L’involuzione di Chaplin

La lunga carriera di Charlie Chaplin appare divisa in due fasi nettamente distinte a seguito dell’avvento del sonoro: innovazione che se rivoluzionò il cinema mutandone radicalmente la forma espressiva, sull’attore e regista inglese ebbe un effetto anche sostanziale, inducendolo a mettere in scena personaggi profondamente diversi dall’originario Charlot, con esiti inaspettati e perlopiù deludenti. La nostra rassegna si limiterà ai lungometraggi, tralasciando gli innumerevoli cortometraggi che rappresentarono l’essenza del cinema muto.

La densa pagina della produzione giovanile di Chaplin lo vede dunque alle prese con la saga del “vagabondo”, del quale ogni film rappresenta un’avventura. L’aspetto comico del personaggio è dato anzitutto dal suo aspetto: gli abiti indossati e il modo di camminare appoggiandosi all’immancabile bastone ne identificano immediatamente la natura, qualificandolo come un povero diavolo che ogni giorno deve ingegnarsi per sopravvivere, inventandosene di tutti i colori ma dovendo al contempo fare i conti con la cronica malasorte che si diverte a cacciarlo in situazioni sconvenienti quanto rocambolesche.

È in tale frangente che il maldestro omino coi baffetti rivela la propria fondamentale bontà d’animo, unita a una moralità che gli consente di cavarsi d’impaccio senza mai derogare ai valori dell’umanità e della dignità, perfetto esempio di “miseria e nobiltà”. Inoltre le sue tragicomiche peripezie non si svolgono in un contesto surreale o comunque leggero, ma pongono implicitamente in primo piano le principali tematiche di quella società americana che lo aveva accolto: la povertà, l’emarginazione, la discriminazione classista, la condizione operaia, la corsa sfrenata all’arricchimento, la Grande depressione.

L’apoteosi del personaggio si ha ne Il monello, primo capolavoro del nostro e modello del suo cinema più riuscito per il magistrale intreccio tra la sequela di vicissitudini in cui incappa il protagonista e i risvolti poetici e commoventi del suo operare. Chaplin commise l’errore di abbandonare tale schema nel film successivo, La donna di Parigi, mettendo in scena un drammone di stampo ottocentesco in cui egli compariva peraltro in un ruolo del tutto secondario e decretando così l’insuccesso della pellicola. Facendo tesoro della lezione ricevuta l’artista londinese ripropose il soggetto del vagabondo e con esso l’unione di comico e sentimentale nell’altro suo capolavoro, La febbre dell’oro.

Sulla medesima falsariga si pone Il circo – forse il più comico dei film di Chaplin – la cui trama ruota attorno a un’idea geniale, vagamente pirandelliana: spintovi da una delle sue abituali disavventure Charlot irrompe nell’arena circense per puro caso, nel bel mezzo dello spettacolo, suscitando le entusiastiche risate del pubblico, oltremodo deluso dalla qualità del numero in corso. Il proprietario decide allora di assumerlo come clown: ma con risultati talmente deludenti da decretarne il licenziamento. Lo sciopero indetto dagli inservienti determina tuttavia la sua momentanea riassunzione in tale ruolo: di nuovo il comportamento goffo e sconclusionato dell’omino fa sbellicare il pubblico, facendone così il campione di una comicità che diviene irresistibile se involontaria e inconsapevole, ma che svanisce qualora la si voglia produrre artificiosamente.

Nonostante l’avvento del sonoro, in Luci della città Chaplin (che essendo anche produttore dei propri film era libero di sceglierne la forma) volle restare fedele al muto. Lo schema è quello ormai consolidato: alle gag di Charlot si affianca l’aspetto commovente, rappresentato in questo caso dalla giovane fioraia cieca cui l’intraprendenza e la generosità dell’omino procacceranno il denaro necessario a pagarsi l’intervento che le restituirà la vista. Alla luce della produzione successiva del nostro si può dare una spiegazione psicologica alla singolare scelta di rinviare l’approdo alla vocalità: intuendo che tanto la comicità quanto la poeticità puramente mimiche della sua creatura sarebbero state sacrificate dal nuovo cinema basato su dialoghi e battute, l’attore britannico si preoccupava di prolungarne l’esistenza, a costo di risultare antiquato.

Il successivo Tempi moderni parrebbe avvalorare una simile interpretazione, dato il compromesso individuato da Chaplin tra richiami artistico-affettivi ed esigenze commerciali: il film rimane sostanzialmente un muto, pur contenendo qualche scena sonora ma continuando a rinunciare ai dialoghi. Celeberrima la scena del ristorante: in pratica il congedo di Charlot, chiamato a interpretare la canzone più esilarante della storia del cinema, con una verve, una gestualità e un’espressività che da sole basterebbero a rendere immortale il personaggio.

Lo scenario cambia completamente a partire dal film successivo, Il grande dittatore, caricatura della figura di Hitler – nel quale peraltro rivivono i baffetti di Charlot – ma anche di quella di Mussolini, concepito nel 1938 (l’anno dell’Anschluss, dello scambio di visite tra i due e della Conferenza di Monaco, con cui si evitò lo scoppio anticipato della Seconda guerra mondiale) e uscito due anni più tardi. L’originalità della pellicola non è data soltanto dal superamento dell’affermata macchietta ma anche da altri fattori, a cominciare dalla scelta del tema politico. D’ora innanzi gli espliciti riferimenti alla politica caratterizzeranno infatti in maniera sempre più invadente la produzione del nostro, alternandosi a una vena riflessiva e talvolta filosofica i cui esiti risulteranno controproducenti rispetto alle aspettative di un pubblico abituato a divertirsi con i suoi film.

Ma nella parodia del Grande dittatore degne di nota appaiono anche certe interpretazioni storico-psicologiche del rapporto tra i due personaggi. Mentre infatti riguardo al particolare periodo cui la vicenda si riferisce la storiografia tende a vedere in Mussolini il succube di Hitler, il maestro superato – se non surclassato – dall’allievo e perciò tutto impegnato a rincorrerlo sul piano delle prove di forza, del totalitarismo, del razzismo, Chaplin capovolge i termini del loro rapporto mostrandoci il tedesco oltremodo preoccupato dalle possibili iniziative dell’alleato-rivale, sino a svilupparne una vera e propria ossessione. Il culmine di tale sudditanza si ha in occasione dell’annessione dell’Austria: che nella poco realistica ma comicamente efficace rilettura chapliniana avviene vista la necessità di bruciare sul tempo l’italiano, ritenuto interessato alla medesima conquista. La finzione cinematografica propone dunque un Duce inedito, paradossalmente valorizzato proprio nel momento in cui viene ridicolizzato, la cui straripante gestualità unita all’astuzia machiavellica finisce con l’annientare la personalità hitleriana. La parlata smaccatamente romagnola attribuitagli nella versione italiana ne accentua inoltre giovialità e spigliatezza, concorrendo a determinare rispetto alle paturnie del collega tedesco un contrasto che non potrebbe apparire più netto.

Dopo la pausa dovuta alla guerra Chaplin si ripresenta al suo pubblico con Monsieur Verdoux: altro film che non difetta certo di originalità. A essere riletta in chiave comica è nientemeno che l’agghiacciante vicenda del criminale francese Henri Landru, pluriomicida di donne dopo averle spogliate di ogni avere. Discutibile è a nostro avviso non solo la scelta per una parodia di una storia così abietta, ma anche il carattere attribuito alla figura del Barbablù parigino: un impeccabile milord dalle maniere eleganti, la vasta cultura, l’ingegnosa inventiva, l’eloquio suadente, e che non disdegna neppure il ricorso all’aforisma. Addirittura, prima di consegnare la testa alla ghigliottina Verdoux cita Dostoevskij, paragonandosi (con esiti alquanto grotteschi, vista l’improponibilità del collegamento) al tormentato e superomistico Raskolnikov di Delitto e castigo: insomma un po’ troppo per un personaggio così squallido.

La parabola discendente si accentua in Luci della ribalta: l’altro dramma della produzione chapliniana, che ha per protagonisti un artista fallito e una giovane disperata sino a tentare il suicidio. In un film dalla durata eccessiva è in particolare il primo tempo a risultare oltremodo pesante, interamente dedicato a un dialogo tra i due in cui le cui aspirazioni filosofiche di Chaplin superano ogni limite. Solo la seconda parte acquista un minimo di vivacità, prima del tragico finale.

L’ultima pellicola interpretata dal nostro è Un re a New York. In una vicenda oltremodo irrealistica (ma che non per questo diviene particolarmente brillante, né divertente), Chaplin si cala nei panni di un sovrano europeo che per il proprio esilio sceglie gli Stati Uniti in quanto patria della libertà. L’aspirazione comica del film viene completamente soffocata dall’assoluta predominanza del tema politico: precipuo intento dell’attore inglese è infatti quello di denunciare le persecuzioni causate negli Usa dall’avvento del maccartismo, che lo avevano coinvolto in prima persona al punto di costringerlo a lasciare il Paese al quale doveva tutto. La debolezza della trama è testimoniata anche dall’anacronistico ricorso alla gag delle torte in faccia, tipica del primo cinema comico americano e alla quale lo stesso Chaplin aveva attinto a piene mani quaranta anni prima, in Charlot macchinista.

E così il cerchio si chiude: smarrita la stella polare della sua poetica una volta deposti bombetta e bastone della sua prima creatura, nel ventennio successivo Chaplin ha vagato alla ricerca di personaggi che ne rinverdissero i fasti, ma senza riuscire a trovare il bandolo della matassa. Donde la sequela di protagonisti tutti a loro modo eccessivi: troppo concettosi, troppo ideologizzati, troppo astrusi. Fino al nostalgico richiamo finale: Charlot che rivive in mezzo alle torte che volano, per quanto coi capelli bianchi e vestendo lo smoking.

L’involuzione di Chaplinultima modifica: 2023-02-07T20:38:29+01:00da tradersimo
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