Il giallo di Monteforte

Il commendator Ludovico Franzoni era il sindaco di Tavola. Proprietario terriero, la sua famiglia era da sempre la più ricca del villaggio di Monteforte: generazioni di contadini avevano lavorato nei suoi possedimenti. La sua giovinezza era coincisa con il Ventennio fascista; giunto all’età della chiamata alle armi, pur di evitarla non aveva esitato a spararsi a una mano, venendo così riformato.

Dopo la guerra aveva aderito alla Democrazia Cristiana, divenendo sindaco e facendosi benvolere dalla popolazione. Aveva migliorato la viabilità comunale e costruito fontane per soddisfare le necessità domestiche e abbeverare le bestie; le sue segnalazioni erano inoltre imprescindibili per essere assunti nello Stato e in particolare nelle Forze armate. Ostentatamente religioso, sacrestano dell’oratorio di Monteforte, il giorno della festa patronale la sua signorile abitazione – la sola in paese a disporre del bagno – ospitava a pranzo i tre sacerdoti officianti; al pomeriggio nel prato che si apriva nel suo castagneto si teneva il vespro. Sempre elegante e distinto accanto alla moglie Martina alla messa domenicale alla Pieve, essendo l’unico a possedere l’automobile aveva l’abitudine, il giorno delle votazioni, di accompagnare al seggio i paesani più amici: e pareva quasi che da un’elezione all’altra si dessero l’appuntamento.

Se Franzoni era l’uomo più potente del paese, il più temuto era sicuramente Argante Barberi, di qualche anno più anziano di Ludovico e con il quale si davano del tu. Alto, magro, vigoroso, irascibile, cacciatore provetto, bestemmiatore incallito, tremendo in tutto e per tutto, Argante commerciava in legna e carbone, che andava a fare su all’Alpe servendosi dei muli per poi trasportarli col carro nei vari centri del fondovalle. Dopo il terremoto del 1920 che in paese aveva distrutto molte abitazioni compresa quella della sua famiglia, grazie ai contributi statali si era costruito una grande casa lungo la strada carrabile, fornita di terreno, cantine e stalle. La volta che le sorelle erano venute a reclamare la propria parte di eredità, le aveva cacciate minacciandole con lo schioppo.

Durante la guerra lo scaltro carbonaio le aveva prese e le aveva date: e di certo il destino non gli aveva risparmiato nulla. Tutto era cominciato allorché, una volta assestatasi tra quelle montagne la Linea Gotica, i tedeschi avevano individuato nella sua abitazione la sede in cui collocare la Einheit, l’“unità” deputata all’assistenza delle truppe in marcia per il fronte. Al comando di un sergente germanico nel presidio si era così insediata una truppa composta di “ausiliari” di origine sovietica: disertori e prigionieri della campagna di Russia che al campo di concentramento avevano preferito il vestire la divisa degli invasori.

Alla famiglia del padrone di casa erano state lasciate due sole stanze: camera e cucina. Ad Argante inoltre i rapaci occupanti avevano requisito tutto l’occorrente per il suo lavoro: cavalli, muli, finimenti, barrocci, tombarelli… E non solo la scuderia era stata spogliata, ma anche la cantina: a cominciare dalle botti di vino, che agli alcolizzati russi e ucraini stavano particolarmente a cuore. Spesso del resto l’ebbrezza li portava a compiere in paese atti di prepotenza pur di procurarsi, in luogo dell’agognata vodka, la grappa, unico liquore prodotto dai locali vigneti.

Ritrovatosi espropriato di tutti i suoi averi, l’astuto legnaiolo aveva tuttavia saputo rendere ai suoi angariatori pan per focaccia: anche giocando d’azzardo. Alla vigilia della fiera di Graziola, nottetempo egli aveva sottratto dalla selleria alcuni dei finimenti requisitigli, sui quali era stato impresso il marchio della Wehrmacht. Per il rischioso trasporto si era rivolto al bottegaio del paese – in procinto di recarsi anch’egli alla fiera – dicendogli che lo avrebbe raggiunto più tardi per via di certe incombenze da sbrigare in mattinata. Ignaro l’uomo si mise in viaggio, avendo sul carro anche  quella scomoda mercanzia, per quanto racchiusa in un sacco; fortuna volle che non incorresse in controlli lungo la via. Come convenuto, poi, a una certa ora comparve Barberi: per riprendersi la propria roba, guardarsi un po’ attorno e piazzarla al cavallaio più balocco che gli capitò a tiro.

Una volta però il nostro se l’era vista brutta. All’influente segretario del Fascio di Menta i tedeschi avevano conferito l’autorità su tutta la zona, ingiungendogli di sequestrare la ricetrasmittente partigiana che avevano scoperto tenere i contatti con gli Alleati da Castiglione – villaggio situato a breve distanza da Monteforte – e di arrestare i banditen che la custodivano entro il mattino successivo. Ma il fatto che la moglie del marconista incriminato fosse originaria di Menta fece passare la solidarietà paesana avanti a tutto, inducendo l’esponente repubblichino a tradire la fiducia riposta in lui dai camerati germanici incaricando proprio l’amico Argante di avvertire i clandestini in modo da farli fuggire per tempo: missione dal carbonaio prontamente eseguita.

Senonché qualche tempo dopo i partigiani comunisti imboscati su per la montagna – che poi altro non erano che i giovani della vallata renitenti alla leva di Salò – incattiviti sia dal fatto che gli Alleati avevano tagliato loro i rifornimenti destinandoli soltanto a quelle formazioni simpatizzanti per le potenze occidentali, sia dalla prospettiva di dover passare l’inverno all’addiaccio dato il protrarsi della guerra, presero a depredare e a uccidere tutti i fascisti più benestanti: a cominciare dal segretario di Menta, e nonostante egli con la sua coraggiosa iniziativa avesse consentito la salvezza dei loro compagni di Castiglione. Nel mirino del capo dei ribelli (lo spietato Lucifero, già capo dei giovani fascisti di Tavola) finì così lo stesso Barberi, in quanto messaggero del nemico e perciò considerato suo complice.

Portato alla capanna che ospitava il comando partigiano per essere sottoposto alla sua terribile inquisizione, il malcapitato non fu fucilato seduta stante solo perché la corte giudicante non raggiunse l’unanimità: il che imponeva di ricorrere al criterio democratico del pronunciamento dell’intera brigata. A finire in minoranza fu a quel punto il sanguinario capo bolscevico, dal momento che il nutrito gruppo dei montefortini – nel quale non mancavano parenti e garzoni del legnaiolo – si schierò compattamente a favore del compaesano, decretandone così la salvezza.

In cambio della vita l’irriducibile Lucifero pretese allora di imporre all’imputato il pagamento di una salata penale, obbligandolo una volta a casa a caricare sui muli damigiane di vino, derrate di vario genere e tutto quanto era riuscito in qualche modo a sottrarre alla razzia germanica per consegnarlo agli stessi partigiani. Peraltro le conseguenze del grande spavento provato continuarono ad angustiare Argante anche una volta tornato a casa, costringendolo per diversi giorni a non allontanarsi troppo dalla latrina.

Egli avrebbe avuto tuttavia modo di combinarne un’altra. La tragedia della guerra aveva colpito duramente anche lo sport, interrompendo ogni gara e manifestazione agonistica, al punto che nel periodo dell’occupazione tedesca non si era disputato neppure il campionato di calcio. Anche l’ippica si era fermata: e senza i proventi delle corse, per gli operatori del settore era dura tirare avanti. In quella critica situazione, un appassionato ufficiale della Wehrmacht aveva avuto buon gioco nell’acquistare per poche lire un cavallo che aveva furoreggiato sulle piste di trotto: Fior di Levante.

Destino volle che, approssimandosi la ritirata germanica, il militare lo affidasse proprio ad Argante, dicendogli che sarebbe venuto a riprenderselo a guerra conclusa e anticipandogli le spese del mantenimento. Subito il commerciante prese a impiegare il possente trottatore per le consegne che aveva ricominciato a fare; ma essendo l’animale intero, e abituato a tutte le attenzioni riservate ai cavalli di razza, si rivelò troppo ardente per quell’impiego, così materiale e grossolano. Per ammansirlo allora Barberi non si fece scrupoli: e così la povera bestia si ritrovò senza attributi. Quando il proprietario tornò per portarselo in Germania, trovando il proprio campione menomato poco ci mancò che facesse lo stesso servizio al suo sciagurato custode.

Il tempo passò stendendo un velo anche sui lutti e le tragedie che a quella martoriata terra avevano inferto la guerra e l’occupazione tedesca. Il sindaco aveva due figlie femmine, già maritate, e un maschio, Giancarlo, che si era fidanzato con la figliola del bottegaio del paese, frustrando le ambizioni paterne di un matrimonio più prestigioso. Il giovane si era iscritto all’università, alla facoltà di medicina: del resto avere un figlio dottore era l’aspirazione di ogni famiglia benestante. Giancarlo però non era portato per quel tipo di studi, intrapresi soltanto per compiacere il dispotico genitore; dalla vocazione umanistica e privo di particolari ambizioni, ai manuali medici e alla frequenza dei corsi accademici preferiva le partite a carte alla bottega, ove la fidanzata non mancava di rifornirlo di sigarette. E così – nonostante avesse anche provato a cambiare ateneo – gli anni di fuoricorso si accumulavano, mentre sul libretto gli esami superati continuavano a latitare.

Quando aveva passato da un pezzo la trentina, una sera Giancarlo tornò dall’università soddisfatto, annunciando di essere finalmente riuscito a superare l’ostico esame di Clinica medica. Non fidandosi, il padre volle vedere il libretto, trovandovi conferma ai propri dubbi: esso rivelò infatti tutti i trucchi imbastiti dal fallimentare studente per gabbare i genitori e continuare la propria vita di nullafacente. Dall’accesa discussione che ne seguì, Franzoni comprese che quel farabutto non si sarebbe laureato mai: al colmo dell’ira si scagliò contro il figlio, afferrandolo per il collo. Nella colluttazione il giovane cadde all’indietro, col padre addosso, battendo violentemente il capo sul bel pavimento in cotto e restandoci secco. A nulla valsero tutti i tentativi dei genitori di rianimarlo: Giancarlo era morto.

Nella disperazione della moglie, il sindaco ritrovò presto la lucidità: qui bisognava inventarsi qualcosa per evitare lo scandalo. Dopo avere a lungo riflettuto, egli riempì d’acqua la vasca da bagno, immergendovi il denudato cadavere del figlio. Chiusa a chiave la porta dall’interno, Ludovico uscì dalla finestra, riaccostandone le ante; per poi rientrare in casa, e attendere che passasse la notte. Di primo mattino si recò da Argante, allorché questi era intento ad accudire le bestie, mostrandosi alquanto preoccupato e dicendogli: “Da ieri sera Giancarlo è chiuso nel bagno; quando è tornato dall’università noi eravamo già a letto. Lo abbiamo chiamato ma non ci risponde: puoi venire tu a vedere cosa gli è successo? Noi siamo troppo spaventati…”. Pur sentendo puzza di bruciato, Barberi non mancò di seguirlo fino a casa, dove Martina recitò la sua parte di anima in pena e dove fece lui quel che avrebbe dovuto fare l’altro: forzare la porta del bagno.

Invano Argante si affannò sul corpo del giovane: cosa che non fecero i due coniugi, i quali si abbandonarono immediatamente al più straziante dei dolori. Il che che non sfuggì al carbonaio, al pari del fatto che nella stanza la luce era spenta; fece anche caso che accanto alla vasca non c’erano ciabatte. I suoi sospetti si accrebbero, assieme alla sensazione che lì fosse tutto artefatto: evidentemente il povero giovane era morto da un’altra parte, e in una maniera diversa da quella che si voleva far credere. Non tardò allora a immaginare il motivo per cui Franzoni aveva voluto coinvolgerlo: farlo testimone del fatto che la porta del bagno non poteva essere stata serrata che dallo stesso Giancarlo, manomettendo al contempo la scena con il farvi intervenire un estraneo allo scopo di depotenziare eventuali indagini giudiziarie.

Le quali tuttavia non vi furono: tutto andò anzi come auspicato dal sindaco. A espletare gli accertamenti legali fu lo stesso medico condotto di Tavola, il quale attribuì il decesso a un malore. Da parte sua il maresciallo dei carabinieri non ebbe nulla da obiettare: cosicché sul cadavere non fu eseguita alcuna autopsia.

Il paese pianse quella morte così repentina; per quanto non tutti accettassero la versione ufficiale, ipotizzando piuttosto una morte violenta, peraltro suggerita da diverse circostanze. Qualcuno, quella sera, aveva udito provenire dalla casa di Franzoni delle urla: essendo il fatto che Giancarlo non riuscisse a venire a capo dei propri studi risaputo, vi fu chi collegò le due cose; e anche il particolare che il tragico evento si fosse consumato proprio al suo ritorno dall’università rafforzava i sospetti. Quantomai strana appariva poi quella richiesta di soccorso a Barberi: la quale faceva il paio con l’“incidente” che in gioventù aveva menomato Ludovico, che nessuno aveva dimenticato e che faceva risaltare tutta la sua spregiudicatezza. Ma si trattò di illazioni destinate a non superare le mura domestiche di ciascuno, buone per riempire le veglie al camino e alle quali ogni volta non si mancava di aggiungere un nuovo particolare di fantasia: cosicché alle elezioni successive il signorotto di Monteforte non ebbe difficoltà a farsi rieleggere sindaco.

Il solo Argante, alla luce di ciò che aveva visto e intuito, ebbe la certezza di quanto fosse realmente accaduto in quella casa. Ma per gli anni che gli restarono da vivere si guardò bene dal rivelare il suo segreto, portandolo con sé nella tomba.

Il giallo di Monteforteultima modifica: 2023-02-28T19:41:38+01:00da tradersimo
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