Boccadarno di Giuseppe Meucci

Alla sua Pisa Giuseppe Meucci ha dedicato tanti libri, con particolare attenzione agli innumerevoli e importanti accadimenti succedutisi sulla sua costa nel corso del Novecento: è da tale impegno che nasce Boccadarno. Le storie, i personaggi, le immagini (ETS, 2007). Il saggio ha il pregio di inserire ogni pagina della complessa vicenda di Marina di Pisa all’interno del quadro storico nazionale e internazionale che la generò, con riferimenti puntuali ed esaustivi e allargando l’orizzonte all’intero litorale meridionale pisano allorché alla primogenita si affiancarono Tirrenia e Calambrone. Al tempo stesso esso si presenta come un album della nostalgia, denso com’è di immagini tese a restituirci “le storie e gli episodi memorabili che si sono intrecciati in questo magico teatro sospeso fra cielo e mare”, nonché “le speranze, le emozioni, il clima di un’epoca”. Il tono della narrazione è prevalentemente lirico, con un’appendice in cui vengono riportati i principali omaggi letterari tributati nel tempo a Marina-Boccadarno.

Ricordato come l’attuale posizione della foce dell’Arno sia quella voluta all’inizio del Seicento da Ferdinando de’ Medici (prima era più a sud), per spiegare le origini di Marina Meucci si rifà al periodo lorenese, e in particolare al regno di Leopoldo II la cui iniziativa determinò una serie di modifiche dell’assetto territoriale pisano: la rettifica dell’ultimo tratto del corso del fiume, le imponenti bonifiche, la promozione delle pinete a caratterizzare le tenute di San Rossore, Migliarino, Tombolo, Coltano. Dopo la realizzazione del viale del Gombo e la concessione granducale ai pisani di farne uso per raggiungere la spiaggia, nel 1838 un personaggio destinato a rivelarsi decisivo per i primordi di Marina, Gaetano Ceccherini, ottenne l’autorizzazione di aprire a San Rossore uno stabilimento balneare, deputato ad accogliere tanto coloro che necessitavano dei benefici della talassoterapia quanto i ricchi turisti impegnati nel “grand tour”, il viaggio che nell’Ottocento appassionò l’alta società europea avendo quale meta privilegiata la nostra penisola.

L’Unità d’Italia venne non solo a interrompere l’idillio tra Pisa e i Lorena, ma anche a inibire ai pisani la frequentazione di San Rossore: non intendendo condividerne la fruizione con la plebe nel 1866 Vittorio Emanuele II chiuse i cancelli della tenuta, risolvendo al contempo la pendenza col Ceccherini con l’assegnargli un terreno sull’altra sponda del fiume, a Boccadarno. È da tale episodio che ha inizio l’epopea di Marina, ove all’epoca sorgevano soltanto due edifici legati alla precedente dominazione: un fortino eretto dai Lorena quale avamposto a difesa della costa e la sede dei doganieri granducali, nota come Dogana Vecchia.

Grazie al lauto indennizzo ricevuto assieme allo sfratto, già tre anni più tardi il Ceccherini era in grado di aprire alla Rotonda (l’attuale piazza delle Baleari) il nuovo stabilimento: il quale, inserendosi alla perfezione in un contesto naturale già di per sé fascinoso, e offrendo ai villeggianti anche un caffè-ristorante di livello, conobbe una rapida affermazione. Tanto che di lì a poco sorse un concorrente: i bagni Apolloni.

Perché quel “luogo incantato sospeso fra il fiume e il mare” non rimanesse privilegio di quanti potevano recarvisi in carrozza o con il barroccio – e forse anche a farsi perdonare lo sgarbo di averli esclusi da San Rossore – il re mise a disposizione dei pisani un battello a vapore che d’estate faceva la spola fra la città e Boccadarno: il celebre “baforino” cantato dal Fucini, dal modico prezzo del biglietto. L’impetuoso sviluppo dell’attività balneare indusse nel 1872 il Comune di Pisa a dare un ordine alla realtà che stava sorgendo allo sbocco del fiume, fissando dei criteri urbanistici ed edilizi che ancor oggi contraddistinguono la struttura di Marina: “l’attuale via Maiorca che collega la foce dell’Arno con il lungomare, la successione regolare delle tre piazze – la prima e la terza semicircolari, quella centrale rettangolare – le strade perpendicolari e parallele alla costa che si incrociano ad angolo retto, le ville costruite a filo strada, con il giardino sul retro”.

Ma intento dell’Amministrazione era anche quello di garantire alla nuova località un’adeguata espansione edilizia: donde la statuizione di 140 lotti edificabili, con assegnazione gratuita a chi avesse iniziato a costruirvi entro un anno. “Nascono così le prime ville di Marina e si delinea la fisionomia del “paese di sabbia e di ragia” che si connota principalmente come la residenza estiva di un ceto sociale elevato non soltanto pisano, di cui Gabriele D’Annunzio è il rappresentante più illustre, quello che detta la moda”. Il Vate giunse la prima volta a Marina nel 1898, assieme alla Duse, alloggiando alla Dogana Vecchia; negli anni successivi vi sarebbe tornato più volte, cambiando sia le residenze che le compagne.

Al contempo il Comune non tralasciava di venire incontro alle esigenze delle classi meno abbienti, affiancando nel 1892 al battello il tram a vapore: 13 chilometri di rotaie per collegare la città al mare attraverso le fermate di S. Giovanni al Gatano, S. Piero a Grado, ponte delle Cascine, Bufalotti, Arnovecchio, Fortino, Rotonda, con arrivo in piazza Gorgona. Il popolare “trammino” compiva quattro corse al giorno, impiegando 42 minuti a completare il percorso.

Quando si era nel pieno della Belle Époque e Marina di Pisa deteneva ormai lo scettro della località balneare più ambita dal bel mondo, il 1903 fece registrare il crac dei Ceccherini, i quali dopo avere fatto fortuna acquisendo a Boccadarno una proprietà dopo l’altra non si rivelarono altrettanto abili nella loro gestione, al punto di ritrovarsi sommersi dai debiti: per far fronte ai quali furono costretti a cedere il grosso del patrimonio, mantenendo soltanto il bagno e il podere circostante la Dogana Vecchia. A beneficiare del tracollo dei pionieri di Marina furono in diversi: a cominciare dalla contessa Flora Douglas Fenzi, “una zitella metà fiorentina e metà scozzese che nei terreni acquistati a prezzo di svendita si costruì una villetta”.

Ma il fallimento Ceccherini ci appare oggi anche come un presagio, il segno con cui un destino oltremodo beffardo si apprestava a chiudere il primo capitolo della storia di Marina nella maniera più paradossale: ossia portandole via la marina stessa. Nel ricostruire la dolorosa vicenda Meucci utilizza una felice metafora, suggeritagli dalla cronaca coeva: “Vista oggi, l’immagine di Marina in quegli anni d’inizio secolo somiglia a quella del Titanic che corre incontro al disastro con tutte le luci accese e i passeggeri che festeggiano mentre l’orchestra suona”.

Stando alle delibere con cui il Comune decretava stanziamenti tesi a tamponare l’erosione costiera, il fenomeno aveva assunto dimensioni preoccupanti già nel 1899: nessuno avrebbe saputo darne una spiegazione scientifica; né gli interventi-tampone adottati avrebbero sortito alcun esito. Se alla fine del secolo la profondità dell’arenile rispetto alla strada litoranea misurava un centinaio di metri, nel 1913 la situazione appariva talmente compromessa da suggerire ai villeggianti più interessati (in primis i proprietari delle ville) la progettazione di un “grandioso stabilimento balneario in cemento armato” che supplisse alla scomparsa della spiaggia: ma nonostante la costituzione di un’apposita società, l’iniziativa finì nel nulla.

Nel frattempo gli schiaffi delle mareggiate si susseguivano impietosamente: del gennaio 1910 è la terribile libecciata che spazzò via gli chalet del tratto di lungomare compreso tra piazza delle Baleari e piazza Gorgona. L’ulteriore ritrarsi del litorale fece il resto, inducendo i frequentatori più illustri ad andarsene: a dare inizio alla diaspora fu lo stesso D’Annunzio, il quale abbandonò al suo destino Boccadarno per tornare in quella Versilia che già lo aveva visto anni prima ospite della Versiliana; migrarono anche la contessa Fenzi e le altre star delle estati marinesi. “Non torneranno più, sostituiti progressivamente da un ceto sociale diverso, sostanzialmente formato da esponenti della piccola e media borghesia pisana, che si accontenta di un mare senza più spiaggia”. Conseguentemente, anche gli imprenditori del turismo balneare si spostarono più a sud, ove l’arenile era rimasto intatto, privilegiando Arnino e Mezza Piaggia (la futura Tirrenia): donde il trasferimento dei bagni Lido, Dalinda, Roma, Mirasole.

Un’“inguaribile nostalgia” prende l’autore nel rievocare la “mitica stagione d’oro” di Boccadarno. Quante cose il mare si è portato via assieme alla spiaggia, affidandone il ricordo prima alla memoria delle persone che avevano vissuto l’epopea di Marina, quindi alle vecchie foto e cartoline: “le grandi ville stile Liberty, i ricordi della frequentazione del bel mondo, un disegno urbanistico luminoso e razionale che consentiva la visuale della pineta dal lungomare e viceversa”. E poi i locali storici: “il famoso Boccadoro, l’Eden, Saffo, i bagni Minerva, la Stella Polare, il ristorante Colombo…”.

La ricca documentazione fotografica ci illustra i simboli della Belle Époque marinese: gli eleganti chalet, in primis il Castelli e lo Stella Polare; il chiosco della “Liberia internazionale”, autentico gioiello liberty che impreziosiva piazza delle Baleari; l’albergo Ascani, con i camerieri in frack e gli abat-jour sui tavoli; le ville, a cominciare dalla dannunziana Peratoner; e poi il filantropico Ospizio Marino, l’Istituto di Padre Agostino per le ragazze senza famiglia, i pini e le tamerici affacciati sul lungomare. Immagini che ci restituiscono le mode e i capricci dei vacanzieri di allora: la vita di spiaggia con i suoi riti, le vie dai caratteristici negozi; fino agli impeccabili dandy impegnati in una teatrale passeggiata sulla battigia.

Ma a spedire nell’album dei ricordi quel “paesaggio incantato” avrebbe concorso pure la riconversione di Boccadarno in “città operaia”, avvenuta con stravolgimenti urbanistici e paesaggistici che l’autore non esita a censurare. “Soprattutto nel secondo dopoguerra la nuova realtà di Marina ha favorito la nascita di un’edilizia di qualità modesta, che non ha nulla a che vedere con le belle ville d’inizio secolo. Poi negli anni Settanta e Ottanta alcuni condomini, costruiti alle spalle della litoranea senza rispettare le prospettive esistenti, hanno addirittura interrotto in alcuni tratti il mirabile collegamento visivo fra pineta e mare che era una delle peculiarità di Marina e del suo ordinato disegno urbanistico. Vere e proprie insensatezze che, insieme all’impietoso avanzare del mare, hanno mutato per sempre la fisionomia originaria del “paese di sabbia e di ragia””.

Il secondo capitolo della vicenda marinese ebbe inizio nel 1917, allorché, sull’onda degli enormi progressi compiuti nel nuovo secolo dall’aviazione ed essendo l’Italia impegnata nel primo conflitto mondiale, un’azienda nautica di Livorno, la Società Industrie Marittime Gallinari, individuò in Boccadarno il luogo ideale in cui avviare una fabbrica dedita alla produzione dell’astro nascente dell’aeronautica: l’idrovolante. Rilevati dagli eredi Ceccherini il podere della Dogana, dalla Fenzi quello del Fortino l’impresa labronica vi aprì un cantiere il cui ambizioso progetto prevedeva l’assunzione di 250 operai e la produzione di un apparecchio al giorno. Quasi a celebrare la tesi nazionalista della continuità tra guerre d’indipendenza e quella in corso, l’ingresso del fabbricato degli uffici fu posizionato proprio dinanzi all’obelisco che commemora lo sbarco di Garibaldi dopo il ferimento in Aspromonte.

Senonché la fine della guerra da un lato, l’obsolescenza del modello di velivolo prodotto dall’altro parvero dover porre rapidamente fine anche a questa seconda esperienza marinese. In questo caso tuttavia il destino si mostrò più provvido nei confronti di Boccadarno, facendo sì che la crisi postbellica conosciuta dalla Gallinari si incrociasse con quella ancor più devastante vissuta dalla tedesca Dornier. La clausola con cui la Pace di Versailles aveva imposto alla Germania il blocco della produzione aeronautica aveva infatti costretto l’ingegner Claude Dornier a dismettere il cantiere sul lago di Costanza dal quale erano usciti prestigiosi dirigibili, aeroplani e idrovolanti. Scartate altre soluzioni estere alla fine la scelta dell’imprenditore tedesco cadde proprio sugli impianti della Gallinari.

Con una punta di malizia, Meucci ipotizza come in tale preferenza abbiano potuto avere il loro peso certi maneggi legati al cronico malcostume pubblico italiano; ciò anche in considerazione del fatto che la rinnovata produzione marinese avrebbe riguardato aerei espressamente vietati dalle condizioni di pace. “Probabilmente qualcuno fece intravedere a Dornier qualche vantaggio concreto e aggiuntivo rispetto a quelli ufficialmente noti. Anche allora certe cose andavano in quel verso e il governo italiano probabilmente non fu tenuto del tutto all’oscuro dell’iniziativa, visto che si trattava di ospitare sul territorio nazionale l’attività industriale di un paese sconfitto e punito dal trattato di Versailles”.

In ogni caso la Gallinari non passò il testimone immediatamente: la trattativa si rivelò anzi lunga e complessa, contemplando una terza parte in causa rappresentata dalla cordata costituita dagli imprenditori genovesi Odero, Piaggio e Marescalchi. Con il capitale versato da questi ultimi fu costituita alla fine del ‘21 la Società Anonima Italiana Costruzioni Meccaniche, nella quale Dornier riversava il patrimonio tecnologico accumulato nella precedente esperienza consistente in studi, progetti, brevetti. L’ingegnere trasferì a Boccadarno tutti i suoi uomini di fiducia, dai dirigenti agli impiegati ai piloti collaudatori agli operai: sui 90 che formavano inizialmente la manovalanza 30 erano tedeschi. Primo prodotto della nuova società fu, nell’ottobre ‘22, l’idrovolante Dornier Wal, così detto per la sagoma somigliante a quella di una balena. Già i due anni successivi videro la progressiva italianizzazione del cantiere, a ogni livello: tra i piloti emerse Tullio Crosio, del team dirigenziale entrò a far parte l’ingegner Guido Guidi e degli oltre 230 operai che vi lavoravano soltanto 12 erano tedeschi.

In breve il Dornier Wal conobbe un successo travolgente, al punto di essere protagonista nel ‘25 di una audace spedizione al Polo Nord. A guidarla fu l’esploratore norvegese Roald Amundsen: l’impresa fu realizzata con due apparecchi ai quali lo scafo era stato sostituito con dei pattini al fine di consentirne la mobilità sul mare ghiacciato. Ciascun equipaggio era costituito da quattro uomini: comandante, secondo pilota, motorista, radiotelegrafista.

In quegli anni pionieristici sfidare l’Artico con mezzi aerei significava rischiare la pelle: anche la spedizione pisana non sfuggì alla regola, finendo con il tingersi di leggenda. Al momento dell’atterraggio una delle due “balene” andò a incastrarsi dentro un crepaccio di ghiaccio: agli otto aviatori non restava che ripartire stipandosi tutti nell’altro idrovolante. Ma il pack si rivelò una brutta bestia anche riguardo al decollo, a causa dell’incessante alternarsi di gelo e disgelo che rendeva del tutto inaffidabile la superficie marina: agli aeronauti occorsero ben 19 giorni per spianare gli innumerevoli spunzoni di ghiaccio che increspavano l’improvvisata pista, l’impatto con uno dei quali avrebbe inevitabilmente messo fuori uso pure l’apparecchio superstite.

Anche alla luce delle difficoltà incontrate, il successo dell’impresa, frutto del felice connubio fra tecnologia tedesca e lavoro italiano, destò stupore e ammirazione in tutto il mondo. “Chi l’avrebbe mai detto pochi anni prima – commenta Meucci – che intorno alla dolcissima e profumata foce dell’Arno, fino ad allora fonte di ispirazione e suggestione poetica, sarebbe a un certo punto transitata una parte non secondaria della storia mondiale dell’aviazione”. Rispetto alla struttura originaria il cantiere aveva assunto una fisionomia più moderna, destinata a caratterizzarne l’attività nei decenni a seguire: i vecchi capannoni in legno erano stati sostituiti con strutture in ferro e muratura, con l’aggiunta di un futuristico hangar destinato al montaggio dei motori e alla loro installazione sui velivoli.

Novità riguardarono anche l’assetto societario: a testimonianza di quanta fiducia destasse negli imprenditori l’investire nel settore aereo, l’azienda conobbe sia un robusto aumento di capitale (con conseguenti assunzioni: il numero degli impiegati salì a 36, quello degli operai a 550) che un ulteriore incremento della presenza italiana ai suoi vertici. Del resto sin dal ‘23 Mussolini, con la costituzione del Commissariato per l’Aeronautica, aveva mostrato quanto il suo governo fosse interessato al potenziamento dell’aviazione quale arma strategica del futuro, visti sia i danni che essa era in grado di arrecare a esercito e marina, sia i devastanti effetti provocati dai bombardamenti sulle città: la stessa nomina di Italo Balbo a sottosegretario all’Aeronautica rappresentò un preciso segnale in tal senso.

La completa italianizzazione dell’organico impose la modifica della ragione sociale dell’impresa, ribattezzata come Costruzioni Meccaniche Aeronautiche Società Anonima, ma con l’introduzione nella pronuncia dell’acronimo di una eufonica “i”: “Cimasa”. Con questo marchio il cantiere marinese conseguirà notevoli successi internazionali, sbaragliando la concorrenza sia in campo civile che militare: ne è lo specchio la visita compiuta dal Duce a Marina nel maggio ‘26, profittando della sua presenza a Pisa per la cerimonia della ricollocazione in cattedrale del pergamo di Giovanni Pisano. Il re a quel punto non volle essere da meno, visitando a sua volta l’azienda due mesi più tardi.

Seguirono anni di sfide, di competizioni con l’aviazione tedesca e di concorrenza con l’altro prestigioso marchio nazionale rappresentato dalla Savoia-Marchetti, di nuovi successi ma anche di lutti. Nel ‘28, il celebre episodio del dirigibile Italia schiantatosi sul pack dopo avere sorvolato il Polo Nord coinvolse anche la Cmasa: nell’apprensione mondiale per la sorte dei superstiti della “tenda rossa” si decise di coinvolgere nei soccorsi due idrovolanti, e data l’impresa compiuta tre anni prima proprio sulla banchisa artica la scelta cadde sul Dornier Wal. Rapidamente attrezzati per il compito che li attendeva, da Boccadarno decollarono il Marina I e il Marina II, che una volta giunti in Norvegia furono destinati a incarichi diversi: il primo fu mandato a lanciare viveri e indumenti ai sopravvissuti, l’altro fu impiegato nella ricerca dell’idrovolante inviato dal governo francese in soccorso dell’Italia e a sua volta scomparso in mare.

Al termine della missione i due comandanti scelsero per il rientro rotte diverse: mentre il capitano Ravazzoni si indirizzò verso la Germania, il maggiore Pier Luigi Penzo, ritenendo più sicuro evitare le Alpi, puntò sulla valle del Rodano. Impedendo una forte perturbazione il volo a vista, Penzo fu costretto a scendere di quota in modo da mantenere l’orientamento seguendo il corso del fiume: ma giunto nei pressi di Valence il Marina II impattò nei cavi dell’alta tensione, precipitando. Oltre al comandante persero la vita il tenente Crosio e il radiotelegrafista Antonio Della Gatta; miracolosamente si salvò Amerigo Barachini, il quale al momento dell’incidente si trovava nella navicella dei motori per un controllo. A ricordo dello sfortunato episodio il tratto di lungomare compreso tra piazza delle Baleari e la foce dell’Arno fu intitolato a Tullio Crosio, vero e proprio simbolo dell’epopea della Cmasa.

L’embargo decretato a Versailles nei confronti della Germania sarebbe scaduto nel ‘34: dando per scontato che a quella data la Dornier avrebbe fatto ritorno in patria, la società marinese si mosse con largo anticipo in modo da non rimanere spiazzata al momento in cui sarebbero venuti a mancare i capitali tedeschi. E così sin dal ‘29 si affacciò sullo scenario di Boccadarno l’azienda italiana lanciata in quel momento verso la massima espansione: la Fiat. Proprio nel momento in cui l’economia mondiale andava in crisi a seguito del crollo della Borsa di Wall Street, Odero e Piaggio intesero cautelarsi mediante l’ingresso nel capitale sociale della rampante industria torinese.

Nel frattempo, ultimata l’erosione della spiaggia, il mare pareva voler perseguire un secondo e definitivo obiettivo: distruggere tutto quanto aveva fatto di Marina una località balneare. Le mareggiate si susseguivano in maniera sempre più aggressiva: ormai le onde si riversavano sul lungomare, fino a lambire le case. Sollecitato dal Fascio pisano, il governo intervenne attuando una strategia che sarebbe sopravvissuta sino ai giorni nostri: mentre infatti gli interventi precedenti si erano basati sulla costruzione di dighe perpendicolari alla costa, la necessità di difendere l’abitato impose la collocazione di una massiccia scogliera a ridosso della litoranea, là ove era stata la spiaggia, “ultima trincea di una battaglia disperata contro un nemico subdolo e inesorabile”.

Quali baluardi della Marina più antica restavano la Dogana Vecchia e il Fortino: anche quest’ultimo finì nell’album dei ricordi, ma non per colpa del libeccio. Lo spazio in cui sorgeva l’edificio – divenuto sede di un distaccamento della Guardia di finanza – rappresentava per la Cmasa l’area naturale in cui espandere i propri capannoni: offerto allo Stato un terreno più interno per costruirvi la nuova caserma, nel ‘31 il fortilizio lorenese fu cancellato dalla dinamite.

Quello stesso anno un’altra disgrazia venne a funestare, per quanto indirettamente, la società marinese e il litorale pisano. Il tenente colonnello Umberto Maddalena rappresentava un vero e proprio mito della nostra aviazione: pluridecorato della Prima guerra mondiale, pioniere delle imprese degli idrovolanti italiani stabilendo vari primati di volo in solitaria, al fianco di Balbo nell’organizzazione e realizzazione della prima trasvolata atlantica per squadriglie, Maddalena si era immediatamente mosso alla ricerca dei dispersi dell’Italia, riuscendo a individuare la “tenda rossa” e compiendo diversi viaggi per rifornire i naufraghi di viveri e medicinali. A tal punto si era accresciuto il suo prestigio che, in occasione del conferimento della seconda medaglia d’argento al valor aeronautico, era stato lo stesso Mussolini ad appuntargliela sul petto.

Il 19 marzo 1931 Maddalena stava pilotando il Savoia-Marchetti con il quale di lì a poco avrebbe dovuto tentare di restituire all’Italia il record di distanza in volo rettilineo, recentemente migliorato da un pilota francese; assieme al capitano Fausto Cecconi e al sottotenente motorista Giuseppe Da Monte il comandante stava trasferendo l’aereo da Milano a Roma. Sinora nessuno si era interrogato sul motivo per cui Maddalena avesse scelto di volare lungo costa; lo fa Meucci, ricollegando tale opzione alla volontà di rendere omaggio proprio ai cantieri della Cmasa: giunto all’altezza di San Rossore il Savoia scese di quota allo scopo di salutare con l’ala i Dornier ormeggiati a Boccadarno. Ma per motivi che non sarebbero stati mai accertati, invece di risalire l’apparecchio esplose subito dopo, finendo “disperso in mare di fronte alla località Mezza Piaggia di Marina di Pisa”, come comunicato dall’Aeronautica. Al contrario di quelli dei suoi compagni di viaggio, il corpo dell’asso rodigino non fu restituito dal mare. A Maddalena l’Aeronautica avrebbe dedicato il celebre Dornier Do X, mastodontico idrovolante dal peso di 50 tonnellate e servito da dodici motori, destinato alle linee civili intercontinentali e capace di trasportare 170 passeggeri. Dopo la fondazione di Tirrenia al leggendario Comandante sarebbe stato inoltre intitolato uno stabilimento balneare, con l’apposizione di una colonna commemorativa.

Intanto il regime procedeva nel suo ambizioso programma di bonifiche, che avendo quale epicentro Coltano si irradiava verso la riviera. Fu in particolare la bonifica di Tombolo a consentire l’apertura del canale Nuovo Lamone e, di conseguenza, la nascita di Tirrenia, deputata a ereditare quelle strutture balneari e ricettive già marinesi: venne appositamente costituito un ente allo scopo di “urbanizzare la pineta, aprire strade, fare costruire villini, alberghi e promuovere iniziative private tendenti alla migliore utilizzazione e valorizzazione della località”.

Grande importanza nel salvare l’eredità turistica di Boccadarno Meucci attribuisce all’indiscusso capo del Fascio pisano, Guido Buffarini Guidi, abile amministratore – prima come sindaco e poi come podestà – capace di ottimizzare i rapporti tra politica e affari e principale artefice della “colonizzazione” dei territori situati a sud di Marina. Particolarmente felici le sue prescrizioni per la definizione del nuovo piano regolatore: “Si desidera che siano conservati tutti gli elementi di vegetazione esistenti; e nei riguardi dell’opportuno sviluppo, sia progettata una suddivisione il più possibile netta tra il quartiere tranquillo e aristocratico dei villini, possibilmente uniti a gruppi anziché disseminati in minuscole unità isolate, ed il quartiere pieno di movimento, delle invasioni domenicali dalla città, dei diporti, dei bagni, del traffico”.

Nel documento si definisce la nascente località come “Marina Nuova”: “Il toponimo Tirrenia – spiega l’autore – è ancora nella mente del Duce, che poi se lo inventerà come altri (Littoria, Carbonia, Sabaudia, Guidonia…), e lo imporrà a dispetto delle carte geografiche, secondo le quali quello su cui si affaccia la pineta di Tombolo non è affatto il mar Tirreno bensì il mar Ligure”. Le direttive originarie prevedevano che il nuovo villaggio sorgesse senza soluzione di continuità rispetto al precedente; Tirrenia avrebbe invece trovato tutt’altra ubicazione, separata da Marina da un’ampia fascia di pineta.

Buffarini ce la mise tutta per valorizzare la sua creatura. Nel ‘29, a rilevare la dismessa società che aveva gestito il servizio ferroviario tra Pontedera, Pisa e Marina, nacque la Stefet (Società Trazione e Ferrovie Elettriche Toscane), con la presentazione di un progetto per l’elettrificazione della tranvia esistente e il suo proseguimento fino a Calambrone: per consentirne la realizzazione il Comune di Pisa le cedette gratuitamente 81 lotti di terreno fabbricabile posti a sud di Marina, nella zona di espansione individuata dal nuovo piano regolatore. Due anni di alacre lavoro consentirono al “trammino” (così i pisani continuarono a chiamare il mezzo che collegava la città al mare, nonostante l’epocale passaggio dal vapore all’elettricità) di scorrere fra i pini del Tombolo già nell’estate ‘32, sino a servire le colonie di Calambrone: fiore all’occhiello del regime grazie al quale tanti bambini italiani ebbero la possibilità di conoscere il mare. Centrale nell’economia della linea risultava la stazione di Tirrenia, dotata di doppio binario per lo scambio.

Ben presto l’influente gerarca livornese nonché grande affarista Costanzo Ciano mise a sua volta gli occhi sulla pineta e i suoi fermenti, che prevedevano in primis la promozione della nuova località a capitale del cinema, con la costruzione di un complesso di stabilimenti cui fu dato il nome di Tirrenia Film: al punto che occorse l’intervento dello stesso Mussolini per sanare il conflitto di competenza determinatosi tra i due caporioni. A rendere istituzionale la gestione del cantiere e di tutti i denari che vi ruotavano attorno fu creato l’Ente Autonomo Tirrenia, nel cui consiglio d’amministrazione sedevano sia pisani che livornesi e il cui presidente era di nomina governativa: il relativo decreto fu firmato dal re a San Rossore nel novembre ‘32.

L’anno successivo Giovacchino Forzano, poliedrico personaggio amico e collaboratore di Mussolini, rilevò, grazie a un finanziamento ricevuto dalla famiglia Agnelli vieppiù interessata allo sviluppo del litorale pisano, la Tirrenia Film, ribattezzandola “Pisorno” in omaggio alle due città limitrofe. Negli intendimenti del governo alla “Hollywood italiana” sarebbe spettato il precipuo compito di produrre film di propaganda: a tale scopo Forzano potenziò la struttura dotandola di moderni teatri di posa. La prima pellicola che vi fu prodotta, Campo di Maggio, costituiva la trasposizione cinematografica di un’opera teatrale dello stesso Forzano: un dramma che utilizzava la vicenda di Napoleone in senso antiparlamentarista, intendendo affermare la necessità per la prosperità di uno Stato di una guida autoritaria e quindi di un regime sul modello di quello fascista. Lo stesso Duce aveva contribuito alla stesura della pièce, tanto da consentire a Forzano di riportare anche il suo nome sulle locandine delle rappresentazioni all’estero.

Negli anni di maggior consenso della dittatura erano dunque molteplici e intense le attività caratterizzanti il breve tratto di costa compreso tra la foce dell’Arno e quella del Canale Imperiale: aeronautica, cinema, colonie. Meucci sintetizza così l’esaltante momento vissuto dal litorale pisano: “Difficile immaginare destini più diversi maturati in così poco tempo in un territorio tutto sommato abbastanza ristretto. Mentre a Boccadarno rombano sempre più forte i motori degli aerei, a Marina si rimpiange un tempo perduto che tutti sanno non tornerà più e a Tirrenia, dove viene fondata la nuova città del mare, si gettano le basi della moderna industria cinematografica italiana. Mussolini in persona proclama che “la cinematografia è l’arma più forte”. E affida alle immagini proiettate sugli schermi di tutta Italia un ruolo di persuasione non tanto occulta a sostegno della grandeur del regime e delle sue opere”. La Pisorno sarebbe peraltro sopravvissuta al fascismo, proseguendo la propria attività sino al ‘59, anno in cui fallì venendo rilevata dalla Cosmopolitan: la quale avrebbe garantito a Tirrenia ancora dieci anni di cinema, prima di cedere definitivamente il passo a Cinecittà.

Divenuta in breve l’azionista di maggioranza della Cmasa la Fiat dismise gradualmente i Dornier Wal, puntando su nuovi modelli di idrovolante contraddistinti dalla sigla MF, ossia “Marina Fiat”. Nonostante i bilanci in rosso dovuti anche a ripensamenti da parte della Marina militare riguardo a prototipi prima ordinati e poi disdetti, la casa torinese continuò a investire sul cantiere pisano sia con ampliamenti e potenziamenti strutturali che aumentando l’organico, sino ad annoverare nel ‘35 1240 operai, che la catena di guerre intraprese dal regime avrebbe portato nel giro di pochi anni a superare i 3000, con oltre 400 impiegati. “Da allora la microeconomia di Marina si abituò a dipendere sempre più dalle sorti della Cmasa e la vita del paese veniva scandita dal suono delle sirene che annunciavano la fine e l’inizio dei turni di lavoro nel cantiere”. Tra i modelli targati Fiat legati al lungo periodo bellico la serie dei caccia CR, il G 50, l’RS 14.

Sulla scia dei successi mietuti dall’aviazione italiana prima in Etiopia e poi in Spagna la società marinese ricevette commesse sempre più consistenti, fino a cimentarsi in un curioso ritorno alle origini, allorché dal cantiere Gallinari uscivano solo imbarcazioni: fu infatti costruito un motosilurante che avrebbe dovuto rappresentare l’evoluzione dei Mas della Grande guerra tanto cari a D’Annunzio, denominato “Stefano Turr” in omaggio al patriota ungherese venuto a combattere in Italia con Garibaldi. Il tentativo non ebbe tuttavia successo: le modifiche cui venne sottoposto il prototipo non riuscirono a sanarne i difetti strutturali, per cui non restò che demolirlo.

L’espansione conosciuta dalla Cmasa negli anni Trenta finì con il sacrificare quelle vestigia che ancora restavano della Marina turistica: la Fiat acquistò e riconvertì tutto quel che poté, risparmiando soltanto la Dogana Vecchia. “Ultimo sprazzo di una mondanità inesorabilmente avviata al declino”, nel ‘36 chiuse pure la sala da gioco allestita nella villa di piazza Gorgona appartenuta al principe di Carovigno.

A fare da cuscinetto nel susseguirsi di eventi storici sta un ampio e documentato capitolo dedicato ai “vicini di casa” dei marinesi, ossia i potenti ospiti avvicendatisi a San Rossore: dai Savoia, eterni villeggianti che usavano passare più tempo qui che a Roma, ai presidenti dell’Italia repubblicana. Con piglio giornalistico vengono rispolverati aneddoti, curiosità, pettegolezzi, con una interessante appendice dedicata alle copertine della “Domenica del Corriere” del periodo monarchico: illustrazioni enfatiche, celebrative e indottrinanti, secondo le quali i regnanti nelle loro infinite vacanze pisane erano sempre impegnati in esercizi patriottici e opere di bene.

Quindi la guerra e le sue distruzioni, che nei confronti di Pisa si fecero particolarmente pesanti a partire dall’estate ‘43. Dato persino strano in un contesto così spietato, i bombardieri nemici risparmiarono la Cmasa sino al 4 marzo ‘44: da quel giorno fino all’arrivo sei mesi più tardi degli americani si sarebbero susseguite una quindicina di incursioni aeree, oltre ai cannoneggiamenti dal mare. Pur gravemente danneggiata e non in grado di produrre dato il trasferimento delle attrezzature al Nord, la fabbrica venne requisita dalla Kommandantur per essere destinata a deposito dei materiali della Wehrmacht in ritirata. Prima di andarsene i tedeschi pensarono bene di punire anche Boccadarno facendo saltare gli ultimi edifici storici, che pure ben poco avrebbero potuto favorire un eventuale sbarco alleato: l’Ospizio Marino, il Caffè Gorgona, i residui chalet che dovevano la loro sopravvivenza al fatto di essere abbarbicati alla scogliera.

Quasi a consolare il lettore di tanto gratuito vandalismo, Meucci si sofferma sulla testimonianza del sergente statunitense Weckstein, il quale nelle fasi finali della resistenza germanica fu incaricato di coordinare un bombardamento congiunto su Pisa da parte di una batteria da campagna e di un incrociatore. Essendo il Comando alleato convinto che i tedeschi avessero fatto della Torre Pendente un osservatorio munito di mitragliatrici pronte a fare fuoco sugli attaccanti, al sottufficiale giunse l’ordine di abbatterla: che egli però non eseguì, non avendo raggiunto la certezza di quanto asserito dal suo comandante.

Finita l’occupazione tedesca iniziò quella americana: la Quinta Armata requisì a sua volta i capannoni della Cmasa, liberandoli dalle macerie e facendone l’officina per i propri automezzi. Effettuati dei primi lavori di riparazione, il cantiere fu restituito alla Fiat nell’aprile ‘46. Nel frattempo, essendo stato il porto di Livorno eletto a base di partenza per il rimpatrio dei militari alleati, nell’area compresa tra San Piero a Grado e Calambrone furono concentrate le truppe provenienti dai vari teatri di guerra, con la necessità per i centri abitati di separare la zona militarizzata da quella riservata ai residenti. La stessa Marina si ritrovò perciò divisa in due, dovendo i suoi abitanti rinunciare a tutta la parte gravitante sulla pineta di Tombolo. Furono così gettate le basi di Camp Darby: ma in maniera tutt’altro che legale.

In breve infatti Tombolo divenne il ricettacolo di sbandati, contrabbandieri, ladri, disertori tanto dell’esercito alleato quanto di quello tedesco, con la formazione di bande criminali dedite a rapinare, uccidere, alimentare un traffico di contrabbando che raggiunse dimensioni imponenti grazie alla vicinanza dei magazzini della Quinta Armata, insediati anche nei locali della Pisorno. La miseria e la disperazione lasciate dalla guerra tra la nostra gente fecero il resto, costringendo tante ragazze a darsi a questi banditi per pochi dollari, stecche di sigarette, cibo da portare a casa: la pineta divenne così il regno della prostituzione. “Segnorine” chiamavano i soldati americani queste sventurate, “okeine” i locali a sottolinearne la compiacenza, in un misto di ironia e commiserazione. La “città proibita” nella quale le forze di polizia non si azzardavano a mettere piede era ben organizzata: oltre alle innumerevoli baracche vi sorgevano un bar e una sala da ballo, ove ogni notte si svolgevano feste con le ragazze portate dai camion, che facevano capo a Pisa in piazza Manin, a Livorno in piazza Grande.

Il “paradiso nero” (dal colore della pelle della maggioranza dei suoi artefici) sarebbe andato avanti ancora a lungo se, nell’agosto ‘47, una banda più agguerrita delle altre non avesse dato l’assalto al deposito della Pisorno, allo scopo di portar via un carico di pneumatici appena giunto dagli Usa: la Military Police reagì, e il conflitto a fuoco che ne seguì fece diverse vittime. A quel punto l’indignazione per lo scandalo che si consumava da tre anni all’ombra dell’occupazione americana giunse fino a Washington: la baraccopoli fu rasa al suolo, i malviventi e le loro amichette arrestati. L’anno successivo il film Senza pietà svelò all’opinione pubblica con la potenza drammatica del neorealismo la trista vicenda consumatasi tra i pini del Tombolo.

Emarginata Marina dall’Amministrazione pisana tutta concentrata sul risanamento delle immani distruzioni causate dal conflitto alla città, nel dopoguerra la Cmasa poté ripartire grazie a nuovi capitali investiti dalla Fiat, che la adibì a officina meccanica con vari obiettivi tra i quali l’unico di natura aviatoria era la riconversione a usi civili degli aerei militari americani Dakota: operazione che consentì la creazione di un migliaio di posti di lavoro. Nel frattempo le libecciate proseguivano impietosamente nella loro opera di distruzione della costa, spazzando via anche i bagni di seconda generazione costruiti a sud di piazza Sardegna. Soltanto nel ‘54 il Comune si sarebbe deciso ad affrontare il problema: ma impossibilitato dalla mancanza di fondi ad andare oltre il palliativo costituito dall’erezione di nuove dighe.

Mentre a salvare la Cmasa e con essa l’occupazione marinese fu ancora una volta la Fiat, destinando nel ‘53 l’impianto di Boccadarno alla produzione di accessori per auto, a cominciare da quelli destinati alla celebre “Topolino”; furono inoltre apportate migliorie alle strutture aziendali, con particolare riguardo all’aspetto assistenziale e previdenziale, al punto che lavorare per la casa torinese divenne un vero e proprio privilegio. La riconversione determinò una nuova denominazione dello stabilimento, ribattezzato “Sezione Officina di Marina di Pisa”.

Le vicissitudini aziendali ebbero anche delle ripercussioni di natura politico-sindacale. Se nel ‘51 la Cmasa si era rivelata all’avanguardia nel recepire la rivendicazione operaia “a uguale lavoro uguale salario” evitando discriminazioni retributive nei confronti di dipendenti di sesso femminile, sei anni più tardi la Fiat di Valletta decise di usare il pugno di ferro allorché le tensioni sindacali che agitavano il Paese raggiunsero l’impianto marinese, ove il ricorso allo sciopero improvviso era divenuto abituale allo scopo di sabotare le forniture alle linee di montaggio di Torino. Del resto a Boccadarno il sindacato più estremista e agguerrito, la Fiom-Cgil, la faceva da padrone, conquistando il 60% alle elezioni per la rappresentanza interna e indicendo scioperi l’adesione ai quali raggiungeva punte del 90%.

Di conseguenza la ritorsione assunse una chiara connotazione politica, con il licenziamento di 290 dipendenti tutti quanti di parte comunista. La vicenda ebbe ripercussioni politiche nazionali: Cisl e Uil si rifiutarono di seguire la Cgil sulla strada dello sciopero a oltranza, spaccando così il fronte sindacale; il Pci accusò il governo democristiano di non avere fatto niente per risolvere la vertenza; la Dc rinfacciò a sua volta ai comunisti di avere fatto perdere il lavoro a tutte quelle persone con lo spingerle alla faziosità e alla contrapposizione frontale all’azienda. Sessanta lettere di licenziamento furono tuttavia ritirate: ma solo dopo che i destinatari ebbero abiurato il sindacato rosso.

A seguito di questi fatti la Fiom subì un drastico ridimensionamento in tutti gli stabilimenti Fiat, per iniziativa della quale sorse un nuovo sindacato, specificamente automobilistico e ad essa allineato: il Sida. L’operazione fece sentire i suoi effetti anche a Boccadarno: già nel ‘62 su 885 operai appena 13 risultavano iscritti alla Cgil.

Nel ‘64 l’industria torinese decise l’abbattimento di un edificio che aveva funto da ingresso della Cmasa, eliminando anche lo scivolo che consentiva agli idrovolanti di scendere in acqua: pur rispondendo a criteri legati alle nuove necessità produttive, le modifiche vennero implicitamente a soddisfare i desiderata dell’Amministrazione pisana. Dal punto di vista paesaggistico esse consentirono infatti di recuperare quella suggestiva prospettiva sulla foce che aveva caratterizzato Boccadarno sino a mezzo secolo prima; da quello urbanistico offrirono al Comune la possibilità di realizzare sull’area liberata una passeggiata panoramica collegante viale D’Annunzio al lungomare Crosio.

Il sindaco Umberto Viale partì in quarta, lanciando la proposta di affidare a un concorso nazionale la definizione del nuovo piano regolatore che avrebbe ridisegnato quel tratto di costa, con la possibilità di realizzarvi un porto turistico: progetto che destò l’entusiasmo di vari ambienti, ma che era destinato a naufragare per diversi ordini di motivi. In primis, la repentina caduta di sindaco e giunta; l’atteggiamento della Fiat, che mostrò di non gradire l’eccessiva attenzione riservata dai media alla vicenda di Boccadarno; l’impetuosa ripresa delle mareggiate, che rese nuovamente drammatica la situazione di Marina. Alla fine sarebbe stato realizzato soltanto un piazzale, ricavato dal riempimento dello specchio d’acqua situato alla sinistra del tratto conclusivo di viale D’Annunzio.

Superate senza danni le agitazioni legate all’“autunno caldo” (nelle aziende pisane particolarmente agguerrite data la virulenza del Sessantotto cittadino), a porre fine al ventennio automobilistico marinese fu – in maniera piuttosto inopinata – la guerra del Kippur: il conflitto arabo-israeliano che nel ‘73, a seguito del blocco dell’esportazione del petrolio verso l’Occidente deciso dai Paesi arabi, causò la crisi energetica che portò in Italia all’adozione della politica dell’austerity. Le pesanti conseguenze delle misure restrittive imposte dal governo determinarono una crisi del mercato dell’auto che indusse la casa torinese a una semplificazione dell’assetto societario che comportò il passaggio dell’impianto di Boccadarno alla Motofides, il comparto della galassia Fiat dedito alla produzione di materiale bellico. Neppure ulteriori rivolgimenti aziendali riuscirono tuttavia a fermare quello che era ormai un declino inarrestabile: nell’86 lo storico cantiere di Boccadarno chiudeva definitivamente i battenti.

Conseguentemente ebbe nuova linfa il dibattito – mai sopitosi dagli anni Sessanta – circa  l’opportunità di riconvertire l’area industriale in un porto turistico, con la presentazione di vari progetti destinati a finire puntualmente nel nulla sia per l’insanabile contrapposizione tra le due fazioni costituitesi (parteggianti l’una per il porto a terra, l’altra per quello a mare), sia per la difficoltà di adeguare l’erigenda struttura alle esigenze del Parco Regionale, sorto nel ‘79 a tutela della vasta area naturalistica costiera caratterizzante il territorio di confine tra Lucca e Pisa. La più interessata a risolvere in qualche modo la situazione era ovviamente la Fiat, in quanto proprietaria della dismessa fabbrica: a tale scopo essa costituì una società, la Borello, espressamente finalizzata a “valorizzare l’area di Boccadarno” ma che non sortì altro che la presentazione di ulteriori progetti che risultarono altrettanto poco convincenti dei precedenti.

La svolta si ebbe nel nuovo millennio, con l’avvento di una congiuntura economica assai critica per l’industria italiana e in primis per l’azienda torinese, costretta a cedere prima il 50%, quindi l’intero pacchetto azionario della Borello a una cordata di imprenditori pisani. Grazie a tale passaggio di proprietà la responsabilità di dar vita all’agognato porto veniva sottratta ad asettici e distanti manager inevitabilmente destinati a privilegiare i mutevoli interessi aziendali per essere affidata a professionisti locali e dunque perfettamente a conoscenza dei problemi del territorio in cui operavano. Fa del resto notare Meucci come all’iniziativa privata si debbano il recupero e la riconversione turistica dei tre simboli storici del litorale pisano, altrimenti destinati alla più completa rovina, nell’annoso quanto vergognoso disinteresse delle istituzioni: Boccadarno, la Pisorno-Cosmopolitan, le colonie.

Nel 2007 il progetto fu approvato sia dal Comune che dall’Ente Parco: e così i padiglioni all’interno dei quali si erano avvicendate Gallinari, Cmasa, Fiat e Motofides furono abbattuti uno dopo l’altro, restituendo a Marina una vista sul mare, e con essa una luce, che le mancavano da troppo tempo.

Boccadarno di Giuseppe Meucciultima modifica: 2022-12-21T21:36:37+01:00da tradersimo
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