Salvare Pisa dall’Arno

Proteggere Pisa dalle piene dell’Arno ha sempre rappresentato un impegno per chi, a partire dall’età moderna, ha avuto la responsabilità del governo della città. Questo perché, a differenza di quanto auspicato da Dante nella sua celebre invettiva, perché il fiume inondasse Pisa non era necessario che si muovessero Capraia e Gorgona sino a ostruirne la foce, ma erano sufficienti piogge particolarmente intense e prolungate.

Osservandone il corso dal Monte Serra si ha l’impressione che l’Arno si sia scavato nella pianura a monte di Pisa un percorso dolce, sinuoso, in modo da avvicinarsi al termine della sua corsa avendo perduto l’impeto accumulato nell’iniziale tratto appenninico. In realtà le cose non stanno così: per giungere a quell’apparente equilibrio tra acqua e terra si è dovuto via via spostare l’alveo, realizzare opere idrauliche, bonificare i paduli causati dalle piene e a loro volta fonte di problemi, costruire  canali scolmatori e bacini di ritenzione.

A dire il vero il primo tentativo di modifica del corso del fiume non fu fatto in una prospettiva salvifica bensì ostile. Nel 1503, dopo nove anni di infruttuosi assalti alla città che nel 1494 si era ribellata alla dominazione fiorentina, gli strateghi della Repubblica gigliata pensarono di deviare le acque dell’Arno in modo da inibire a Pisa il transito fluviale dei rifornimenti, riprendendo e riadattando l’idea del corsaro genovese Bardella che 15 anni prima aveva sbarrato ai pisani la via del fiume mediante uno schieramento di galere. Nonostante il consulente incaricato di dar vita al complesso progetto fosse nientemeno che Leonardo da Vinci, e i suoi sponsor personaggi del calibro di Soderini e Machiavelli, l’impresa fallì: come avrebbe chiosato lo storico Muratori, “il fiume si rise di chi gli volea dar legge”, rifiutandosi di adeguarsi ai canali scavati per orientarlo più a sud, in modo da condurlo al mare attraverso Coltano e Calambrone.

La prospettiva ovviamente cambiò dopo che Firenze ebbe definitivamente sottomesso la storica nemica: adesso si trattava di tutelare Pisa sia dalle piene dell’Arno che dalle paludi circostanti, fonti di gravi epidemie a cominciare da quelle causate dalla malaria. Cosimo I Medici si diede parecchio da fare in tal senso, preoccupandosi anzitutto di dare uno sbocco alle acque stagnanti nella pianura posta a sud della città: nacque così, nel 1554, il Fosso Reale, finalizzato a drenarle regimando il corso del larigiano Zannone fino a Stagno. Il passo successivo fu il tentativo di bonifica della vasta distesa acquitrinosa situata a est della città: donde la costruzione, nel 1558, a Putignano, di una cateratta a dodici luci, il Fosso delle Bocchette, “allo scopo di derivare le acque dell’Arno in piena per colmare con le torbide trasportate i profondi e vastissimi paduli di Coltano, Padule Maggiore e Stagno”. L’imponente costruzione in mattoni domina tuttora quel tratto della Tosco-Romagnola; favorendo il suo meccanismo il passaggio, assieme all’acqua, anche della rena trasportata dal fiume limaccioso, nella zona adiacente il Padule Maggiore si venne a formare una colmata il cui nome, “Le Rene”, caratterizza ancor oggi quella parte della tenuta di Coltano.

Ben presto insorsero tuttavia dei problemi che indussero il granduca ad abbandonare il progetto di bonifica “per colmata”. Il primo fu rappresentato dal notevole peggioramento della situazione igienica della città causato dalla prossimità del fosso; il secondo dai danni arrecati alla campagna circostante dalle sue acque, con conseguenti proteste dei proprietari. Donde la necessità di dismettere questo primo impianto per costruirne un altro più a monte, in corrispondenza di una delle curve dell’Arno, in modo da convogliarne le piene verso Calambrone: il Trabocco delle Fornacette, con cui nel 1568 si diede vita al canale Arnaccio, il cui suffisso peggiorativo intende appunto significare la potenziale portata rovinosa di quelle acque eccedenti sottratte al fiume. Interferendo lo scolmatore con la Via Pisana (l’attuale Tosco-Romagnola), si dové costruire un lungo ponte di 31 arcate a consentire la convivenza tra sistema idraulico e viabilità. Attualmente sopra l’impianto si trova una rotatoria stradale che ne occulta la visione: ma inoltrandosi lungo via del Trabocco è possibile riconoscere le vestigia del ponte e intuire la conformazione dell’intera struttura.

Ciononostante le alluvioni continuarono a imperversare, costringendo i succeduti Lorena a inventarsi nuove soluzioni. L’attenzione dei loro tecnici si concentrò allora sul padule di Sesto: ovvero il lago di Bientina, la cui imponente massa d’acqua gravitava sul letto dell’Arno senza avere mai ricevuto alcuna regimazione e quindi affidando completamente le sorti del fiume alla volontà di Madre Natura. Si trattava in realtà di una questione antichissima, lasciata in eredità dall’Auser: il progenitore del Serchio che seguiva un corso ben diverso dall’attuale, articolandosi in due rami che si biforcavano all’altezza di San Piero a Vico scorrendo l’uno a est e l’altro a ovest di Lucca.

A segnare quest’ultimo percorso restano i latineggianti toponimi delle località attraversate, evidenziandone la natura palustre e alluvionale: Lammari da “lama”, palude; Lunata = ansa fluviale; Antraccoli da “inter acquas”. Dopodiché l’Auser si immetteva nel padule di Sesto, dal quale defluiva come emissario per sboccare infine in Arno tra Vicopisano e Calcinaia: della spettacolare confluenza tra i due fiumi ci parla il geografo greco Strabone, facendoci intuire come già duemila anni fa essa complicasse la vita ai pisani. “Nell’unirsi Arno e Auser si oppongono reciprocamente una resistenza tale da sollevarsi l’uno contro l’altro, al punto che quanti si trovano sulla riva opposta scompaiono alla vista. Di conseguenza la risalita dal mare risulta difficile”.

L’impegno lorenese alla sistemazione idraulica del territorio pisano ebbe inizio nel 1757, allorché Francesco III intraprese la bonifica del lago di Bientina commissionando al grande ingegnere Leonardo Ximenes un imponente progetto che prevedeva la creazione del Canale Imperiale (ancor oggi denominato “emissario” a connotarne la primitiva funzione) e la regolazione del suo sbocco in Arno mediante cinque cateratte posizionate a San Giovanni alla Vena, le quali costituivano il culmine di un complesso sistema di edifici, ponti, chiuse, alvei. Ma neppure un’opera così capillare riuscì a risolvere il problema, facendo amaramente capire come l’unica soluzione possibile appartenesse alla sfera del surreale: prosciugare il lago di Bientina ma senza che a farsi carico delle acque di scolo fosse il fiume.

Alla metà dell’Ottocento Leopoldo II affidò al genio di Alessandro Manetti il gravoso incarico: l’architetto fiorentino non deluse il suo committente, dando vita a quello che può essere considerato il capolavoro dell’ingegneria idraulica dell’epoca. Il letto dell’emissario fu spostato sino a portarlo nel punto più idoneo a fargli sottopassare l’Arno mediante una “botte”: un condotto sotterraneo lungo 255 metri. Destino volle che l’ardita struttura venisse terminata proprio nel 1859, ultimo anno del dominio lorenese in Toscana: quasi un lascito ideale all’amata Pisa da parte della dinastia più illuminata e liberale che abbia avuto l’Italia preunitaria.

Interessanti le conseguenze di questi interventi idraulici sulla toponomastica. L’opera intrapresa da Francesco III fu completata con la realizzazione nella tenuta di Coltano dell’idrovora dell’Arnaccio, finalizzata alla creazione di un sistema di fossi che garantisse il miglior deflusso delle acque stagnanti verso il mare. Il primitivo canale fu sdoppiato, con l’apertura alla sua destra della Fossa Chiara, alla sinistra del Rio del Pozzale; il suo alveo interrato, per lasciare il posto alla Strada delle Colmate: ossia l’attuale “Arnaccio”. Quando poi il Canale Imperiale intervenne a rilevare il percorso del Rio del Pozzale, la strada parallela all’Arnaccio che ne segnava il primo tratto mantenne comunque il nome del precedente fosso. Mentre l’ingegnosa galleria del Manetti finì con il denominare la località che la ospita: “La Botte”.

Per quasi un secolo lo Stato unitario non fece niente per tutelare Pisa dall’Arno: finché l’inondazione del 1949 non riportò drammaticamente d’attualità la questione. Dovettero tuttavia trascorrere altri cinque anni perché venisse decisa la costruzione di un canale scolmatore che alleggerisse la portata del fiume in occasione delle piene, facendone defluire le acque in direzione di Stagno. Il punto più adatto a insediare le cateratte fu individuato a Pontedera, all’apice del “curvone” che porta l’Arno a lambire la cittadina: una diga imponente, che rifletteva gli ambiziosi dettami dell’epoca e che teoricamente avrebbe dovuto risolvere il problema in maniera definitiva mediante lo sdoppiamento del fiume. Recependo prima di sfociare nel Mar Ligure Fosso Reale, Canale Imperiale e Canale dei Navicelli, lo Scolmatore veniva a costituire il naturale compendio delle grandi opere idrauliche dell’età granducale.

Ma nonostante le ingenti somme stanziate i lavori andarono estremamente a rilento, tanto da non risparmiare neppure Pisa dall’alluvione del 1966. Inaugurata sei anni più tardi, l’opera fu portata a definitivo compimento soltanto nel 1987, perfezionata da un condotto che, onde evitare il reflusso delle acque dell’Arno verso il Padule di Fucecchio attraverso l’Usciana, sottopassa il letto del fiume consentendo il deflusso delle acque impaludate direttamente nello Scolmatore.

A ulteriore tutela del Valdarno Inferiore, nel nuovo millennio si è infine ricompreso nel sistema di controllo delle piene del fiume il lago di Roffia, formatosi secoli addietro proprio a seguito delle esondazioni dell’Arno. Un ingente investimento pubblico necessario a finanziare lavori protrattisi per un decennio ha consentito nel 2019 la promozione del bacino a “cassa di espansione” delle acque fluviali a contrasto delle alluvioni.

Salvare Pisa dall’Arnoultima modifica: 2023-01-10T20:42:29+01:00da tradersimo
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