L’epopea di Vandalo, leggenda del trotto

Per trovare il primo “campionissimo” del nostro trotto bisogna risalire alla sua età romantica, agli albori della disciplina ippica dal passo più composto e meno naturale. Si tratta di Vandalo, le gesta del quale erano note solo a una ristretta cerchia di anziani ed eruditi trottofili sino alla pubblicazione, nel 2015, del volume Veloce come Vandalo. Il romanzo del leggendario trottatore nato per vincere, a firma di Mario Natucci. La scelta di tale forma narrativa è dovuta sia all’alone di romanticismo che avvolge la figura del fuoriclasse a quattro zampe sia al fatto che la documentazione raccolta dall’autore non sarebbe stata sufficiente a sostenere un saggio; donde la scelta di colmare tutte le lacune che restano nella vicenda dello straordinario cavallo con l’ausilio della fantasia.

A dire il vero Natucci ha ripreso un’idea venuta nel secolo precedente a un giovane benestante irlandese appassionato di cavalli, Alfred O’Donohoe, il quale negli anni tra le due guerre soleva venire in vacanza in Italia avendo quale meta privilegiata Bologna. Qui egli ebbe modo di fare amicizia con un altro giovane ippofilo, Galeazzo Mezzadri, e di apprendere dell’epopea di Vandalo le cui radici erano saldamente emiliane; donde la nascita di un forte interesse per la vicenda, concretizzatosi in una ricerca la quale non era tuttavia sfociata in una pubblicazione.

Difatti il predestinato era Natucci: il quale venne a sapere di Vandalo in maniera casuale, grazie alla testimonianza di un anziano giornalista bolognese che un giorno gli parlò di quel cavallo come di un vero e proprio monumento nazionale. Incuriosito da tanta negletta eccezionalità l’autore aveva allora condotto a sua volta una ricerca d’archivio, trovando piena conferma alle parole del collega. La cosa sarebbe tuttavia finita lì se tempo dopo egli non avesse altrettanto fortuitamente scoperto dell’esistenza presso il Museo del trotto dell’ippodromo di Civitanova di un voluminoso fascicolo riguardante Vandalo che era stato donato dall’ormai anziano Mezzadri e che raccoglieva tutta la documentazione raccolta da O’Donohoe. Grazie a tale concatenazione di eventi noi siamo in grado di ricostruire la preistoria del nostro trotto: perché oltre a parlarci del leggendario campione il libro ci fornisce tutta una serie di notizie che ci fanno comprendere il modo in cui in Italia sia nata e si sia consolidata la passione per le corse al trotto.

Storicamente le prime competizioni ippiche a prevedere l’impiego di un rotabile – il cocchio – sono state le corse di bighe e quadrighe, che entusiasmavano gli antichi romani al Circo Massimo e a quello di Massenzio ma riguardo alle quali non abbiamo certezze circa l’andatura imposta ai cavalli. Apuleio, Giovenale, Ovidio ci parlano di questi convegni, che nell’età imperiale giunsero a contare anche cento gare al giorno dinanzi a 250000 spettatori disposti a giocarsi pure la tunica. È del resto lo stesso Cicerone a riferirci che “attorno al circo gravitavano maghi e astrologhi che garantivano all’incauto scommettitore di predirgli il nome dell’auriga vincente”.

L’avvento del trottatore è in ogni caso legato all’età moderna, e in particolare al Settecento, allorché il passo veloce più idoneo a garantire sicurezza, compostezza e regolarità alla circolazione veicolare a trazione equina sulle strade sconnesse, fangose o polverose dell’epoca fu identificato nel trotto. Ma per acquisire potenza e velocità in modo da passare dalle strade alle piste fu necessaria una mescolanza di razze, spesso frutto dell’estro personale di ciascun allevatore ma senza poter prescindere dall’elemento base rappresentato dai purosangue inglesi: per questo il trottatore è considerato un mezzosangue. E così in Gran Bretagna la stirpe trottistica fu creata mediante l’incrocio con i roadster – ossia i cavalli da trasporto – migliori: quelli del Norfolk. In Francia furono impiegate le razze di Normandia e Bretagna, in Italia quella friulana, in Russia si incrociarono la orientale e la nordica; mentre negli Stati Uniti d’America il sangue dei mitici progenitori Messenger e Hambletonian 10 fu mescolato con quello di fattrici delle razze più svariate, comprese le giumente dei cowboy.

In Italia si può dire che la città ove più ci si adoperò per promuovere il trotto agonistico sia stata Padova. Tutto nacque dalle tradizionali corse dei carri, che in agosto appassionavano i patavini al punto da far sì che attorno a tale usanza sorgesse un apposito artigianato finalizzato a trasformare i primordiali biroccini, dalla robusta struttura del peso di un paio di quintali data la loro naturale funzione di trasportare i prodotti agricoli al mercato, in più veloci e funzionali calessini contenuti entro la sessantina di chili. Nacquero così le “padovanelle”, eleganti carrozzini in legno intagliato nei quali la postazione del guidatore era molto avanzata rispetto all’asse delle enormi ruote – dell’altezza di un metro e mezzo – in modo che il molleggio delle stanghe attutisse le asperità del suolo (l’arretramento del sedile sino all’attuale posizione nel sulky sarebbe stata resa possibile soltanto dall’avvento delle piste, la morbidezza del cui fondo avrebbe fatto venir meno tale necessità).

E fu sempre a Padova, al Prato della Valle, che nel 1808 si svolse il primo convegno di corse al trotto storicamente documentato. Ma in breve la moda delle sfide al calesse superò i confini veneti, coinvolgendo tutta l’area padana e trovando la sua patria d’elezione segnatamente lungo la Via Emilia: di ciò Natucci ci spiega capillarmente i motivi, che appaiono variegati e complessi. In primis la mentalità della gente emiliana: e quindi la creatività, l’apertura mentale, lo spirito innovativo. Inoltre il dinamismo, dal quale consegue il culto della velocità: non è un caso – osserva l’autore – che quella stessa zona compresa tra Ferrara, Bologna e Modena abbia generato tanto un emulo di Pegaso del calibro di Vandalo (e in seguito di Varenne) quanto i nostri marchi motoristici più prestigiosi.

Il secondo elemento è dato dalla conformazione naturale del territorio padano: perché è evidente che per poter allestire un tracciato sul quale lanciare a tutta birra dei cavalli attaccati occorre disporre di un terreno pianeggiante. Ecco dunque spiegato il motivo per cui in Emilia-Romagna sono fioriti nel tempo tanti anelli di sabbia: ma perché tutti impianti di trotto, e nessuno di galoppo? La ragione principale andrà ricercata proprio nelle gesta di Vandalo, che gettarono il seme di tanta passione trottistica; ma senza tralasciare l’aspetto sociale, e quindi le caratteristiche tradizionali del popolo emiliano e romagnolo. Mentre infatti il galoppo – e con esso l’equitazione – derivando dalle battute di caccia vanta spocchiose origini nobiliari, il trotto nasce come frutto della civiltà contadina. Quegli stessi “cavallai” che durante la settimana impiegavano i propri quadrupedi nelle loro varie attività (agricoltori, commercianti, trasportatori) alla domenica si ritrovavano nella località deputata per sfidarsi in rusticane quanto appassionate tenzoni in cui rompere l’andatura eletta significava mettersi fuori.

Perché – infine – al trotto si corre in senso antiorario? Una risposta romantica ci offre la Storia: i cavalieri medievali portavano la spada sul fianco sinistro in modo da poter sguainare l’arma con la destra nel modo più agevole e veloce. Adottando la mano sinistra nel procedere lungo la strada essi evitavano il rischio che nell’incrociarsi i manici rimanessero incastrati: situazione che avrebbe potuto verificarsi tenendo la destra, e specie sui sentieri più stretti. Lo stesso criterio regolava i tornei di giostra a cavallo: tenere la sinistra consentiva di impugnare al meglio la lancia con la destra.

Alla metà dell’Ottocento nella nostra ancor divisa Penisola gli ippodromi non esistevano ancora: le corse venivano disputate in campagna su lunghi stradoni, in città nelle piazze d’armi o su slarghi erbosi. Per quanto riguarda l’Emilia, fu Bologna ad assumere decisamente il ruolo della battistrada: come testimoniato dal più antico programma di una riunione di trotto che ci sia pervenuto, le “corse ai sedioli” vi furono inaugurate nel 1846, sulla pista tonda da un terzo di miglio ricavata nel parco della Montagnola. Come ben spiegato da Natucci, tale intraprendenza fu dovuta all’esistenza nella città felsinea di una nutrita schiera di facoltosi appassionati (nobili, possidenti, avvocati, funzionari, commercianti) i quali ritrovandosi al Caffè dei Cacciatori decisero di fondare quella “Società per le Corse dei sedioli e biroccini” destinata a rappresentare l’avanguardia del movimento trottistico nazionale. Si trattò infatti di una svolta epocale rispetto all’attività pionieristica praticata sino ad allora, in contesti provinciali dal vago sapore felliniano, a metà strada fra lo spettacolo circense e la sagra popolare.

L’autore è bravo a restituircene l’atmosfera, immaginando come l’importanza della novità rappresentata dalle corse fosse stata colta al volo dagli organizzatori delle feste paesane, i quali avevano fiutato l’opportunità di attirare gente e quindi denaro abbinando alle tradizionali manifestazioni locali sfide fra trottatori. Su tutte, la fiera del bestiame che in aprile richiamava a Finale tanti operatori del settore: mercanti, allevatori, contadini. L’estemporanea pista fu ricavata ricoprendo di uno strato di sabbia il dirizzone che attraversava il centro del paese, per una lunghezza di 1200 metri. In breve lo spettacolo spopolò: per quanto i giornali ignorassero l’emergente disciplina, le gesta ippiche correvano di bocca in bocca, di paese in paese, richiamando alle corse sempre più gente e nonostante il prezzo del biglietto fosse piuttosto salato.

La conseguente mobilitazione organizzativa si rivelò degna dell’intraprendenza emiliana, con l’allestimento di box e tribune e l’ingaggio di banda musicale e fuochisti. Essendo l’unico mezzo di trasporto il cavallo stesso, i concorrenti non potevano essere che della zona; donde la passione della gente a scommettere sui propri beniamini e di conseguenza la necessità della presenza sia di un banco di gioco che di una giuria deputata a garantire della regolarità delle corse, a cominciare dalla conformità dei calessi.

Ricevuto il benestare i guidatori attaccavano il cavallo per la sgambatura, il cui principale scopo era quello di far prendere all’animale confidenza con la stretta rotonda che rappresentava il giro di boa della gara: una secca curva a U collocata in fondo al rettilineo, che per preservare chances di vittoria occorreva superare combinando al meglio velocità e accortezza. Nonostante le tribune si trovassero in corrispondenza dell’arrivo, era in quel punto cruciale che molti spettatori andavano a piazzarsi, allo scopo di cogliere le manovre effettuate dai driver per abbordare nella maniera più efficace l’ostico passaggio. Brevi passi di galoppo erano ammessi soltanto in partenza: venendo questa data da fermo, essi risultavano del resto anche naturali. Avvicinandosi i cavalli al traguardo i commissari tendevano un cordino di lana intinto di vernice rossa, affinché sul petto del primo a transitare restasse impressa la prova inoppugnabile della vittoria.

L’angustia della pista dettava anche la formula della competizione: nove partecipanti suddivisi in tre batterie, i cui vincitori avevano accesso alla finale che, oltre ai premi in denaro (500 lire al primo, 200 al secondo), assegnava al vincitore una bandiera di seta ricamata con lo stemma della località ospitante. A fare da cornice erano le corse “di incoraggiamento”, riservate ai soggetti alle prime armi e gravate da una tassa di iscrizione che andava ad accrescere il monte premi della gara principale. Ai guidatori era imposta una distinta uniforme, costituita da abito scuro e cappello a cilindro; ve ne erano di esperti – magari ingaggiati da proprietari ambiziosi – accanto ad altri del tutto improvvisati. Dall’aspetto del calesse si poteva dedurre la posizione sociale del proprietario: si andava da quello tirato a lucido del benestante a quello più scalcagnato i cui segni denotavano del suo abituale impiego come barroccio.

La fantasia non manca a Natucci nel proporci varie note di colore che dovevano insaporire quei convegni domenicali trascorsi tra cavalli e lambrusco; del resto basta retrodatare le connaturate pecche dell’ippica, sport del tutto particolare traendo la propria linfa vitale dalle scommesse. A cominciare dalle “bombe”, somministrate al cavallo per galvanizzarlo e che l’autore immagina all’epoca costituite da caserecci beveroni composti da vino mischiato ad anicione, pepe e zucchero.  Le quali però non sempre funzionavano: la povera bestia poteva accusare l’effetto dell’alcol e perdere la trebisonda, con esiti tragicomici che non mancavano di suscitare il sarcasmo tutto emiliano del pubblico.

E poi i propalatori di “storte”: compari dell’allibratore che fingendosi informatissimi sulle ultime di scuderia diffondevano false notizie sulla condizione dei cavalli più attesi in modo da dirottare le scommesse sui brocchi. Infine quella curva a U, ove poteva capitare che un concorrente malamente guidato andasse a diritto sfondando la recinzione, con esiti anche rovinosi vista tutta la gente assiepata lì attorno: fu così che la modenese “Farfalla” ruppe il silenzio della stampa nei confronti dell’ippica, ma per rivolgere critiche verso uno spettacolo tanto pernicioso.

Esaurita l’ampia e didascalica introduzione ha inizio la narrazione della vicenda di Vandalo, la cui epopea coincise con i primordi dell’Unità d’Italia facendolo così assurgere a “cavallo del Risorgimento”, dalla gloria paragonabile a quella degli stessi artefici dell’unificazione. Non esistendo ancora le discipline agonistiche che avrebbero spopolato nell’Italia novecentesca, egli rappresentò di fatto il primo nostro campione ad essere conosciuto e celebrato dall’intera nazione, tanto che il detto “veloce come Vandalo” gli sarebbe sopravvissuto a lungo. Anche il palmarès testimonia del ruolo di anello di congiunzione tra le due fasi – quella primordiale e quella “sportiva” nel senso corrente del termine – giocato dal grande trottatore: delle oltre trecento corse vinte (sulle poche decine in più disputate, nelle quali giunse peraltro quasi sempre secondo) un centinaio non ricevettero il crisma dell’ufficialità in quanto conseguite in contesti non omologabili quali esibizioni o raduni.

Ma per comprendere appieno la storia del “campionissimo” occorre tener conto di certi aspetti caratterizzanti quell’epoca che furono determinanti ai fini della sua carriera. Il primo è legato all’età: il fatto che Vandalo abbia corso dai 7 ai 24 anni ci fa capire come allora i cavalli venissero rispettati in gioventù e lasciati maturare secondo i loro tempi, in modo da favorirne la longevità agonistica. Un altro riguarda gli innumerevoli passaggi di proprietà che ne segnarono la carriera: piuttosto che rappresentare la bandiera della scuderia di appartenenza il nostro fu costantemente valutato come un investimento, e di conseguenza destinato a passare di mano nel momento in cui aveva reso quanto preventivato. Questo perché, avendo egli cominciato a correre molto tardi, i vari proprietari succedutisi valutavano conveniente rivenderlo non appena le somme vinte avessero ripagato la spesa iniziale, in modo da raddoppiare – come minimo – la somma investita impiegando il profitto per acquistare cavalli più giovani. Ciò non solo per il fatto che essendo egli castrone non sarebbe stato utilizzabile in razza, ma anche perché, continuando a correre e a vincere anche ad età in cui i cavalli normali si erano già ritirati da un pezzo, non era prevedibile il momento in cui madre natura avrebbe posto fine a tale eccezionale stato di grazia, trasformandolo da un giorno a un altro da fuoriclasse del trotto internazionale a pensionato da destinare alle corse dell’omnibus. Infine la componente geografica, che gli permise di vincere tutte quelle corse, anche fuori dai confini nazionali: la possibilità di correre ovunque fossero in palio premi allettanti fu infatti favorita dalla centralità ferroviaria acquisita fin da subito da Bologna.

Vandalo nacque il 14 aprile 1862 a Consandolo, nel Ferrarese, nella tenuta del Trombone situata sull’argine del Reno e di proprietà del marchese Giovanni Costabili Containi, il quale vi aveva impiantato un allevamento cui aveva dato il nome di Equireno. Figlio del purosangue inglese Huntsman e della Norfolk Cassandra, roano, dalla struttura possente, sin da puledro il cavallo evidenziò le sue enormi potenzialità, per quanto fortemente condizionate dalle attitudini di galoppatore ereditate dal padre, unite a un carattere oltremodo focoso e selvaggio che rendeva un’impresa il solo attaccarlo al calesse. La già critica situazione precipitava allorché nei paraggi si trovavano cavalle in calore: quasi a tener fede al nome ricevuto Vandalo sfondava la porta del box e sfasciava tutto quanto gli capitasse a tiro, divenendo il terrore di artieri e maniscalchi. Ciononostante, tra gli appassionati di trotto la sua fama correva: il virgulto dell’Equireno era ormai considerato il miglior prodotto dell’allevamento nazionale.

“In tanti erano andati a vederlo, interessati all’acquisto. Tutti ne avevano ammirato l’aspetto, la potenza muscolare, la velocità; molti avevano avviato trattative, nessuno l’aveva conclusa. Messo alla prova, attaccato a un sediolo o a un biroccino, rompeva l’andatura, non manteneva la direzione, era indocile, incontrollabile. Inutili anche le frustate. Alla fine i possibili acquirenti, scuotendo la testa, a malincuore avevano rinunciato. Vandalo era una specie di chimera, bello ma impossibile. Forse, chissà, sugli ostacoli… Ma a chi interessavano i concorsi ad ostacoli? Erano le corse al trotto ad attirare gente, denaro, scommesse, a spingere a fare follie. Nessuno però aveva osato la follia di prendersi Vandalo e i rischi che comportava”.

Secondo Natucci era la brutale metodologia di allora – basata su frustate, bastonate, imboccature strette come mordacchie – a rendere il potente ma ombrosissimo soggetto ingestibile. Finché, accantonata l’idea di venderlo a chi ne avrebbe fatto un trottatore, Costabili non riuscì a piazzare il figlio di Huntsman a chi avrebbe inteso destinarlo a tutt’altro impiego: il re d’Italia Vittorio Emanuele II, grande estimatore della “razza del Trombone”. In treno – tramite la Porrettana da poco inaugurata – Vandalo raggiunse le scuderie reali a Firenze, provvisoria capitale del Regno; ma neppure i regi palafrenieri riuscirono ad addomesticarlo: anzi anche lì il ciclone equino fece parecchi danni. Cosicché nel giro di un mese ebbe termine pure l’avventura toscana del nostro, scartato in quanto “inservibile” e rispedito al mittente.

A quel punto il suo destino era segnato. Nel maggio 1868 il mancato acquisto da parte del sovrano spianò la strada a un giovane e raffinato gentiluomo di Cento, Alessandro Falzoni Gallerani, appassionato di trotto – oltre che di arte e di enigmistica – il quale aveva già avuto modo di apprezzare la qualità dei figli di Cassandra: per 6000 lire Vandalo fu suo. “A Cento la passione per i cavalli aveva tradizioni antiche. Alessandro aveva sentito i vecchi raccontare delle corse dei cavalli berberi che si svolgevano lungo lo stradone della città, dalla Rocca al cimitero, fra due ali di folla eccitata. Dall’inizio del secolo questa tradizione si era via via spenta per cedere il passo alle corse al trotto”. Gusto estetico e passione trottistica ebbero modo di coniugarsi alla perfezione allorché Falzoni realizzò il castello di Galeazza, in quel di Crevalcore, attorno a un’antica torre da lui acquistata assieme al parco che avrebbe riconvertito in quartier generale ippico mediante la creazione di una scuderia dai criteri più moderni.

Alessandro decise di castrare Vandalo, nonostante il rischio che assieme agli irrefrenabili ardori se ne andassero anche le sue portentose energie: il che fortunatamente non avvenne. Alla ripresa degli allenamenti tuttavia il cavallo continuò a manifestare una certa tendenza a divagare nell’andatura: come se l’idea di diventare un trottatore stesse sì maturando nella sua testa ma lentamente, dovendo fare i conti con una natura che spingeva in un’altra direzione. Donde la decisione di affidarlo a un guidatore esperto, il modenese Luigi Annovi, al quale il proprietario offrì il più generoso dei contratti: l’intero premio per i piazzamenti, la metà in caso di vittoria. Al contempo, per favorire la maturazione agonistica del suo pupillo Falzoni aderì all’iniziativa, promossa da un gruppo di appassionati della zona, finalizzata alla realizzazione di una pista a San Giovanni in Persiceto, nel parco del castello della Giovannina.

Annovi fu bravo a fare di Vandalo un cavallo da corsa, risolvendone finalmente i problemi caratteriali: nella primavera del 1869 il roano fu pronto per calcare le piste. Per il suo debutto fu scelta la Montagnola, ove nei giorni di maggio coincidenti con le celebrazioni legate alla Madonna di San Luca si sfidavano i migliori soggetti e non solo emiliani, per il primo “gran premio” padano, disputato sui quattro giri e la cui formula ricalcava quella della kermesse di Finale. L’autore ci fa rivivere da par suo le epiche sfide che contrassegnarono gli esordi del nostro, chiamato a confrontarsi con due soggetti tutt’altro che arrendevoli: Rondello, coriaceo portabandiera della razza friulana, e soprattutto il possente stallone russo Visapour, esponente di quella razza Orlov considerata il top del trotto continentale.

Quel giorno alla Montagnola doveva crollare un mito e nascerne un altro: nonostante la lentezza in avvio Vandalo raggiunse, macinò e distaccò lo “zar”, tra l’entusiasmo del pubblico che non mancò di sventolare il tricolore. La medesima gerarchia contrassegnò i confronti del seguito della stagione e di quelle successive, dipanatesi tra le piste di Bologna, Modena, Reggio, Parma, Cremona. Le gare si svolgevano perlopiù in coincidenza con la festa patronale cittadina; a Reggio in particolare si sarebbe giunti a dedicare all’evento trottistico ben quattro giornate, in modo da catalizzare sulla sfida Vandalo-Visapour l’attenzione di tutti gli appassionati. Terzo incomodo, Rondello finì con il ripiegare su una tattica di corsa attendista, in modo da sfruttare il micidiale duello ingaggiato sin dal via dai due campioni per riuscire talvolta a soffiare il secondo all’esausto russo.

Ma di Vandalo, oltre all’eccezionale potenza e all’andatura di volta in volta definita come “inconfondibile, ondeggiante, furiosa d’agonismo, impetuosa, piena di slancio, garibaldina”, Natucci sottolinea anche l’estrema intelligenza e sensibilità, che lo portava a comprendere immediatamente quel che ci si aspettava da lui rendendolo estremamente collaborativo con chi lo guidava e correndo con la testa perennemente piegata da una parte a controllare gli avversari. Fu grazie a tale disponibilità che Annovi completò la realizzazione del suo allievo con lo sveltirlo in partenza: progresso necessario ad affrontare ad armi pari cavalli sempre più forti, e specie su piste dal raggio così ridotto.

L’autore rende nuovamente omaggio alla liberalità di Falzoni nell’immaginare una certa divergenza di vedute che si sarebbe determinata con il suo trainer circa l’impiego del campione: mentre Annovi – solleticato anche dalla remuneratività dell’ingaggio – avrebbe voluto correre sempre, il proprietario preferì privilegiare la gestione delle energie del cavallo, risparmiandogli eccessivi stress e limitandone gli impegni a quegli appuntamenti che avrebbero potuto dare ulteriore lustro alla sua fama. Vennero così le quattro vittorie in terra veneta – ove il nostro ebbe modo di confrontarsi con gli esponenti della razza friulana – e l’acuto finale a Lugo.

Il 1870 fu un po’ l’anno della consacrazione del figlio di Huntsman, grazie alle cui imprese quei primordiali impianti iniziarono ad assumere le sembianze di ippodromi: ovunque andasse a correre le tribune venivano infatti ampliate, in modo da accogliere le folle straripanti. La stampa ne parlava come di un fenomeno assolutamente unico, che non mancava mai un obiettivo stupendo anche sul piano cronometrico: a Modena regolò ancora una volta Visapour trottando i 3000 metri in 4’55’’, a Livorno si espresse in 8’13’’ sui 4850.

La corsa che si tenne nel maggio 1871 alla Montagnola rappresenta la sintesi della prima parte della carriera di Vandalo, vedendolo alle prese con i soliti Visapour e Rondello. Quel giorno il fulmine dell’Equireno volle mandare in visibilio il pubblico anche sul piano della velocità, volando i 567 metri dell’anello bolognese in 54 secondi.

Dopodiché avvenne l’imponderabile: il cavallo fu ceduto alla stessa Società felsinea, per 22000 lire. Stavolta evidentemente Falzoni aveva badato al sodo, accettando un’offerta che quasi quadruplicava il prezzo d’acquisto; ma per mantenere attorno alla vicenda l’alone romanzesco Natucci adduce un motivo diverso, ricavato da una notizia apparsa sulla “Gazzetta dell’Emilia”. Proprio in occasione della corsa di Cento il box del fuoriclasse sarebbe stato oggetto di un incendio doloso, secondo l’autore dovuto alle ingenti perdite causate agli allibratori dai suoi continui successi: argomento che appare peregrino, dal momento che a fare le quote erano gli stessi bookmaker e nessuno avrebbe impedito loro di offrirlo a percentuali minimali; se non di limitarsi a bancare il secondo arrivato.

Fatto sta che a settembre Vandalo passò sotto i colori del circolo del Caffè dei Cacciatori, lasciando in dote a Falzoni 30000 lire di somme vinte e 61 trofei che decoravano il salone della Galeazza. Trasferito assieme all’inseparabile volpino Pajazz nella scuderia situata fuori Porta Saragozza e affidato al top driver locale Ricciardo Bonetti, con la nuova proprietà il roano affrontò anche ingaggi esteri, nella Trieste asburgica ove ebbe modo di imporsi ai campioni russi e austriaci. Ma dopo essersi svenati per acquistarlo, i soci pretesero anche di poter soddisfare la propria vanità: a turno attaccavano il cavallo percorrendo il centro di Bologna in pompa magna. I premi vinti dal campione non coprivano i costi di scuderia, anche perché il rapace Bonetti ne pretendeva per sé l’80%; al presidente della società Bergonzoni non rimase allora che tassare quelle esibizionistiche passerelle, in modo da fare cassa.

Nel giro di un anno la situazione precipitò: malamente gestito, escluso dal circuito dei gran premi per essere impiegato soltanto in gare minori organizzate appositamente per lui nella provincia emiliana, Vandalo suscitò le crescenti preoccupazioni degli appassionati, sfociate sulla stampa in roventi articoli che mettevano alla berlina l’inettitudine dei proprietari. A quel punto l’unica via d’uscita per i soci fu vendere: ad approfittare della situazione fu allora lo stesso Bonetti, il quale si accaparrò il fuoriclasse per 20000 lire. A undici anni il figlio di Huntsman poté così riprendere la propria marcia trionfale, sbaragliando il campo a Reggio, Parma, Mantova, Padova, Treviso.

Nel frattempo la passione per il trotto aveva valicato l’Appennino: se a Pisa i Lorena prima e i Savoia poi avevano dato forte incentivo al galoppo, in altre città toscane le corse al calesse avevano preso decisamente il sopravvento. Nella piazza d’armi di Pistoia era stata ricavata una piccola pista, dello sviluppo di 450 metri: per la festa di San Jacopo si affiancò alla fiera del bestiame una tre giorni trottistica, a chiudere la quale fu organizzata una spettacolare sfida su tre prove fra Vandalo e Cambronne, il rivale del momento che aveva dalla sua la partenza al fulmicotone. Nella prima batteria, complice l’angustia dell’anello, il roano non fu in grado di recuperare lo svantaggio; ma nelle altre due Bonetti fece leva sull’intelligenza del suo allievo, dandogli la voce al via in modo da fargli capire che lì si giocava tutto: Vandalo rispose da par suo scattando come una molla, prendendo la testa e seminando l’avversario. L’entusiasmo suscitato dall’asso emiliano fu tale che anche a Prato, Empoli, Sesto Fiorentino ci si organizzò per vederlo all’opera.

All’agosto 1874 risale il primo acuto internazionale del grande trottatore, realizzato a Boulogne-sur-Mer dopo avere attraversato in treno tutta la Francia. Siccome i blitz oltralpe avrebbero caratterizzato l’intera carriera del nostro, Natucci alla maggiore gloria e remunerazione delle corse francesi aggiunge maliziosamente una motivazione più venale: i vari trainer di Vandalo avrebbero teso a sconfinare frequentemente anche perché essendo egli all’estero meno conosciuto lo si poteva giocare a quote più alte rispetto a quelle striminzite offerte in Italia. In quella occasione il roano risolse la gara in partenza, scavalcando l’idolo locale e grande favorito Lavater, la cui solitamente irresistibile progressione nulla poté contro la superiorità dell’italiano. Il fatto che in Francia l’ippica fosse già parecchio sentita fece sì che alla notizia venisse dato ampio risalto, propagandosi dalla stampa transalpina a quella nostrana e contribuendo ad ampliare la schiera dei fan del fuoriclasse lungo la Penisola.

La fama del cavallo di Bonetti era ormai tale da essere invitato il mese successivo all’appuntamento più ambito del trotto europeo: il Gran Premio dell’Imperatore, gara di fondo che richiamava a Vienna i campioni francesi, russi, tedeschi, ungheresi, polacchi. Non ancora ultimato l’ippodromo Krieau, la corsa si disputava sui quattro chilometri e mezzo dello Hauptallee, il vialone centrale del Prater, con la formula dell’handicap in modo da concedere 20 metri di vantaggio alle femmine: abbuono tutt’altro che insormontabile anche in considerazione della distanza da percorrere. Quel giorno Vandalo realizzò un’impresa memorabile, al limite della mostruosità: come se la lunghezza della trasferta gli avesse fatto comprendere dell’importanza del cimento stimolandolo ulteriormente a dare il massimo. Ma siccome non vinse, Natucci s’inventa un movimentato preambolo i cui due protagonisti parvero fare a gara a chi si comportava in maniera più stolida e meno professionale.

A dare fuoco alle polveri sarebbe stato lo stesso Bonetti, lamentandosi con il capo dell’organizzazione per lo svantaggio inflitto al suo allievo, in termini che lo zelo del traduttore rese ancor più inopportuni e impertinenti e proseguendo nella polemica anche allorché fu chiaro che essa produceva l’effetto contrario: con il risultato che la penalizzazione di Vandalo salì prima a 30, quindi a 50 metri.

Al gustoso aneddoto segue la cronaca della corsa, che vedeva al via ventidue soggetti e con sei femmine allo start. Alla giravolta la più lesta fu la favorita, la Orlov Krassa, la quale impose alla corsa un ritmo tale da impedire la risalita di tutti gli avversari tranne Vandalo, il quale dopo un chilometro era già a metà gruppo. Il roano continuò a macinare in mezzo alla pista incontrando la resistenza del solo Vercingetorix, il quale tenne fede al proprio nome guerriero fino all’ultimo chilometro, ove gettò la spugna. Richiamato a fondo da Bonetti e sospinto dall’incitamento della folla, Vandalo si lanciò all’inseguimento della battistrada e delle sole due cavalle riuscite a rimanerle in scia: superate anche queste ultime, il leone dell’Equireno fu ancora in grado di produrre l’affondo finale sulla russa, la quale fu tuttavia salvata dal palo.

I tempi assegnati rendono l’idea dello sproposito fatto quel giorno dal nostro: i 4454 metri della vincitrice furono misurati in 6’56’’, mentre per coprire i suoi 4504 l’inseguitore impiegò appena 4 secondi in più! Il pubblico viennese non ebbe dubbi sul fatto che il vincitore morale e quindi il trottatore più forte d’Europa fosse Vandalo, mentre la stampa italiana celebrò la strenua rimonta in termini epici, paragonando l’ardimento del nostro portacolori a quello degli eroi delle guerre d’indipendenza.

La prova in riva al Danubio non concluse solo la stagione ma anche l’esperienza con Bonetti: a rilevare la proprietà del roano fu un altro driver, il lughese Vincenzo Mazzarini, per la somma di 23000 lire. Guidatore di prima nonostante la giovane età, Mazzarini vendette un podere per acquistare il campione, che nonostante andasse per i 13 anni pareva dover ancora dare il meglio. Vandalo fu trasferito a Lugo, e le corse disputate nel 1875 non andarono oltre il Veneto: il nuovo trainer mirò soprattutto a entrare in sintonia con il cavallo e a recuperare un po’ di soldi.

La media delle vincite era di mille lire per vittoria, ma ne furono messe in palio ben 5000 per la maratona organizzata l’anno successivo a Reggio: una sfida sui 15 chilometri, della prevedibile durata di un paio d’ore e alla quale avrebbero partecipato specialisti di livello internazionale. Vandalo non aveva mai affrontato distanze così lunghe, ma l’appetibilità dell’ingaggio convinse Mazzarini ad aderirvi, confidando anche nell’estrema combattività del cavallo che lo portava sempre a dare l’anima. Oltre a sottoporre il suo allievo a una preparazione specifica – comprendente anche sgambate idroterapiche a Marina di Ravenna – il driver lughese commissionò a un artigiano ravennate un sediolo in frassino più leggero di quelli comuni: tali accorgimenti contribuirono a rendere Vandalo competitivo anche al cospetto degli habitué del gran fondo, finendo battuto soltanto da Rigoletto (altro figlio di Huntsman, sul quale aveva ripiegato Bonetti) al termine di una lunga volata che vide quest’ultimo difendersi con le unghie e coi denti dall’affondo del nostro.

Dopodiché Vandalo riprese la via della Francia, ove su cinque uscite collezionò quattro vittorie dopo l’iniziale secondo posto, battuto da Vercingetorix in seguito regolarmente strapazzato. Oltre a rinfocolare l’orgoglio patriottico, le imprese del roano indussero gli intraprendenti appassionati felsinei a dar vita alla “Società bolognese per le corse al trotto”, al principale scopo di introdurre la nuova disciplina nelle grandi città, sfruttando la fama del fuoriclasse emiliano per invertire la rotta che al momento vedeva primeggiarvi il più tradizionale galoppo.

Si partì ovviamente da Roma, ottenendo, grazie ad aderenze capitoline dei soci di sangue blu, la concessione da parte del principe Torlonia della storica cornice del Circo di Massenzio. Il 1877 avrebbe dovuto essere l’anno del lancio del trotto nella capitale, per mezzo di una corsa promozionale da tenersi in primavera e alla quale avrebbero dovuto partecipare i migliori soggetti nazionali, con Vandalo in veste di star: per quanto Mazzarini avesse stilato per lui un programma diverso, il premio di 3000 lire destinato al vincitore lo convinse a rivedere i progetti.

Il comitato organizzatore non tralasciò alcun aspetto, assettando anzitutto una pista che ricalcava quella antica, i cui ampi rettilinei raccordati dalle strette curve superavano di poco la distanza del mezzo miglio, da ripetere tre volte. Furono sistemati tribune e palco reale e scelta con cura la data dell’evento, le cui batterie furono collocate nel giorno di Pasquetta in modo da convogliare al Circo le tradizionali gite fuori porta che vedevano i romani privilegiare proprio quella zona sull’Appia Antica. L’impianto sarebbe stato in grado di ospitare 10000 persone, con tanto di chioschi a servire vino e porchetta; a ravvivare il pomeriggio sarebbero inoltre intervenuti la banda musicale e i butteri con i loro numeri equestri.

Tale mescolanza di sacro (l’avvincente sfida fra i “prima categoria”) e profano (il contorno da sagra paesana) era dovuta al fatto che il pubblico capitolino era completamente a digiuno di trotto, e dunque andava intrattenuto e blandito con argomenti più popolari. Difatti la folla seguì le eliminatorie senza alcuna partecipazione emotiva, limitandosi ad applaudire i vincitori; soltanto la batteria di Vandalo suscitò un certo entusiasmo, visti gli avversari di tutto rispetto assegnatigli: a cominciare dal russo Sakoldowany il cui scatto iniziale propiziò il solito inseguimento, sorpasso e dominio da parte del nostro. Due giorni più tardi la finale si svolse in una cornice di pubblico assai più modesta, vedendo il grande favorito imporsi a Roma e a Violetta, altra creatura di Bonetti.

Dopo la doppietta realizzata a Nizza vincendo sia sui 2400 che sui 4000 metri, il roano sconfisse più volte Violetta nell’arco della stagione, chiudendo il 1877 imbattuto e venendo celebrato anche dai giornali del Meridione. Mentre lungo la Via Emilia apparve una scritta che testimonia meglio di ogni altro del grande entusiasmo popolare per le imprese del campionissimo: “Di qui è passato Vandalo”. La gloria del figlio di Huntsman accresceva anche quella del suo interprete: dei driver più adusi a frequentare i gran premi – oltre a Mazzarini, Annovi e Bonetti, Ettore Francia e Giovanni Rossi – Vincenzo era ormai celebrato come il numero uno.

Il 1878 fu per il nostro altrettanto trionfale, per quanto caratterizzato da una sconfitta che per le circostanze in cui maturò finì con l’accrescerne la fama. A Cittadella un Vandalo non al meglio della condizione ma comunque al via per le pressioni degli organizzatori dové inchinarsi a Trovatore, esponente della razza toscana agli ordini di Annovi. Quel giorno l’allievo di Mazzarini si mostrò in partenza più pigro del solito: il che, se non gli precluse il consueto assolo in batteria, in finale rese improba la rincorsa nei confronti del veloce avversario. Ciononostante a cinquanta metri dal palo egli riuscì a sopravanzare Trovatore: il quale tuttavia trovò la forza di rientrargli, vincendo di una testa, per poi però stramazzare al suolo subito dopo. Il povero cavallo era morto, probabilmente stroncato da un infarto a causa dello sforzo eccessivo; donde il detto che nacque quel giorno in terra veneta: “Per bàter Vandalo te gà da morir!”.

Dopo l’abituale passerella a Nizza il roano fu impegnato per la prima volta in una corsa a pariglie, a Treviso, appaiato a Violetta: saggiamente Mazzarini lasciò che a salire in sediolo e a vincere fosse Bonetti, dato il suo antico affiatamento con il cavallo. A Padova venne un’altra impresa: Vandalo trottò i 2420 metri del Prato della Valle in 3’23’’. Egli tenne poi a battesimo anche le piste di Bergamo e Varese, nate proprio sull’onda della sua fama come auspicato dai pionieri bolognesi. La stagione si concluse a Vienna, nell’ippodromo appena inaugurato, con un’altra gara per pariglie in cui fu riproposta la coppia Vandalo-Violetta, condotti al successo in batteria dallo stesso Mazzarini. In finale Vincenzo lasciò nuovamente le redini a Bonetti, il quale aveva un certo conto in sospeso sia con il presidente della Società viennese che con Krassa, che correva appaiata al connazionale Krolik. Stavolta Ricciardo risolse la corsa in partenza, portandosi al comando e respingendo ogni tentativo degli Orlov. I due colleghi-soci italiani si spartirono un premio equivalente a 5000 lire.

Dopodiché il driver lughese incappò nella malattia più temuta del tempo: la tubercolosi, contro la quale non esistevano antidoti se non una costituzione particolarmente robusta e la fortuna. Con l’inizio della nuova stagione di corse alle porte, Mazzarini stipulò un accordo con Bonetti e Francia per cui sul sediolo di Vandalo si sarebbero avvicendati loro due e i premi sarebbero stati comunque divisi in tre parti uguali. Senonché, rinfrancato dall’aria di Sestola che qualche miglioria aveva prodotto, già in aprile Vincenzo volle tornare in pista al gran premio di Modena: e così il figlio di Huntsman poté dimostrare la propria superiorità anche nelle mani di un driver debilitato.

L’ostinazione del guidatore romagnolo determinò tuttavia l’inopinata sconfitta del fuoriclasse nella successiva e più prestigiosa sfida della Montagnola: non riuscendo neppure a reggere le redini causa i violenti colpi di tosse che dopo un periodo di tregua ripresero a squassargli il petto proprio nel momento meno opportuno, Mazzarini nulla poté contro il finale di Violetta, che passò in tromba Vandalo dopo avergli recuperato un vantaggio enorme, lasciando il pubblico di sasso. Del generale sconcerto scrisse la “Gazzetta dell’Emilia”: “Grande delusione e disappunto ha suscitato nel popolo bolognese la tradizionale corsa dei trottatori sulla pista della Montagnola. Vandalo, il bel cavallo conosciuto per la forte struttura non che per la rapidità del corso, fu superato da Violetta contro gli universali pronostici. Esso aveva finora riportato sempre la palma della vittoria nelle corse a Bologna e la sua sconfitta ha sorpreso non poco il pubblico e gli esperti degli ippici campi”.

Se non altro la disfatta servì a far comprendere a Vincenzo che l’unico modo per garantire al proprio campione un prosieguo di carriera degno del suo nome sarebbe stato cederlo; del resto nei quattro anni in cui era stato alle sue dipendenze Vandalo gli aveva fruttato 78000 lire, più che triplicando il suo investimento iniziale. Un’offerta congrua – specie in considerazione dell’età del cavallo – gli venne dal collega Rossi, che aveva scuderia a Crespano del Grappa, nel Trevigiano: il roano fu suo per 20000 lire. Treviso era peraltro una delle poche città italiane a vantare un vero e proprio ippodromo: donato dal barone Franchetti, esso disponeva di una pista dello sviluppo di mille metri.

In terra veneta Vandalo trovò uno degli allevamenti ippici più all’avanguardia tra quelli italiani: la fortuna fatta nell’industria serica aveva consentito ai Rossi di investire ingenti capitali nel trotto, da loro valutato in chiave futura come più redditizio rispetto alla seta. Così Giovanni aveva deciso di lasciare le filande al fratello per dedicarsi a tempo pieno alle redini lunghe, con risultati più che lusinghieri; da qualche tempo però era avvenuto il passaggio di consegne in pista con il figlio Giuseppe, vero e proprio enfant prodige che già a undici anni aveva condotto alla vittoria Rondello in una gara amatoriale organizzata a Venezia: per festeggiare il ragazzino era salito in groppa al friulano sul campanile di San Marco. A sedici invece il Bepi aveva battuto il padre in una corsa ufficiale, e nonostante guidasse un outsider; per poi collezionare nel decennio successivo una serie  impressionante di vittorie, spaziando dal calessino alla sella, dagli ostacoli al trotto montato, già in auge in Francia.

Le prime uscite di Vandalo sotto i nuovi colori videro tuttavia in sediolo un poliedrico personaggio di origine russa, Gregorio Nicolesco, cosmopolita e intellettuale oltre che uomo di cavalli, amico e collaboratore del giovane Rossi: i due avevano intenzione di dar vita a una società ippica di respiro internazionale. Sia a Brescia che a Piacenza il fuoriclasse si impose regolando Sakoldowany, mentre a Cremona il posto d’onore dietro di lui toccò a un altro Orlov, Lethoun, che proprio Nicolesco aveva fatto acquistare ai Rossi, peraltro per la stessa cifra del figlio di Huntsman.

L’appuntamento di Lugo propiziò a Giuseppe un’attestazione di fair play che la dice lunga su come gli uomini di cavalli di allora tenessero anzitutto a dimostrare di essere degni di lavorare con l’animale nobile per eccellenza: egli lasciò che a guidare Vandalo nella sua città fosse proprio Mazzarini, alla cui malattia il soggiorno in montagna aveva procurato un qualche miglioramento. Vincenzo ebbe così modo di riscattarsi rispetto alla debacle bolognese, conducendo alla perfezione il roano al suo ennesimo successo, dinanzi al pubblico festante.

Destino volle che il Bepi debuttasse in sediolo al suo campione proprio a Treviso, per la corsa delle pariglie che chiudeva la stagione con una maratona sugli otto chilometri vedendo Vandalo nuovamente appaiato a Violetta: nel continuo scambio di cortesie tra questi guidatori-gentiluomini fu dunque stavolta il turno di Bonetti a rimanere spettatore allo steccato. Venne la vittoria e con essa l’entusiasmo della folla trevigiana accorsa a incitare il campionissimo anche in quanto portacolori della città.

L’inizio della stagione 1880 vide Vandalo impegnato in una serie di corse in Francia, sconfiggendo i migliori specialisti d’oltralpe pure al trotto montato, e nonostante tutti i chili in più di cui era stato gravato allo scopo di favorire le glorie nazionali. La stagione proseguì trionfalmente in Italia sino a far segnare quattordici vittorie di seguito e avendo il suo acuto nella corsa di Padova, ove il nostro ebbe a impegnarsi più del previsto per venire a capo della resistenza di Sakoldowany, facendo registrare il nuovo record della corsa: 1’32’’ al chilometro.

Dopodiché Rossi e Nicolesco passarono già ai bilanci, dopo appena un anno di proprietà: 20 vittorie su 22 uscite e i soldi pagati per l’acquisto già recuperati; entrarono dunque anch’essi nell’ordine di idee di cedere il fuoriclasse, magari a un prezzo superiore alle canoniche 20000 lire da reinvestire nei soliti Orlov tanto cari a Gregorio. Nel 1881 la quindicesima vittoria consecutiva giunse a Lonigo; ma nella successiva uscita a Cittadella Vandalo incappò in una inopinata sconfitta arrendendosi al finale di Nuotatore, compagno di colori affidato a Giovanni Rossi. Nella melodrammatica ricostruzione natucciana la resa del roano sarebbe stata dovuta alla tristezza provata per la morte di Pajazz, il cagnolino amico di una vita. Ad approfittare della battuta d’arresto fu allora un giovane ereditiere di Carpi, Giuseppe Vellani, che già aveva mostrato ottimo fiuto per gli affari nel risanare il cappellificio di famiglia e che ebbe buon gioco nel portar via per sole 16000 lire il diciannovenne trottatore a chi lo faceva ormai inesorabilmente avviato lungo il viale del tramonto.

Ma la corsa di Finale rivelò che in realtà per il carpigiano si era trattato di un affarone. Vandalo si riprese lo scettro nella maniera più perentoria, travolgendo per l’ennesima volta Sakoldowany e mandando in visibilio la folla, mentre la banda intonava la marcia trionfale dell’Aida. Rossi scese per l’ultima volta dal sediolo del figlio di Huntsman pentito di avere dato retta al socio russo: l’impressione era che qualunque virgulto degli Orlov fosse stato ingaggiato avrebbe dovuto fare i conti ancora per un bel po’ con l’intramontabile astro dell’Equireno.

Il quale tornava dunque nella sua Emilia, per la precisione a Concordia sulla Secchia ove aveva sede la tenuta del Vellani. Ma il cambio di giubba determinò anche il clamoroso ricomporsi di una coppia divenuta celebre sulle piste di mezza Europa: pur dilettandosi anch’egli alle redini lunghe il nuovo proprietario decise infatti di andare sul sicuro affidando il cavallo alle mani di Bonetti, che subito lo condusse alla vittoria ad Asti per poi dominare nel circuito classico emiliano.

Quello stesso anno la galoppista Milano decideva di affacciarsi sul palcoscenico del trotto, e lo faceva in grande stile, organizzando in concomitanza con l’Esposizione Nazionale un “Omnium” – ossia  un gran premio aperto agli internazionali – da disputarsi sulla distanza dei 3200 metri, equivalente a un giro della pista ricavata nella ex piazza d’armi austriaca. L’allettante premio di 5000 lire destinato al vincitore fece sì che nel capoluogo lombardo convenisse il meglio dello schieramento russo, affidando di conseguenza a Vandalo il compito di difendere i colori dell’allevamento italiano.

In batteria il nostro non ebbe difficoltà a regolare Krolik e Sakoldowany, mentre la finale fu caratterizzata dall’avvincente duello con Gourko, un sette anni esponente della razza Tulinov che avrebbe rappresentato l’ultima realizzazione di Mazzarini, prima di arrendersi alla tisi. Il russo si rivelò un avversario forte e tenace, impegnando Vandalo finché poté; ma quando in retta d’arrivo Bonetti gli allentò le guide, il campionissimo se ne andò per proprio conto, vincendo da dominatore nel tempo di 5’21’’, dinanzi a un pubblico osannante. Per un destino che non avrebbe potuto essere più beffardo nei confronti del duo Rossi-Nicolesco, il terzo finalista giunto a distanza siderale dal vincitore era proprio il loro ultimo acquisto Patiesny.

Il fatto poi che il trionfo del portabandiera nazionale avesse avuto quale cornice proprio quella simbolica piazza tanto cara a Radetzky fece sì che l’avvenimento venisse celebrato da parte della stampa ambrosiana in termini quantomai patriottici e risorgimentali: nemmeno si fosse trattato di una sesta Giornata di Milano. Badando più al sodo “La Caccia” – il “giornale illustrato dello sport italiano”, anch’esso di edizione meneghina – pubblicò invece un commento che pareva scritto apposta per rinfocolare i rammarichi di chi troppo affrettatamente aveva ceduto “l’invincibile veterano”, dipinto come più che mai imperterrito nel proseguire “la sua brillante e vittoriosa carriera: pare ora che invecchiando, invece di diminuire in velocità, fibra e resistenza, egli si faccia anzi più gagliardo che mai, battendo i migliori competitori esteri e indigeni”.

Vandalo ebbe ad imprimere il proprio sigillo anche alla prima corsa italiana disputatasi con i sulky, che ebbe luogo a Riolo, ripetendosi a Rimini, ove sul moderno sediolo americano salì lo stesso proprietario: al quale una signora offrì due marenghi in cambio di un ciuffo della criniera del suo idolo.

L’estate 1881 vide il nostro inanellare venti vittorie consecutive, sconfiggendo i russi di turno sulle piste di mezza Italia e venendo celebrato ovunque dal pubblico come il beniamino di casa. Unendo l’utile al dilettevole l’affarista Vellani approfittava di tale popolarità per fare pubblicità alla propria azienda, piazzando puntualmente a bordo pista una bancarella con in vendita i suoi cappelli ed esponendo quale réclame il ritratto di Vandalo con il “truciolo” in testa.

Dopodiché il figlio di Huntsman si presentò alla finale del gran premio di Lugo affrontando ancora Gourko e Patiesny, che furono nuovamente disintegrati nonostante l’abissale differenza d’età a loro vantaggio. A Novi Ligure Gourko riuscì a sconfiggere Vandalo di un baffo; ma nell’ormai classico appuntamento di Treviso che chiudeva la stagione la gerarchia fu immediatamente ristabilita.

Pure Vellani fece i suoi conti: l’investimento ippico gli aveva reso assai più di quanto egli avesse preventivato, donde la decisione che essendo il cavallo alla soglia dei vent’anni fosse meglio non rischiare oltre. Ad acquistare il campione fu allora un giovane di Lugo, Nicola Malpezzi, al quale l’eredità paterna consentiva di vivere nella bambagia; lo ebbe per 16.000 lire. Nella esistenzialistica lettura che ne dà Natucci, Malpezzi avrebbe preso Vandalo per dare senso a una vita che avvertiva ogni giorno di più come vuota e priva di scopo; donde la decisione di darsi all’ippica, per diventare un guidatore vincente. Essendo completamente a digiuno di cavalli gli serviva un esperto che gli insegnasse l’abc: lo trovò in Amilcare Govoni, navigato protagonista del trotto emiliano.

Il nuovo proprietario ce la mise tutta per diventare un driver, in sediolo al mitico veterano rispetto al quale aveva soltanto due anni di più; ma i danni causati dalla sua inesperienza furono di vario genere, dinanzi a tribune inferocite che maledivano il fatto che l’idolo del trotto nazionale fosse finito in mani così sciagurate. Alla fine tuttavia Malpezzi riuscì nel proprio intento, vincendo diverse competizioni disputate secondo la nuova formula della “partita obbligata”: sorta di estenuante tie-break prolungato per più giornate che imponeva ai vincitori delle eliminatorie di affrontarsi ad oltranza finché uno di essi non avesse conquistato tre, quattro, perfino cinque successi.

Dopodiché l’amletico lughese restituì il cavallo a Vellani, per 8000 lire; cifra che l’abile e fortunato carpigiano non ebbe difficoltà a recuperare nel giro di pochi mesi, per poi accettare la permuta propostagli dal guidatore e allevatore faentino Biagio Oppi: Vandalo in cambio del promettente Sir Galahad. Saggiamente il nuovo trainer limitò gli impegni del roano alle classiche in terra emiliana, vincendo spesso a dispetto del pronostico che gli preferiva le più giovani stelle del momento ma circondato ovunque dall’affetto del pubblico, a prescindere dall’esito della corsa. Circostanza ricorrente nel finale di carriera del nostro fu inoltre che allorché arrivava secondo in sediolo al vincitore era uno dei tanti driver che lo avevano guidato in passato: a Rimini nel 1883 prevalse Mazzarini con Gourko, alla Montagnola l’anno successivo Rossi con Don Chisciotte.

Ma vi fu spazio anche per un altro passaggio di proprietà: Oppi cedette il cavallo alla Società Riolo, i cui titolari erano il guidatore Domenico Lodi e Luigi Magnani, padre di Natale che a vent’anni aveva già rivelato eccelse qualità alle redini lunghe; Lodi e Natale si sarebbero alternati in sediolo al fuoriclasse. Nel frattempo Bologna aveva ampliato il cartellone dei gran premi, aggiungendone due a quello che in aprile apriva la stagione trottistica: fu nel più prestigioso di questi che nel maggio 1885 avvenne il vittorioso debutto della coppia Vandalo-Magnani, che apparve già affiatatissima fra il tripudio della folla.

L’essere una leggenda vivente regalò poi al campionissimo una soddisfazione rimasta unica per un cavallo: prendere parte a una corsa a lui intitolata, commosso omaggio della sua terra natale. Alla piazza d’armi di Ferrara il Premio Vandalo vide il nostro primeggiare in batteria, ma arrendersi in finale al forte Jorik.

A Padova “el vecio” era amato almeno quanto in Emilia: al Prato della Valle fu organizzata una gara in partita obbligata, che vide emergere nelle batterie Vandalo, Jorik e Don Chisciotte. La spossante formula delle finali a oltranza mostrò i sopraggiunti limiti delle energie dell’intramontabile: dopo avere vinto la prima prova, il figlio di Huntsman si arrese in quelle successive, terminando la kermesse al terzo posto, quantomai insolito per lui. Volendo imitare Natucci nei suoi slanci di fantasia e dare un’interpretazione romantica di tale flop, si può supporre che il nostro si sia dimostrato più intelligente di chi lo gestiva, non potendo immaginare che a un cavallo così anziano potesse essere imposto un simile tour de force: egli fece il suo vincendo l’eliminatoria, per poi dare tutto in quella che riteneva essere la consueta bella e tenere alto il proprio nome. Chissà cosa avrà pensato quando, invece dei festeggiamenti e del riprendere la via di casa, si vide legare nuovamente alle lunghine del box e poi riportare in pista.

Fortunatamente i proprietari lo fermarono, per ripresentarlo soltanto all’inizio della stagione 1886, a Ferrara, in una corsa riservata agli indigeni: che il roano, guidato da Lodi, vinse tra l’entusiasmo del pubblico. La cosa più saggia a quel punto era ritirare il cavallo dalle corse, in modo da chiudere la sua leggendaria carriera con una vittoria; ma il destino aveva in serbo una sorpresa, degna conclusione del romanzo di Vandalo.

Ai proprietari giunse l’offerta del figlio del marchese Costabili, Alfonso, intenzionato ad assicurare alla stella dell’Equireno il meritato riposo su quegli stessi prati che l’avevano visto ruzzare puledro: per 2000 lire il cavallo fu suo. Nei sedici anni in cui aveva calcato le piste Vandalo aveva vinto premi per 450.000 lire, cui andavano aggiunti gli ingaggi offerti dagli organizzatori per averlo al via nelle corse allestite appositamente per lui.

La pensione del campionissimo durò un paio d’anni, nel box tappezzato di targhe che celebravano le sue vittorie più prestigiose, attaccato al biroccino per far contenti i bambini del marchese e al calesse allorché lo stesso Costabili si recava a Ferrara alle corse. Ma dovendo fare attenzione, a sentire Natucci: perché all’udire il suono della campana che chiamava i concorrenti in partenza il cavallo nato per vincere diventava matto e ritornava la furia di un tempo, lanciandosi verso l’amata pista.

Vandalo si spense il 26 maggio 1888.

M Natucci, Veloce come Vandalo. Il romanzo del leggendario trottatore nato per vincere, Nomos.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’epopea di Vandalo, leggenda del trottoultima modifica: 2023-08-01T21:28:40+02:00da tradersimo
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