Crimini toscani del secondo dopoguerra raccontati da Umberto Giovine

Nella sua esaustiva ricerca giornalistica su Il banditismo in Italia nel Dopoguerra (1974), Umberto Giovine ci narra di tante storie criminali verificatesi nel nostro Paese negli anni immediatamente successivi il secondo conflitto mondiale: alcune più note, altre sottratte all’oblio proprio grazie al suo accurato lavoro. Quattro di esse, in particolare, ebbero quale teatro la Toscana: ed è proprio di queste che andremo ad occuparci.

La banda Brown

La prima ruota attorno alla figura di Jim Brown, disertore nero dell’esercito americano postosi a capo di una banda specializzata in furti di automezzi e rapine ai danni di altri militari statunitensi nella zona di Pisa, e la cui base di partenza era rappresentata dalla pineta del Tombolo, situata a pochi chilometri dalla città tra l’Aurelia e il mare. Si tratta peraltro di un tema affrontato anche dal cinema, e segnatamente da Alberto Lattuada nel film Senza pietà, in cui del fenomeno criminale legato all’occupazione alleata viene data una lettura al tempo stesso drammatica e poetica.

“Tombolo è una località a sud di Pisa, lungo la linea ferroviaria che collega Pisa a Livorno. Tra i margini della pineta – che è fitta di alti pini mediterranei e coperta di cespugli – e la costa ci sono alcuni chilometri di vegetazione rada, coperti di sabbia fine, privi di qualsiasi rilievo. Lungo questa striscia di terra il comando americano stese una lunga barriera di filo spinato parallela al mare e occupò con centinaia di magazzini, con un parco automezzi e con baracche quasi tutta la zona litoranea fino al porto di Livorno. Alle spalle di questa barriera, oltre la striscia sgombra d’alberi, la pineta rimaneva isolata dal mare a ovest, terminando ad est in una landa allora scarsamente abitata, e poco coltivata. D’estate in questa pianura il caldo è insopportabile, e migliaia di zanzare creano come un diaframma fra il terreno sabbioso e le chiome dei pini. In questa terra di nessuno, nei mesi che seguirono l’occupazione alleata della Toscana nell’estate del 1944, si radunarono decine, poi centinaia di sbandati, disertori tedeschi e americani, evasi italiani, prostitute di professione e signorine occasionali”.

Uno scenario ben tratteggiato anche dalla penna di Arrigo Benedetti: “Da deposito di materiali americani e centro della borsa nera Tombolo divenne, una volta che gli eserciti alleati ebbero oltrepassato la Linea Gotica, rifugio di disertori, di ladri, di assassini, di gente scappata di prigione, di marsigliesi, di siciliani, di nordafricani. Un inferno che durante l’inverno ‘44-‘45 parve placarsi e che a primavera si riaccese; con la Military Police che sparava sui bianchi e sui negri, sui ruffiani, sui commercianti, sui contrabbandieri di liquori e sui baristi che facevano lo spumante col bicarbonato”.

Della banda capeggiata da Brown facevano stabilmente parte gli italiani Vincenzo Drago, Moreno Degli Innocenti, Umberto Cini, Carlo Ulivieri, Enrico Lorenzi; più altri malviventi ingaggiati di volta in volta, ma che non sarebbero finiti sotto processo. Dopo varie azioni di livello minore, l’anno d’oro dell’attività della formazione criminale fu il ‘47, allorché la prima rapina pisana in grande stile fu messa a segno il 23 giugno. Appostati presso le mura della città, Brown, Drago, Cini e Degli Innocenti assaltarono un camion Dodge, guidato da un caporale americano. Derubato l’autista del denaro che aveva con sé e spogliatolo di ogni indumento, i banditi presero la guida dell’autocarro, dirigendosi in Piazza dei Miracoli e scaricandovi il militare, poi ritrovato nudo dalla Military Police sotto la torre pendente. Il Dodge fu venduto a Lucca, per un ricavo di 150.000 lire equamente divise tra i quattro.

Una settimana più tardi, nella medesima piazza, l’autista di un altro camion statunitense stava dormendo nella cabina di guida quando si sentì scuotere violentemente, per poi accorgersi di avere puntata addosso una grossa pistola, mentre una voce gli imponeva il silenzio nella sua stessa lingua. Con Brown in questa occasione era il solo Drago il quale, dopo avere fatto da palo, salì sul veicolo che, con alla guida il criminale nero, si diresse verso Navacchio. Giunti alla curva di Porta Fiorentina il militare americano si gettò sul volante facendo deviare il mezzo; ma Drago che gli stava alle spalle fu lesto a neutralizzarlo sbattendogli il calcio della pistola sulla testa. Pure questo secondo autista fu spogliato di tutto quel che aveva indosso e abbandonato nudo nella campagna pisana; ed anche il camion seguì le sorti del precedente, venendo piazzato a Lucca per 120.000 lire dai fratelli Isacco e Israele Romano.

Il terzo colpo fu più movimentato. Essendosi ormai sparsa la voce che a finire nel mirino della banda capeggiata dal disertore nero erano in particolare i camion militari fermi, la sorveglianza su questi ultimi era stata innalzata; Brown pensò allora arditamente di organizzare un assalto in corsa. Il 19 luglio egli si appostò in via Torelli assieme a Cini; per poi balzare sul predellino dell’autocarro prescelto allorché questo sbucò da una traversa, puntando la pistola alla testa dell’autista e ordinandogli di svoltare per una strada secondaria, ove attendevano Lorenzi, Ulivieri e Degli Innocenti. La differente dinamica dell’aggressione non mutò tuttavia la sorte del malcapitato militare americano, anch’egli lasciato nudo in mezzo a un campo dopo tre miglia di folle corsa verso l’interno. Dopodiché i malviventi proseguirono fino a Vicopisano, ove ad attenderli era Israele Romano avendo con sé le 180.000 lire già pattuite.

L’aumento dei controlli da parte della Military Police indusse poi i banditi ad inventarsi ulteriori diversivi, sino ad impossessarsi di un’autocisterna carica di 2.000 litri di benzina intercettata alla periferia della città. Oltre ad un certo spirito burlesco, a Brown occorre dunque riconoscere un genio criminale non indifferente: anche in considerazione del fatto che non venne mai versata una sola goccia di sangue. “I camion rubati – spiega Giovine – finivano in una rimessa vicino Lucca dove una squadra di specialisti li privava di tutti i contrassegni di riconoscimento, li riverniciava e li portava per strade secondarie nell’Italia del nord. È un segno dei tempi che per questa loro attività i fratelli Romano e il loro complice Alfredo Barbini subissero condanne molto lievi, tutte con la condizionale. I traffici illegali erano allora troppo numerosi perché i giudici li potessero punire con severità”. Mentre per quanto riguarda il denaro ricavato dai crimini, esso “finiva quasi tutto nelle case da gioco improvvisate sotto le tende di Tombolo, in grandi bevute e bagordi con le ragazze che – pur meno frequenti rispetto a due anni prima – continuavano a cercare fortuna tra Pisa e Livorno”.

La cattura di Brown “fu degna di questo singolare personaggio: per snidarlo occorse un’azione congiunta tra i carabinieri del Gruppo di Pisa e gli agenti della Criminal Investigation Direction, che per settimane si appostarono nei luoghi dove gli informatori asserivano che prima o poi il negro sarebbe venuto”. Tanto impegno fu alfine premiato; specie dopo che gli agenti ebbero individuato la casa in cui viveva la procace fiamma pisana di Jim: la ventiseienne Albertina Degli Innocenti (che non sappiamo se fosse una congiunta del Moreno componente la banda). “In piena notte carabinieri e americani irruppero nell’appartamento della donna, che si trovava a letto da sola. Aperto l’armadio, però, da sotto gli abiti femminili appesi alle grucce comparvero i piedi del negro, mentre fra le sottovesti e i tailleur spuntavano due grosse pistole”. Destinate tuttavia a rimanere inutilizzate, avendo immediatamente gli agenti provveduto a spianare i mitra contro lo scaltro latitante; al quale non rimase che “dire OK e uscire dall’armadio, nudo, con un boa di pelliccia (certo un suo regalo all’amante) avvolto intorno ai fianchi. Una condanna a 40 anni attendeva il disertore americano, che fu trasferito negli Stati Uniti e rinchiuso in un penitenziario dello Stato di New York. Probabilmente non ne è più uscito”. Pena indubbiamente severa rispetto alla gravità dei crimini commessi da Brown; ma con la quale si intese evidentemente punire in maniera esemplare l’avere egli ridicolizzato la divisa indossata.

Sulla cattura dei complici italiani Giovine non si sofferma, riferendoci soltanto che dal punto di vista giudiziario essi “se la cavarono con molto meno: anche perché diedero tutta la colpa al capobanda, sostenendo che il CID li aveva sottoposti a un interrogatorio di terzo grado estorcendo loro ogni sorta di confessioni”. Il 22 ottobre ‘48 il tribunale di Pisa comminò ai cinque banditi condanne tra i 4 e i 6 anni di reclusione.

La banda del camioncino rosso

Oltremodo spietata e sanguinaria si rivelò al contrario la banda che tra ‘45 e ‘46 terrorizzò in particolare la Lucchesia, e che era capeggiata da Lando Fabbri, fiorentino di Santo Spirito. Classe 1912, prima della guerra costui aveva lavorato come fattorino presso la ditta farmaceutica Pegna; impiego ottenuto tramite la federazione fascista, grazie ai meriti acquisiti con la sua partecipazione alla campagna d’Etiopia. “Lo dovemmo assumere per forza – avrebbe dichiarato al processo il suo ex principale – e non lo potevamo licenziare, benché fosse violento e prepotente. Una volta inseguì un altro dipendente sparando in aria con la rivoltella che portava sempre con sé”.

A seguito di una condanna a 30 anni di reclusione comminatagli nel ‘38 dal tribunale di Genova per tentato omicidio a scopo di rapina, Fabbri fu rinchiuso nel carcere di Parma, per essere poi trasferito in quello di Apuania; dal quale riuscì tuttavia a fuggire nel luglio del ‘44, sfruttando un bombardamento aereo alleato che aveva sventrato il penitenziario. Unitosi assieme ad altri evasi a una formazione partigiana, al termine della guerra egli si stabilì a Pisa, sotto falsa identità e impiegandosi alle Poste. Nella medesima città conobbe, nell’ottobre ‘45, i fratelli Attilio e Nilo Moni, con i quali formò un sodalizio criminale che, allargatosi rapidamente, avrebbe causato, in pochi mesi di attività, la morte di cinque persone, tutte uccise a sangue freddo.

“Questi i delitti commessi dalla banda in quel breve periodo. 22 ottobre, rapina di 12.000 lire ai danni di Eugenio Natale; 6 novembre, rapina di 110.000 lire ai danni dei coniugi Bindi; notte fra il 23 e il 24 novembre, delitto dell’autostrada; 20 dicembre, rubate 22.000 lire a Enrico Cagnacci e 450.000 ad Amalia Jacobi; 22 dicembre, rapina di 12.000 lire ai danni di Nello Picchi; notte fra il 22 e il 23 gennaio ‘46, rapina in Val di Serchio; 22 febbraio, rapina all’oreficeria Pezzuoli di Viareggio; 27 febbraio, delitto del Monte Quiesa”.

Giovine si sofferma quindi sul primo grave crimine che, oltre a provocare due vittime, assegnò al gruppo malavitoso il nome con cui sarebbe divenuto noto all’opinione pubblica: la “banda dell’autostrada” Firenze-Mare. “La sera del 23 novembre, a Viareggio, Fabbri andò a cercare un giovane elettricista, Ugo Lippetti, che guidava un camioncino Chevrolet rosso tra Lucca, Pisa e la Versilia per conto di diversi clienti: tra i quali i carabinieri di Lucca, che lo consideravano (diranno poi) un ragazzo onesto e un bravo elettricista. “Ugo, prendi il camioncino, che si va a Pistoia – gli disse Fabbri quando lo vide – c’è un carico di farina da requisire. Abbiamo i documenti e tutto”. Sul camioncino si strinsero in sette: Lippetti al volante, Fabbri e i due fratelli Moni, lo studente Celso Fanelli di Lucca (ultimo acquisto della banda, appena ingaggiato dai Moni), il fiorentino Sergio Baccetti (“un tipo strano – dirà di lui un suo amico al processo – a volte la sera lo riaccompagnavo a casa e lui raccoglieva tutti i gatti che trovava e li portava a letto con sé”) e un certo Antonio Angelini; con sé avevano anche cinque pistole e uno Sten”.

Una volta giunti a Pistoia, però, del carico di farina non era traccia; per cui si decise di tornare indietro. A buio, sulla strada del ritorno, molta gente chiese un passaggio; ma essendo già pieno come un uovo, l’autocarro non sei fermò. Senonché, “verso l’una e mezzo i fari illuminarono una ragazza che teneva il pollice alzato e agitava l’altra mano facendo segno di fermarsi. “Dai, prendiamola sopra”, disse Baccetti agli altri; al che Lippetti si fermò. L’autostoppista montò in cabina, disse di chiamarsi Maria Lanini e di venire da Reggio Emilia. Di lì a poco, una 1100 superò il camioncino; l’auto viaggiava a velocità ridotta, e rimase poche decine di metri più avanti. “Accelera!”, disse Fabbri a Lippetti, indicandogli la vettura e facendogli segno di superarla; una volta sorpassatala, l’autocarro si mise di traverso alla carreggiata, in modo da ostruirle il passo. I banditi scesero con le armi in pugno, mentre la ragazza guardava terrorizzata dalla cabina. Dalla 1100 scesero, con le mani alzate, l’ingegner Arturo Ciurlo e il geometra Gino Sogno, che furono derubati di quanto avevano indosso. Li fecero montare sul camioncino, mentre Fabbri si metteva alla guida dell’auto”.

Purtroppo la rapina ebbe un finale tragico quanto assurdo. Oltrepassata Montecatini Terme, a Traversagna i due sequestrati – che nel frattempo erano stati pure legati – furono fatti scendere. Assodato che a compiere il duplice omicidio fu il Baccetti, al processo sarebbero emerse ricostruzioni divergenti circa il modo in cui si giunse all’assassinio. Lo stesso omicida dichiarò: “Tirammo a sorte chi doveva ammazzarli; fui estratto io, che non volevo. Puntai lo Sten e chiusi gli occhi. Gli altri avevano già acceso i motori e gridarono: “Dai, sbrigati!”. Sparai e montai di corsa sulla macchina, sperando di non averli uccisi”. Di tutt’altro tenore la versione di Nilo Moni: “Avevo in mano io lo Sten; Baccetti, eccitato dalla presenza della ragazza, si avvicinò, mi strappò il mitra e crivellò di colpi i due. La ragazza si mise a gridare, ma lui disse: “Così si trattano i ricchi e i commercianti: e voi siete tutti una massa di vigliacchi””. Dopo avere discusso se fosse il caso di uccidere anche la scomoda testimone, i criminali decisero di risparmiarla, limitandosi a minacciarla di morte qualora avesse parlato; nel rilasciarla, le diedero pure mille lire. Dopodiché puntarono su Genova, ove giunsero in mattinata piazzandovi sia la 1100 che quanto sottratto alle vittime, per un ricavo complessivo di 140.000 lire. “Giocarono e si ubriacarono; poi ognuno comprò un vestito nuovo, cravatte, cappelli”.

La brutale banda tornò a colpire due mesi più tardi, ammazzando come cani altre tre persone per rubare quattro gomme. “La sera del 22 gennaio ‘46 assieme all’autista Lippetti viaggiavano il Fabbri, i fratelli Moni e un nuovo acquisto della banda, Paolo Brega (che al processo dirà di essere un confidente dei carabinieri e di avere seguito i banditi per meglio riconoscerli). Erano stati tutti a prendere il caffè a Lucca e tornavano verso Viareggio, quando scorsero un autocarro Mercedes targato Udine, carico di carrozzine per bambini. Il camioncino rosso si mise di traverso in mezzo alla strada e l’altro dovette fermarsi; a bordo c’erano due commercianti udinesi, i fratelli Secondo e Quinto Di Pauli e il loro amico Giorgio Pacile, provenienti da Udine e diretti a Roma. Una volta scesi, i tre si trovarono di fronte quattro rivoltelle e uno Sten; spinti al margine della strada, furono legati e imbavagliati”. Affidata a Lippetti la guida del Mercedes, caricati gli ostaggi sul camioncino rosso e postosi lui al volante, Fabbri imboccò la statale dell’Abetone – che risale il Serchio in direzione di Bagni di Lucca – avendo già in mente la destinazione: Anchiano, ove nell’ambito delle fortificazioni della Linea Gotica i tedeschi avevano approntato una caverna artificiale utilizzata come deposito munizioni.

“Lì furono condotti i tre udinesi, che furono costretti a camminare carponi per stretti cunicoli sotterranei fino al termine della grotta, dove il Fabbri li uccise. Poi ordinò di slegarli (“perché il delitto non somigliasse troppo a quello dell’autostrada”, dove i corpi erano stati trovati legati). I fratelli Moni facevano la guardia all’imboccatura della caverna; Brega invece era presente (“mi tappai gli orecchi per non sentire il rumore degli spari”). Conclusa l’operazione, i banditi si impossessarono dei pneumatici del camion (questo, a quanto pare, era stato il movente del delitto), che consegnarono al Brega perché li vendesse. Fu proprio il comportamento del Brega a insospettire i carabinieri, che presero a sorvegliarlo. Le voci sul famigerato camioncino rosso cominciavano intanto a diffondersi, tant’è che i banditi dovettero farlo sparire”.

Per farlo ricomparire il 27 febbraio, allorché nel mirino dei criminali finirono quattro commercianti, attaccati e rapinati sulla strada che valica Monte Quiesa. Nel tornare verso la costa, però, il segnalato autocarro fu intercettato dai carabinieri di Massarosa, che si posero al suo inseguimento; ma destino volle che la loro Balilla sbandasse, capottandosi nel Serchio. Di lì a poco però la buona sorte volse le spalle alla banda, appostatasi nuovamente sul Quiesa per rapinare il viareggino Giuseppe Benedetti, in transito sulla sua auto. “Il camioncino rosso questa volta non c’era e ciò dovette portare sfortuna alla banda. Montati sulla Balilla rubata al Benedetti, Fabbri e compagni furono infatti bloccati da un guasto poche centinaia di metri più in là. Datisi alla fuga per le colline, furono catturati in poco tempo dai carabinieri”.

A giudicarli per direttissima fu il Tribunale militare straordinario, istituito il 10 maggio ‘45 conformemente alla legge speciale per la repressione delle rapine e che prevedeva anche la fucilazione. Il processo ebbe inizio a Lucca il 10 aprile ‘46 e fu peraltro l’ultimo tenuto da tale organismo giudiziario: appena cinque giorni più tardi, la proclamazione della fine dello stato di guerra avrebbe difatti posto termine alla sua attività. Forse anche per tale scadenza, la sentenza giunse già il 13 aprile, infliggendo quelle che Giovine definisce come “le condanne più dure del dopoguerra toscano”: pena capitale per Fabbri e per il suo luogotenente Baccetti, ergastolo a Lippetti e ai fratelli Moni, 30 anni a Brega, Angelini e Fanelli, 15 anni a Baldacci, proprietario del mitra in dotazione alla banda; oltre a una serie di condanne minori.

Per la lettura del dispositivo occorsero venti minuti, “con gli imputati ad ascoltarlo in piedi, pallidissimi”; ma vi fu spazio anche per un curioso siparietto. Allorché il presidente Sestini ebbe terminato, Fabbri esclamò: “Ho portato con me in cella una bustina di veleno, per uccidermi – Ma se è solo bicarbonato!”, gli ribatté allora Baldacci. Mentre l’attenzione manifestata dall’opinione pubblica nei confronti del processo alla “banda dell’autostrada” fu sottolineata dalla Nazione, che commentò: “Per la prima volta in Italia la lettura di una sentenza è stata trasmessa per radio, attraverso i microfoni di Radio Firenze. Ciò non per soddisfare un gusto morboso del pubblico, ma per far udire dalla viva voce del presidente della corte il verdetto finale di un processo che ha sollevato tanto interesse”.

La Montelepre della Maremma

La terza storia ci porta due anni più avanti, riferita alla zona di Volterra e ruotando attorno alle figure di due banditi compaesani di Salvatore Giuliano: Francesco Russo e Antonio Cucchiara. “In quei mesi, almeno quaranta famiglie della Sicilia occidentale emigrarono nel Volterrano, provenienti da Montelepre, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana dei Greci: ossia i paesi che l’anno prima avevano subito la vendetta di Giuliano a Portella delle Ginestre. Alcuni di questi emigranti erano stati perseguitati da Giuliano, altri invece pare avessero anche partecipato a qualcuna delle sue imprese, ed erano fuggiti con le famiglie dalla Sicilia per non essere coinvolti nella prevedibile fine del bandito di Montelepre. A Volterra nel periodo giolittiano una colonia di siciliani provenienti dagli stessi luoghi era riuscita a fare fortuna nel commercio; sperando di ripeterne il successo, nel 1948 i loro compaesani si insediarono in case coloniche acquistate a caro prezzo, insieme al podere, da dei rapaci proprietari volterrani. Incapaci di coltivare i loro nuovi poderi con metodi meno che arcaici, costretti a vivere in molti su campi appena sufficienti per una famiglia, i siciliani si ridussero presto in miseria, circondati dall’ostilità degli agricoltori volterrani, che assistettero indifferenti alla rovina dei loro progetti”.

Fu da tale fallimento che scaturì il progetto criminale di Russo e Cucchiara: applicare in Toscana i metodi di Giuliano, sequestrando i possidenti a scopo di estorsione e quindi arricchire. Spiega in proposito Giovine come all’epoca la figura del bandito di Montelepre fosse assai popolare, e spuntassero suoi emuli un po’ ovunque; al punto che ancora anni dopo la sua morte “sui muri delle città del Nord sarebbero apparse grandi e misteriose scritte di “Viva Giuliano”; con i ragazzi che, giocando a guardie e ladri, volevano fare tutti la parte del bandito, e nessuno quella dei carabinieri”.

Circa il movente dell’attività delittuosa promossa dai due monteleprini trapiantati nella Maremma Pisana, Gioacchino Zopfi – possidente svizzero proprietario assieme al fratello Alfredo di una tenuta nella zona di Volterra, da loro rapito – avrebbe riferito quanto ascoltato durante la detenzione dalla bocca dei banditi. “Volevano sequestrare i ricchi dei dintorni fino a raggiungere un capitale di duecento milioni; la somma sarebbe dovuta servire loro ad acquistare un battello con il quale intendevano raggiungere l’America”. “Come Giuliano, come Giuseppe La Marca, anche Russo e Cucchiara vedevano dunque negli Stati Uniti l’unica salvezza”, commenta l’autore.

Lo Zopfi scomparve il 27 ottobre. Il giorno successivo il fratello ricevette una lettera in cui, oltre alla richiesta di venti milioni per il riscatto, si ingiungeva: “Domenica 31 in mattinata partirete su una 1100 riconoscibile per una striscia bianca trasversale. A bordo dovranno esserci solo Alfredo Zopfi e il suo autista. La macchina dovrà dirigersi verso Livorno, passando per Saline e Montegemoli”, con l’indicazione del bar labronico in cui avrebbe dovuto avere luogo la consegna del denaro. “Alfredo si precipitò in banca a ritirare la somma richiesta; il suo autista stava già dipingendo la striscia sul cofano della macchina quando a casa sua si presentarono i carabinieri. Questi, dopo avergli chiesto spiegazioni per l’improvviso ritiro di una somma così alta, ingiunsero allo Zopfi di mostrare la lettera dei banditi. Lo svizzero dovette cedere; così, domenica mattina, il bar di Livorno si riempì di clienti mai visti che si guardavano intorno sospettosi: ma dei banditi, nessuna traccia. Mentre i carabinieri in borghese lo aspettavano a Livorno, Russo – che era considerato il capobanda – era appostato sul tratto di strada tra Saline e Montegemoli. L’appuntamento a Livorno era un pretesto; la striscia bianca sarebbe in realtà dovuta servire a riconoscere l’auto lungo la strada, permettendo al bandito di fermarla, ritirare i milioni ed eclissarsi nei boschi”.

Armato come dovesse andare alla guerra, avvicinandosi l’ora di pranzo e compreso che di lì non sarebbe passata nessuna 1100 contrassegnata, il criminale si diresse allora verso la tenuta di Casaglia – nei pressi della quale risiedeva con la sua famiglia – presentandosi all’uscio della colonica del podere Colombaione, gestito da un certo Bocci, e dicendo alla madre di quest’ultimo di voler mangiare. Nell’aspetto sembrava davvero Giuliano: “Vestiva una giacca di velluto verde, pantaloni grigio-verdi alla cavallerizza con gambali di vacchetta, con un basco marrone sui capelli folti e bruni”. La confidenza con questi coloni vicini doveva essere grande, dal momento che a tavola Russo non nascose loro niente di quanto successo: “Il bandito disse che dal posto dove avevano portato lo Zopfi lui e Cucchiara, con l’ausilio di un cannocchiale da marina, potevano vedere tutta la campagna intorno. Si mise poi a ridere nell’apprendere che si era sparsa la voce che essi avessero portato via il possidente svizzero con un camioncino rosso: in quella zona il ricordo del lugubre Chevrolet della banda Fabbri era ancora vivo. “Mai avuto un camioncino – esclamò Russo – abbiamo fatto tutta la strada a piedi, con quel ciccione”. Nel venir via dalla colonica, la vecchia gli gridò dietro: “Non trattatelo male, lo Zopfi! – Non dubitare: piuttosto digiuno io, ma lui mangia bene”, le rispose il bandito”.

“Mentre si allontanava dal Colombaione, Russo si imbatté in una pattuglia, e per sfuggirle dovette buttarsi giù per un dirupo e abbandonare mitra, pistola e bombe a mano, rimanendo ferito a una spalla per la raffica sparatagli da un carabiniere. Camminando tutta la notte il bandito riuscì a sfuggire agli agenti; ma ormai tutta la zona era setacciata da centinaia di uomini in uniforme. La mattina seguente, dopo una marcia che dovette essere estenuante, col braccio appeso al collo per la ferita, mentre si dirigeva verso Lustignano Russo incappò in una pattuglia di sei uomini. Vistosi perso, il bandito tentò la fuga come il giorno prima, precipitandosi fra i dirupi; ma un proiettile lo raggiunse al polpaccio. Il giorno dopo, 2 novembre, carabinieri e polizia cingevano d’assedio il Piano alle Rose, vasta zona incolta fra Cecina, Volterra e Massa Marittima. In mezzo c’è l’altura rocciosa delle Cornate: era quello il rifugio dei banditi, da dove potevano osservare tutta la campagna circostante, come aveva detto Russo che seguiva la battuta trasportato in barella da due carabinieri. Lo Zopfi fu ritrovato in una capanna presso una carbonaia: l’avevano costruita i banditi stessi, facendosi aiutare dallo stesso ostaggio. Nonostante la rete di agenti disposta intorno alla montagna, però, Cucchiara era riuscito a fuggire”.

Giovine ipotizza quindi di un progetto malavitoso volto a “trasformare il Volterrano in un’altra Montelepre”, stando a quanto dichiarato da Zopfi: “Russo e Cucchiara mi parlavano spesso di altri giovani in armi che sarebbero venuti dalla Sicilia”. Oltre a nutrirlo adeguatamente assecondandone la pinguedine, dunque, i due ingenui banditi si sarebbero anche confidati con lui come si fa con un amico. Tuttavia tali rinforzi siculi “non fecero in tempo ad arrivare”, visto che già il 4 novembre “la più imponente caccia all’uomo dell’Italia centrale” portò alla cattura anche del secondo rapitore, preso a Monterotondo Marittimo, nella fattoria di San Ottaviano a Frassine appartenente alla contessa Lidia Morando Bolognini. “Presente la fattoressa Genoveffa Gambassini, dietro la colonica erano appostati i carabinieri, che circondarono il bandito appena passò la porta, sparando colpi in terra per intimidirlo. Cucchiara alzò le mani senza dire niente: neppure che un proiettile gli si era conficcato nella natica sinistra. Solo sei ore dopo, durante l’interrogatorio, i carabinieri se ne accorsero e glielo estrassero”. Secondo tale ricostruzione, dunque, i militari in questione avrebbero assolto anche a funzioni mediche.

Ma con la cattura dei due sprovveduti emuli di Salvatore Giuliano l’attività criminale nella “Montelepre della Maremma” non cessò; al punto che ancora tre anni più tardi essa avrebbe fatto registrare quello che l’autore definisce come “l’ultimo rastrellamento del dopoguerra”, essendo in seguito “i cani poliziotto ricomparsi nel Volterrano solo di tanto in tanto, per dare la caccia ai detenuti evasi dal carcere di Volterra”. “Centoventi carabinieri giunti da Pisa, Livorno, Piombino perlustrarono tutte le case dei siciliani – divenuti frattanto ancora più poveri – alla ricerca degli autori di una serie di rapine avvenute fra il settembre e l’ottobre del ‘51, colpevoli dell’uccisione di tre agricoltori, ammazzati a colpi di fucile nella notte del 25 ottobre: Washington “Biagio” Favilli, Gino Simoncini e Alvaro Puccioni”.

Dell’esito della battuta Giovine non dice niente. È così solo dalle cronache dell’epoca che apprendiamo che l’assassino sarebbe stato in seguito identificato in Gino Bonsignori, di Peccioli: un avventuriero già arruolatosi nella legione straniera ed espulso dalla Francia dopo avere scontato una condanna a due anni di detenzione per furto. Reo confesso, il 22 marzo ‘55 Bonsignori fu condannato all’ergastolo.

Ma neppure sull’entità della pena comminata ai due rapitori di Zopfi l’autore si sofferma. Anzi, nel concludere la narrazione egli ci confonde un po’ le idee, dandoci prima Russo per “carcerato”, poi per “latitante”. “Assieme a Russo e a Cucchiara – scrive – finì in carcere anche un certo Angelo Bandini, di Vecchiano, pastore di un gregge di 165 pecore di proprietà di Ugo Moscatelli. Qualche tempo prima, quando il pastore gli aveva consegnato le pecore, Moscatelli aveva notato che ce n’erano solo 130, chiedendo perciò conto di quelle mancanti. “Deve avermele rubate il bandito Russo”, rispose il Bandini, per poi fare regolare denuncia ai carabinieri. Russo era già latitante allora, e venuto a sapere da un informatore che il pastore gli addebitava un furto di pecore (il bandito era specializzato in rapine e non aveva mai messo le mani su una pecora) convocò il figlio di Bandini ingiungendogli di non mettere in giro voci false sul suo conto. Avuta l’intimazione, il pastore si precipitò dai carabinieri a confessare che le 35 pecore mancanti le aveva vendute lui, un po’ alla volta. Fu subito arrestato e imputato di appropriazione indebita, simulazione di reato e anche di connivenza con il bandito Russo, che frattanto si era guadagnato l’appellativo di “Giuliano di Volterra””.

Non risultando Russo mai evaso dal carcere, l’unica spiegazione plausibile è che l’episodio si riferisca al periodo precedente il sequestro Zopfi, riguardo al quale – come specificato dallo stesso Giovine – i due compari di Montelepre furono “sospettati di diverse rapine”; donde sia la latitanza che il soprannome del criminale in questione. Il che ci induce ad intendere quel “qualche tempo prima” genericamente utilizzato dal testo come “qualche anno prima”: e segnatamente nel 1948.

I fatti del Monte Amiata

Nel capitolo dedicato ai Fuorilegge della politica, il saggio estende la visuale a quanto accaduto sul Monte Amiata a seguito dell’attentato a Togliatti del 14 luglio ‘48, allorché, “senza che il partito comunista avesse preparato alcuna insurrezione (anzi, i dirigenti del Pci fecero un grande sforzo per frenare ogni tentativo di protesta violenta suscitata dall’indignazione della base), scoppiarono spontaneamente sommosse in diverse parti d’Italia. Molti comunisti pensarono che fosse arrivato il momento della rivoluzione, che l’Italia diventasse la Grecia, che si fosse ormai alla guerra civile. Secondo i dati del ministero dell’interno, il bilancio dei tre giorni di agitazioni dal 14 al 16 luglio fu di 9 morti e 120 feriti tra le forze di polizia, e 7 morti e 86 feriti tra i civili; fra i morti, un bambino di un anno e mezzo”.

Fu in particolare ad Abbadia San Salvatore che si verificò quella che può essere considerata come “l’unica rivolta armata di massa del dopoguerra: un intero paese diventò fuorilegge, nella convinzione che in tutta Italia divampasse ormai l’insurrezione”. Molto giocò in ciò la particolare natura del borgo, sia dal punto di vista geografico che sociale: posto sul versante senese della montagna, ad oltre 800 metri di altezza, circondato da monti boscosi e disabitati, isolato rispetto alle grandi vie di comunicazione e lontano dalle città, esso rappresentava il principale centro minerario amiatino, con la maggior parte degli abitanti occupati come operai nella enorme miniera di mercurio e cinabro. Inoltre, “in questa zona c’era stata la guerra partigiana, e i tedeschi avevano compiuto rastrellamenti ed esecuzioni di civili”.

Tuttavia, “benché isolata Abbadia aveva una grande importanza strategica, perché la cabina di amplificazione telefonica che vi si trovava era quella che garantiva i collegamenti fra Roma e quasi tutta l’Italia del nord: di lì passano infatti i cavi che collegano la capitale a Milano, Torino, Genova. Occupando la postazione si potevano dunque interrompere i collegamenti fra il governo centrale e i suoi rappresentanti nelle province settentrionali. Dopo gli incidenti di luglio, molti dissero che la rivolta di Abbadia aveva dimostrato che il partito comunista intendeva realizzare un preciso piano insurrezionale, cominciando proprio con l’interrompere le comunicazioni fra Nord e Sud. In realtà, i minatori del Monte Amiata avevano sempre saputo dell’importanza strategica di quella centralina: era quindi logico che, decisi all’azione, pensassero subito a occuparla. Fu proprio tale gesto a mettere in allarme il governo di Roma, avvertendolo che qualcosa di serio stava succedendo ad Abbadia”.

Interessanti anche i retroscena dell’occupazione dell’impianto telefonico. “Quando si seppe dell’attentato a Togliatti, il segretario comunista del paese convocò un’assemblea alla Casa del popolo; dovevano parteciparvi solo i dirigenti, invece tutto il paese era là. Subito ci fu chi propose di tagliare le comunicazioni telefoniche occupando la cabina; altri invece osservarono che il telefono serviva anche al partito. Tutti comunque – privi di notizie eccetto gli scarni bollettini della radio – erano convinti che il Pci avesse mobilitato il suo apparato militare e che si fosse alla vigilia di un’insurrezione armata. Quelli che proposero di aspettare a procedere all’occupazione si preoccupavano quindi più che altro di permettere ai dirigenti comunisti di dare disposizioni da Roma alle federazioni periferiche; altri erano invece per l’azione immediata: al punto che si può dire che la centralina avesse diviso il paese in due partiti più o meno equivalenti. Alla fine si decise di attendere e fu proclamato lo sciopero generale”.

La mattina successiva, una nuova assemblea decise per l’occupazione della cabina; anche perché si era convinti che a Siena, Firenze, Livorno l’insurrezione fosse già in atto. “Con l’appoggio della popolazione, i dirigenti comunisti dissero che il grande momento era venuto, che si doveva combattere contro i nemici dei lavoratori e punire i disfattisti”. Con somma beffa degli aspiranti bolscevichi amiatini, però, il “Palazzo d’Inverno” rappresentato dalla postazione telefonica era già stato occupato: essendo il centralinista riuscito a dare l’allarme, a dare manforte ai tre carabinieri assegnati al normale servizio di sorveglianza, in sordina era giunta da Siena una pattuglia di venti agenti, al comando del vicequestore Renato Pugliese. “Quando la popolazione, con alla testa i capi partigiani e i dirigenti di sinistra, arrivò presso la centrale, fu accolta dagli agenti a raffiche di mitra. La folla si ritirò di qualche decina di metri, ma circondò l’edificio disponendosi all’assedio; visto che molti degli uomini in strada erano armati, il vicecommissario telefonò a Siena chiedendo rinforzi. Ma anche a Siena c’era una situazione di emergenza, per cui il questore non se la sentì di mandare altri agenti”.

Poi però vi fu un ripensamento. “Quando nel tardo pomeriggio i rinforzi arrivarono, trovarono la strada d’accesso al paese sbarrata da tronchi d’albero. Al comando della pattuglia era il maresciallo Virgilio Ranieri; i suoi uomini si misero a spostare i tronchi, mentre gli abitanti del paese assistevano a distanza, in silenzio, a quest’operazione. Dopo qualche tempo, si avvicinarono due donne; una di esse aveva un bambino in braccio. Quella mamma che avanzava così tranquilla verso i mitra della polizia era la prova più sicura che la folla non aveva intenzione ostili. Infatti le due donne si portarono accanto al sottufficiale e cominciarono a parlargli con accento accorato: ancora guardie, ancora, mitra, non bastavano quelli arrivati il giorno prima? Avevano seguitato tutta la notte a sparare, a spaventare la povera gente. Non c’erano già sufficienti guai nel loro disgraziato paese? La disoccupazione, il raccolto di quei due palmi di terreno rovinato, la miseria. Il maresciallo rispose di stare tranquilli, perché loro erano soltanto venuti a portare da mangiare a quelli che stavano di guardia alla cabina; “portiamo pagnotte, non bombe”, aggiunse”.

Quella di mandare avanti le due donne si sarebbe però rivelata una subdola mossa escogitata dai rivoltosi. “Intanto un gruppo di uomini si era avvicinato, circondando Ranieri e quelli dei suoi agenti che erano scesi dal camion. D’improvviso li afferrarono, gridando che erano prigionieri; nel camion fu gettata una bomba, che ferì l’autista. Un altro agente, Giambattista Carloni – che aveva cercato di divincolarsi – ricevette un colpo di pistola al collo. Il maresciallo e due agenti furono tenuti in ostaggio; agli altri fu ordinato di tornare a Siena col ferito. Il sottufficiale chiese di accompagnare Carloni all’ospedale di Abbadia; gli fu consentito, ma quando vi arrivò l’agente era già morto. Benché sconsigliato dal medico dell’ospedale, il maresciallo decise di uscire e di raggiungere da solo la caserma dei carabinieri. Ma prima che vi giungesse, un gruppo di uomini lo assalì; fu afferrato da due di loro, e un terzo lo colpì più volte con un coltello, uccidendolo”.

L’iniziale sottovalutazione della gravità della situazione abbadenga da parte del questore senese aveva dunque regalato ai rivoluzionari un vantaggio che essi seppero sfruttare al meglio. “Intanto alla centrale telefonica gli uomini di Pugliese, vedendo che intorno non c’era più nessuno ad assediarli, avevano tentato una sortita. Ma gli insorti si erano appostati nelle vicinanze, e appena videro che la maggior parte degli agenti si era allontanata (probabilmente alla ricerca della pattuglia mandata in loro soccorso), occuparono la cabina e ci si asserragliarono dentro. Prima che arrivassero, però, l’operatore aveva fatto in tempo ad avvertire Roma della situazione: di lì a poche ore, centinaia di uomini della polizia e dei carabinieri presero d’assalto il paese”. Il quale tuttavia era stato nel frattempo abbandonato dai suoi abitanti, corsi a rifugiarsi sulla cima dell’Amiata nel timore di arresti di massa “e forse di esecuzioni: essi non sapevano ancora che la rivoluzione non c’era stata, e che la situazione era tornata più o meno calma dappertutto”.

“I carabinieri attaccarono il monte con armi pesanti e bombe, mentre un aereo da ricognizione sorvolava la zona comunicando gli obiettivi a terra. L’assedio durò più di un giorno e una notte; ma ci vollero parecchi giorni di rastrellamento per costringere gli ultimi 400 uomini a deporre le armi e tornare in paese. I titoli dei giornali di quei giorni furono: Tremila persone accerchiate dalla polizia sul Monte Amiata, Bestiale accanimento di donne contro un maresciallo di PS, I comunisti ordinano la rivolta”.

Esaltata e celebrativa la lettura che della delittuosa vicenda avrebbe invece dato l’Unità, organo di un Pci che – come ben sottolineato da Giovine – dopo la batosta rimediata alle urne il 18 aprile rimaneva in precario equilibrio tra stalinismo e democrazia, continuando a coltivare “piano insurrezionale” e “apparato militare” e affidando la propria rivincita a quegli ex capi partigiani rossi che non aspettavano altro che di scatenare una nuova guerra civile. Ancora nel ‘73 il quotidiano comunista avrebbe perciò ricordato quelle cruente giornate amiatine con compiacimento: “La popolazione – in particolare i minatori che erano stati la spina dorsale della protesta – dovette rifugiarsi sui monti e organizzare una difesa di tipo partigiano”.

Dopodiché l’autore fa un passo indietro, per spiegarci quanto accaduto nel frattempo a Siena, ove la Federterra – costola della Cgil – aveva indetto per il 15 luglio una grande manifestazione bracciantile, cui la questura aveva risposto disponendo il blocco in piazza Gramsci delle maestranze affluite dalle campagne. “Dopo qualche infruttuoso tentativo di passare, gli agricoltori si erano ammassati a pochi metri dai poliziotti, schierati con le armi in posizione di sparo. Il questore e i dirigenti erano riusciti ad evitare lo scontro diretto, ma in città il malumore era grande. Due giorni dopo arrivò la notizia dell’uccisione del maresciallo e dell’agente mandati a rinforzare la guarnigione a Abbadia. La stampa borghese contribuì a creare un clima di tensione, che giunse al culmine quando, la mattina di domenica 19, si fecero i funerali dei due poliziotti con un corteo a cui parteciparono tutte le autorità, dal prefetto al sindaco comunista. Durante la cerimonia qualcuno sparò in aria, vicino alla sede della Federterra. Gli agenti puntarono le armi contro le finestre del sindacato comunista, e uccisero il segretario provinciale Meattini, che si trovava in una stanza al primo piano”.

Sorvolando sulla leggenda popolare che vuole Gino Bartali avere fatto calare definitivamente il sipario sul violento conato rivoluzionario mediante le sue tre consecutive vittorie al Tour de France di quegli stessi giorni, Giovine preferisce sottolineare l’importanza storico-politica assunta dall’insurrezione armata amiatina. Nonostante i dirigenti del Pci – in primis lo stesso Togliatti, dal suo letto d’ospedale – si fossero tempestivamente attivati contro l’attuazione del disegno eversivo, la repressione anticomunista disposta dal ministro dell’interno Scelba fu estesa alle organizzazioni sindacali, coinvolgendo fabbriche e campagne. Per concludere: “La rivoluzione fallita di Abbadia San Salvatore aprì un periodo di riflusso del movimento operaio, che per diversi anni fu costretto sulla difensiva dal governo centrista. Solo dodici anni dopo, nel 1960, col successo dell’opposizione nelle piazze al governo Tambroni, cesseranno anche le pesanti conseguenze della rivolta del Monte Amiata”.

Crimini toscani del secondo dopoguerra raccontati da Umberto Giovineultima modifica: 2019-08-28T21:09:05+02:00da tradersimo
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