Il periodo pistoiese di Licio Gelli di Marco Francini

Nel saggio Il periodo pistoiese di Licio Gelli il prof. Marco Francini ripercorre l’intensa vicenda giovanile del futuro capo massonico, puntualizzando inesattezze e manipolazioni della realtà diffuse dallo stesso Gelli e riprese da ricostruzioni biografiche acritiche ed eccessivamente benevole. Secondo Francini, nelle dichiarazioni rilasciate una volta raggiunta la notorietà Gelli avrebbe infatti sempre teso ad accreditare un’immagine del suo periodo giovanile oltremodo artefatta, presentandosi quasi alla stregua di “un eroe che non è stato riconosciuto tale per pura malevolenza”.

Segnatamente riguardo al periodo della guerra civile, egli si è dipinto come l’uomo della mediazione e della riconciliazione, del benefattore impegnato a salvare indifferentemente amici e nemici, conoscenti ed estranei: un quadretto per verificare l’attendibilità del quale l’autore ha scrupolosamente passato al setaccio tutta la documentazione esistente. Dalla quale emerge anzitutto la spregiudicatezza del personaggio, con un’attitudine al doppio gioco e una capacità di coprirsi le spalle rispetto ad ogni possibile sviluppo della situazione che diedero notevole prova di sé già nel drammatico frangente della guerra civile, per poi diventare suo abito costante nell’età adulta.

Il padre di Licio, Ettore – nato nel 1875 – dall’originario Montale si era trasferito con la famiglia a Pistoia per gestirvi il mulino di via Gora. La sua durata e la quantità delle vittime falcidiate nelle trincee fecero sì che la Grande guerra vedesse un progressivo innalzamento dell’età dei richiamati; nel 1917 furono così inviati al fronte anche gli ultraquarantenni appartenenti alle classi ‘74 e ‘75, destinati al servizio nelle retrovie. Adducendo varie scuse e trovando alfine la raccomandazione giusta, Ettore riuscì a non partire, potendo così dedicarsi alla famiglia: il 21 aprile 1919 nasceva Licio, ultimo di quattro figli.

Al termine della scuola elementare il ragazzo si iscrisse all’istituto tecnico, frequentando al contempo lo studio dell’avvocato Piero Paganelli al duplice scopo di guadagnarsi qualche soldo e disporre di un supporto nell’espletamento dei compiti scolastici. Nel ‘36 il fattaccio destinato a segnare l’esperienza studentesca del nostro: l’espulsione da tutte le scuole del Regno per avere schiaffeggiato un insegnante. Non intendendo evidentemente ripiegare sull’attività familiare per ovviare alla nuova situazione di nullafacente, l’ambizioso Licio decise allora di buttarsi in politica, iscrivendosi alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e scegliendo la via più diretta per mettersi in luce: la partecipazione alla guerra di Spagna, sulle orme del fratello Raffaello che era stato tra i primi a partire.

Il “Corpo Truppe Volontarie” vedeva la prevalenza dei reduci dalla campagna d’Etiopia: elemento che, nonostante il bando consentisse l’arruolamento anche ai diciottenni, collocava l’età media dei volontari tra i 26 e i 40 anni. Mancandogli ancora diversi mesi al compimento dei 18 anni, Gelli non esitò a falsificare la propria data di nascita sulla tessera del circolo cattolico di appartenenza – documento equipollente alla carta d’identità – venendo così arruolato nella Legione “Giulio Cesare” e risultando di fatto il più giovane degli italiani ingaggiati: primato che, a guerra conclusa, gli varrà un riconoscimento speciale da parte dello stesso Franco.

L’esperienza spagnola doveva riservare ai due fratelli pistoiesi un destino opposto: protagonista di atti valorosi e forieri di riconoscimenti, Licio vi avrebbe posto le basi per una brillante carriera nel Partito nazionale fascista; mentre Raffaello, ferito gravemente in combattimento, vi lasciò la vita: il nostro giurò allora di continuare la lotta contro il comunismo in nome del congiunto. Il prolungarsi di quella strana guerra civile “internazionale”, con il suo carico quotidiano di feriti, ammalati e caduti, impose al Comando italiano la regola del rimpatrio dei volontari dopo 18 mesi di fronte, per rimpiazzarli con l’invio di truppe fresche.

Tornato a casa, Gelli immortalò i momenti salienti della sua avventura iberica in una serie di articoli pubblicati dal settimanale del Pnf pistoiese Il Ferruccio, poi raccolti nel volume Fuoco!, editato in 500 copie. Nella piccola città toscana egli era ormai un personaggio: “Ogni occasione era buona per farmi sfilare – avrebbe ricordato in seguito – con le medaglie sul petto. Mi veniva spesso chiesto di tenere anche dei discorsi, per fare propaganda fra i giovani”.

Né gli encomi di ex combattente, né il fatto di essere fratello di un volontario immolatosi per la causa della Patria, né la gloria letteraria gli valsero tuttavia il superamento dell’esame di ammissione necessario al reinserimento nel ciclo di studi tecnici, sostenuto nel ‘40. Evidentemente imbattutosi in una commissione particolarmente rigorosa e per nulla disposta a condonare, in nome dei suoi nuovi “meriti fascisti”, gli schiaffi menati dal candidato al professore fra quelle stesse mura, Licio fu bocciato.

Non gli rimase allora che ripiegare sul partito: la riconoscente Federazione pistoiese non mancò di ricompensarlo per il suo proselitismo, propiziandone l’assunzione come impiegato presso i Gruppi universitari fascisti. Le note caratteriali relative a quell’esperienza ce lo descrivono come “un giovanotto spavaldo e vanitoso”, sempre attento al proprio portamento e abbigliamento e animato da un incontenibile arrivismo. Di certo il ventenne non ambiva a una vita da travet; per cui dando sfogo alla sua inventiva pensò di inviare al Centro di coordinamento militare di Roma due progetti. Il primo riprendeva un’idea del fratello scomparso consistente nell’elaborazione di un motore ad acido solforico; il secondo, frutto del suo personale ingegno, proponeva invece un innovativo modello di fucile mitragliatore. Nonostante la trasmissione al Consiglio Nazionale delle Ricerche, entrambe le proposte non ebbero seguito.

Il che portò Gelli a concentrarsi sulla politica; in particolare cercando di ottimizzare al massimo i ritorni del libro pubblicato. Un primo incontro con Mussolini era avvenuto già l’anno precedente, allorché il pistoiese era stato ricevuto a Palazzo Venezia; il secondo ebbe luogo nel luglio ‘40, offrendogli l’opportunità di donare al dittatore la “prima copia” di Fuoco!. In realtà si trattava perlomeno della seconda, avendo l’autore il mese precedente fatto il medesimo omaggio al vittorioso Caudillo, in occasione del ritorno in terra spagnola per ricevere il premio di cui si è detto.

Intendendo aiutare il fratello di un legionario caduto in Spagna, il Duce si interessò personalmente affinché Licio fosse ammesso ai corsi di preparazione politica per i giovani istituiti presso l’Accademia della Farnesina, della durata di due anni e con annessa borsa di studio. Qui egli ebbe modo di conoscere esponenti di primo piano del regime come Vidussoni, Mezzasoma, Muti.

Di tale ascesa del figlio del mugnaio all’ombra del Fascio fa fede una curiosa vicenda che si dipana nella sua città natale proprio negli stessi mesi che lo vedono così attivo a Roma e che ha per protagonista il prefetto di Pistoia, Alfonso Pironti. Con ogni probabilità a seguito di pressioni ricevute dalla capitale, il rappresentante del governo sollecitò tutti i Comuni della provincia ad acquistare copie di Fuoco!; le cose tuttavia non andarono come sperato dal nostro, inducendolo a rivolgersi al ministro delle corporazioni Ricci affinché segnalasse la pubblicazione alle organizzazioni sindacali. Senonché prima di muoversi il gerarca carrarese volle sapere qualcosa di più sul giovane autore, e in particolare sulla sua qualifica di “fascista universitario”: chiese perciò allo stesso Pironti di acquisire informazioni su di lui.

Espressosi positivamente il Fascio pistoiese (“Gelli è stato il più giovane Legionario in Spagna”, e “anche quale addetto di questa Federazione tiene buona condotta politica e morale”), il prefetto scelse tuttavia di privilegiare la nota inviatagli dalla Questura; la quale, nel precisare che lo scrittore non era studente universitario, concludeva: “Nel settembre scorso egli fece gli esami per l’ammissione al I corso superiore del locale istituto tecnico, ma non fu approvato. Data la limitata cultura del Gelli si esprime parere contrario per la divulgazione della pubblicazione”. Fu tale diniego che Pironti trasmise al ministero; salvo però ritornare sui propri passi e, appena qualche mese più tardi, pronunciarsi a favore della segnalazione del libro al sindacato.

Il 10 giugno il pistoiese assisté in Piazza Venezia al discorso con cui Mussolini annunciò l’entrata in guerra. Di lì a poco fu richiamato alle armi e assegnato al 127° reggimento Fanteria, di stanza a Cambiano di Torino, ove divenne l’attendente di un ufficiale concittadino. La sua domanda per la scuola paracadutisti di Tarquinia fu accolta; incorporato nella 195ª divisione “Folgore”, nel corso di un lancio di esercitazione si fratturò un braccio nel prendere terra. Dell’ottobre ‘40, una volta compiuti i necessari 21 anni, è la sua iscrizione al Pnf; di qualche mese più tardi – ormai rimessosi dall’infortunio – la sua partecipazione al corso di addestramento a Montebelluna, prima di essere inviato sul fronte greco-albanese.

Le aderenze di cui Gelli godeva presso le alte sfere del regime fecero sì che nell’aprile ‘41 il segretario del Pnf Serena lo nominasse ispettore del Fascio di Cattaro, l’effimera provincia italiana appartenente al Governatorato di Dalmazia. Qui egli sarebbe rimasto sino alla caduta del fascismo, distinguendosi sia nell’organizzazione dei Littoriali che nell’espletamento di un incarico assai delicato affidatogli dal Servizio informazioni militare: l’organizzazione del recupero e del trasporto in Italia del tesoro appartenuto alla Corona jugoslava.

Appreso della defenestrazione di Mussolini, il 26 luglio ‘43 Licio si portò a Trieste, donde, spogliatosi della divisa fascista, si mise in viaggio per raggiungere il Comando paracadutisti di Viterbo. Il 24 agosto si recò, assieme a Vidussoni, nella villetta di Fregene ove nella notte i carabinieri avevano assassinato Muti. L’8 settembre anche il gruppo paracadutisti si sciolse: alcuni si unirono ai tedeschi, altri presero la via di casa; Gelli fu tra questi ultimi.

Una volta proclamata la Repubblica sociale furono immediatamente costituite le Squadre d’azione “Muti”, formazioni operanti a livello provinciale con compiti di polizia politica e militare. Il nostro fu tra i costituenti di quella pistoiese, che ebbe tra i suoi militanti Giorgio Pisanò il quale si trovava nella città toscana al seguito del padre, funzionario di prefettura. Interessante la testimonianza resa in proposito dal futuro giornalista e politico: “Ho conosciuto Gelli lì: era in una posizione di primissimo piano, si era autonominato ufficiale di collegamento, girava in sahariana, camicia nera e stivali. Già da allora dimostrava le sue qualità di mediatore”.

In realtà la nomina a ufficiale di collegamento fra le autorità locali della Rsi e il comando tedesco aveva un’origine ufficiale. Ricevuto dal segretario del Partito fascista repubblicano Pavolini l’incarico di riaprire i locali della Federazione pistoiese di Palazzo Fabroni – posti sotto sequestro dopo il 25 luglio – Licio, attivata una sede provvisoria in via De’ Rossi, aveva intessuto una trattativa con l’Intendenza di finanza, presentandosi alfine con due soldati tedeschi e ottenendo il dissequestro dell’immobile di via Sant’Andrea. Assieme ad altri esponenti del vecchio Fascio cittadino, ma rivestendo ormai una posizione di preminenza, egli aveva designato alla guida della nuova Federazione repubblicana Bruno Lorenzoni, medico di Serravalle e già console della Milizia; il quale aveva ricambiato la cortesia affidando al suo sponsor l’incarico in questione.

Fu in tale veste che il nostro diede il meglio di sé, parlando correntemente il tedesco e divenendo il più apprezzato confidente degli occupanti. Ed è a questo punto che Francini inizia a porsi l’interrogativo che fa da leitmotiv al suo studio: Gelli mirò a conquistarsi la fiducia germanica perché sin dall’inizio si era posto l’obiettivo, umanitario e lungimirante, di una “pacificazione” tra fascisti e antifascisti pistoiesi, in modo da limitare gli effetti della guerra civile di cui già si vedevano le avvisaglie (come vorrebbero i suoi “incensatori”), o lo fece per semplice ambizione e tornaconto personale? Lo storico pistoiese affida la risposta alle carte, valutando ogni episodio in modo da comprendere quella che dové essere la ratio del comportamento del futuro Maestro massonico.

Licio si garantì anzitutto la continua presenza sul territorio per mezzo di una 1100 mimetica che si fece mettere a disposizione e sulla quale viaggiava armato di mitra. A più riprese egli ebbe a mostrare il volto truce del fascismo di Salò – frustrato dall’andamento della guerra, dall’implicito fallimento del regime mussoliniano e di fatto asservito all’alleato nazista – in modo da compiacere il Comando germanico. Per sua stessa ammissione, prese parte a requisizioni di beni privati e a rastrellamenti sia di prigionieri alleati sfuggiti alla reclusione l’8 settembre che di renitenti alla leva; come ogni rappresentante repubblichino che intendesse acquisire la fiducia dell’alleato-padrone, inoltre, dové rendersi protagonista di delazioni a danno di cittadini che a vario titolo non ottemperavano alle direttive della Kommandantur. Con alcuni renitenti però – forse conoscenti di vecchia data – agì diversamente, andando a cercarli a casa da solo per convincerli a presentarsi spontaneamente al distretto, in modo da evitare loro guai peggiori.

C’è poi l’episodio riguardante il parroco di S. Biagio in Cascheri Roberto Ruzzolini, da questi segnalato al vescovo in una relazione vergata alla fine della guerra. “Il sottoscritto parroco il giorno 18 settembre 1943 fu preso dai tedeschi, guidati da certo Licio Gelli di Pistoia, minacciato di fucilazione, sotto l’imputazione di aver dato ricetto e aiuto a prigionieri inglesi, caricato su un camion e fatto scorazzare per i monti di Marliana e di Casore del Monte, dalle 10,30 del mattino alle cinque della sera. Riportato in Pistoia alla caserma dei carabinieri e tenuto lì sino al mezzogiorno del 21, poi rilasciato libero”. Gelli si sarebbe difeso da tale accusa sostenendo che l’iniziativa nei confronti di don Ruzzolini era stata presa dai tedeschi, e che egli aveva anzi fatto di tutto per evitargli l’arresto avvertendolo preventivamente per il tramite di un altro sacerdote; aggiungendo comunque essersi trattato di “un atto dimostrativo e di pressione psicologica sopra la popolazione, che dava così di frequente rifugio ai prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di prigionia, o ai piloti degli aerei abbattuti”.

In ogni caso il suo zelo gli avrebbe fruttato l’arruolamento nelle SS italiane, con il grado di tenente: passaggio particolarmente significativo nell’ambito di una “carriera” nazifascista, dal momento che i nostri connazionali che vi aderivano erano tenuti a giurare obbedienza a Hitler. Il che non toglie che accanto allo sbirro dalla morte secca impressa sul berretto si delineasse fin da subito il doppiogiochista; del resto, con il fronte ancora lontano, esistevano ampi margini di manovra per un compromesso con l’antifascismo moderato che evitasse arresti e spargimenti di sangue: anche perché in una realtà così circoscritta come quella pistoiese i rapporti personali finivano con il prevalere sulle divergenze politiche.

Tra il settembre e l’ottobre ‘43 sono attestati diversi contatti fra Gelli ed esponenti dell’altra parte a lui ben noti; ma tale progetto di pacifica convivenza era destinato a naufragare per la contrarietà del Partito comunista. Tale fallimento, unito alla consapevolezza che la guerra fosse per l’Asse ormai perduta, dové indurre il nostro a incarnare una figura di capo repubblichino del tutto particolare: non un fanatico esecutore degli ordini superiori – che dopo la celebrazione del congresso di Verona e con il progressivo avvicinamento del fronte sarebbero diventati sempre più ottusi e spietati – bensì un abile mestatore che, forte dell’incondizionata fiducia da parte del Comando tedesco, finì con l’assumere le sembianze del Giano bifronte, coltivando le conoscenze acquisite nelle file del nascente movimento partigiano al principale scopo di salvare sé stesso. Perché al di là dei proclami diramati dalla Rsi la situazione del Paese era tragica, la popolazione esasperata prima dall’illusione dell’armistizio e poi dall’intensificarsi dei bombardamenti alleati, e i tempi dell’avanzata nemica imprevedibili.

Nel novembre ‘43 Gelli fece parte della delegazione pistoiese al congresso veronese: e anche la constatazione del clima che caratterizzò quell’assemblea tumultuosa, la consapevolezza che, con Mussolini in esilio sul lago di Garda, a comandare nel Pfr sarebbero stati i “falchi” più graditi al nazismo, la prevalenza dell’aspetto vendicativo che caratterizzò il discorso dello stesso Pavolini, dovettero illuminarlo ancor più riguardo alla tragedia che attendeva la parte d’Italia soggetta al Reich. Per questo nei mesi successivi egli fu scrupoloso tanto nello svolgere il compito di collaboratore dei tedeschi (che ne faceva anzitutto il loro portavoce presso la cittadinanza) quanto nel mantenere i collegamenti con il fronte resistenziale.

Sostanzialmente disattese dalla popolazione le pressioni esercitate dagli occupanti perché essa partecipasse con convinzione allo sforzo bellico, furono emessi una serie di bandi che minacciavano rastrellamenti finalizzati sia alla deportazione nei campi di concentramento che alla fucilazione immediata. A Pistoia in particolare si rischiò il peggio il giorno in cui fu ucciso un operaio impegnato nel cantiere delle “casermette”: il clima di tensione indusse le autorità a considerarlo come un delitto di natura politica, determinando così l’arresto di 47 antifascisti; fortunatamente le indagini accertarono avere avuto l’omicidio tutt’altro movente.

I primi mesi del ‘44 videro l’intensificarsi dei controlli e della sorveglianza dell’area pistoiese da parte germanica, in prospettiva del prossimo ripiegamento del fronte lungo la Linea Gotica; alla fortificazione della quale furono impiegati dall’Organizzazione Todt gli uomini in età lavorativa, con un’accelerazione dei lavori nel mese di maggio. Anche in questo caso Gelli onorò il proprio ruolo di fiduciario germanico, agendo in pratica come un factotum: era lui a controllare che l’opera procedesse nel migliore dei modi, risolvendo inoltre il problema dell’alloggio degli agenti dello spionaggio tedesco in arrivo dalla Linea Gustav con la requisizione di alcune stanze della Villa Sozzifanti di Gello. Mentre per conto delle autorità repubblichine egli assicurò la regolarità del transito da Pistoia di due carichi di valori di proprietà della Banca d’Italia diretti al Nord: l’uno di banconote, l’altro di oro.

Sono in particolare due documenti ad attestarci sia dell’importanza che del modus operandi che caratterizzarono il futuro Venerabile in quel periodo. Il primo è costituito da un esposto presentato dopo la liberazione di Pistoia da una signora sfollata con la famiglia a Gello, ove si era trovata a convivere con un prigioniero inglese fuggito da un campo di concentramento e che era stato accolto e nascosto nella medesima abitazione dai proprietari; finché il marito della donna non lo aveva affidato a un collega di lavoro, Marcello Paci, che sapeva tenere collegamenti con il movimento partigiano.

Nell’esposto si leggeva: “Verso la fine di aprile il Paci fu arrestato, imputato di favoreggiamento. Dopo tre giorni anche mio marito fu arrestato e interrogato dal capitano dei carabinieri e dal questore, presenti due repubblicani: tali Gelli Licio e Zoppi Alvaro. Sul principio tentò di negare; ma esortato dal Gelli e ascoltata la deposizione del Paci fu costretto a confessare, tacendo il luogo dove aveva conosciuto l’inglese per non compromettere la famiglia che ci aveva accolto con tanta benevolenza, dicendo che l’aveva incontrato per strada”. Il che non impedì all’uomo di finire a Mauthausen, assieme allo stesso Paci.

Il secondo riferimento troviamo in una relazione redatta dal comandante di una formazione partigiana operante nel Montalese, Pasquale Lamberti. “Un mattino di fine marzo ‘44 il sottoscritto veniva arrestato in un’azione di rastrellamento. Dopo avere subito un primo interrogatorio nella casa del fascio di Pontenuovo ad opera del federale di Pistoia, fui trattenuto per alcuni giorni nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di Sant’Andrea. Qui resistetti alle impudenti lusinghe del tenente delle SS italiane Gelli, dopo aver conosciuto a mie spese come pesassero le mani vigliacche di un capitano delle stesse famigerate SS italiane, che condusse con altri sgherri l’interrogatorio del sottoscritto tra sputi e calci”.

A fronte di quelle letture “indulgenti” del periodo repubblichino gelliano di cui si è detto e che anche da tale testimonianza potrebbero trarre spunto per contrapporre il nostro come il nazifascista “buono” rispetto a quelli “cattivi”, Francini si preoccupa di interpretarla in una maniera più obiettiva. “È vero che non vi si parla di Gelli come torturatore in prima persona; ma il fatto che il tenente si sia limitato a esercitare “impudenti lusinghe” non costituisce una violenza minore, bensì di altra specie, rispetto a quella fisica cui era ricorso il capitano. Inoltre la presenza di Gelli si configura come un atteggiamento di condivisione complessiva di un certo metodo di condurre l’interrogatorio in cui si intravede una divisione di ruoli orchestrata premeditatamente. Forse il giovane iscritto al Pfr e incaricato di tenere i collegamenti fra i tedeschi e le autorità italiane non fu feroce quanto altri, ma non può nemmeno essere presentato come “buono”. In questo senso aveva ben appreso e fatto tesoro della lezione di alternanza di lusinghe e minacce per imporre la soggezione e il disciplinamento delle masse su cui era stata fondata l’azione politica, oltre che poliziesca, del regime fascista”.

Abbiamo tuttavia alcune testimonianze che identificano esplicitamente in Gelli colui che salvò la vita a diverse persone schieratesi sul fronte antifascista: e non si trattava soltanto di suoi vecchi amici. Egli stesso avrebbe sostenuto che, una volta compreso che le cose si mettevano male per il nazifascismo ma non volendo comunque venir meno ai doveri impostigli dalla divisa indossata, aveva scelto di sfruttare la libertà di movimento consentitagli dal ruolo ricoperto per salvare gli italiani dai soprusi e dalle violenze degli occupanti; fin dall’ottobre ‘43 avrebbe inoltre cercato, per il tramite dei parroci delle campagne pistoiesi, di convincere i partigiani a non compiere azioni contro i tedeschi, onde evitare rappresaglie sulla popolazione.

Ma anche su tale punto l’autore si mostra scettico, ricordando come sia stato lo stesso Gelli a raccontare di avere partecipato alla riunione di alti ufficiali della Wehrmacht convocata presso la Kommandantur – acquartierata a Barile nella Villa Costa Reghini – nel corso della quale il Feldmaresciallo Kesserling in persona, avvalendosi della presenza di specialisti giunti appositamente dalla Germania, comunicò che il Reich era vicino a disporre della bomba atomica: favola con la quale si tentava di supplire allo scoramento dettato dallo sbarco di Anzio e dall’escalation di bombardamenti alleati sulle città della parte d’Italia soggetta ai tedeschi. “Proprio alla luce della consapevolezza che i giochi non erano ancora fatti, il comportamento di Gelli rimase sospeso a metà strada, ambiguo per sua stessa ammissione”.

Malamente il tenente delle SS uscirebbe inoltre dalla testimonianza dell’esponente del Pci pistoiese Giuseppe Corsini – peraltro amico di vecchia data della famiglia Gelli – al quale nel marzo ‘44 un sottufficiale dei carabinieri avrebbe riferito “delle torture praticate su alcuni giovani provenienti da Firenze che erano stati arrestati perché renitenti alla leva e sospettati di appartenere alle formazioni partigiane”: violenze cui il nostro non avrebbe preso parte ma che avrebbe comunque ordinato. Ma anche la fucilazione dei quattro renitenti avvenuta nella fortezza di Santa Barbara il 31 dello stesso mese lo avrebbe visto comportarsi in maniera negligente, se non addirittura in malafede.

Stando alla ricostruzione offerta dallo stesso Corsini, il movimento partigiano si sarebbe mosso per salvare la vita ai quattro giovani mediante un’azione di forza per mettere in atto la quale era necessario conoscere l’ora precisa del loro trasferimento dal carcere alla fortezza, che lo stesso Gelli si sarebbe impegnato a fornire; il che però non avvenne, facendo saltare il tentativo. Una versione tuttavia contrastata dall’accusato: il quale, nel dichiararsi estraneo alla vicenda in quanto non di sua competenza, avrebbe sostenuto di essersi attivato presso Lorenzoni affinché intercedesse perché l’esecuzione non avesse luogo, precisando inoltre che i condannati nella giornata del 31 non potevano aver subito alcun trasferimento, avendo trascorso la notte nelle celle della stessa fortezza.

In questo caso non è neppure da escludere che a calcare la mano sull’episodio possa essere stata la stessa parte comunista, allo scopo di ascriversi un merito – quello del tentativo di un’azione armata finalizzata alla salvezza dei condannati – che avrebbe comunque rappresentato un unicum nell’intero panorama nazionale della guerra civile: notoriamente infatti gappisti e partigiani “garibaldini” rinunciavano per principio allo scontro diretto, dedicandosi esclusivamente a imboscate e attentati. Ma al di là di ogni ipotesi, sempre a detta del futuro sindaco di Pistoia il mancato adempimento da parte di Gelli dell’impegno assunto avrebbe fatto sì che da quel giorno i comunisti pistoiesi perdessero ogni fiducia nell’interlocutore repubblichino, interrompendo perciò i contatti con lui.

La tesi sostenuta da Francini per cui il nostro “agisse essenzialmente per proprio tornaconto, per salvarsi la vita e per fare il proprio interesse con l’acquisizione di benemerenze nei due campi contrapposti” (oltre che, a detta di alcune testimonianze, per trarre dalla situazione vantaggi economici) trova ulteriore alimento in un episodio accaduto qualche settimana più tardi. Il cortile retrostante Palazzo Fabroni fungeva da parcheggio per le auto: un giorno l’autista della Federazione, Quintilio Sibaldi, vi rimase ferito a un piede da alcuni colpi partiti dalla pistola di Gelli. Il quale immediatamente corse a scusarsi, sostenendo essersi trattato di un incidente dovuto a un momento di distrazione.

Un paio di elementi inducono tuttavia a pensare essersi trattato di un atto doloso, probabilmente da ascriversi alla preoccupazione di Licio che i suoi accresciuti contatti con gli esponenti del Comitato di liberazione nazionale potessero alfine emergere, rivelando la gravità del suo doppiogiochismo – attuato proprio nel momento in cui ci si apprestava all’estrema difesa lungo la Linea Gotica – e facendogli così perdere ogni credibilità presso i camerati. In particolare, Sibaldi avrebbe accompagnato il tenente a un incontro segreto con il comandante partigiano Silvano Fedi: episodio rivelato dai congiunti dell’autista, convinti che lo sparatore avesse voluto in tal modo avvertirlo di mantenere il silenzio su quell’abboccamento, pena – evidentemente – la morte. Ipotesi che tuttavia ci rivelerebbe un Gelli timoroso e contraddittorio, che dopo avere in un primo tempo ritenuto Sibaldi degno di fiducia ci ripenserebbe “gambizzandolo” per tappargli la bocca.

Ma sono le successive dichiarazioni del nostro a non reggere: l’incidente sarebbe avvenuto allorché un gruppo di militi si sarebbe messo a sparare con le pistole, per divertimento. Al che appare improbabile: 1) che quei fascisti avessero scambiato il cortile della Federazione per il poligono di tiro (peraltro vicino), infischiandosi perdipiù della presenza del Sibaldi; 2) che quest’ultimo fosse rimasto lì ad assistere impavido alla sparatoria, senza preoccuparsi della propria incolumità. Più verosimile, dunque, che quei colpi fossero partiti all’improvviso, e inaspettati.

Fedi aveva costituito la propria formazione sin dall’ottobre ‘43: in un panorama locale che aveva visto fin da subito la prevalenza organizzativa del Partito comunista, con la costituzione di una decina di gruppi “garibaldini”, egli, in ossequio alla ideologia anarchica e libertaria che lo animava, l’aveva invece ancorata al Partito d’azione, conducendo per armarla reiterati assalti alla fortezza di Santa Barbara, che in omaggio al proprio nome costituiva il deposito cittadino di armi e munizioni. Era stato Licio a chiedere l’incontro con Silvano, fin dal mese di aprile, per il tramite di un conoscente fidato e vicino ai patrioti, Manfredi Mariani; avendo in mente un nuovo colpo alla fortezza, e ritenendo il “pentito” in questione potergli essere utile, il capo partigiano glielo aveva concesso. Una volta al cospetto del repubblichino, Fedi gli chiese di reperirgli un posto sicuro ove poter nascondere del materiale che gli stava particolarmente a cuore, e che era piuttosto copioso, senza specificare di cosa si trattasse. Gelli mise allora a disposizione della banda un magazzino adiacente l’abitazione del suocero, posta in via Erbosa (luogo peraltro non lontano dalla fortezza), aggiungendo che egli si sarebbe premurato di mettere il locale al riparo da eventuali ispezioni sia fasciste che tedesche apponendovi sulla porta un apposito cartello bilingue in modo da inibirne l’accesso a chiunque.

L’assalto alla fortezza ebbe luogo nella notte fra il 31 maggio e il 1° giugno; i partigiani andarono a colpo sicuro, avendo appreso da un sottufficiale che prestava servizio presso il deposito di piazza d’Armi e che intendeva anch’egli collaborare con la resistenza sia che esso conteneva anche un enorme quantitativo di viveri, sia le indicazioni per raggiungere i magazzini, sia la parola d’ordine da comunicare alla sentinella. Per la banda Fedi fu dunque un gioco da ragazzi penetrare nella fortezza, disarmare la guarnigione di 25 militi sorpresa nel sonno e razziare, oltre alle armi e alla montagna di cibarie, pure sigarette e vestiario militare. Per trasportare l’ingente bottino occorsero un autocarro e un barroccio; il carico dei quali andò avanti per ore, e nonostante una parte dei prigionieri si fosse offerto di contribuire alla sua effettuazione.

Francini spiega un simile azzardo da parte di Gelli nella medesima ottica “autotutelativa”, derivante dalla preoccupazione che di lì a poco la situazione precipitasse: la caduta il 18 maggio della Linea Gustav aveva reso il fronte antifascista pistoiese talmente baldanzoso da rivolgere agli esponenti della parte avversa un appello a cessare la collaborazione con i tedeschi e a smobilitare, pena ritorsioni che non sarebbero tardate ad arrivare essendo la liberazione valutata come imminente. La paura avrebbe dunque indotto l’esponente repubblichino a spingere la propria “intelligenza col nemico” oltre ogni limite, giungendo a mettere a rischio persino dei congiunti.

In effetti furono parecchi i camerati pistoiesi che in quelle settimane scelsero non solo di non combattere sulla Linea Gotica, ma di cambiare del tutto aria rifugiandosi al Nord. Venne così costituita la Brigata nera “Ruy Blas Biagi”, la quale anticipò l’arrivo degli Alleati ed evitò la resa dei conti prendendo la via della Valtellina. Licio invece rimase: “ma continuando a tenere i piedi su due staffe, per garantirsi una via d’uscita, qualsiasi piega avessero preso gli eventi”; del resto il suo atteggiamento non destava sospetti né nei fascisti né nei tedeschi. Così come non va sottovalutato il particolare che la dice lunga circa la lungimiranza e l’opportunismo di Gelli: nel composito schieramento resistenziale caratterizzante l’area pistoiese, egli scelse di puntare su una formazione di orientamento moderato e dunque ben vista dagli angloamericani, nella prospettiva di garantirsi una “polizza sulla vita” da far fruttare al termine della guerra.

Qualche settimana dopo l’incursione alla fortezza egli informò Fedi che di lì a poco una cinquantina di detenuti in massima parte politici rinchiusi alle Ville Sbertoli (struttura storicamente adibita alla cura delle malattie mentali, ma nella quale era stato sfollato il carcere) sarebbero stati trasferiti nel Settentrione, per il medesimo motivo legato all’arretramento del fronte; fra di loro erano anche due ebrei, per i quali però il confidente prevedeva l’eliminazione al momento della partenza degli altri. Per salvare tutte quelle persone dal probabile internamento in campi di concentramento Silvano e il suo luogotenente Enzo Capecchi decisero allora un intervento finalizzato alla loro liberazione. In considerazione del fatto che a presidio della prigione erano una trentina di militari, i due patrioti esclusero l’eventualità di un attacco frontale da parte dell’intera formazione, ripiegando sull’attuazione di un colpo a sorpresa: piano che comportò automaticamente un nuovo ricorso all’ormai fidato collaboratore repubblichino.

Gelli era solito pernottare a Firenze, raggiungendo Pistoia tutte le mattine tra le 7.30 e le 8 con l’auto militare di cui disponeva, passando dalla via Fiorentina. Fedi e Capecchi decisero perciò di appostarsi lungo il tratto quarratino della strada la mattina del 26 giugno, in attesa del suo passaggio: appena li vide, Licio si fermò. Silvano gli chiese se fosse ancora disposto a offrire il suo aiuto alla banda, ricevendo risposta affermativa; al che gli domandò se tale proponimento sarebbe perdurato anche se, dopo l’effettuazione dell’azione che andava a proporgli, egli sarebbe stato costretto a entrare in clandestinità, ricevendo un nuovo e convinto assenso. La ristrettezza dei tempi imponeva di muoversi subito, per cui i due partigiani salirono a bordo, con il fascista ad assumere in pratica il ruolo del loro attendente.

Giunti al cancello delle Ville, Fedi scese, mentre gli altri due proseguirono lungo il viale interno. Una volta al cospetto del comandante delle guardie Gelli presentò Capecchi come un ispettore della Polizia repubblicana; al maresciallo Enzo disse che intendeva ispezionare subito le celle, occorrendogliene fin d’ora una libera dal momento che quello stesso pomeriggio avrebbe dovuto recludervi due famigerati capi partigiani appena catturati, uno dei quali era proprio Silvano Fedi. Alle rimostranze del sottufficiale, il quale fece presente il poco spazio a disposizione nelle celle, Capecchi replicò prendendo egli stesso l’iniziativa sgomberandone una con il costiparne gli occupanti nelle altre.

Nel corso della movimentata manovra – che provocò le proteste dei reclusi, sballottati e ammassati da un momento a un altro – si verificò un episodio che rischiò di mandare a monte l’intera operazione, e che fu neutralizzato solo grazie al sangue freddo del partigiano. Uno dei prigionieri, che conosceva Capecchi, gli si rivolse per salutarlo; al che l’altro, ancor prima che il malcapitato potesse aprir bocca, iniziò a percuoterlo di brutto, gridandogli inviperito: “Lei stia zitto! Non mi interrompa!”, suscitando così l’approvazione del maresciallo compiaciuto di tanta energia. Prima di andarsene, Enzo raccomandò al comandante di prendere tutti i provvedimenti necessari alla sorveglianza dei due arrestati che avrebbe portato più tardi, in considerazione della loro pericolosità.

Giusto nel momento in cui Gelli e Capecchi uscivano sul piazzale sopraggiunse un sidecar con a bordo un ufficiale germanico e due soldati. Con grande naturalezza, Licio si trattenne allora a parlare con il collega, ovviamente in tedesco, indicandogli a un certo punto lo stesso Enzo: il quale, non comprendendo quanto i due si dicessero e temendo un tradimento da parte del repubblichino, si tenne pronto a fare ricorso al mitra che aveva con sé qualora uno dei militari avesse messo mano alle armi. Senonché l’ufficiale si avvicinò al partigiano, si tolse i guanti e si congratulò con lui per l’arresto compiuto, con il tenente pistoiese delle SS a fare da interprete.

Una volta usciti dal cancello e ripreso a bordo Silvano, diffidente quest’ultimo propose di fermarsi lungo la strada e attendere il passaggio del motoveicolo teutonico, simulando un guasto al motore, in modo da percepire dall’atteggiamento dell’ufficiale se la visita al carcere compiuta dai due italiani potesse avere destato in lui qualche sospetto. Ancora una volta obbediente, Gelli fermò l’auto e ne aprì il cofano; quando passò il tedesco e premurosamente gli chiese cosa fosse successo, sorridendo l’italiano gli rispose essersi trattato di un piccolo inconveniente, già risolto.

Alle 14 dello stesso giorno sulla vettura guidata da Licio si presentarono in sette, armati fino ai denti, con lo stesso Fedi e un altro componente la banda ammanettati ma solo apparentemente. Capecchi ordinò al maresciallo di chiamare tutte le guardie perché doveva parlare loro; allorché l’adunata fu completata, esclamò: “siamo pronti!”, che era il segnale convenuto con i compagni che puntarono all’unisono i mitra sugli esterrefatti militari. Raccolte le armi abbandonate da questi ultimi, furono aperte tutte le celle, dentro le quali i carcerieri andarono a prendere il posto dei detenuti. Dopo avere tagliato i fili del telefono, i patrioti chiesero ai liberati se qualcuno di loro avesse intenzione di unirsi alle formazioni partigiane: quanti si fecero avanti furono armati e ricevettero indicazioni su come muoversi.

I patti prevedevano che Gelli venisse ricompensato per la sua decisiva e rischiosa collaborazione con 40.000 lire, viveri e sigarette; onorati gli accordi, le strade della banda Fedi e dell’ormai ex repubblichino si separarono definitivamente. Al nostro non rimase che andare a nascondersi da qualche parte, sperando che gli Alleati arrivassero al più presto; finì così in una capanna sopra Torbecchia, ove sarebbe rimasto fino al giorno della liberazione di Pistoia. L’8 settembre ‘44 – ha raccontato – scendendo dalla collina verso la città armato di una rivoltella si imbatté in una truppa alleata, offrendosi di farle da guida. Poco più avanti, al Ponte alle Tavole, l’incontro con una squadra di partigiani appartenenti alla formazione comunista “Fantacci”, diretti anch’essi verso Pistoia: i quali, pur avendolo riconosciuto, lo ignorarono.

Ma l’arresto era solo rimandato. Una volta giunto in Porta al Borgo fu un’altra formazione di antifascisti a trarlo in arresto – non per i suoi trascorsi ma per il possesso dell’arma – conducendolo in un edificio a lui ben noto: la Casa del Balilla di piazza Mazzini, prontamente adibita a sede del Comando partigiano. Requisitagli la pistola e interrogato dal presidente del locale Cln Italo Carobbi, l’ex repubblichino fu rilasciato con l’intimazione di non allontanarsi da Pistoia, dovendo a breve subire un’altra convocazione.

Ben sapendo che nel fronte resistenziale era anche chi lo voleva morto, Gelli si consegnò agli Alleati, in modo da porsi sotto la loro protezione; suo nuovo nascondiglio fu la villa dell’ex podestà pistoiese Ulisse Venturi, ove vergò una relazione a proprio discarico. Dopodiché gli inglesi gli proposero di paracadutarlo a nord della Linea Gotica, per svolgervi attività di propaganda presso i fascisti in modo da convincerli ad arrendersi. Licio preferì tuttavia rimanere a Pistoia, venendo nuovamente interrogato dal Cln il 3 novembre: in tale occasione gli fu rilasciato un lasciapassare in virtù della collaborazione prestata al movimento partigiano.

Qualche giorno dopo, nel mentre girava per la città alla ricerca di un lavoro, subì un’aggressione in piazza S. Bartolomeo: evidentemente chi nutriva verso il fascismo i maggiori rancori non era disposto a tollerare tale sua libertà di movimento, sentita alla stregua di una provocazione. A quel punto, su probabile intercessione dei servizi segreti americani, fu lo stesso Cln a rilasciargli un salvacondotto perché potesse andar via, motivandolo con la gravità dei rischi che egli avrebbe corso rimanendo a Pistoia a causa della sua pessima reputazione; ma siccome prima di partire Licio voleva sposarsi, le misure a tutela della sua incolumità dovettero essere moltiplicate. La cerimonia nuziale ebbe luogo il 16 dicembre, nella chiesa di S. Paolo, quando già era calata la sera e con un presidio della Military Police a vigilare all’ingresso; ed anche le settimane che precedettero la sua partenza furono scandite da una stretta sorveglianza della sua abitazione di via Gorizia, dalla quale usciva solo sotto scorta.

A portarlo a Civitavecchia su un camion della Sepral – adibito al trasporto di viveri – furono tre partigiani della formazione “Valiani”, “azzurri” e dunque in stretti rapporti con gli Alleati. Il 25 gennaio ‘45 Gelli giunse alla Maddalena, per essere sottoposto alla sorveglianza dei carabinieri ma potendo alloggiare presso la sorella e il cognato – sottufficiale di marina – e godendo di un sussidio, venendo presto raggiunto dagli altri congiunti e guadagnandosi da vivere esercitando l’attività di ambulante per la Sardegna settentrionale.

Nel frattempo a Pistoia il trattamento di favore riservato all’ex tenente delle SS dové suscitare malumori tali da indurre il Comitato provinciale di liberazione a pubblicare sul proprio organo “La voce del popolo”, il 18 febbraio, una presa di posizione in cui, esibendo i “meriti antifascisti” acquisiti dal nostro sul campo, chiariva e giustificava il proprio operato. “Si avvertono tutti coloro che si sono interessati e si interessano al caso di Gelli Licio che il Cpln era a conoscenza della sua appartenenza al Partito fascista fino dal periodo clandestino del comitato stesso e accettò la di lui collaborazione, che fu attiva ed efficace. Infatti, valendosi della sua posizione nel fascio repubblichino, partecipò e rese possibile la liberazione dei prigionieri politici della Villa Sbertoli. Per ben sei volte, guidando personalmente automezzi della federazione fascista, riforniva di viveri le formazioni patriottiche dislocate sulla montagna. In altre occasioni avvisava i partigiani quando era disposto un arresto o un rastrellamento. In considerazione di questo suo lavoro per la causa, il Cpln rilasciò al suddetto soltanto una dichiarazione e un permesso per recarsi fuori provincia, presso alcuni parenti, ove si trova tuttora”.

Ma anche la Procura pistoiese ebbe a indagare sul conto di Gelli, emettendo il 21 aprile mandato di cattura nei suoi confronti per il sequestro di Giuliano Bargiacchi, prelevato nel maggio ‘44 e sottoposto per oltre un mese a interrogatori e sevizie in quanto figlio di un collaboratore dei partigiani, nonché per furto; il suo arresto giunse tuttavia soltanto l’11 settembre, allorché fu associato al carcere di Sassari per essere poi trasferito a quello di Cagliari. Qui il nostro si rivolse ai carabinieri dichiarandosi detenuto “per motivi politici” e manifestando l’intenzione di fare luce su “fatti gravi riguardanti la Giustizia”: fu così che fece il nome di una cinquantina di concittadini, a suo dire i più compromessi con il nazifascismo.

Il che indusse il padre di uno dei camerati tirati in ballo a inviare al Cln pistoiese un esposto in cui qualificava l’accusatore come “un ex gerarcone della peggiore teppa fascista: violento, ladro, falso, ecc. Questo individuo vista la mala parata, ma non ancora sicuro del tutto, non si faceva scrupolo di tenere i piedi su due staffe denunciando gli antifascisti ai fascisti ed i fascisti agli antifascisti”, non peritandosi di tirare in ballo anche persone estranee alle vicende in questione, come appunto il figlio. Evidente risultava perciò “la malvagità del denunciante: il quale forse ha creduto di potersi assolvere dai gravi reati commessi col numero delle denunce”.

Nel tentativo di ridimensionare la portata della sua delazione sarda Gelli si sarebbe superato, sostenendo di essersi limitato a citare gli esponenti del Fascio pistoiese più in vista e di averlo fatto per il loro bene, in modo da determinarne l’arresto sottraendoli alle vendette da parte della cittadinanza. Fatto sta che quelle dichiarazioni gli consentirono di ottenere la libertà provvisoria, grazie alla quale poté tornare alla Maddalena.

Poco dopo però fu arrestato di nuovo, girando varie carceri italiane in cui ebbe modo di conoscere ex fascisti anche importanti e venendo infine portato alle Murate, dovendo subire un processo davanti al tribunale straordinario di Firenze: un colonnello dell’aeronautica lo aveva accusato di avere organizzato rastrellamenti finalizzati alla cattura di prigionieri inglesi sottrattisi alla reclusione al momento dell’annuncio dell’armistizio. L’archiviazione per insufficienza di prove richiesta preliminarmente dal pubblico ministero non fu accolta, per cui nell’estate ‘46 si andò a giudizio: il quale vide l’imputato difeso proprio da Paganelli, che oltre ad aver accolto il giovanissimo Licio nel proprio studio gli era riconoscente figurando tra i liberati del blitz alle Ville Sbertoli di due anni prima.

Lo scrupolo inquisitorio del presidente fece sì che al dibattimento fossero ammesse anche testimonianze che non avevano a che vedere con il capo d’imputazione in questione, trasformandosi così in un processo all’intera vicenda repubblichina del nostro; alcuni testi in particolare riferirono di averlo visto in prossimità del luogo in cui il 27 agosto ‘44 era stato ucciso a raffiche di mitra il vicequestore di Pistoia Giuseppe Scripilliti. Gelli negò la circostanza, uno degli accusatori ritrattò e questo spianò la strada per l’assoluzione; stesso esito aveva nel frattempo avuto il procedimento per il sequestro Bargiacchi.

Dal punto di vista penale, su tutte le ombre legate ai suoi trascorsi nazifascisti poteva dunque essere messa una pietra; il che gli consentì sia di ottenere il rilascio del passaporto che di potersi dedicare liberamente alla politica. In vista del referendum istituzionale del 2 giugno egli si schierò con la monarchia: ma anche in questo caso esistono due versioni. Gelli parla di una sua adesione all’Unione monarchica italiana che sarebbe avvenuta ancor prima del suo trasferimento in Sardegna, con l’incarico di segretario provinciale; mentre Francini riferisce tale carica al Partito nazionale del lavoro, anch’esso di ispirazione monarchica e conservatrice ma fondato solo successivamente.

Per ovviare alla precarietà della sua situazione economica Licio si attivò per la ricerca di un lavoro, sfruttando le sue conoscenze e venendo alfine assunto nella cancelleria del tribunale; ma essendo in città il risentimento per il suo passato repubblichino ancora ben vivo, i suoi nemici non tardarono ad attivarsi perché gli fosse revocato quell’incarico pubblico, che egli fu perciò costretto a lasciare già all’indomani dell’assunzione. Dagli atti della prefettura pistoiese Gelli risulta nullatenente e vivere grazie all’aiuto dei parenti – la famiglia percepiva un sussidio di disoccupazione dal Comune – per quanto “si industriasse con il piccolo commercio”.

Quest’ultimo veniva esercitato in una bancarella gestita assieme al suocero in piazza del Duomo, e sulla quale veniva trafficato di tutto: roba sia vecchia che nuova, merce di provenienza più e meno lecita. Oltre alla spregiudicatezza, il nostro dimostrò anche in tale attività intraprendenza, se è vero che fu il primo in città a vendere i rasoi a lamette “usa e getta”, di provenienza americana; nonché i primi libri epurati dalla stampigliatura che era stata di prammatica nell’editoria dell’“era fascista”. Ma la Giustizia continuava a tenerlo sott’occhio: fu così condannato al pagamento di una multa per contrabbando e frode fiscale.

Un’altra condanna Gelli subì per ricettazione, relativamente a un furto perpetrato ai danni del Laboratorio provinciale d’igiene e profilassi che nell’agosto ‘46 gli aveva fruttato due microscopi. Conseguentemente l’Amministrazione provinciale lo citò in giudizio per il risarcimento del danno; che il nostro non ebbe difficoltà a corrispondere, assieme all’assunzione delle spese legali sostenute dalla controparte. Di questa sua nuova solvibilità fa fede anche l’acquisto, nel ‘48, di un appartamento in corso Gramsci, intestato al figlio Raffaello nato l’anno precedente. Male andò invece il salto di qualità imprenditoriale tentato avviando una trafileria in Porta Lucchese, sfruttando i primi finanziamenti americani legati al Piano Marshall: l’impresa fallì.

A questo punto entra in gioco il personaggio chiave della successiva “carriera” del nostro: il parroco di Gello Enzo Benesperi. Di origine quarratina, ultimato il seminario Benesperi era entrato a far parte della curia romana; ad un possibile futuro da prelato il giovane sacerdote aveva però preferito la cura delle anime nella sua terra, venendo destinato alla parrocchia di Gello. Nel corso del suo lungo sacerdozio tuttavia don Benesperi non avrebbe mai dismesso il proprio interesse per la politica, mantenendosi sempre fedele alla corrente democristiana capeggiata da Andreotti della quale avrebbe rappresentato per decenni il principale referente per l’area pistoiese.

Alla vigilia delle elezioni del ‘48 fu proprio don Benesperi a presentare Gelli a Romolo Diecidue, segretario provinciale della DC nonché candidato alla Camera per la circoscrizione Firenze-Pistoia; lo scaltro Licio ne divenne il segretario, per una collaborazione che si sarebbe protratta per un decennio. Ciò nonostante le sue simpatie continuassero ad andare – per sua stessa ammissione – ai monarchici.

La cura della propria immagine restava al centro dei suoi pensieri: sempre elegante, aveva acquistato una 1100 usata, sulla quale era spesso in viaggio – mete privilegiate Roma, Milano e Livorno – e senza badare a spese. Il che aveva indotto i servizi segreti a indagare su di lui: il sospetto era che svolgesse attività di spionaggio per i Paesi comunisti dell’Europa orientale. “È certo – si legge in un rapporto – che Gelli conduca una vita al di sopra delle sue possibilità: spende anche 10.000 lire al giorno. Inoltre vanta alte relazioni con eminenti personalità politiche, delle quali non disdegna fare il nome”. Sin dal ‘47 il ministero dell’interno ne aveva dunque disposto la vigilanza; la quale si concretizzò due anni dopo con il suo fermo, per essere interrogato in questura. Non essendo tuttavia emersi sul suo conto elementi di rilievo, dopo un primo allentamento dei controlli nel ‘50 il suo nome sarebbe stato definitivamente espunto dall’elenco delle presunte spie.

Nel frattempo, in società con un cugino della moglie, egli aveva aperto una libreria a Pistoia, in corso Gramsci: la “Casa del Libro”. La posizione dell’esercizio risultava centrale rispetto ai principali istituti d’istruzione cittadini: fatto che ne orientò la specializzazione verso l’editoria scolastica, abbinando inoltre la vendita dei libri a quella di materiale da cartoleria e cancelleria. Della libreria si sarebbe occupato fino al ‘52, allorché se ne tirò fuori intascando una buonuscita di otto milioni.

Di quel periodo resta un episodio significativo dell’ambizione e dell’opportunismo che continuavano a caratterizzare Gelli. Nel ‘50 la frequentazione con gli ambienti democristiani garantitagli dalla vicinanza a Diecidue lo indusse a pubblicare, in migliaia di copie, un libro scritto da un cardinale per la ricorrenza dell’Anno Santo. Vendutene appena duecento, il pistoiese spedì le rimanenti a personaggi importanti di tutto il mondo, in modo da accreditarsi come benemerito del mondo cattolico.

Nel ‘53 egli aprì a Pistoia un altro negozio, di macchine da scrivere, avendo ottenuto la rappresentanza della statunitense Remington Rand. Per qualche tempo collaborò inoltre con una ferriera, destinandole il materiale rottamato dalle Ferrovie dello Stato allo scopo di recuperarne l’anima in ferro utile al cemento armato. Anche in tale fase tuttavia non tutto andò liscio dal punto di vista giudiziario, tanto che nel ‘55 il nostro subì un nuovo processo a Firenze, evitando la condanna solo grazie a un’altra amnistia.

L’inventiva continuava a non difettare all’arrivista pistoiese: il quale si superò la sera in cui conobbe Giovanni Pofferi. Artefice dell’incontro fu ancora una volta don Benesperi, organizzatore di una cena in canonica alla quale avrebbero partecipato sia l’imprenditore pratese che Diecidue con il suo segretario. Don Enzo aveva giocato un ruolo fondamentale nell’apertura dello stabilimento Permaflex a Gello: dopo che Pofferi – che sino ad allora aveva fatto il cenciaiolo, girando in bicicletta per Prato e dintorni alla ricerca di stracci da comprare e rivendere alle industrie tessili cittadine – ebbe adocchiato proprio dalle parti di Gello il capannone adatto a impiantarvi l’azienda che aveva in mente, si recò dal parroco, che aveva saputo assai influente, per chiedergli una mano nella realizzazione dell’impresa.

“Io la aiuto: ma lei dovrà assumere tutti i miei parrocchiani disoccupati”, fu la risposta del sacerdote che si preoccupava delle tante famiglie del paese che vivevano nell’indigenza. Affare fatto, e grazie alle aderenze di don Benesperi la ditta dagli innovativi materassi a molle poté aprire i battenti. Il particolare curioso – e che denota in Gelli una fantasia e un trasformismo degni di un Fregoli – fu che quella sera il nostro volle onorare il ruolo del factotum del parlamentare democristiano fino in fondo, prestandosi a fare da cameriere. Evidentemente le pietanze servite furono gradite ai commensali: perché dalla cena si uscì con l’accordo che si sarebbe aperto un ufficio a Roma che avrebbe funto al tempo stesso da sede di rappresentanza della Permaflex e da segreteria di Diecidue, con lo stesso Licio ad assolvervi entrambi i ruoli.

Da dirigente commerciale Gelli ebbe più fortuna che come imprenditore, promuovendo la ditta mediante un sistema ormai sperimentato: ossia donando materassi ad enti collegati al mondo cattolico e a personaggi illustri. Fu così che all’azienda di Pofferi giunsero commesse in grado non solo di farla decollare, ma anche – come osserva giustamente Francini – di farne la degna rappresentante pistoiese del “miracolo economico” nazionale.

Il picco del “boom” coincise con l’avvento al ministero della difesa di Andreotti: il futuro capo della P2 fu l’abile regista delle intese che portarono alla commessa alla Permaflex di 40.000 materassi destinati alle Forze armate della Nato; a Pofferi egli fece inoltre assegnare il titolo di cavaliere del lavoro. Quale ricompensa di tali preziosi servigi Licio ottenne la direzione del nuovo stabilimento di Frosinone, inaugurato nel ‘63 alla presenza dello stesso Andreotti e dell’immancabile cardinale. Anche in questo caso era stato Gelli il deus ex machina dell’operazione, la quale comportava due vantaggi: la collocazione geografica dell’opificio consentiva infatti sia di beneficiare dei sussidi garantiti dalla Cassa per il Mezzogiorno che di impiegare maestranze meno sindacalizzate e battagliere rispetto a quelle pistoiesi.

Interessanti le conclusioni con cui Francini si congeda dal controverso personaggio messo così capillarmente a fuoco. “Per capire un po’ di più del comportamento di Gelli nel periodo pistoiese della sua vita, non per giustificare le sue responsabilità, è opportuno fermare l’attenzione sul fatto che tutte le vicende prese in considerazione si riferiscono a un individuo all’inizio poco più che ragazzo e poi uomo fatto. La nostra ricostruzione racconta la storia di un giovane cresciuto all’ombra del fascismo e della monarchia che rimarrà sempre fedele alle idee e ai miti (l’uomo forte, la gerarchia, l’anticomunismo) assimilati nelle organizzazioni di regime: specialmente la convinzione della necessità di una guida autoritaria della società.

Poco più che ragazzo, seguendo gli ideali del fascismo, si ammalò di protagonismo e questa passione ha continuato ad albergare in lui sotto forma di ambizione e ansia di affermazione. Scaraventato da solo nella sconvolgente esperienza della guerra, imparò che gli conveniva trovarsi dalla parte dei potenti, ma anche non trascurare il fatto che lo stato delle cose poteva cambiare e le parti rovesciarsi. Nel “fuoco” della guerra apprese a dissimulare con tutti e ad arrangiarsi in ogni circostanza, prima di tutto a proprio vantaggio. Tutto ciò porta un po’ di luce sul suo comportamento durante la Rsi, sul quale sono state prodotte testimonianze contrastanti e anche contraddittorie.

Costretto a barcamenarsi, sia economicamente che politicamente, nel lungo dopoguerra, all’interno di un sistema democratico, giovane e fragile, che per sua stessa ammissione non è mai rientrato nella sua concezione del rapporto fra società e Stato, ricorse a mille espedienti, al di fuori della legalità, e non poté evitare di incorrere nelle maglie della giustizia, ma seppe uscirne ogni volta e riprendere il cammino. Fare il proprio interesse e tessere una trama di relazioni con persone che contano diverranno i caratteri costanti del suo modo di agire”.

M. Francini, Il periodo pistoiese di Licio Gelli, in “QF. Quaderni di Farestoria”, Pistoia, I.S.R.PT, anno XI, n. 1 2009, pp. 33-64.

Per ricostruire i rapporti tra Gelli e la banda Fedi ci siamo avvalsi della testimonianza di Enzo Capecchi (in S. Bardelli – E. Capecchi – E. Panconesi, Silvano Fedi. Ideali e coraggio, Pistoia, Nuove Esperienze, 1984). Per quanto riguarda invece il ruolo giocato da don Enzo Benesperi nella vicenda di Gelli – con relativi aneddoti riferiti a quel periodo – abbiamo attinto ai ricordi derivanti dalla nostra frequentazione giovanile con il parroco di Gello.

Il periodo pistoiese di Licio Gelli di Marco Franciniultima modifica: 2021-08-25T21:52:45+02:00da tradersimo
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