Un’azienda moderna nell’Irpinia della prima metà del Novecento: il caseificio Granese

Com’è noto, lo sviluppo economico che, riflettendo la tendenza europea, si accompagnò all’“età giolittiana” interessò più che altro il nord Italia, gettando le basi del profondo squilibrio rispetto al Mezzogiorno che avrebbe segnato tutto il Novecento: essendo la gran parte delle industrie concentrate nel Settentrione, il sud del Paese rimase in condizioni di arretratezza, a cominciare dal preponderante settore agricolo. Riguardo in particolare alla produzione casearia, ancora alla fine dell’Ottocento essa veniva praticata secondo metodi arcaici, che vedevano gli stessi pastori come i suoi principali protagonisti; accanto a loro fiorivano tuttavia figure di proprietari terrieri e allevatori di bestiame da latte che possono essere considerati come dei veri e propri pionieri della moderna lavorazione del formaggio nel Meridione: uno di questi fu Antonio Granese, di Montella, il quale affiancò all’allevamento bovino la produzione di latticini.

Con i suoi ottomila abitanti Montella costituiva allora uno dei centri irpini più importanti ed evoluti, sede di Pretura, Ufficio delle imposte, Tenenza dei carabinieri, Guardia di finanza, Guardia forestale. La sua centralità nell’ambito dell’alta valle del Calore era data anche dalla sua collocazione lungo la linea ferroviaria che da Avellino portava a Rocchetta Sant’Antonio e quindi a Foggia; oltre ad agevolare gli spostamenti, il treno favoriva non poco i commerci, consentendo in particolare il trasporto di carbone, legname, bestiame. La maggior parte della popolazione lavorava nell’agricoltura e nella pastorizia, praticate in terreni appartenenti da sempre alle poche famiglie signorili del luogo, residenti a Napoli o a Roma e che usavano trascorrere nelle proprietà campagnole le vacanze estive.

A quei tempi i diritti dei lavoratori erano pressoché inesistenti: basti pensare a quanto accadeva alle puerpere. Prolungandosi il periodo dell’allattamento fino ai due e talvolta anche tre anni di età del bimbo, quelle braccianti erano costrette a portarsi dietro i figlioletti dentro una cesta di vimini issata sul capo, che poi veniva posata sull’erba, con tutti i rischi del caso: a cominciare dal morso della vipera. Altra categoria assai sfruttata era quella dei “mesaruli”, giovani lavoranti che da ogni parte d’Irpinia venivano a trascorrere a Montella l’intero mese di ottobre, ingaggiati dai proprietari terrieri per la raccolta delle castagne, che li vedeva impegnati dall’alba al tramonto. Dormivano dentro vecchie capanne, avvolti negli indumenti invernali per proteggersi dal freddo notturno; si lavavano con l’acqua dei ruscelli e mangiavano pane e companatico passato loro dai padroni. Un mese di duro sacrificio per essere ricompensati con un sacchetto di castagne, che rapportato alla diffusa miseria di allora rappresentava un bel compenso da portare a casa: tanto che per non rischiare di perderlo essi si prenotavano con i “signori” da un anno all’altro.

Se la castagna – la “palummina”, per la sua forma assimilabile a una piccola colomba – era la regina dell’economia montellese, notevole era anche la produzione di noci, mele, ortaggi e latticini, la cui industria era favorita dall’abbondanza di latte garantita dagli allevamenti bovini ed ovini che popolavano le vaste praterie di Verteglia, ricche di sorgenti d’acqua. Sul finire dell’Ottocento aveva inoltre avuto inizio il fenomeno dell’emigrazione verso le Americhe, che avrebbe visto formarsi comunità di montellesi soprattutto in Pennsylvania.

La prematura scomparsa – avvenuta nel 1909 – impedì ad Antonio Granese di sfruttare le maggiori opportunità offerte dal nuovo secolo; a portare a compimento l’opera da lui avviata sarebbe stato tuttavia il figlio Lorenzo. Classe 1895, il ragazzo scelse di non seguire la madre e le sorelle che si trasferivano anch’esse oltreoceano, rimanendo nella propria terra: egli aveva già chiara quella che sarebbe stata la missione della sua vita. Sposatosi a 18 anni e investita la propria parte di eredità nell’acquisto di una casa non lontana dal centro del paese, il giovane fu interrotto nel suo progetto imprenditoriale dalla chiamata alle armi dovuta alla Prima guerra mondiale, che lo avrebbe visto impegnato per tre anni nel corpo dei bersaglieri, combattendo in particolare sul Monte Grappa. Al termine del conflitto egli provvide alla ristrutturazione dell’edificio, trasformato in una palazzina il cui pianterreno era interamente dedicato alla produzione del formaggio: quello che ne risultò fu probabilmente il primo caseificio moderno dell’intera Irpinia, fornito di cella frigorifera, caldaie in rame alimentate a legna, vasche di cemento per la salatura, stanze per la stagionatura e con i bidoni a chiusura ermetica a sostituire i vecchi secchi.

Accanto al laboratorio era inoltre una stanza che aveva al centro una stufa e che fungeva da spogliatoio: qui gli operai indossavano il camice e gli stivali, indispensabili dovendo lavorare nel bagnato. Le stanze adibite alla stagionatura disponevano di travicelli ai quali venivano appesi i caciocavalli: il cui curioso nome deriva appunto dal fatto che essi venivano disposti “a cavallo” del legno, accoppiati per mezzo di una cordicella che li teneva in equilibrio. Ma i latticini prodotti dalla ditta Granese non erano solo quelli tradizionali (provolone, provola, scamorza, bebè, mozzarella, treccia, ricotta, burro); ve ne erano anche di innovativi e ingegnosi: a cominciare dal “butirro”, vero e proprio cavallo di battaglia della casa la cui veste di scamorza conteneva una palla di burro. Per non parlare della gigantesca provola da mezzo quintale per dare vita alla quale fu commissionata un’apposita forma di metallo: esposta fuori dal negozio, essa lasciò di stucco tutta Montella.

Il siero veniva lavorato dentro tinozze di legno, a due manici; per marchiare i prodotti si utilizzava un timbro il cui ferro rovente vi imprimeva le iniziali “LG”. Mentre a contrassegnare i panetti di burro era una forma lignea che riproduceva una mucca: la quale finì per diventare il simbolo dell’azienda, impressa sui fogli nei quali venivano incartati i formaggi al momento della vendita. Considerando anche le cordicelle di falasco necessarie ad accoppiare i caciocavalli, si può dire che, oltre che ai dipendenti, il caseificio desse lavoro anche a diversi artigiani e fornitori.

All’inizio la vendita dei prodotti avveniva nel negozio attiguo al laboratorio; ma la crescente richiesta da parte del mercato indusse ben presto il “bersagliere” – come Granese veniva chiamato dai paesani – ad aprirne un secondo sulla piazza principale, in un fondo preso in affitto, nel quale si commerciavano anche generi alimentari. Essendo il pagamento in contanti privilegio di pochi, centrale diveniva nella contabilità aziendale il ruolo della “libretta”, il quaderno sul quale venivano annotati data dell’acquisto e relativa spesa; oltre ai conti relativi ai fornitori, il cui saldo rispettava le scadenze concordate con ciascuno di essi.

Ma l’aspetto più significativo della vita del caseificio era sicuramente rappresentato dal rapporto instaurato con quelle famiglie contadine che gli fornivano la materia prima, e per le quali i due secchi di latte al giorno generalmente prodotti costituivano il più delle volte la principale fonte di sostentamento. La consegna avveniva al mattino presto, prima di recarsi al lavoro nei campi – chi veniva a piedi, chi con l’asino, servendosi in questo caso dei bidoni – e resa ancor più rapida dal fatto che l’ingresso veniva appositamente lasciato aperto: il tempo per il titolare di annotare la quantità di latte ricevuta sulla libretta. Siccome nel recipiente poteva essere finito qualche corpo estraneo – dagli insetti, attirati dall’aroma, ai capelli – prima di passarlo alla lavorazione tutto il liquido veniva versato nella “tina”, un mastello la cui apertura era interamente coperta da un colino di stoffa in modo da garantire la purificazione del latte.

Nei confronti di quei contadini Granese seppe rivelare un notevole fiuto, unito a una buona dose di altruismo: a chi non aveva la possibilità di acquistare una mucca proponeva infatti di anticipare egli stesso il denaro necessario, che il debitore avrebbe scontato progressivamente, mediante il latte fornito. Tale sistema era finalizzato a migliorare la situazione economica di quelle famiglie, che se in precedenza avevano posseduto bestiame da latte solo in funzione domestica si vedevano adesso incentivate ad ampliarne la quantità in modo da diventare fornitori del caseificio.

Il che fa dell’industriale montellese un antesignano del  modello finanziario-imprenditoriale che si sarebbe affermato soltanto parecchi decenni più tardi: sia poiché egli assolveva, di fatto, alla funzione in seguito assunta dal microcredito, sia per la concezione economica sottesa a una simile metodologia, e che identificava nell’imprenditore non l’avido accumulatore di capitale interessato solo al proprio personale arricchimento, bensì l’illuminato investitore che con i suoi guadagni promuoveva l’economia locale, ampliandone le potenzialità. Tale mentalità secondo la quale dei proventi aziendali dovevano beneficiare tutti coloro che con il proprio lavoro contribuivano a generarli si manifestava anche nei confronti di quanti – solitamente i più bisognosi – sceglievano di essere pagati con la merce del negozio: Granese acconsentiva a che essi prendessero tutto l’occorrente, senza stare a guardare al centesimo. Altrettanto generoso egli si rivelava al momento in cui venivano fatti i conti con i fornitori, arrotondando sempre a loro favore.

Una simile liberalità nasceva anzitutto dall’indole del nostro, che lo portava ad aiutare il prossimo istintivamente; ulteriore incentivo essa dové comprensibilmente ricevere dal grande successo riscontrato dal marchio, che nel corso degli anni Trenta determinò l’allargamento dei commerci non solo all’interno della provincia di Avellino ma anche verso quelle di Salerno, Napoli e nella parte di Lucania confinante con l’Irpinia. Evidentemente Granese si rendeva conto di come nel giro di pochi anni, dal nulla, la sua impresa fosse cresciuta oltre ogni aspettativa, sino a diventare un punto di riferimento imprescindibile – unitamente alla sua stessa persona – per l’intera comunità montellese, proprio grazie al favore da questa accordato ai suoi prodotti fin dall’inizio, ponendo così le basi per il successivo exploit.

All’espansione geografica fece seguito una ulteriore modernizzazione dei macchinari, accompagnata dall’acquisto di due differenti automezzi che ben esemplificano il duplice ruolo giocato dal titolare nell’organizzazione aziendale. Necessitando l’uomo d’affari di una vettura per i sempre più frequenti spostamenti, fu comprata una Balilla; mentre l’adeguamento del ritiro del latte alle nuove esigenze impose l’acquisto di un camioncino con il quale lo stesso Granese dal lunedì (giorno in cui la quantità raccolta era doppia, data la sospensione domenicale) al sabato, di primo mattino, faceva il giro delle masserie disseminate per le colline, misurando la quantità del liquido ricevuto per mezzo di un apposito recipiente. C’erano però anche delle case isolate rispetto alla strada e che potevano essere raggiunte soltanto per i sentieri: in questo caso alla raccolta provvedeva, avvalendosi del somaro, un contadino di Cassano, portando al caseificio due bidoni di latte al giorno.

Con il medesimo autocarro Granese si recava poi nei numerosi negozi che ne avevano scelto i prodotti per le consegne; finché nel dopoguerra quel primordiale camioncino scoperto non sarebbe stato sostituito dalla celebre “Topolino” furgonata. Le frequenti assenze del titolare, nonché la sua scelta di gestire in prima persona il negozio, imposero l’individuazione di un collaboratore che fosse sempre presente in caseificio, dirigendone le innumerevoli attività che si susseguivano nell’arco della lunga giornata: dalla regolazione della caldaia al trattamento del latte, dalla lavorazione vera e propria alla formazione degli apprendisti, dalla pulizia di ambienti e strumenti alla preparazione delle cordicelle.

Dopo che in tale ruolo si furono avvicendati diversi parenti, gli anni d’oro della ditta videro la consacrazione a “braccio destro” di un giovane cugino di Granese, Alessandro Lepore, il quale avrebbe ripagato la fiducia in lui riposta dedicando al caseificio l’intera vita e contribuendo non poco all’ordine e alla puntualità della sua organizzazione. Il rispetto della tempistica era ovviamente fondamentale nella vita dell’azienda: soprattutto al mattino, allorché la consegna di quei latticini la cui produzione era quotidiana (si partiva dal burro, poi la mozzarella, quindi treccia e scamorza – fatte della stessa pasta – e infine la ricotta) doveva tassativamente coincidere con l’orario di apertura dei negozi. Anche non sapendo chi fosse l’uno e chi l’altro, ne avresti intuito i rispettivi ruoli osservandone le mani: quelle dell’imprenditore erano integre, quelle di Lepore – che le necessità della lavorazione impedivano di proteggere con dei guanti – sciupate dal calore del siero e dal sale della salamoia.

Come per il resto della Campania – i cui maggiori centri furono sconvolti dai continui bombardamenti – anche per Montella l’anno più critico del secondo conflitto mondiale fu il ‘43, specie dopo che i tedeschi impegnati a prolungare la propria resistenza ebbero trasformato il Santuario del SS. Salvatore in una roccaforte dalla quale potevano dominare tutta quella parte d’Irpinia. Conseguentemente i bombardieri alleati presero a sorvolare anche questa zona montana, fortunatamente senza mettere sotto tiro le abitazioni (in alcune delle quali si erano peraltro insediate famiglie di sfollati, soprattutto napoletane). Ovviamente ogni attività commerciale fu interrotta; buona parte di quella estate fu trascorsa dalla popolazione nei boschi attorno al paese.

Gli anni del dopoguerra coincisero con quelli della maturità del fondatore del caseificio, rivelandosi ricchi di soddisfazioni. I latticini Granese parteciparono con successo a diverse mostre casearie, tanto da guadagnare all’impresa la qualifica di “premiata ditta”. I viaggi compiuti in Pennsylvania a trovare la madre e le sorelle gli diedero inoltre modo di avviare un commercio anche oltreoceano, riguardante ovviamente i prodotti più stagionati e in particolare i provoloni. Ma fu ancora una volta la funzione sociale assunta dinanzi alla comunità a dare modo al nostro di scrivere un’altra pagina significativa della vita della sua creatura: registrandosi in quegli anni difficili una nuova, forte ondata di emigrazione verso l’estero, molti giovani sceglievano proprio la sua azienda per apprendervi le tecniche della lavorazione, in modo da possedere un attestato utile a trovare lavoro nel Paese che li avrebbe accolti. Così come la consueta solidarietà nei confronti dei più sfortunati lo indusse ad avviare all’attività casearia dei nipoti della moglie, rimasti – com’era accaduto a lui – prematuramente orfani del padre e che si sarebbero poi messi in proprio dando a loro volta vita ad un rinomato caseificio irpino.

Il forte sviluppo legato al “miracolo economico” ebbe in qualche modo ripercussione anche sulla ditta Granese, la quale assunse il suo assetto definitivo, che solo il terremoto del 1980 avrebbe stravolto. Trasferito il negozio in un fondo di proprietà gravitante anch’esso sulla piazza principale, lo stesso caseificio subì un notevole ampliamento strutturale, grazie all’acquisto di un terreno adiacente: a guadagnarne furono soprattutto laboratorio e cella frigorifera. All’ulteriore crescita produttiva il titolare si decise anche in considerazione del fatto che tre dei numerosi figli avevano deciso di seguire le sue orme, dividendosi i compiti.

Il maggiore, Antonio, aveva conseguito il diploma di perito industriale a Bagnoli: dopo avere affiancato il padre nell’amministrazione dell’azienda, egli ne avrebbe progressivamente preso le redini, rivelando a sua volta notevoli capacità gestionali. I più giovani Ettore e Italo – che non avevano proseguito gli studi – divennero invece i principali collaboratori di Lepore in laboratorio, ma assolvendo anche al compito di autisti. Con due furgoni (di diversa portata) essi facevano il giro mattutino delle masserie, coprendo l’uno la zona verso Montemarano, l’altro quella verso Nusco. Agli stessi spettava inoltre il compito delle consegne, cui erano deputati alcuni pomeriggi della settimana: Salerno la meta privilegiata, ma senza tralasciare Napoli. Insomma una vita dedicata al caseificio, secondo l’esempio paterno.

Ci potevano essere momenti in cui l’intero organico si ritrovava attorno alla tinozza – il punto d’incontro più naturale – senza distinzione di ruoli. Al pomeriggio, prima di andare ad aprire il negozio, il patriarca, già indossati cravatta e gilet e tirando su l’orologio in modo che non si bagnasse, si sedeva a dare una mano a “zio” Alessandro, Antonio (anch’egli in tenuta borghese), Ettore e Italo, impegnati nella lavorazione dei provoloni. Quasi un omaggio collettivo a quello che rappresentava il momento centrale della vita aziendale.

Lorenzo Granese scomparve nel 1972, precedendo di qualche anno la catastrofe del terremoto, che avrebbe distrutto la sua abitazione e con essa lo storico caseificio, rinato altrove per volontà dei figli.

Un’azienda moderna nell’Irpinia della prima metà del Novecento: il caseificio Graneseultima modifica: 2022-06-29T21:26:30+02:00da tradersimo
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