali provvedimenti ha preso? La questione è di una gravità eccezionale, perché interessa 32.000 famiglie italiane colpite dalla strage che si è abbattuta sulla nazione. Lo spettacolo che offre il campo di Coltano oltrepassa i limiti dell’immaginazione e offende il senso dell’umanità. Sono 32.000 esseri umani che dormono sulla nuda terra sotto tende da campo in cattive condizioni, rinchiusi in uno spazio limitato e che conducono una vita primitiva. Le prossime piogge renderanno il terreno un acquitrinio, aggravando le già disperate condizioni di vita con pericolo evidente di epidemia. Lungo le strade adiacenti al campo si svolge una continua processione di famiglie che vi si recano sperando di poter parlare con gli internati. Sono padri, madri, spose, provenienti da ogni parte della Penisola che si sottopongono a viaggi lunghi e faticosi per portar viveri, indumenti e altro ai loro cari: è una tragedia inumana che impedisce e ritarda la pacificazione del Paese. Il governo decida e provveda d’urgenza. Non è lecito che per pochi criminali compresi tra gli internati tanta gente debba rimanere per chissà quanto tempo in queste condizioni. Sia inviata a Coltano una commissione con l’autorità per decidere sulla sorte di questi italiani, e siano costituite commissioni in numero tale da poter concludere in pochi giorni. Siano colpiti i criminali, ma siano restituiti alle famiglie e al lavoro gli innocenti e i non responsabili”.

Finalmente il 20 settembre il Ministero dell’interno disponeva la costituzione di quella commissione auspicata da tutti, chiamata a chiarire la posizione penale di ciascun detenuto e perciò denominata “discriminatrice”. La quantità degli inquisiti e la disomogeneità della loro composizione indusse ad articolarla in 41 sottocommissioni, 36 delle quali militari; iniziatosi il 25 settembre, il lavoro istruttorio fu condotto a termine nel giro di un mese. Circa 32.000 detenuti furono liberati, mentre a non essere prosciolti furono poco meno di 2.700: 1.637 dei quali furono trasferiti al campo di Laterina, 45 ufficiali al Forte Boccea (Roma), 187 militari della Marina al campo di Narni; 497 ricercati furono rimpatriati con foglio di via obbligatorio; 314 consegnati alla polizia in quanto accusati di reati e crimini di guerra.

Al 1° novembre il campo era smobilitato: il che evitò con ogni probabilità una strage, dato l’esaurimento delle scorte alimentari e l’inevitabile diffusione delle malattie con l’arrivo della brutta stagione; ma anche la necessità di costruire baraccamenti adeguati per affrontarla. L’epilogo della vicenda fu di ordine burocratico: dopo che il comando americano di Livorno ebbe ordinato alla Buffalo lo smantellamento dei PWE di Coltano e la restituzione del terreno requisito all’ONC, all’opera di demolizione provvide il nostro Genio militare. L’ultimo documento ufficiale riguardante il campo di prigionia è la perizia con cui i Combattenti quantificavano i danni subiti in 30 milioni di lire.

L’inumanità della vita nel campo  Caduta ben presto nel dimenticatoio – anche per evidenti motivi di opportunità legati al collocamento italiano nel nuovo scacchiere internazionale – la vicenda del PWE 337 fu riproposta all’opinione pubblica nel 1949, da un libro a firma dell’ex internato Mariano Dal Dosso: Quelli di Coltano. Scritto senza particolari preoccupazioni letterarie e piuttosto indulgente alla retorica, il volume intende rappresentare “il dovuto omaggio degli onesti ai superstiti di cento piazze d’Italia, ammassati in una più grande piazza senza tetti, senza ombre, in attesa che giungesse anche per loro l’ora suprema, ma che nell’attesa cantavano i loro canti, urlavano la loro fede, senza tentennamenti, senza paura. Questo è Coltano. Questo racconta uno dei 36mila che vissero il loro calvario per mesi e mesi, in attesa di quella morte che si annunziava loro ogni giorno”.

Ma al di là della “passione” che per ammissione dello stesso autore finisce con l’offuscare la linearità del racconto, esso ci offre diversi spunti interessanti, a cominciare dal viaggio che dal campo di concentramento di Modena condusse il contingente di prigionieri di cui faceva parte Dal Dosso in Toscana: il quale rende bene l’idea del clima che caratterizzò i giorni immediatamente successivi la fine della guerra. Vediamo così la colonna degli sconfitti procedere tra due ali di folla inferocita nei loro confronti, che li apostrofa con gli epiteti più ingiuriosi, a cominciare da quelli di assassini e vigliacchi, plaudendo al contempo ai militari americani che li scortano. C’è però anche chi osa rivolgere ai detenuti un cenno amichevole, di saluto e incoraggiamento; ma rischia grosso, essendo i facinorosi pronti a linciare ed uccidere. Qualcuno più caritatevole e coraggioso coglie il momento propizio per insinuarsi nella colonna e porgere a chi gli capita a tiro una carriola, una bicicletta, o per posargli sulla testa una cesta di verdura, in modo da assimilarlo a un passante e offrirgli così una possibilità di fuga.

La scena si trasferisce quindi a Coltano, ai primi di maggio ‘45. L’autore ci racconta della miserevole vita degli internati, guardati a vista dai carcerieri e con i fucili sempre puntati addosso, cronicamente affamati per la scarsità della “sbobba” – la disgustosa brodaglia che veniva loro largita – cui dovevano peraltro rinunciare qualora preferissero fumarsi una sigaretta, offerta dal contrabbando dei guardiani: i quali non perdevano occasione per maltrattarli e umiliarli. A colpire è anche la desolata narrazione di giornate tutte uguali, senza nulla da fare né potersi inventare, afflitte da una noia assillante interrotta soltanto dalla pausa del rancio e dalla rara possibilità di disporre di una sigaretta, ma non disdegnando neppure una cicca trovata per terra, capace anch’essa di regalare un attimo di evasione da una condizione oltremodo squallida e opprimente.

Non certo per i militari statunitensi, allietati dalla continua presenza di “segnorine che si davano senza ritegno ai vincitori dietro il modico compenso di qualche biglietto di amlire o d’un pacchetto di sigarette”. Ma il capitolo più tragico è quello delle esecuzioni dei prigionieri, effettuate non solo in assenza di inchieste e processi ma anche dei conforti religiosi: “Era arrivato di corsa il prete: non si poteva fucilare la gente così, sommariamente, senza aver prima somministrato loro i sacramenti”.

Accuse pesanti eppure cadute nel nulla, del tutto indegne di considerazione in ossequio alle suddette ragioni di ordine diplomatico. L’oblio calò nuovamente su quanto accaduto nel campo americano, ma per rimanervi stavolta più a lungo: neppure dopo la fine della Guerra fredda e la conseguente “scoperta”, nel ‘94, del cosiddetto “armadio della vergogna” che portò a una serie di processi per i crimini perpetrati in Italia dall’esercito tedesco nel periodo della Linea Gotica, infatti, nessuno ebbe la volontà – o il coraggio – di indagare anche sulle pagine più oscure riguardanti gli Alleati, a cominciare da quella delittuosa di Coltano.

Ad assumersi il compito di sfidare l’opinione corrente, rompendo l’omertà e scoperchiando quel calderone di misfatti che rispondeva al nome di PWE 337 fu allora un altro ex detenuto: Pietro Ciabattini, autore del volume Coltano 1945. Un campo di concentramento dimenticato, uscito nel ‘95. Classe 1926, senese, diciassettenne Ciabattini aveva abbandonato gli studi per arruolarsi nella Milizia fascista, seguendo poi le sorti della RSI; internato alla fine del conflitto prima a Scandicci, quindi a Coltano, egli aveva fatto parte di quel grosso contingente di prigionieri cui era toccato di scontare un ulteriore periodo di detenzione a Laterina.

A differenza dello scritto di Dal Dosso, Coltano 1945 non si presenta come un rudimentale libro di memorie bensì come un’opera sistematica in possesso di tutti i requisiti del saggio storico, avendovi l’autore inquadrato la propria esperienza di recluso all’interno di una ricerca avvalorata da un’esaustiva documentazione: al punto di risultare come il testo maggiormente esplicativo di quel che rappresentarono i campi di concentramento americani in Italia. “Cercherò di ricostruire la storia di quei campi con i miei ricordi personali, le testimonianze di ex prigionieri e con documenti autentici in mio possesso”, annuncia Ciabattini nella premessa; non nascondendosi tuttavia le difficoltà legate alla scabrosità dell’argomento prescelto: “Descrivere la disgraziata vita del PWE 337 è compito arduo, nel timore di non essere creduto; ma più arduo è riuscire a convincere che ciò accadde davvero, a prigionieri di guerra di un esercito ricco e vittorioso, e a conflitto ormai cessato”.

Scopo del libro è quello di dimostrare l’illegalità di quanto avvenuto nei campi americani, esplicitamente qualificati come “lager” e nei quali “la Convenzione di Ginevra fu completamente e deliberatamente ignorata e le ispezioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa furono puramente simboliche, essendo state una sola per PWE nell’arco di sei mesi: nel 337, esattamente il 23 giugno”. Quest’ultimo in particolare “divenne, per tutti i prigionieri ma anche per chi lo vide solo di passaggio, l’inferno di Coltano! Polvere, sole e fango, fame, sete e malattie furono i demoni che torturarono ogni giorno i prigionieri già vessati dalle angherie e dai soprusi dei tedesco-americani che, quotidianamente, ritenevano utile e necessario escogitare nuovi espedienti per ridurre ancor più quei disgraziati alla prostrazione fisica e psichica, tanto da rendere loro difficoltosa la sopravvivenza”.

Dopo la descrizione della struttura del campo l’autore passa a quella dei dieci settori, eretti secondo un identico modello: “Ognuno aveva, a ridosso della rete confinante con lo stradone, una grande tenda per il comando americano-tedesco, idricamente refrigerata dall’alto, mentre sulla destra erano sistemate le baracche in legno del magazzino viveri e materiali vari. In ciascuno dei lager erano ammassati dai 3.500 ai 4.000 prigionieri, di ogni età, compresi i novantenni. Le menomazioni fisiche non davano diritto ad alcun privilegio, l’età nemmeno. Molti ragazzini e giovanetti erano figli di fascisti trucidati dopo il 25 aprile, oppure erano stati le “mascotte” dei reparti; gli americani, comunque, non vollero mai separarli dagli adulti. I cappellani militari, dislocati nei vari lager, subirono lo stesso trattamento riservato a tutti”.

Il colpo d’occhio offerto dal PWE 337 risultava veramente degno di un girone dantesco. “Coltano era un immenso coacervo di corpi seminudi, colpiti dai raggi del sole dall’alba al tramonto, indeboliti nel fisico dalla scarsità del cibo e dalle precarie condizioni igieniche e sanitarie, al di sotto dei limiti della dignità umana. In quell’enorme ammasso di umanità, tutto ciò che nella comune vita civile di quel tempo veniva gelosamente o pietosamente tenuto nascosto si rese palese via via che i giorni passavano. C’erano gli epilettici che all’improvviso cadevano a terra dibattendosi pericolosamente fra le tende; i pedofili che, se sorpresi sul fatto, si prendevano una scarica di botte; gli omosessuali che, ritrovandosi fra quella numerosa compagnia di soli uomini seminudi, avevano il loro daffare. Fra i tanti non mancavano i morfinomani che, privati di quanto loro necessitava, erano preda di crisi violente e depressive; così come i fumatori irriducibili i quali, in mancanza di tabacco, fumavano carta e fondi di caffè, procurandosi gravi disturbi anche mortali, oppure divenivano isterici nel vedere, al di là delle recinzioni, gli americani pasticciare e gettare a terra mezze sigarette, sadicamente gioiosi nel farsi osservare”.

Sadismo, umiliazione, mortificazione sono i termini ricorrenti per descrivere l’atteggiamento tenuto dai vincitori nei confronti degli sconfitti italiani, mescolati e livellati alla stregua di bestiame: fossero essi anziani, ufficiali, gerarchi, mutilati, invalidi, ciechi. Per nessuno si ebbe il minimo riguardo: neppure per un ragazzo che aveva avuto amputate entrambe le gambe, e che poté sopravvivere solo grazie all’aiuto dei compagni. “Quelle erano le mortificazioni che ci colpivano di più: perché era difficile comprendere quell’accanirsi su degli uomini già duramente provati dalla sorte”.

Anche il fatto che gli internati non potessero disporre di alcun ricovero rispondeva a un preciso scopo: “Il far coricare sulla nuda terra – asciutta o bagnata che fosse – quelle migliaia di corpi seminudi e forniti di una sola coperta era di per sé una punizione non lieve in aggiunta all’inumano trattamento dell’intera giornata. Fu così messo in chiaro che gli americani si servivano anche del sole, della pioggia e del freddo notturno per praticare subdolamente la tortura, sempre in barba a quella famosa Convenzione. Non impiccagioni o fucilazioni, la guerra era finita: ma non poteva esserci altro motivo per usare quei trattamenti se non la sadica e nascosta volontà di far morire un buon numero di prigionieri, aiutati in ciò dai tedeschi collaboratori”. E il fatto che molti di questi ultimi fossero dell’Alto Adige non deve far pensare a una scelta dettata dal loro bilinguismo: “per essere austriaci, tirolesi o altoatesini essi si consideravano i nemici di sempre degli italiani”. Elevati al rango di sorveglianti, tali “ausiliari” furono per giunta armati di manganelli affinché potessero assolvere al meglio la loro funzione. E a completare l’allucinante quadro, il fatto che a comandare il campo fosse proprio un italo-americano.

Per iniziativa degli stessi soldati della Buffalo, attorno ai prigionieri prese avvio un piccolo giro di prostituzione, ovviamente omosessuale: in cambio quattrini ma anche sigarette, cibo o altro. “Oltre al danaro che già circolava nel campo, sfuggito alle requisizioni, quel tipo di prostituzione alimentò la moneta circolante. Chi poté conservare catenine d’oro, anelli, orologi o monili preziosi li tramutò in soldi, dando vita a un vero e proprio mercato sommerso”.

Fedeli al principio della disciplina militare, gli ex repubblichini non intesero prendere in considerazione la possibilità di evadere: del resto, “gli elementi più insofferenti erano già riusciti a fuggire durante i viaggi”. A scappare pensavano più che altro “coloro che si sentivano ingiustamente privati della libertà: partigiani, reduci dalla prigionia tedesca, i catturati per sbaglio dagli americani”. Senonché “un giorno si diffuse la voce che gli americani avrebbero consegnato al CLN alcuni prigionieri i cui nomi figuravano fra i ricercati e per i quali la fucilazione, una volta nelle loro mani, era cosa certa”. A quel punto furono in diversi a tentare la fuga notturna, strisciando sotto i reticolati e attendendo che la coppia di sentinelle volgesse le spalle; ma sia per un’errata valutazione dei tempi necessari a portare a compimento la manovra, sia per sfortuna “l’impresa si dimostrò più complessa del previsto e parecchi furono sorpresi come mosche invischiate nella ragnatela”.

Particolarmente crudele risulta il capitolo riguardante le punizioni inflitte dagli aguzzini a stelle e strisce: il “salto dei pasti”, la “gabbia”, il “palo”; le quali colpivano impietosamente chiunque avesse commesso qualche infrazione, fosse essa risibile come il mancato saluto a una guardia graduata. Se nei prigionieri giovani l’inedia causava una progressiva debilitazione dell’organismo, per anziani, ragazzini e per chi era già malato di suo (specie di tubercolosi) essa costituiva una bella accelerata verso la morte. La reclusione nella gabbia, protratta per più giorni, pregiudicava a tal punto le facoltà mentali del punito che alcuni dovettero essere portati al manicomio di Volterra. Non meno penoso l’essere legati al palo: supplizio che se non altro si interrompeva allorché, al crepuscolo, la tromba annunciava il silenzio.

Ma il più atroce dei castighi era sicuramente costituito dalla “fossa dei fachiri”, il cui strazio toccò di sperimentare allo stesso Pound. In alcune zone del campo erano state scavate delle buche (alcune in grado di contenere un unico prigioniero, altre fino a dieci) il cui fondo era stato cosparso di pietre acuminate, accostate l’una all’altra in modo da impedire la possibilità di poggiare i piedi – ovviamente nudi – senza ferirsi. Il richiamo ai fachiri suonava come una provocazione ironica quanto sadica: quasi una sfida ai condannati a rimanere in piedi sopra quelle lame di pietra senza provare né manifestare sofferenza.

Ma al di là di tali pene formali, Ciabattini vede l’intento di infierire, umiliare, prostrare i detenuti dietro ogni misura o comportamento adottati dai carcerieri. A cominciare dalla decisione di concedere loro delle tende; ma con il divieto di utilizzarle nelle ore diurne, in modo da precludere loro un riparo dagli agenti atmosferici. “Punizione era quella di lasciare, per giorni e giorni, prigionieri di ogni età febbricitanti sotto quelle tendine che nelle notti di nebbia o quando pioveva colavano acqua consentendo alla pioggia di scorrervi sotto, bagnando terreno, coperte e ammalati. Punizione era quella di esibire, al di là dei reticolati, la ricchezza e l’opulenza del vincitore a un nemico prostrato nel fisico dagli stenti e nel morale dalla tragedia abbattutasi sulla Patria sconfitta e per i destini incerti delle proprie famiglie coinvolte nel dramma della guerra civile. Punizione era anche non far giungere ai prigionieri nessuna notizia dall’esterno, di aver fatto loro comunicare un falso indirizzo e di proibire ai volenterosi di portare tra i fili spinati soccorsi, aiuti e conforto”.

Segue un’altra scena agghiacciante: “Chi nella notte era costretto a uscire dalla tenda per orinare, sfidando l’umidità e il freddo, provava la sensazione di essere in un vasto cimitero punteggiato dalle fiammelle tremolanti sulle tombe, sempre che la nebbia fittissima non nascondesse tutto. Nel buio, quel silenzio tombale era rotto dal rumore dei treni, da qualche isolato colpo di arma da fuoco o da un tragico, disperato grido che si alzava dall’interno del campo: “Mamma, voglio morire!”. Era quello un urlo disumano, una implorazione che si propagava sulle tende, sui reticolati, nelle orecchie di chi stentava a prendere sonno o di chi con gli occhi sbarrati o semichiusi era preda di incubi, mentre alcune voci rispondevano a quel grido: “crepa… cupet… va’ a morì ammazzato… te possino…”. Una raffica di spari prolungata, o una serie di colpi in lontananza, avvisavano di un tentativo di evasione, o che i “cacciatori di uomini” erano al lavoro”.

Il sadismo dei vincitori poteva raggiungere punte inimmaginabili: “A un buon numero di prigionieri capitò, nel mese di giugno, di essere chiamati al Provost con scarpe e coperta; furono consegnati loro viveri a secco per due giorni e a piedi raggiunsero Pisa, da dove, chiusi in carri bestiame, furono trasportati a Napoli per un probabile imbarco per l’Africa. Con la fame arretrata che avevano, si mangiarono tutto ciò che avevano avuto, con la speranza che una volta giunti a Napoli ci sarebbe stato per loro un bel rancio sostanzioso. Invece, dopo il lungo e stressante viaggio, e arrivati a destinazione, non furono neanche fatti scendere dai vagoni, dove rimasero un giorno e una notte. Poi, senza alcuna spiegazione, viaggio di ritorno a Pisa e di lì, a piedi e sotto la canicola, stanchi, affamati e assetati, di nuovo a Coltano dentro il PWE 337. Successivamente ci fu un’altra partenza: ma quella volta, quando la colonna dei prigionieri giunse marciando alla stazione di Pisa, un contrordine li fece ritornare al campo, naturalmente senza mangiare!”.

E ancora: “Non è da dimenticare quanto gli americani osassero provocarci per la grande fame che avevamo; più di una volta suonarono l’adunata a ore strane del giorno e della notte per farci correre a prendere un bicchiere di tè o infuso di tiglio che fosse, certi che non avremmo rinunziato a nulla. Ridevano insieme ai tedeschi nel vederci nuovamente inquadrare sotto il sole o al buio, consapevoli della nostra difficoltà di entrare ed uscire velocemente dalle tende, dovendo anche aiutare i commilitoni in difficoltà. Nessun segno di pietà e di umanità verso quei relitti umani che, soldati come loro, avevano il torto di essere stati vinti dopo quattro anni e mezzo di dura guerra. Bene in vista, sulla facciata di una casa poderale qualcuno aveva tracciato con un pennello questa frase: “Meglio pecore al pascolo che leoni in gabbia””.

Per un destino quantomai cinico e beffardo, pure il cambio della guardia nella conduzione del campo era destinato a frustrare le aspettative dei prigionieri. Dopo un inizio promettente (per la “comprensione” mostrata da Marinari, la concessione di scrivere ai familiari, incontrarli ai colloqui, riceverne cibo e indumenti) al punto di “far sbiadire il ricordo delle angherie americane e la sadica disciplina impostaci dai nostri ex alleati”, ben presto si dové prendere atto di “essere caduti dalla padella nella brace. Nonostante l’impegno personale profuso dal comandante del campo e dai suoi subalterni, l’endemica disorganizzazione che contraddistingue le italiche istituzioni si dimostrò in tutta la sua cruda realtà”. Il rancio diminuì peggiorando anche di qualità, le malattie infettive cominciarono a colpire anche i più giovani, i medicinali scarseggiavano ogni giorno di più.

Impressionante poi la metamorfosi subita dalle persone degli internati. “Gli anziani e i vecchi facevano pena: taciturni e pensosi, la pelle avvizzita sulle ossa, i volti scuri e rugosi, la coperta sulle spalle, richiamavano alla mente gli indiani Apache. I ragazzetti, abbrutiti da quella vita, denutriti e coperti a malapena da qualche straccio, apparivano come figli di zingari questuanti per le vie delle città”. Tutti avevano i capelli strinati, molti precocemente imbiancati: fra questi, un giovane la cui madre, “scorgendolo sotto il sole al di là dei reticolati, credette di vederlo con un cappello bianco in testa!”.

Ciononostante, quello stesso senso dell’onore che li aveva portati a schierarsi dalla parte la cui sorte era ormai segnata indusse i reduci di Salò a mantenere un profilo alto, mirando anzitutto a distinguersi da quei prigionieri dai trascorsi diversi dai loro che si abbandonavano a contestazioni e propositi di fuga. “Se il nostro morale resse, se mantenemmo la disciplina, se non ci lasciammo prevaricare dagli istinti di rabbia e di ribellione, ciò fu dovuto alla nostra dignità di soldati che orgogliosamente conservammo. Dal più vecchio fra i generali alla giovane mascotte di 9 anni mutilato di una gamba dimostrammo ai nostri “fratelli verdoni” come sapevano soffrire e anche morire coloro che si erano offerti alla Patria, sempre e ovunque, per la sua grandezza e la sua libertà. Chi non accettava quella triste realtà erano coloro che con noi della RSI non avevano nulla a che spartire. Partigiani, disertori e reduci dalla Germania non riuscirono a coinvolgerci nelle loro sguaiate proteste. Un ammutinamento e una evasione in massa sarebbero stati anche possibili: ma quali conseguenze disastrose ne sarebbero seguite? I nostri comandanti elevarono dignitose proteste; ma il povero colonnello Marinari, pur recependole, si trovava davanti a una situazione non prevista”.

Quello che sta più a cuore a Ciabattini è in ogni caso il capitolo dei morti: molti dei quali uccisi due volte, dal momento che le loro spoglie sono sparite nel nulla. La sua tesi è che nel PWE 337 il decesso di un certo numero di detenuti fosse stato pianificato dagli americani: “Già da metà giugno era impossibile, a molti prigionieri giovani e vecchi, alzarsi e abbassarsi repentinamente senza rischiare di cadere a terra. La denutrizione era causa di capogiri improvvisi, di collassi ipoglicemici e di autointossicazione per indigestione. Bronchiti, pleuriti, polmoniti, blocchi cardio-renali, TBC, sifilide, postumi di ferite o di malattie antecedenti la prigionia erano le malattie ricorrenti nel campo; alle quali si aggiungevano gli incidenti di carattere traumatico, fratture, distorsioni, scottature ecc. I malati riconosciuti gravi, dopo alcuni giorni trascorsi sotto le tendine-infermerie dei lager coricati sulla nuda terra, venivano inviati al lazaret, e quando le loro condizioni si facevano disperate trasferiti all’ospedale da campo americano o in altri centri ospedalieri di Pisa e Livorno, a disposizione degli Alleati. Per coloro che divenivano folli, c’era l’internamento nel manicomio di Volterra. Ma oltre che per malattia, la morte poteva giungere inaspettata: anche per colpi di arma da fuoco”.

A tale proposito l’autore dà per certo l’omicidio dei fratelli Mario e Luciano Costagli e di Costanzo Lunardini. Di altri assassinati non sa fare il nome, ma è comunque in grado di descriverci sia le modalità delle esecuzioni che la “procedura” seguita dai carnefici: “Senza dubbio altre uccisioni di prigionieri avvennero nel campo e fuori, quasi sempre di notte. Quelli colpiti dentro il lager, magari sotto la tenda, venivano immediatamente trasportati al lazaret; ma se successivamente erano trasferiti altrove, oppure vi decedevano, nessuno ne sapeva più nulla: esattamente come accadde per coloro che giunsero ai PWE morti, gravemente feriti o malati. A qualche famiglia, venuta a conoscenza del luogo dove si trovava prigioniero il congiunto e avvisata delle sue disperate condizioni di salute, fu concesso, per intercessione di qualche potente personaggio, di portarlo a morire nella sua città di residenza”.

In ogni caso, di molti internati periti di morte più o meno violenta si sarebbero perse le tracce: “Nessuno, tranne gli archivisti USA, conoscerà mai il numero dei deceduti di Coltano. Mistero e silenzio anche sui luoghi dove venivano sepolte le salme”. Eppure le assidue ricerche effettuate hanno portato Ciabattini a scoprire uno dei luoghi in cui andavano a finire le vittime: il cimitero di guerra americano di Castelfiorentino, nell’area del quale, dopo che nel 1950 le salme dei caduti statunitensi erano state concentrate nell’apposito cimitero monumentale di Firenze, nel ‘64 furono rinvenuti i resti di 350 persone, in gran parte senza nome. Quel che è certo è che “a distanza di cinquant’anni, sui decessi di Coltano esiste ancora il “top secret“, e anche da parte delle autorità preposte non vengono fornite notizie precise. Tutto occultato, smarrito, distrutto!”.

A spiegazione di ciò l’autore riporta l’opinione espressa dal fratello di una vittima le cui spoglie furono restituite alla famiglia addirittura nel 1960. “Si doveva evitare che si sapesse che nei campi di concentramento allestiti dai cosiddetti “liberatori” il trattamento dei prigionieri di guerra era stato il medesimo, se non peggiore, di quello dei lager militari nazisti. Soldati e ufficiali, mutilati, ciechi e invalidi erano stati ammassati insieme, e insieme sadicamente sottoposti a stenti per fame, percosse, umiliazioni e totale mancanza di assistenza medica e farmaceutica. Non si doveva sapere che in pochi mesi il numero dei morti era stato elevato, attribuendo disinvoltamente molti decessi a gravi malattie pregresse e poi facendo sparire non solo i loro effetti personali, ma anche gli elenchi dei nomi degli scomparsi e i luoghi delle loro sepolture”.

Le polemiche e le testimonianze successive  Avendo il suo libro suscitato in una parte dell’opinione pubblica sdegno e commozione, Ciabattini si batté allora perché a Coltano fosse collocato un cippo commemorativo, che avesse il crisma del riconoscimento ufficiale da parte delle istituzioni. Posto nel punto più prossimo all’inizio dei reticolati e inaugurato il 22 settembre ‘96, esso recava la seguente epigrafe: “In questo luogo dal maggio al novembre 1945 sorgeva il campo americano P.W.E. 337 dove 35.000 soldati della R.S.I. soffrirono una dura prigionia  Ai caduti e ai dispersi dichiariamo perenne ricordo”. Purtroppo le vicende successive avrebbero dimostrato come oltre mezzo secolo dopo la fine della guerra non solo non si potesse giungere a una memoria condivisa della nostra storia, ma per certuni la guerra civile fosse tuttora in atto.

Immediatamente imbrattato con scritte oltraggiose, il monumento fu divelto e frantumato pochi giorni più tardi da un gruppo di sedicenti anarchici; il che indusse il comitato raccoltosi attorno a Ciabattini a rimuoverlo, destinando alle commemorazioni degli anni a seguire una copia in plastica, da trasportarsi in loco per l’occasione. Se tali atti vandalici potevano essere ascritti a una minoranza intollerante, astiosa e violenta, e che si faceva forte di una certa compiacenza da parte delle istituzioni (lo sfregio ebbe impunemente luogo sotto gli occhi della forza pubblica), gli sviluppi della vicenda sono a nostro avviso ancor più significativi circa l’impossibilità di una “pacificazione nazionale”.

I primi a sbagliare furono sicuramente i promotori del cippo e dell’annessa commemorazione, a cominciare dallo stesso Ciabattini. L’omaggio alle vittime del PWE 337 si sarebbe dovuto rendere in maniera sobria, dimessa, in modo da far risaltare l’aspetto della pietas nei confronti di quei nostri sfortunati connazionali. Al contrario, esso assunse tutte le sembianze dell’orgogliosa rivendicazione d’identità da parte dei “reduci”, con l’ostentazione dei simboli delle varie associazioni combattentistiche della RSI: labari, insegne, bandiere, nastrini, medaglie e quant’altro. Il che avrebbe indotto il questore di Pisa a inibire l’anno successivo una replica della parata, facendo firmare agli organizzatori un verbale di prescrizione con il quale si diffidavano i partecipanti dall’esibire gli orpelli.

La polemica assunse poi un aspetto eminentemente ideologico allorché, riprendendo le tesi abbondantemente sostenute e documentate in Coltano 1945, da parte del fronte ex repubblichino si tese ad assimilare il trattamento riservato ai prigionieri del PWE 337 a quello toccato agli ospiti dei lager tedeschi. Il che provocò una levata di scudi da parte dell’Istituto storico della resistenza, ertosi – non si sa a quale titolo – ad avvocato difensore dei responsabili americani del campo, con conseguenti prese di posizione da parte di accademici che pur non vantando una specifica preparazione in materia si sentirono in dovere di esprimere il proprio sdegno per tale accostamento solo in quanto organici al suddetto istituto.

In realtà ad essere offesa era proprio la Storia: la quale non può ammettere dogmi, verità aprioristiche o versioni di comodo ma aggiorna e riscrive le proprie pagine in base a quanto appurato dalla ricerca. Il fatto che Ciabattini abbia combattuto per la RSI e non abbia rinnegato quella militanza non può inficiare la solidità delle basi sulle quali è fondato il suo libro: a cominciare dai documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Pisa, dall’autore scrupolosamente vagliati e storicamente inquadrati e spiegati in base alla sua personale, dolorosa esperienza. Ora se è comprensibile che a quelle carte non sia stata data la giusta rilevanza nei lunghi anni della Guerra fredda – perché i nostri principali alleati non potevano esserci presentati come dei sadici torturatori e carnefici dei nostri padri – tali remore non hanno più ragione di essere una volta conclusasi quell’epoca: e quindi, ben venga l’apertura di questa sorta di “armadio della vergogna” pisano.

Il nuovo clima dettato dalla fine della contrapposizione tra i due blocchi e la maggiore libertà di espressione conseguentemente affermatasi ha peraltro fatto sì che anche su quanto accaduto a Coltano si sviluppasse un interessante dibattito, che ha finito con l’avvalorare pienamente le tesi sostenute da Ciabattini; il quale nel ‘99 avrebbe avuto la soddisfazione di essere ascoltato dalla Procura militare di La Spezia nell’ambito di un’inchiesta sul PWE 337 aperta a seguito di una denuncia da lui stesso presentata. Nel fascicolo – inevitabilmente conclusosi con un nulla di fatto – si ipotizzavano i delitti più gravi: violazione delle norme internazionali sui prigionieri di guerra, violenze aggravate, esecuzioni sommarie.

Al campo di concentramento che lo aveva visto internato fece riferimento in un’intervista l’on. Tremaglia: “Gli americani ci tenevano alla fame, e per punirci ci mettevano nella fossa dei fachiri, piena di pietre aguzze, a piedi nudi”. Della sua esperienza a Coltano non tracciava invece un bilancio del tutto negativo il prof. Prodi, come riportato da Giampaolo Pansa: “Nel nostro settore veniva celebrata ogni giorno la messa; vi circolavano inoltre ottimi libri di spiritualità cristiana. Ripensando alle mie vicende, vedo l’importanza di questo lungo periodo di “esercizi spirituali”, situato tra l’adolescenza e la prima giovinezza; stabilii anche amicizie che durarono a lungo. Quei mesi non furono del tutto sprecati neppure sotto il profilo degli studi: la mancanza di maestri e di libri mi spinse infatti a spremere il massimo dalle poche nozioni che avevo potuto apprendere occasionalmente”.

Dalla medesima testimonianza emergerebbero anche elementi tali da far pensare al PWE 337 quasi come a un luogo ludico-ricreativo: una sorta di grande palcoscenico ove ai detenuti era consentito di cantare, ballare, recitare, declamare poesie; o di sfidarsi in incontri di pugilato. Ma si trattava solo di espedienti per alleviare l’opprimente squallore di quelle interminabili giornate vuote, come rimarcato da Amerino Griffini: “Nel campo di Coltano avvenne l’esordio come attore di Enrico Maria Salerno, che fu presente anche nelle altre iniziative culturali realizzate dai prigionieri: in particolare le “lezioni universitarie” e il “giornale parlato”. Con ciò non vorrei offrire un’immagine “allegra” della detenzione; quelle erano le iniziative dei prigionieri: ma la realtà del campo era ben diversa”.

Ossia quella descritta anche nel terzo libro riguardante il PWE 337: La tariffa, opera postuma di Vincenzo Costa, pubblicata nel 2000. Si tratta di una selezione (operata su un memoriale originale di oltre mille pagine) curata da Renzo De Felice e che testimonia della sorte subita dai fascisti dopo la fine della guerra, chiamati dall’Italia repubblicana a pagare la “tariffa” delle proprie responsabilità. Arrestato dai partigiani il 27 aprile ‘45, dopo una breve permanenza nel carcere di Como l’ex gerarca fu internato prima nel campo di Piacenza, quindi in quello di Coltano.

In queste pagine vergate mezzo secolo prima il tragico quadro descritto da Ciabattini trova piena conferma: “Tutto attorno erano pini marittimi altissimi e ombrosi, ma il campo era al sole cocente: non un albero, non un angolo d’ombra. Come altri campi istituiti in quella zona compresa fra Tombolo, Pisa e Livorno, Coltano resterà memorabile per le violenze, i soprusi, le angherie che gli americani ci inflissero”. Che Costa descrive puntualmente, non mancando peraltro di sottolineare certe note di colore che testimoniano della bassezza morale dei soldati della Buffalo e di chi li comandava: a cominciare dalla schiera di prostitute presenti al loro seguito, peraltro già segnalataci da Dal Dosso.

Ma sarebbe stato l’avvento di Internet a riversare sui pertinaci difensori della tesi della correttezza americana una valanga di testimonianze in grado di demolirla definitivamente; del resto la diffusione dell’informatica ha ampliato a dismisura gli spazi di comunicazione, concedendo facoltà di parola anche a chi, altrimenti, non avrebbe avuto la possibilità di far sentire la propria voce. Tra la miriade di contributi offerti dal web, offriremo al lettore quelli che ci sono apparsi come i più originali e significativi.

Sulla brutalità statunitense nei confronti degli internati italiani abbiamo anzitutto l’esauriente testimonianza di un ex militante della RSI che fu recluso nel PWE 337 poco dopo la sua apertura. Nell’accettare di raccontare quella terribile esperienza quasi settanta anni dopo egli ha chiesto di mantenere l’anonimato, limitandosi a dichiarare luogo e anno di nascita (Voghera 1923): fatto che testimonia ulteriormente dell’impossibilità nel nostro Paese di affrontare argomenti legati al secondo conflitto mondiale in maniera serena, anche a distanza di tanto tempo.

“Finita la guerra tornai a Voghera. Camminavo in abiti borghesi quando un camion militare carico di soldati americani, che percorreva la mia stessa strada, si arrestò vicino a me; fui fermato e in qualche modo capirono che ero stato un soldato della RSI. Ero in piazza Meardi; mi presero e mi portarono alla Caserma di Cavalleria. Questa era piena di prigionieri, tutti ragazzi della mia età; poi mi caricarono su un camion stracolmo di prigionieri e ci portarono tutti in Toscana, a Coltano. Quando vi arrivai non c’era ancora molta gente; due preti dopo il nostro arrivo se ne andarono: forse perché avevano ricevuto un ordine, forse per paura. C’erano i prigionieri italiani, ma anche tanti tedeschi; eravamo tenuti in sezioni separate. Per noi non c’erano baracche, né altri tipi di costruzione: le avevano solo gli americani. Noi dormivamo per terra, all’aperto; era un campo puro e semplice, delimitato e sorvegliato dalle guardie armate. C’erano spesso prigionieri che tentavano di fuggire, a volte riuscendoci; a un certo momento gli americani usarono anche alcuni prigionieri tedeschi, armati di manganello, per i servizi di guardia, creando un cordone protettivo attorno al campo: a quel punto non vi fu più alcuna fuga. Da mangiare ci davano una brodaglia schifosa, che era tutta acqua, e nient’altro: sempre quella. Un mio amico vogherese di nome Bertelli, anch’egli internato, fu utilizzato dagli americani per pulire quei pentoloni in cui si cucinava la brodaglia; ma non durò tanto: siccome era spavaldo, dopo un po’ lo cacciarono via dalle cucine. Si faceva la fame; per disperazione accadeva anche che dei prigionieri riuscissero a rubare dalla mensa qualcosa da mangiare.

Quando i parenti dei detenuti e la gente del posto seppero dell’esistenza del campo si precipitarono in massa tutt’attorno, e ci lanciavano dentro pane e altra roba da mangiare: stavano sempre lì. Io non sono mai riuscito a prendere niente, perché appena qualcuno lanciava del cibo tutti subito si accalcavano per prenderlo. All’inizio gli americani, per quanto infastiditi, tollerarono questa faccenda; ma gli ultimi giorni che trascorsi nel campo intervennero le guardie, cacciando via tutte quelle persone; dopodiché non fu più permesso a nessuno di stare fuori dai recinti e gettare cibo. Dopo questa disavventura ho considerato gli americani come una brutta razza: schifavano tanto i tedeschi, ma erano uguali a loro. Quando al campo arrivavano gli alti ufficiali – sono venuti due volte – si doveva stare coricati a terra, e c’erano due guardie armate di fucile pronte a sparare. Gli americani ci odiavano, erano barbari, si comportavano come bestie e ci trattavano come degli animali; qualcuno dei miei compagni mi disse che era stato anche picchiato. Io una volta stavo dormendo per terra quando venni svegliato da un calcio sferratomi da un americano, che mi urlò: “Forza, vieni!”. Avevo conosciuto e stretto amicizia con un prigioniero che era impazzito; continuava a chiamare la moglie, piangeva e si lamentava: era uscito di senno. Un giorno gli americani lo presero e lo portarono in una sezione separata del campo; lo legarono a un palo, o a un albero, con una catena, lo picchiarono e lo lasciarono lì per giorni senza dargli da mangiare. Lo vidi diverse volte, arrampicandomi su un albero per sbirciare; poi scomparve, e nessuno seppe che fine avesse fatto. Un’altra volta invece ci furono due o tre ragazzini che erano stati volontari della RSI che scapparono: sentimmo degli spari – io stesso li sentii bene – poi venni a sapere da un detenuto che avevano sparato a due di loro. Non so se sono morti: è probabile.

Non ricordo quanto sia durata di preciso la mia permanenza a Coltano, ma si è trattato di un periodo tra i quindici giorni e un mese. Ci liberarono e assieme a un mio compagno di Voghera partimmo, a piedi; poco dopo il campo c’era una specie di osteria all’aperto, un grande capannone, e ci fermammo a mangiare. Io per fortuna avevo ancora le 300 lire che avevo con me al momento della cattura, che avevo tenuto nascoste senza che gli americani se ne fossero mai accorti. Dopo aver mangiato andai per pagare, ma quelle persone non vollero niente; vidi che pagavano solo i civili, mentre tutti i militari non venivano fatti pagare. Poi ripartimmo, e scambiai la divisa con un contadino che mi diede degli abiti borghesi”.

Rimase invece nel campo Dario Buzzi, di Appiano Gentile, che aveva militato nel I Battaglione d’assalto “Pontida”; lo abbiamo già citato a proposito di Pound. Nel video dell’intervista concessa egli mostra anzitutto un cimelio: una tavoletta recante sia il suo numero di matricola che la scritta “P. W. 337/3 Coltano”, impressi a fuoco. Il primo dato ad emergere anche da questa testimonianza è il diabolico sadismo dei vincitori nei confronti dei prigionieri. “Arriviamo a Coltano alla metà di maggio. Era un campo desolato, con dei reticolati intorno, dove si dormiva all’addiaccio e dove si mangiava così, qualche cosa: il rancio – chiamiamolo rancio – era costituito da quattro cracker a mezzogiorno e quattro la sera. Il comandante del campo era una carogna; un italo-americano, ribadisco “carogna” perché quando veniva al mattino a passare l’ispezione ci contavano e se trovavano un pezzetto di carta per terra diceva subito: “Oggi nun se magna, perché il campo è sporco”. Poi verso i primi di giugno vennero piantate delle tende canadesi; ci inquadrarono in sei per tenda, ci fecero le iniezioni antitetaniche e per una settimana ci diedero la possibilità di scrivere due lettere a testa. Partita l’ultima lettera, la razione di rancio – che già di per sé rappresentava sì e no il 30% di quella del soldato americano – fu ridotta drasticamente.

Nel mese di agosto il rancio era costituito al mattino da un affare di caffè, e basta; a mezzogiorno da un mestolo di pappina, che era della farina cotta con dentro delle prugne secche, e un pezzetto… un ottavo di pancarré con un pochino di marmellata: quando non si saltava il pasto per ragioni disciplinari. Qualcuno di noi cominciò a sostenere che dovevamo mangiare la pastasciutta: di comune accordo decidemmo allora di risparmiare quella poca pasta che ci mettevano nella gavetta per fare la pastasciutta l’8 di agosto. Ci fanno la pasta cotta – quasi senza condimento – però per conseguenza niente cena la sera, niente pappine il giorno dopo: scoppia la rivoluzione, gli americani sparano nel campo e uccidono qualcuno.

A noi era vietato entrare in tenda di giorno, per cui eravamo sempre esposti al sole o alla pioggia. Quando ci si alzava si doveva fare sette, otto, dieci passi prima di cominciare a vedere; si vedeva tutto buio, sia per la debolezza dovuta alla fame sia per il sole che ci batteva in testa dalla mattina alla sera. Nel campo ho trovato qualche vecchio amico: c’erano quasi tutti quelli del mio battaglione. Siamo andati avanti così fino a settembre, quando è arrivata la commissione “discriminatrice”: perché eravamo considerati tutti criminali. Cominciano a interrogare, e vengo interrogato anch’io: non so per quale ragione, non vengo liberato. Ho visto i miei amici e camerati uscire, e io e altri dentro. Passiamo sotto l’amministrazione italiana, vediamo il Tricolore, sentiamo un moto di orgoglio: senonché da prigionieri di guerra siamo diventati misteriosamente internati. Ci portano a Laterina, dove c’erano delle camerate in muratura; noi naturalmente stavamo al freddo, malnutriti. Nella mia camerata c’era anche il generale Diamanti, quello famoso per la poesia Africa italiana. Misteriosamente – o fortunatamente – il 20 dicembre vengo chiamato per essere liberato: non ho subito né processo né niente del genere”.

Un’altra testimonianza ci ragguaglia sia della terribile condizione degli internati – impediti dopo quella prima settimana riferita da Buzzi anche di scrivere ai familiari – che del clima di terrore imposto dagli americani ai coltanesi: specie a quelli che avevano la sfortuna di abitare nei paraggi del PWE 337. Ciononostante, la compassione provata per quei poveretti portò chi ne osservava quotidianamente i patimenti a fare qualcosa per aiutarli. A renderla è stata Regina Favaro, che all’epoca aveva cinque anni: “Ricordo che di fronte a casa mia c’era il campo di concentramento, con i prigionieri che urlavano e si strappavano i capelli. Un giorno, camminando lungo la strada esterna ai reticolati, trovai una lettera sotto un sasso: la presi, la portai a casa e la diedi a mia madre. Lei la lesse: era di un prigioniero che scriveva ai suoi genitori. Mia madre allora ne scrisse un’altra, che a proprie spese mandò a quelle persone. La cosa si ripeté altre volte: se fossimo stati scoperti, avremmo avuto a passare dei guai. Un giorno vennero a fare una perquisizione: io avevo la lettera in mano, di getto la buttai dentro uno zoccolo e per fortuna non fu trovata. Da quella volta abbiamo avuto più paura, per cui si è diradato a scrivere”.

Conclusioni  Da tutta la documentazione in nostro possesso emerge dunque in maniera inconfutabile che nella concezione di chi lo aveva allestito il PWE 337 non avrebbe dovuto essere un campo di reclusione “regolare”, con gli internati alloggiati nelle baracche, una struttura organizzativa, un servizio; esso si presentava piuttosto come un’area di scarico, squallida e desolata, dentro la quale i prigionieri venivano gettati come animali, abbandonati a sé stessi e completamente indifesi dalle intemperie. Anche la decisione di concedere loro delle tende – presa soltanto in un secondo momento e dovuta con ogni probabilità all’imminenza dell’ispezione della Croce Rossa – non migliorò più di tanto la loro condizione, essendone vietato l’utilizzo nelle ore diurne.

Dovendo trascorrere le quali all’aperto, la prima tortura divenne per i detenuti quella di essere costantemente cotti dal sole e tormentati dalla calura, in quelle interminabili giornate estive, e non avendosi in tutto il campo un filo d’ombra: le foto – scattate clandestinamente da un prigioniero – che ce li mostrano esposti al solleone in mutande denotano chiaramente l’anomalo annerimento della pelle. Oltre a ciò, il micidiale mix di fame, sete, assenza di igiene, promiscuità determinò una notevole diffusione di tifo e tubercolosi. Nel campo, inoltre, non fu avviata alcuna attività lavorativa organizzata, in modo da consentire agli internati di di impiegare costruttivamente il tempo; a differenza peraltro di quanto avvenuto nei campi di prigionia tedeschi, o in quelli aperti dagli stessi italiani durante l’occupazione della Slovenia.

Ma la questione più stringente è se il PWE 337 possa essere paragonato ai campi di sterminio. La domanda va posta in questi termini: scopo precipuo del campo riservato agli italiani era la morte del maggior numero possibile di prigionieri? La risposta non può essere che “no”: anche ammesso che tutte quante le 350 salme ritrovate a Castelfiorentino provenissero da Coltano, resta il fatto che la stragrande maggioranza dei detenuti ne uscì viva. Il discorso tuttavia cambia qualora si considerino altri fattori: a cominciare dal mancato rispetto degli obblighi derivanti dalle norme internazionali concernenti i prigionieri di guerra, come ben evidenziato da Ciabattini.

Ma non fu solo questo: la sommarietà delle esecuzioni, anzitutto; l’annientamento della persona umana, perseguito con ogni mezzo e fin dalla scelta del tipo di struttura da allestire; la crudeltà delle punizioni; le diuturne violenze, psicologiche oltre che fisiche; la scarsità e infima qualità del rancio, sono sicuramente aspetti che accomunano il campo di Coltano a quelli sia tedeschi che italiani. Si pensi a quanto accaduto nei lager gestiti dalle nostre truppe in Libia, in Slovenia, in Dalmazia, ove l’alimentazione inadeguata, le malattie connesse alla denutrizione, la precarietà della situazione igienica, le pessime condizioni di vita non poterono che favorire nei prigionieri deperimento fisico, malattie e conseguentemente morte: esattamente come avvenuto nel PWE 337.

In entrambi i casi il regime punitivo imposto ai detenuti si rivelò dunque oltremodo illegale, inumano, bestiale: con l’aggravante però che la vicenda di Coltano ebbe luogo a conflitto concluso. Né si tralasci di considerare, nella valutazione complessiva della vicenda, l’acclarata caratura criminale di molti dei componenti della Buffalo, che indusse lo stesso comando della Quinta Armata a trasferire al termine del conflitto la divisione da Viareggio, ove aveva trascorso l’inverno 1944-45 trasformandola in una vera e propria “città proibita”, alla pineta del Tombolo, ove le sue attività illecite ebbero seguito causando continui interventi da parte della Military Police. Non v’è perciò da stupirsi che anche sulla pelle degli internati italiani quei soldati abbiano avviato attività quali prostituzione, mercato nero, contrabbando: e il fatto che alle famiglie dei deceduti non siano stati restituiti – oltre alle salme – gli effetti personali dei congiunti getta ulteriori ombre su quelle morti.

Ma sul banco degli imputati va messa anche la Croce Rossa: la quale derogò al proprio ruolo di garante del rispetto della Convenzione di Ginevra nel trattamento dei prigionieri. Il nostro pensiero va non soltanto ad ammalati, mutilati, anziani, ma anche a quegli internati poco più che bambini gettati dalla criminosa irresponsabilità di Mussolini nella fornace di una guerra ormai perduta, sfruttando l’ascendente esercitato come “Duce” sulle generazioni più giovani, nate quando il regime era ormai consolidato ed educate secondo i suoi dettami. È evidente come l’organizzazione umanitaria sarebbe dovuta intervenire, sottraendo quegli sfortunati quanto innocenti ragazzini – molti dei quali avevano già avuto entrambi i genitori trucidati – a una prigionia così barbara e crudele, in ottemperanza alla medesima Convenzione che sin dal 1924, a fronte della tragedia dei piccoli profughi del primo conflitto mondiale, aveva affermato l’obbligo della tutela dei diritti dell’infanzia dagli orrori della guerra.

Si può quindi affermare che a Coltano l’esercito degli Stati Uniti d’America abbia dato vita all’ennesimo dei misfatti consumati nel corso della Seconda guerra mondiale. Accanto alla mostruosità della bomba atomica, alla criminalità dei bombardamenti indiscriminati sulle nostre città da parte delle “fortezze volanti” che mieterono tante vittime innocenti quando l’Italia era già atterrata, alle famigerate incursioni dei “Pippo” che s’incuneavano tra le nostre montagne sfortunatamente disposte lungo la Linea Gotica allo scopo di mitragliare contadini intenti a coltivare l’orto, alla strage di San Miniato, alla distruzione dell’abbazia di Montecassino, della cattedrale di Messina, del camposanto monumentale di Pisa, quanto perpetrato dall’U. S. Army nel PWE 337 va annoverato tra le vergogne più infamanti della guerra più atroce di sempre.

                                                                   Bibliografia

Scheda didattica “Coltano e il PWE”, Centro visite della Villa Medicea di Coltano.

Fascicolo dei documenti riguardanti il Campo di concentramento di Coltano “PWE 337”, presso l’Archivio di Stato di Pisa.

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M. Dal Dosso, Quelli di Coltano, Milano, Giachini, 1949.

P. Ciabattini, Coltano 1945. Un campo di concentramento dimenticato, Milano, Mursia, 1995.

V. Costa, La tariffa, Bologna, Il Mulino, 2000.

G. Pansa, I vinti non dimenticano, Milano, BUR, 2010.

G. Buccini, “Noi di Salò nel campo di prigionia”, “Corriere della Sera” (Milano), 16 IV 2010.

S. Cerrai (a cura di), Coltano: storia corale, Pisa, ETS, 2011.

AA. VV., Pietro Ciabattini: Coltano 1945. Un campo di concentramento dimenticato. (in boiachimolla.blogspot.com), 1° marzo 2014.

Anonimo, Da Voghera a Coltano – il campo di concentramento americano “per fascisti”, video pubblicato in YouTube il 6 novembre 2014.

Dario Buzzi prigioniero a Coltano con Ezra Pound, intervista di C. Erminio – L. Ruffini – C. Costa, video pubblicato in YouTube il 6 VI 2015.

A. Pantano, Ezra Pound e il centro di detenzione di Metato, video pubblicato in YouTube il 21 giugno 2015.

S. Stancanelli, “Quelli di Coltano” di Mariano Dal Dosso, “TrentinoLibero” (trentinolibero.it), 6 IX 2016.

A. Griffini, Effemeridi. La gioventù fascista (nella Rsi) dell’attore Enrico Maria Salerno, “Barbadillo” (barbadillo.it), 2 III 2019.

AA. VV., Repubblica Sociale Italiana. I campi di prigionia in Italia (italia-rsi.it).

La vergogna USA: il campo di concentramento di Coltanoultima modifica: 2021-02-17T19:10:43+01:00da tradersimo
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