Il caso Lavorini di Sandro Provvisionato

Uscito postumo, Il caso Lavorini. Il tragico rapimento che sconvolse l’Italia costituisce l’ultima fatica di Sandro Provvisionato, il maestro del giornalismo d’inchiesta italiano prematuramente scomparso nel 2017. Il destino ha voluto che dopo avere affrontato diversi dei più celebri “misteri d’Italia” il giornalista romano si proponesse di riportare d’attualità una tragica vicenda che nel 1969 polarizzò l’attenzione dei media nazionali, commuovendo l’Italia intera ma senza essere mai completamente chiarita e sulla quale a tutt’oggi – complici l’approssimazione e la mancanza di rigore caratterizzanti le relative notizie riferite dai social – continuano a scriversi inesattezze.

Il seme delle quali – come spiega l’Autore nell’introduzione – fu gettato già all’epoca, da parte di una stampa miserabile e disonesta che non si fece scrupoli di trasformare quello che era stato un omicidio commesso nell’ambito di un sequestro di persona in un delitto a sfondo sessuale, “sposando fin da subito l’ipotesi di indagine più scandalosa, clamorosa, pruriginosa, eclatante e sbagliata possibile: il bambino vittima di una banda di pedofili che frequentava la pineta di Ponente di Viareggio”.

Per certi aspetti il “caso Lavorini” rappresentò la fine di un mito: negli anni Sessanta la città del carnevale aveva infatti vissuto il suo periodo d’oro, più che mai “perla della Versilia”, meta privilegiata del nostro turismo balneare, celebrata dal cinema come dalla canzone. In pratica era come se a Viareggio ogni estate si rinnovasse il clima del miracolo economico anche dopo che gli effetti del “boom” si erano ormai esauriti.

Per comprendere la trama del libro occorre tuttavia premettere la lettura fortemente politicizzata che vi viene data dell’intera vicenda, sino a far idealmente iniziare la funesta epoca della “strategia della tensione” sì nel 1969, ma non il 12 dicembre – giorno della strage di piazza Fontana – bensì con il precedente rapimento viareggino. Con una metafora che non potrebbe adattarsi meglio alla città in cui si consumò l’orrendo misfatto, Provvisionato ne parla come del “molo di partenza” di un percorso fatidico del quale l’attentato milanese avrebbe rappresentato “il primo approdo”. E a conferma di tale chiave di lettura egli ci ricorda un episodio: la riunione tenutasi nel novembre ‘69 nello studio di un avvocato viareggino allo scopo di dar vita a un’organizzazione anticomunista destinata a fare da copertura a una formazione armata di estrema destra – il Movimento di azione rivoluzionaria – che l’anno successivo si sarebbe resa protagonista di diversi attentati.

Ma perché proprio a Viareggio? È l’Autore a spiegarcelo, con una sapiente digressione di ordine storico-politico: “Negli anni di cui stiamo parlando Viareggio è una città di 64.000 abitanti, ricca ma piena di contraddizioni sociali: una città che in realtà ne contiene due”. La prima è quella “da cartolina” che occupa le pagine dei rotocalchi, “spensierata e allegra ma solo durante i giorni del carnevale e nei mesi estivi, quando viene invasa da una folla di turisti in vacanza: grandi hotel lussuosi, alberghi medi e piccole pensioni a conduzione familiare, stabilimenti balneari esclusivi ma anche grandi spiagge popolari”. Alle celebri costruzioni in stile liberty del lungomare, agli edifici che hanno segnato la felice definizione della Passeggiata secondo i dettami del razionalismo fascista, ai villini padronali a due piani che gravitano a ridosso dei viali a mare si contrappongono le residenze più modeste, prevalentemente abitate dalle maestranze dei cantieri navali: a cominciare dalle caratteristiche “viareggine”.

Di conseguenza, “sul finire degli anni Sessanta, esaurito il boom economico che ha trasformato Viareggio in una delle più richieste località balneari, nella città convivono una borghesia piuttosto conservatrice, fatta di commercianti, per lo più albergatori, negozianti e proprietari di stabilimenti, ed una classe operaia forte e compatta, decisamente orientata a sinistra”. Tale stratificazione sociale ha fatto sì che nel dopoguerra alla guida del comune viareggino si siano alternate (nell’“isola bianca” tradizionalmente rappresentata nell’ambito della rossa Toscana dalla provincia lucchese) amministrazioni social-comuniste e democristiane.

Ma oltre a ciò, di recente un particolare evento di matrice politica è intervenuto a turbare la normalità della vita versiliese. Il cui locale di grido, la Bussola – indiscussa regina delle notti ruggenti estive degli anni Sessanta – la sera del 31 dicembre ‘68 non ha potuto celebrare il suo esclusivo veglione di Capodanno a causa del violento assalto cui è stato sottoposto da parte degli studenti pisani aderenti a Potere operaio, affluiti in massa allo scopo di rovinare la festa al capitalismo mondano; i conseguenti scontri con le forze dell’ordine hanno causato il grave ferimento di uno dei manifestanti. Secondo la ricostruzione di Provvisionato, i fatti della Bussola avrebbero indotto la Viareggio borghese a prendere coscienza del pericolo rappresentato dal nuovo clima politico fomentato dalla contestazione giovanile anche in una realtà dorata e spensierata quale quella versiliese, provocando una levata di scudi a favore della destra uno dei cui effetti sarebbe stato costituito dall’attività “controrivoluzionaria” di un inedito movimento conservatore, nato anch’esso nel corso di quel fatidico ‘68: il Fronte monarchico giovanile.

Il caso Lavorini non rappresenta solo la rievocazione di un delitto quantomai atroce e ripugnante, ma anche la ricostruzione dettagliata, impietosa e per molti aspetti incredibile di una delle pagine più sciagurate della storia giudiziaria italiana. Quando nel primo pomeriggio di venerdì 31 gennaio ‘69 scompare, Ermanno Lavorini ha dodici anni. La famiglia gestisce un avviato negozio di tessuti; nell’uscire di casa, il ragazzino dice alla madre che resterà fuori un’oretta. Data la sua abituale puntualità, allo scadere dell’ora stabilita i familiari si allarmano, con conseguenti ricerche per case di amici e compagni di scuola. Finché alle 17.40 una telefonata che giunge in negozio e cui risponde la sorella Marinella non rivela che egli è stato rapito: “Ermanno tornerà a casa dopo cena. Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia”, l’intimazione espressa dallo sconosciuto cui la giovane attribuisce una “voce maschile e da adulto”. La notizia si diffonde rapidamente per tutta la città, con l’immediato costituirsi di gruppi di volontari che prendono a battere i luoghi più sospetti, a cominciare dalla pineta di Ponente.

Di quello che nelle ore diurne rappresenta per gli spensierati vacanzieri estivi uno dei santuari del divertimento – anche in alternativa all’assolata monotonia della spiaggia – l’Autore ci offre subito lo squallido rovescio della medaglia, dai tratti decisamente pasoliniani: “La pineta è da sempre luogo di svago e di ritrovo di giorno: gente in bicicletta, bambini che giocano, mamme con le carrozzine; ma di notte diventa un vero buco nero della città, frequentata com’è dalle prostitute e soprattutto da omosessuali in cerca di intimità e – cosa che la città fa finta di non sapere – di pedofili che sogliono accompagnarsi per soldi con dei ragazzini”.

Ed è proprio su quelli che la vox populi definisce spregiativamente come i “capovolti” (“una vergogna locale di cui parlare sottovoce con allusioni e ammiccamenti”) che si accendono immediatamente i riflettori dell’opinione pubblica. Nel giro di pochi giorni il commissariato ne scheda oltre trecento: “molti sono viareggini facoltosi, tra i quali diversi pedofili conclamati; alcuni sono solo dei ragazzotti della città e della provincia che soprattutto il sabato e la domenica si prostituiscono con uomini adulti per poche migliaia di lire. Ermanno, bambino innocente, è stato rapito da loro per le loro turpi voglie. La voce popolare si alza possente nel tempo di una notte, aizzata da una stampa locale povera e ignorante che già all’indomani della sparizione del piccolo punta il dito, senza alcun motivo, sulla pineta e i suoi frequentatori notturni, discettando sulla perdita di valori della famiglia, sul libertinaggio e sulla mollezza dei costumi”.

Ed è lo stesso capofila dei quotidiani nazionali, il prestigioso Corriere della Sera, ad alimentare tale convinzione: “La polizia va effettuando indagini pressanti nel mondo degli anormali. Ci sono zone della cittadina versiliese, quelle lambite dalle pinete, dove la prostituzione maschile viene esercitata largamente: zone che (soprattutto d’estate e di notte, ma non solo) si trasformano in una oscena, lurida Sodoma. Pare che i “capovolti”, fra indigeni e forestieri, siano davvero parecchi”.

La proprietaria del bar del bocciodromo della pineta riferisce di avere visto quel pomeriggio un ragazzino le cui sembianze coinciderebbero con quelle di Ermanno, specificando che egli si trovava in compagnia di un ragazzo più grande, destinato a diventare il personaggio chiave della vicenda: il sedicenne Marco Baldisseri. Appartenente a una famiglia disastrata ed a sua volta senz’arte né parte, costui capeggia la cosiddetta “banda del gufo”, composta da una trentina di coetanei prevalentemente dediti allo scippo, al borseggio e al furto, soprattutto di motorini. Appena due mesi prima, però, i giovani malviventi l’hanno combinata grossa, rapendo una ragazzina di 12 anni per sottoporla a lungo a violenze e sevizie: denunciati e condannati, essi si sono visti tuttavia condonare la pena. Ma da allora il capobanda è finito sotto osservazione da parte della polizia, sulle sue tracce ogniqualvolta succeda qualcosa di riconducibile all’attività della sua accolita di balordi: per cui anche quella sera gli investigatori vanno a chiedergli se in giornata abbia visto Ermanno, ricevendone risposta negativa e dandogli credito.

Versione che però il ragazzo modifica allorché, tre giorni più tardi, sono i carabinieri a recarsi da lui: “Nel pomeriggio del 31 gennaio ho notato Ermanno per strada. Ero assieme a Rodolfo Della Latta”. Ventenne, quest’ultimo svolge con riconosciuta professionalità il mestiere di necroforo; pur essendo fidanzato, bazzica anch’egli la pineta di Ponente, non disprezzando la prezzolata compagnia dei suoi “ragazzi di vita”: a cominciare da quella dello stesso Baldisseri. Del quale dopo qualche ritrosia finisce con il confermare la testimonianza: “È vero: quel giorno abbiamo visto Ermanno per strada, lo abbiamo invitato a giocare a flipper e lui ha rifiutato”.

Nel frattempo dal diario dello stesso rapito emerge una nota relativa a un infortunio occorso ad un suo amico il 4 gennaio: una sfortunata coincidenza vuole che in precedenza Baldisseri sia stato investito da un’auto, per essere tuttavia dimesso dall’ospedale già il 31 dicembre. Ciononostante, una frettolosa quanto sommaria lettura di quella pagina porta gli inquirenti a riferire l’annotazione proprio a costui, e di conseguenza a convincersi di un rapporto di amicizia che legherebbe i due ragazzi. Al contrario, non viene dato alcun peso al fatto che Baldisseri – al pari degli altri componenti la banda – faccia parte del Fronte monarchico giovanile: all’interno del quale ricopre gli incarichi di segretario e cassiere.

Intanto la novità rappresentata dal rapimento di un minore, unita alla rinomanza della località teatro del criminoso episodio, fa scalpore in tutta Italia; per cui a Viareggio si impiantano non solo uno stuolo di giornalisti, ma anche quelli che teoricamente dovrebbero essere investigatori tra i più capaci in dotazione allo Stato. Ma a dispetto di ciò, è solo il 4 febbraio che ci si accorge che la bicicletta di Ermanno si trova incatenata proprio davanti al commissariato: senza peraltro che essa venga adeguatamente ispezionata da chi di dovere.

E a nulla valgono né le perquisizioni “porta a porta” condotte dagli agenti il 10 febbraio per tutta la città, che vedono coinvolte oltre 8.000 abitazioni (e che l’Autore definisce come “un’operazione di parata a uso e consumo dell’opinione pubblica, più che un vero strumento d’indagine”), né il grande rastrellamento che vede passate al setaccio le due grandi pinete viareggine, né l’intervento dei sommozzatori che scandagliano il tratto del lago di Massaciuccoli più prossimo alla riva, né la cospicua taglia istituita dal ministero degli interni, cui – a testimonianza della partecipazione generale al dramma della famiglia Lavorini – contribuisce anche una banca locale. Alla fine si conteranno più di 5.000 segnalazioni, la maggior parte delle quali anonime e soprattutto depistanti, rese da una variopinta fauna composta da mitomani, sciacalli, sedicenti maghi e sensitivi. La “caccia alle streghe” continua ad appuntarsi sull’ambiente degli omosessuali della pineta di Ponente, ma non escludendo neppure chiunque sia celibe.

A condurre le indagini della polizia Roma ha inviato il capo della Squadra mobile di Bologna, Mario Iovine, presentato dalla stampa come il “Maigret italiano”. Riflettendo l’orientamento dell’opinione pubblica, costui traccia del rapitore il seguente identikit: “È un maniaco sessuale, uno di qui: diciamo un noto professionista”. Mentre da parte sua il padre di Ermanno, Armando, nelle varie interviste rilasciate lancia precisi segnali ai rapitori facendo sapere di essere sempre reperibile in negozio, avendo pronti dieci milioni in più di quelli richiesti e consigliando loro di rivolgersi quale mediatore a un sacerdote.

Fra tanta stampa “lanciatissima in difesa della tradizione e della famiglia nella caccia non solo all’omosessuale ma soprattutto al diverso”, Provvisionato traccia l’elogio di Marco Nozza, inviato del milanese Giorno: quotidiano – di proprietà dell’Eni – tradizionalmente rivale del più istituzionale e moderato “Corrierone” e di conseguenza orientato a sinistra, avendo peraltro un direttore di fede socialista. Per nulla convinto del movente sessuale, Nozza “fiuta immediatamente l’esistenza di una Viareggio diversa: quella parte di città nella sostanza esclusa ed emarginata, lontana dai lustrini, in cui sta crescendo una generazione di piccoli criminali che ha trovato nell’estremismo di destra il cemento per stare assieme, per difendersi e attaccare”. Incontrando già il 13 febbraio Baldisseri, a Nozza “non sfugge quanto nel corso dei loro interrogatori gli investigatori non hanno notato: un distintivo del Fronte monarchico giovanile che il ragazzo porta addosso”. Richiesto dal giornalista di spiegargliene il significato, Baldisseri mostra di non gradire: “Sono monarchico: ma a lei cosa interessa? Guardi che se lo scrive la querelo”.

Intanto però le settimane continuano a trascorrere invano: fino all’epilogo più tragico. La mattina di domenica 9 marzo, a Marina di Vecchiano, il cane di un escursionista comincia a scavare con foga nella sabbia, dietro una duna, sino a far emergere dei capelli; l’uomo dà l’allarme, consentendo così agli inquirenti di rinvenire quelli che si rivelano essere i resti del povero Ermanno. Ma commettendo altri gravi errori investigativi, che determinano la perdita di preziosi indizi: il tratto di spiaggia in questione non viene isolato in modo da inibirne l’accesso ai curiosi, provocandone così il calpestio da parte di parecchia gente, accresciuta anche dalla giornata festiva; mentre la salma viene rimossa senza attendere l’arrivo del medico legale.

Viene se non altro accertato che al momento della sepoltura il ragazzo indossava gli stessi abiti con i quali era uscito di casa, avendo in tasca la chiave del lucchetto della bici; che l’orologio che ha al polso è fermo sulle 4; che l’angusta fossa contenente il corpo è stata scavata frettolosamente, tanto da seppellirvelo assai malamente. Neppure l’autopsia riesce a suggerire granché, risultando il cadavere in avanzato stato di decomposizione; in base al cibo rinvenuto nello stomaco la morte viene collocata attorno alle 17.30 dello stesso 31 gennaio: il che porterebbe a dedurre che al momento in cui è giunta la telefonata in negozio Ermanno fosse già stato ammazzato.

Più controversa si rivela la determinazione delle cause del decesso: e anche tale imprecisione influirà pesantemente sulla determinazione delle responsabilità. Dato il tipo di contusioni rinvenute sul capo, un primo esame opta per una emorragia cerebrale causata da un trauma subito all’altezza della fronte: “un pugno fortissimo che gli ha spappolato il cervello”, il responso del professore pisano che ha eseguito l’autopsia. Senonché una seconda perizia condotta qualche mese più tardi si orienterà sulla morte per asfissia.

Ai funerali partecipa tutta la città, in una tensione indicibile; rischia il linciaggio il fidanzato di Marinella Lavorini, più volte interrogato e pedinato dai carabinieri: il che alimenta l’ignobile diceria – scaturita dalla mente del più squallido dei calunniatori – che vorrebbe il delitto perpetrato allo scopo di fare della ragazza l’unica erede della famiglia. Da parte sua la stampa non contribuisce certo a svelenire il clima, giungendo a scrivere che Ermanno è stato sepolto vivo e trovando una conferma alla pista sessuale nel fatto che il suo corpo è stato ritrovato in un’altra pineta, regno dei “capovolti” al pari di quella viareggina.

Mentre sul modo in cui vengono portate avanti le indagini la bocciatura espressa da Provvisionato è inappellabile: “Gli operatori di polizia e carabinieri che cercano di risolvere il caso si affidano più alla loro esperienza che a dati scientifici. Le tecniche investigative sono rudimentali, le analisi scientifiche parziali e improvvisate. L’impronta delle dita è ancora la luce illuminante, gli esami di laboratorio si limitano all’essenziale. L’identikit dell’assassino – quando lo si fa – è puramente fisico: nulla di psicologico. Del resto da un investigatore che non distingue un omosessuale da un pedofilo c’è poco da aspettarsi”.

Il “disastro investigativo” consumatosi a Viareggio conosce varie tappe, una più infamante dell’altra. Prima vittima del clima da Inquisizione scatenatosi a seguito del rapimento risulta Giuseppe Zacconi, figlio del noto attore Ermete; il quale, oltre a vivere di rendita grazie all’eredità paterna, non è solito frequentare donne: il che lo espone inevitabilmente al “chiacchierare della città che ne invidia il tenore di vita e fa congetture sulla sua vita privata”. Nonostante sia stato alfine scagionato dalle indagini condotte dalla questura lucchese, l’essere finito nel “tritacarne della sciagurata inchiesta” lo porterà l’anno successivo a morire d’infarto, cinquantasettenne.

Per differenziarsi dai colleghi, i carabinieri non trovano invece di meglio che scandagliare nel passato di Armando Lavorini, seguendo la pista della vendetta: Ermanno rapito e ucciso a seguito di un grave torto commesso dal padre, magari nelle vesti di strozzino. Ma anche tale ipotesi si rivela fallace: pur passata al setaccio, la vita dell’uomo si rivela infatti oltremodo specchiata.

Nel frattempo, il 12 marzo, in base ad informazioni delle quali solo in seguito si intuirà la fonte, il maggior quotidiano locale, la Nazione, scrive: “Il cerchio degli investigatori si stringe; intorno a chi si chiuda non è possibile ancora dire. Pare che la polizia segua la pista che porta a un uomo sui quarant’anni, calvo, proprietario di una macchina rossa”. Nonostante sia solo stempiato, a riconoscersi nell’identikit è allora un quarantaduenne viareggino assai facoltoso, Adolfo Meciani: proprietario di uno degli stabilimenti balneari più rinomati, sposato, padre di un bimbo e ben conosciuto negli ambienti più in vista della riviera, l’uomo ha tuttavia una doppia vita, che lo porta a frequentare i ragazzi della pineta. Di lui l’Autore traccia un ritratto che il ricorso ad espressioni francesi rende ancor più colorito e mondano: “A Viareggio il Meciani è conosciuto come un tombeur de femmes, sempre elegante al limite dell’azzimato, sempre al volante di auto sportive, sempre occhieggiato da giovani commesse e signore leggermente âgées. Facoltoso, amante dei tavoli da gioco, con a disposizione garçonnière lungo tutta la costa, molto preso dal suo lavoro di gestore di uno stabilimento balneare di lusso, Meciani coltiva segretamente il suo vizietto”.

Quanto pubblicato dal giornale incide profondamente sulla psiche dell’imprenditore: il quale piomba in uno stato di paranoia che lo porta a rivolgersi a vari avvocati sfociando in una crisi di nervi che lo coglie proprio mentre si trova in uno studio legale, sino a svenirne. Ricoverato in clinica, nel rilevarne la bisessualità la sua cartella riporta: “Dopo la scomparsa di Lavorini, con le indagini rivolte al mondo degli omosessuali, è subentrata in lui, ossessionante, la paura che questa sua tendenza potesse essere resa palese, che lo sapesse la moglie, che venissero rovinati reputazione, matrimonio, figlio e ha cominciato a non dormire, a diventare ansioso, irrequieto, depresso. Lo stato ansioso ha raggiunto punte drammatiche durante le quali sono comparse idee di suicidio per sfuggire alla vergogna”. Durante il ricovero Meciani ha infatti tentato di togliersi la vita due volte, venendo sottoposto a frequenti elettroshock e curato mediante psicofarmaci. Il che fa sì che al momento della dimissione dalla casa di cura egli appaia come “un uomo irriconoscibile, che si muove e parla come un automa; sembra un essere svuotato e privo di autocontrollo; vive come in uno stato di perenne allucinazione”.

Ma la sua via crucis è solo all’inizio. Nel pomeriggio del 18 aprile, interrogato dal colonnello Caroppo – comandante il Gruppo carabinieri di Lucca – Baldisseri confessa: “il suo racconto è tutto raccolto nei pochi istanti in cui prende a pugni Ermanno sulla spiaggia di Marina di Vecchiano; con lui, racconta, ci sono anche altri ragazzi”. Stranamente, però, tale versione non viene verbalizzata: si attende l’arrivo del colonnello De Julio, comandante la Legione di Livorno, cui il giudice istruttore lucchese Francesco Tamilia ha affidato la conduzione delle indagini.

L’impostazione iper-politicizzata che caratterizza lo studio induce a questo punto Provvisionato a riportare l’orologio della Storia indietro di qualche decennio, all’epoca dei “Carabinieri Reali”; ciò nonostante il giuramento di fedeltà alle leggi dello Stato repubblicano imposto a tutti gli appartenenti ai nostri corpi militari. Egli ci presenta infatti  l’ufficiale come un “fedelissimo cultore dell’ideale monarchico”, sottolineandone in particolare l’abilità nel gestire i rapporti con la stampa che lo porta “a coinvolgere direttamente i giornalisti nell’inchiesta mediante fughe di notizie”. De Julio ha inoltre alle spalle “un periodo di forti pressioni subite a causa della sua partecipazione alle vicende del cosiddetto piano Solo, nel quale il colonnello aveva avuto un ruolo molto importante: in particolare nella pianificazione dell’arresto e del trasferimento in Sardegna di personalità politiche di opposizione al governo”. Il riferimento è a quanto sarebbe avvenuto nell’estate ‘64, nel periodo intercorso tra la caduta del primo governo di centrosinistra presieduto da Moro e la formazione del secondo, allorché forze della conservazione – con in testa il Quirinale – si sarebbero attivate onde impedire la permanenza al governo dei socialisti. Nonostante la censura subita da parte della commissione parlamentare d’inchiesta per il comportamento tenuto in occasione del presunto tentativo di golpe, l’ufficiale aveva mantenuto la fiducia dei vertici dell’Arma, vedendosi assegnato il comando della legione labronica.

Il nuovo interrogatorio va avanti tutta la notte: “De Julio ha una sua convinzione su come si sono svolti i fatti e sospetta fortemente di Meciani. Non si limita a raccogliere le parole di Baldisseri, ma lo incalza con continue domande che dovrebbero completare il quadro e che invece eccitano la fantasia del giovane. Marco è sotto interrogatorio ormai da almeno dodici ore; gli vengono mostrate molte fotografie: passo dopo passo, sotto una pressione fortissima, egli riconosce in Meciani quello che chiama Antonelli. E ammette: assieme a me, a Marina di Vecchiano, c’era anche Antonelli”. Aggiungendo: “Non sono stato io a picchiare Ermanno: è stato Antonelli. Mi ero appartato diverse volte con lui perché era uno che pagava bene. Un giorno mi chiese di conoscere un ragazzo più piccolo di me: io pensai subito ad Ermanno e quel venerdì glielo portai a Marina di Vecchiano. Lui cominciò a toccarlo, ma Ermanno si ribellò: allora Antonelli lo colpì con un pugno ed Ermanno cadde a terra privo di vita”.

Assecondando le reiterate giravolte compiute al cospetto degli inquirenti dal capo della banda del gufo, nel testo viene presentata anche un’altra versione della confessione, lievemente differente nella ricostruzione della dinamica dei fatti. Quel 31 gennaio, incontratosi con Ermanno, Baldisseri lo avrebbe portato presso il bocciodromo della pineta, ove si trovava l’uomo dal ragazzo chiamato in un primo momento Antonelli, per poi individuarlo senza esitazioni in Meciani. “A bordo dell’auto sportiva rossa del Meciani i tre si dirigono verso Marina di Vecchiano. Arrivati sulla spiaggia, Meciani si avvicina a Ermanno e cerca di abusare di lui. Il ragazzino reagisce e si difende; Meciani allora lo aggredisce con violenza, prendendolo a pugni fino a fargli perdere i sensi. Poi i due lo seppelliscono dietro una duna”.

Entrambe le varianti sono tuttavia destinate ad infrangersi contro l’alibi prodotto dallo stesso Meciani, confermato da diverse persone e che gli copre tutto quel pomeriggio sino alle 19: ora in cui egli si sarebbe effettivamente intrattenuto in pineta, per mezzora, in compagnia dello stesso Baldisseri e di un altro giovanissimo, Andrea Benedetti. Nel prenderne atto, Tamilia – giunto in caserma la mattina del 19 – dispone un confronto tra Meciani e il suo accusatore: da quest’ultimo “perso nettamente”. Al che il ragazzo – “sotto torchio da quasi trenta ore” – se ne inventa un’altra, parlando sì di un sequestro a scopo di estorsione ma tirando in ballo altre due persone destinate peraltro a rivelarsi anch’esse estranee al delitto.

Per fortuna, di quanto accaduto in quei due giorni di fuoco nella caserma di piazza Mazzini non viene dato conto alla stampa: se non altro, la reputazione di tante persone – Meciani in primis – è salva. Ma le cose non possono finire così: “C’è De Julio che non molla: con i suoi uomini alle 2.30 del 20 aprile ricomincia l’interrogatorio di Baldisseri”. Un’altra nottata di terzo grado, al termine della quale il giovane malvivente ritratta, confessando tra le lacrime di avere ucciso lui Ermanno, ma in maniera involontaria. Rubato un motorino in pineta avendo il proprio guasto, quel pomeriggio Baldisseri si era recato alle giostre, incontrandovi Lavorini che aveva convinto a recarsi a Marina di Vecchiano a raccogliere residui di pallottole, che vi si trovano a migliaia dato che in quel tratto di spiaggia è stato a lungo in funzione un poligono di tiro dell’esercito, e che i ragazzi usano collezionare e scambiarsi alla stregua di figurine. “Trovammo molti bossoli e proiettili: ma al momento di dividerceli iniziammo a litigare. Lui mi diede uno schiaffo; io lo spintonai e poi lo presi a pugni. Ermanno cadde a terra: credevo che facesse finta o che scherzasse; poi mi accorsi che restava immobile e non respirava. Era morto. Allora mi spaventai: in fretta e furia scavai una buca e ve lo seppellii”.

Una “confessione definitiva” che l’Autore commenta come “la versione più banale, semplice, rassicurante e auspicabile per tutti: soprattutto per i carabinieri, che devono smetterla di cercare prove, riscontri, altre testimonianze. Uno stupido gioco tra ragazzi: e poi la fatalità, il destino, la sorte sfortunata”. Spingendosi a sottolineare come particolarmente per De Julio una soluzione del genere verrebbe a rappresentare “una boccata di ossigeno” dopo le note – per quanto dal punto di vista della carriera già superate – disavventure “golpistiche”. Tutto questo porta l’inchiesta a conoscere uno dei suoi punti più bassi: perdendo completamente il controllo della situazione, i carabinieri convocano seduta stante una conferenza stampa con la quale viene annunciata la soluzione del caso, emettendo al contempo un comunicato in cui viene dato pieno credito ad un personaggio, Baldisseri, che per mille motivi non potrebbe essere più inaffidabile, per quanto con la precisazione che “le indagini proseguono per accertare eventuali responsabilità di terzi”.

Nella ricostruzione dagli investigatori presa per buona ci sono tanti aspetti che non quadrano. Improbabile che un sedicenne possa avere fatto tutto da solo: a cominciare dalla telefonata, dalla ricevente attribuita ad un uomo adulto. E poi il motivo per cui sarebbe sorta la lite – già di per sé così futile – ossia i residui di pallottole: nel luogo in cui è stato rinvenuto il corpo di Ermanno non ne sono stati trovati; e il poligono di tiro in questione risulta piuttosto distante.

Agli assillanti cronisti lo fa notare anzitutto Armando Lavorini: “Non penso che a uccidere mio figlio possa essere stato soltanto quel ragazzo e per quattro sporchi bossoli di artiglieria. Inoltre Ermanno non si è mai interessato di oggetti bellici, né li ha mai raccolti”, dichiara. Ma anche la madre di Baldisseri non crede alla versione propinata, lanciando pesanti accuse agli inquirenti: “È impossibile, se mio figlio ha confessato significa che glielo hanno fatto dire: lo avranno indotto con certe domande o con altri mezzi a dare le risposte che volevano”.

Prontamente allora il giovane balordo mette al racconto un’altra pezza, tirando in ballo il padre, che lo avrebbe aiutato a seppellire il cadavere facendo anche la telefonata ai Lavorini. Imbarcato come cambusiere su una nave attualmente in America, per il 31 gennaio l’uomo – che non ha peraltro riconosciuto la paternità del figlio – ha un alibi inconfutabile: quel giorno si trovava a Genova. Inoltre Marinella Lavorini ne valuta l’inflessione come “decisamente versiliese”, quando la persona che aveva telefonato in negozio “parlava senza alcuna cadenza”.

Via allora con l’ennesimo aggiustamento: il 22 aprile Baldisseri “torna a smettere i panni dell’assassino accidentale per indossare di nuovo quelli dell’adescatore. Una persona gli avrebbe promesso tre milioni di lire se gli avesse portato Ermanno, attirandolo in un tranello. Torna lo scenario della pedofilia: ma questa volta Marco non vuole alzare il sipario e si rifiuta di fare il nome della persona”. Quello stesso giorno nella vicenda giudiziaria si produce anche un importante mutamento formale: il convincimento che il luogo del ritrovamento del cadavere coincida con quello dell’omicidio determina il trasferimento dell’inchiesta dalla procura di Lucca a quella di Pisa. Conseguentemente, Baldisseri passa da un carcere all’altro, non potendo essere associato a quello minorile di Firenze in quanto attualmente in ristrutturazione.

Ma in quella cruciale giornata le novità si susseguono: un volantino diffuso dalla neonata Lotta continua – formazione dell’ultrasinistra afferente al Potere operaio pisano – richiama l’attenzione su un aspetto sinora trascurato, dagli inquirenti come dall’informazione. Tanto Baldisseri e i suoi accoliti, monarchici, quanto Della Latta, attivista del Movimento sociale italiano, militano a destra: ed allo stesso ambiente ideologico fanno riferimento altri personaggi sentiti nelle settimane precedenti dagli investigatori proprio in quanto vicini ai primi due.

Ad allarmarsi è soprattutto il presidente del Fronte monarchico viareggino, il ventenne Pietro Vangioni, dall’Autore presentatoci come un informatore dei carabinieri nonché come “un capo, un ragazzo molto ambizioso anche se si accontenta di fare il cameriere stagionale. Il 30 novembre aveva partecipato a un viaggio a Nizza dove, in udienza pubblica, era stato al cospetto di Vittorio Emanuele di Savoia e prima ancora a Trieste davanti ad Amedeo d’Aosta. Sua l’idea di fondare a Viareggio il Fronte monarchico”.

Non appena saputo del volantino diramato dagli “extraparlamentari”, Vangioni si precipita in caserma per lamentarsi delle illazioni riguardanti il suo gruppo, dicendolo estraneo al delitto e definendo Baldisseri come un “ragazzo molto fantasioso”. Ma alla base di tale iniziativa sta un motivo ben preciso: il 10 febbraio – avuto evidentemente sentore della battuta a tappeto della città da parte delle forze dell’ordine – assieme a un altro militante del Fronte Vangioni si era premurato di far sparire un sacco a pelo e una coperta affidati in custodia a Baldisseri. Svoltasi alle 10 del mattino, l’“operazione recupero” era stata condotta in maniera tutt’altro che discreta, al punto da richiamare l’attenzione di alcuni negozianti del quartiere insospettiti proprio dai movimenti sgangheratamente furtivi dei tre giovani, tra i quali avevano riconosciuto il solo Baldisseri. Come non bastasse, allontanatasi una volta effettuato il carico la 500 del Vangioni aveva fatto ritorno sul posto un quarto d’ora più tardi, avendo a bordo anche un uomo sui 50 anni.

Al momento quei commercianti non avevano pensato di segnalare l’episodio alla polizia, facendolo solo 70 giorni più tardi, il giorno dell’arresto di Baldisseri. Messo alle strette, e individuati dagli inquirenti i due ragazzi che si trovavano con lui quella mattina, Vangioni “tace sull’identità dell’adulto, ammette lo spostamento del sacco a pelo e della coperta ma dice che erano di sua proprietà. Egli sa benissimo che quegli oggetti fanno istintivamente pensare ad un sequestro di persona e ad un ostaggio che deve essere custodito nelle fredde notti di febbraio. L’importante è quindi distogliere gli investigatori da quell’idea”: eccolo allora ricorrere a sua volta “all’invenzione fuorviante e alla menzogna”. Ai carabinieri l’esponente monarchico dice che il sacco a pelo era stato utilizzato da Baldisseri, al quale era stato chiesto dal proprietario di una Duetto rossa allo scopo di nascondervi il cadavere di Ermanno: il che chiama ancora una volta implicitamente in causa Meciani. Avvalendosi del fatto che la madre di Baldisseri gestisce una lavanderia, Vangioni aggiunge che il ragazzo se lo era fatto lavare onde cancellare ogni eventuale traccia biologica.

A questo punto Provvisionato lancia sui militari una serie di accuse, una più grave dell’altra e non escludendo l’ipotesi della malafede. La prima è data dal trattamento speciale di cui il giovane può continuare a godere da parte loro, libero di entrare e uscire dalla caserma a proprio piacimento e di consultare i verbali di interrogatorio. Le altre si riferiscono alla sottovalutazione di troppi elementi: il fatto che Vangioni appaia disposto a rischiare un’accusa di favoreggiamento in occultamento di cadavere pur di nascondere l’effettivo utilizzo cui sarebbe stato destinato il sacco a pelo; la sparizione dell’elenco degli iscritti nonché di ogni elemento che possa ricollegare lui e Baldisseri al Fronte monarchico. Ma soprattutto, “se un sacco a pelo furtivamente fatto sparire sta ad indicare un sequestro di persona e la prima e unica telefonata di rivendicazione a proposito della scomparsa di Ermanno parlava di rapimento”, allora sarebbe stato il caso di ipotizzare una pista alternativa rispetto a quella infruttuosamente battuta sinora: “quella che porta a un gruppo di estremisti di destra che ha rapito Ermanno Lavorini per chiedere un riscatto a scopo di autofinanziamento”.

Tantopiù che in coincidenza con la confessione di Baldisseri numerosi giovani del Fronte si sono mobilitati onde avvalorarla, recandosi in caserma a raccontare confidenze da lui ricevute in proposito e che ne confermerebbero la veridicità. Con il più meschino dei quali – assai vicino a Vangioni – che si è spinto a dichiarare “qualcosa di falso e atroce: che il piccolo Lavorini era un frequentatore abituale della pineta e dei suoi loschi personaggi pedofili”. Il che porta l’Autore a osservare: “È come se quei ragazzi venissero utilizzati da qualcuno per costringere i carabinieri a non deviare dalla pista del sesso, restando quindi lontani da qualsiasi altra ipotesi investigativa. La singolarità è che tutti quei ragazzi appartengono al Fronte monarchico giovanile di Viareggio: ma in quel momento nessuno si accorge della coincidenza”. E a pilotarli è sicuramente Vangioni: il quale “sa che prima o poi, domani o più tardi, Marco, che fino a quel momento si è “comportato bene” tenendo sulla corda carabinieri, polizia e magistrati, potrebbe crollare e raccontare forse una “verità” ancora diversa: una verità politica”.

In ogni caso gli inquirenti evitano di prendere in considerazione una simile strategia; così come non si accorgono di un’altra circostanza assai significativa. In quegli stessi giorni di febbraio il Fronte smobilita: il padre di Vangioni, intestatario del contratto d’affitto del locale di via della Gronda in cui sogliono svolgersi le riunioni del movimento, dà la disdetta. Evidente che se quella sede è stata chiusa così in fretta e furia (fra l’altro senza darne neppure comunicazione ai vertici romani, dal momento che l’Unione monarchica nazionale continua a inviare finanziamenti) il motivo dev’essere stato assai serio ed urgente.

Da parte sua Vangioni, continuando a produrre falsi testimoni, lancia in pista l’altro frequentatore di Meciani, il tredicenne Benedetti: “sotto pressione Andrea arriva ad autoaccusarsi almeno di complicità in omicidio. Vangioni gli ha spiegato che sotto i quattordici anni per la legge italiana non rischia nulla: al massimo qualche mese in riformatorio”. Anche in questo caso le versioni cambiano; ma resta il fatto che subito dopo il delitto i due ragazzi “incontrarono in pineta un uomo che accettò di aiutarli a seppellire il cadavere e a fare la telefonata di depistaggio al negozio dei Lavorini”. Messo a confronto con il presunto complice, Baldisseri finisce con il condividerne la ricostruzione dell’omicidio, facendo entrambi “un nome sul quale i carabinieri sono da tempo concentrati”: ossia quello dello stesso Meciani.

L’inchiesta conosce così la sua pagina più drammatica. “È il 25 aprile. Con esagerato spiegamento di mezzi, e con al seguito un codazzo di auto dei cronisti, gli uomini dell’Arma si precipitano a casa della suocera di Meciani. Sono passate da poco le due di notte: vi rimarranno fino alle cinque. Intanto una folla rumoreggiante si è radunata sotto la palazzina. Quando le auto dei carabinieri con a bordo i tre protagonisti dell’affaire Lavorini cercano di lasciare la zona per dirigersi verso il carcere di Pisa, la gazzella che trasporta Meciani viene circondata da un gruppo di persone. C’è chi tempesta di pugni il vetro posteriore dell’auto, chi si sdraia sul cofano; tutti urlano. È un tentativo di linciaggio. La follia e il delirio si sono di nuovo impossessati di gente normalmente tranquilla”.

Nel carcere pisano i tre vengono messi a confronto; con l’uomo che continua a negare ogni coinvolgimento nel crimine: finché, in un momento di pausa, afferrato un tagliacarte non tenta di ferirsi al petto, ma invano. Pur accusati di occultamento di cadavere, sia Meciani che Benedetti vengono rilasciati; non Baldisseri, sul quale pende l’accusa di omicidio preterintenzionale. La stampa, Corriere della Sera in testa, continua a propinare la pista sessuale che “ha colpito l’opinione pubblica fino ad ammaliarla”; solamente il Giorno insiste sull’ipotesi “politica”, ma senza trovare ascolto.

Allorché il giudice istruttore pisano Pierluigi Mazzocchi decide di convocare nuovamente Benedetti per sentirlo da solo, il ragazzino crolla, ammettendo di essersi inventato tutto: “Siccome i carabinieri insistevano ho raccontato una storia falsa, coinvolgendo Meciani perché lo conosco: ogni tanto mi dà dei soldi perché mi lasci toccare. Io volevo solo aiutare Marco”. “Per De Julio e i suoi uomini questo è un altro duro colpo. L’autoaccusa di Baldisseri non solo ha perso un testimone oculare della banale lite finita in tragedia, ma è sparito anche l’adulto telefonista e seppellitore. Ora davvero i carabinieri – come si dice nella cronaca più trita – brancolano nel buio”.

Come in una folle staffetta determinata da una giustizia impazzita, il testimone passa allora a Della Latta: del resto non è costui un becchino provetto? E allora non può essere stato che lui a seppellire Ermanno; ovviamente dell’assoluta inadeguatezza della fossa scavata non viene tenuto alcun conto. La “fiera delle falsità” prosegue perciò con l’interrogatorio del giovane, che ha luogo il 1° maggio e va avanti per sei ore fino alla “confessione” che si risolve nell’ennesima crocefissione di quella che Provvisionato definisce come la “vittima sacrificale”. “Marco mi raggiunse alla fermata dell’autobus che stavo aspettando per tornare a casa, chiedendomi di accompagnarlo dalle parti del bocciodromo, in fondo alla pineta di Ponente. Qui accanto a una Duetto rossa era Meciani; non lo conoscevo, ma nei giorni successivi lo riconobbi dalle foto apparse sui giornali. In terra, dietro a un cespuglio, era il corpo di Ermanno: Meciani mi disse che dovevo aiutarlo altrimenti mi avrebbe fatto fare la stessa fine; ho avuto paura e l’ho fatto. Io non so altro: neppure chi abbia ucciso Ermanno”.

È un racconto le cui circostanze non stanno in piedi: Meciani avrebbe fatto avanti indietro tra Marina di Vecchiano e Viareggio con il cadavere in macchina e per chiedere aiuto a chi nemmeno conosceva. Eppure, all’alba del 2 maggio l’imprenditore viene arrestato, nel mentre “Viareggio precipita di nuovo nella follia. Nonostante non sia ancora giorno, un migliaio di persone si raduna davanti alla caserma dei carabinieri. Rabbia e impotenza percorrono la folla eccitata dalla voglia di farla finita con questa storia che umilia tutta la città”. Prima di Meciani viene però interrogato Benedetti: il quale ancora una volta s’incarta nelle sue contraddizioni, propiziando così l’ennesima pagina nera della malefica inchiesta.

“Alla disperata ricerca di una via d’uscita e di una confessione certa e corroborata da prove, i carabinieri – che nella migliore delle ipotesi confermano una scarsissima inclinazione investigativa – gli offrono una sponda. Ma non è che tu, Rodolfo e Marco facevate delle orge con gli adulti? Per Andrea è un invito a nozze: la sua fervida fantasia prende la palla al balzo e si scatena. Colloca l’orgia a casa di Meciani, tira in ballo altri ragazzi della pineta ma anche altri adulti e poi riempie di particolari osceni lo svolgimento di quei festini”. I militari “continuano a spingere, quasi a suggerire”: ecco allora venir fuori dalla bocca di Benedetti il nome di Leonida Rossi, imprenditore perugino nonché amico di Meciani che a quest’ultimo ha fornito l’alibi per il giorno della scomparsa di Ermanno, sostenendo di essersi trattenuto con lui dall’ora di pranzo fino alle 16.30.

Subito dopo a confermare il quadro è Della Latta, presentando Meciani come un tossicodipendente e coinvolgendo nei turpi commerci sessuali anche Zacconi. Mentre un altro elemento che dimostra la mendacità dei tre ragazzi viene fuori dall’interrogatorio dello stesso Meciani: il quale giunge a spogliarsi allo scopo di mostrare a Mazzocchi dei particolari segni fisici, talmente evidenti da non poter non essere stati notati da chi afferma di averlo visto nudo. Ciononostante, “al termine di quel tourbillon di interrogatori inspiegabilmente senza confronti” egli viene dichiarato in stato di fermo e riportato nel carcere di Pisa.

A questo punto Provvisionato si sofferma sulla differente prospettiva che rispetto alle convinzioni dei carabinieri sta maturando il giudice istruttore, certo che i tre ragazzi abbiano a che fare con la morte di Lavorini ma meno convinto della fondatezza della pista sessuale, che però non può neppure abbandonare tout court nel timore di “contraccolpi da parte della stampa, ormai lanciata su questo movente”. È in tale cornice così pesantemente condizionata dalle pressioni dell’opinione pubblica che Mazzocchi decide di interrogare nuovamente Della Latta: il quale finisce con l’annegare in una marea di contraddizioni, apparendogli “disperato”. Neppure il successivo confronto con Benedetti ne migliora la posizione: i due danno l’impressione di “imbeccarsi” a vicenda.

Il che induce il magistrato a disporre che il giovane venga portato a Viareggio affinché indichi con precisione l’abitazione di Meciani in cui nel corso di un festino sarebbe morto accidentalmente Ermanno: secondo quanto raccontato da Benedetti, scivolando e sbattendo la testa contro un termosifone. Della Latta conduce i carabinieri davanti al palazzo in cui l’imprenditore abita con la moglie: ma la sua descrizione dell’appartamento risulta “come sempre generica e confusa”. Nonostante con l’avvento dell’inchiesta pisana “le fonti ufficiali d’informazione per i giornalisti si siano chiuse, la fuga di notizie continua e ad alimentarla sono sempre i carabinieri”: i quali nel momento più critico per il necroforo non mancano di far circolare dettagli tesi a supportarne la ricostruzione.

Senonché il 3 maggio Della Latta, “ormai sotto pressione da quasi 72 ore, cambia ancora versione, muovendosi come se avesse davanti una scacchiera: toglie un pedone, aggiunge un fante, toglie un cavallo, aggiunge una torre”. Escluso dalla scena del delitto Rossi, si ostina a collocarvi Zacconi, giungendo a spostare l’ambientazione dei festini in una casa abitualmente frequentata da quest’ultimo. Per poi alzare decisamente il tiro e tirare dentro quelli che sono i due più importanti personaggi pubblici viareggini: il sindaco Berchielli e il presidente dell’Azienda del turismo Martinotti, entrambi socialisti; e con gli uomini di De Julio che anche in questo caso non si fanno trovare impreparati nel produrre elementi a favore di un simile scenario.

“Nel rapporto dei carabinieri c’è qualcosa di torbido. È come se da una parte essi volessero conferire un qualche crisma alle confessioni di Della Latta che sono palesemente false, fantasiose e piene di contraddizioni, e dall’altra favorire parti politiche avverse a quella socialista che sta partecipando alla ricostruzione della giunta comunale di Viareggio”. Ma “per loro fortuna Berchielli e Martinotti hanno il sostegno della cittadinanza e due alibi solidi. Si recano subito dal giudice istruttore per esporli; poi, con grande correttezza, presentano le loro dimissioni”.

Chi più di tutti pare rendersi conto dell’importanza assunta nell’incredibile vicenda dall’opinione pubblica è Zacconi: il quale il 5 maggio convoca una conferenza stampa nella quale denuncia la totale inattendibilità del suo accusatore e dei “suoi due compari”. Il suo avvocato va anche oltre, rendendo pubblici certi sospetti che cominciano ormai a prendere corpo: “Bisogna dare una spiegazione al perché Baldisseri, Benedetti e Della Latta accusino con tanto accanimento degli adulti. Pensate ad esempio al Marco che, dopo aver accusato il Meciani, è arrivato addirittura a indicare come colpevole suo padre. A nostro avviso questi squallidi personaggi tentano di coinvolgere gli adulti inventando storielle assurde per diminuire le loro responsabilità: secondo noi sono loro i veri colpevoli, e non il Meciani e tutti gli altri. I tre potrebbero, ad esempio, aver organizzato il rapimento di Ermanno a scopo di estorsione; poi, quando tutto è andato male, per diminuire la loro colpa, per nascondere un omicidio volontario a scopo di estorsione hanno cominciato a gettare fango su della gente perbene o quasi: persone che comunque con il caso Lavorini non hanno nulla a che fare”.

Il giorno successivo è quello del confronto a tre fra i “ragazzi della pineta” dinanzi al giudice istruttore, “vigile e attento ma solo: nella totale assenza della polizia, i carabinieri sembrano seguire e anzi assecondare le fantasie perverse di quelle anime disperate”. Nonostante l’impegno profuso da Della Latta, che in quanto più grande si adopera nel dettare la linea agli altri due, il confronto si risolve in un “disastro”: donde l’ammissione della falsità di tutte quante le versioni fornite in precedenza, figlie dei “suggerimenti” offerti dai carabinieri. Buona solo l’ultima, che vorrebbe incastrare Zacconi: ma anche di questa abitazione il becchino non riesce a descrivere alcunché.

Il 7 maggio, “la tragedia di Viareggio fa la sua seconda vittima”. Alla vigilia della scadenza del provvedimento di fermo, Meciani si impicca alle sbarre della cella, ma senza riuscire completamente nell’intento: resterà a lungo in coma, decedendo soltanto il 24 giugno. Per quelle lunghe settimane la stampa assedia il centro di rianimazione del nosocomio pisano in cui il moribondo è stato ricoverato; questo mentre Viareggio “è stanca dello scempio umano che quell’inchiesta sta producendo, stanca delle bugie, delle menzogne più cupe che ormai colpiscono a casaccio soprattutto notabili della città, esasperata per dover ingoiare il fiele che tre disgraziati ragazzotti spargono a piene mani”. Sulla perla della Versilia la tragedia iniziatasi il 31 gennaio ha fatto calare “una maledizione che l’ha sfigurata: e non solo nell’anima. Il danno di immagine è incalcolabile: una pioggia di disdette per l’estate che si avvicina sta seppellendo gli albergatori”.

La sfiducia nella giustizia e più in generale nello Stato si accresce allorché si viene a sapere che Meciani è stato soccorso dal personale carcerario con un certo ritardo. Inoltre, “nessuno aveva avvertito la direzione del penitenziario delle precarie condizioni psicologiche dell’uomo e la cartella clinica della casa di cura in cui Meciani si era fatto ricoverare era stata sequestrata dai carabinieri e mai consegnata alla direzione del carcere”. Un’omissione gravissima che ha impedito che sul detenuto venissero disposti gli adeguati, rigorosi controlli, e che porterà la moglie a puntare il dito contro gli inquirenti: “Avete spinto al suicidio un innocente”.

Intanto il 19 maggio il giudice istruttore contesta a Della Latta l’inconsistenza delle sue accuse a Zacconi, Berchielli e Martinotti, sino a farlo ritrattare: “Ho detto il falso: quell’appartamento mi è stato suggerito dai carabinieri durante l’interrogatorio. Mi hanno mostrato le foto di quelle persone e io le ho indicate poiché sapevo che frequentavano dei ragazzini: me lo aveva detto Marco”. Svolta che determina l’uscita di scena di De Julio e dei suoi uomini, dei quali l’inchiesta “non sentirà più parlare: Mazzocchi si appoggerà ad altri ufficiali di polizia giudiziaria”. Mentre Della Latta, “come se niente fosse, si rifugia nella sua versione preferita, quella meno rischiosa per lui. Della morte di Lavorini non sa nulla; lui si era limitato a seppellirne il corpo, sotto la minaccia di Meciani”.

Ma la sorella di Ermanno, cui vengono fatte ascoltare le voci registrate sia del necroforo che dell’imprenditore, indica quella del primo come la più somigliante a quella del suo interlocutore telefonico, escludendo invece ogni somiglianza con quella dell’altro. Il che contribuisce a portare finalmente in auge la matrice che l’Autore continua a definire – un po’ per semplificazione narrativa, un po’ per rispettare la linea di fondo prescelta – “politica”, implicitamente attribuendo una qualche dignità politica a dei personaggi che appaiono più che altro come dei balordi, degli sbandati, dei criminali da quattro soldi: mettendo a fuoco quanto avvenuto attorno all’abitazione di Baldisseri il 10 febbraio, Mazzocchi imbocca finalmente la pista giusta. Nel frattempo, messo alle strette anzitutto dal padre, che lo accusa di avere rovinato con il suo atteggiamento l’intera famiglia, Benedetti confessa di non sapere nulla della vicenda Lavorini, precisando di non avere mai neppure conosciuto Ermanno.

Sentendosi abbandonato dagli altri, il 24 maggio Baldisseri assume un atteggiamento decisamente più collaborativo, parlando per la prima volta di rapimento e “riferendo particolari che non sanno di invenzione”: sino ad accusare esplicitamente Vangioni di averlo ideato e preparato. “Quasi un mese prima del 31 gennaio, nella sede del Fronte monarchico si svolse una riunione, presente Della Latta. In quell’occasione Vangioni propose di rapire Ermanno per tirare su dieci-venti milioni di lire. Seguirono altre riunioni cui parteciparono diversi ragazzi del Fronte; qualcuno fece notare che Ermanno li conosceva e li avrebbe riconosciuti; ma Pietro spiegò di non preoccuparsi perché al dopo sequestro avrebbe pensato lui”.

Intanto Nozza ha approfondito la sua inchiesta sull’estrema destra viareggina, appurandone la natura illegale ed eversiva che – perfettamente in linea con i tempi – contempla una strategia basata anzitutto sugli attentati dinamitardi. Pur all’insaputa delle rivelazioni di Baldisseri, una settimana più tardi egli scrive: “Oggi 1° giugno, data di inizio della stagione, la situazione è questa: Marco, Andrea e Della Latta sono in prigione e non vogliono assolutamente dire la verità. Coprono qualcosa, o qualcuno: ma fino a quando potranno resistere? Da sottolineare: i tre ragazzi facevano parte di un fantomatico Fronte giovanile monarchico che all’epoca dei fatti della Bussola contestò i contestatori. Meglio: cercò di mestare le acque perché la colpa fosse (tutta) dei contestatori. Insomma: un commando di estrema destra in piena regola, compreso chi aveva dimestichezza con il tritolo. È evidente che la morte di Ermanno non ha nulla a che vedere con la politica. Però è nata lì, in quell’ambiente, in quel clima di teste calde”.

Il 25 giugno la rovinosa vicenda giudiziaria tocca il fondo. Evidentemente incapace di rigettare l’ipotesi andata a lungo per la maggiore, esattamente il giorno successivo la morte di Meciani Mazzocchi deposita la sentenza istruttoria che sancisce la colpevolezza dell’imprenditore; questo nonostante il nuovo scenario emerso dalle ammissioni di Baldisseri. A Viareggio però le gravissime accuse “lasciano tutti perplessi. È come se la giustizia avesse qualche senso di colpa e ci dicesse: è vero, lo abbiamo perseguitato; ma non era una brava persona”.

Dopodiché l’estate “sembra dare un po’ di sollievo al corpo malato della città”; con l’inchiesta praticamente bloccata, “del tutto indiziaria e senza alcuna prova certa”. Il caso Lavorini torna d’attualità il 23 settembre, giorno in cui Baldisseri inscena un tentativo di suicidio ingerendo due chiodi, le cui punte ha però provveduto a neutralizzare con dei cerotti: espediente solitamente utilizzato dai carcerati per lasciare la cella, ma che in questa occasione non sortisce l’effetto sperato. Passano altri mesi in cui l’indagine invece di imboccare la strada alfine indicata dallo stesso Baldisseri continua incredibilmente a perdersi dietro personaggi e suggestioni da tempo rivelatisi del tutto inattendibili; finché, il 25 gennaio ‘70, con le accuse di favoreggiamento nei confronti di Baldisseri e Della Latta e falsa testimonianza, viene arrestato Vangioni.

“L’arresto è per il giudice un escamotage per avere a disposizione il piccolo leader monarchico. Mazzocchi, infatti, ha deciso di smettere di ascoltare Marco e Rodolfo e le loro bugie che cambiano di contenuto a seconda dell’andamento delle indagini, di lasciarli cuocere nel loro brodo, di evitare inutili confronti su questo o quel particolare emerso dalle loro confessioni. Ora punta tutto sulle ammissioni che ha fatto Benedetti e sulle registrazioni dei colloqui fra loro tre”. Condotti i tre giovani sia nella pineta di Ponente che sulla spiaggia di Marina di Vecchiano con la motivazione di dover esperire ulteriori sopralluoghi, il magistrato ha provveduto a lasciarli soli, nell’auto dei carabinieri dotata di microspie: e dalle loro bocche sono puntualmente uscite parole che confermano le loro responsabilità come la loro mendacia.

Ma Mazzocchi se n’è inventata anche un’altra. Pur essendosi convinto che il delitto sia stato commesso nel luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere, “per diminuire la pressione della stampa egli lascia intendere ai giornalisti che l’assassinio è avvenuto a Viareggio e che per questo sta per restituire le carte al giudice istruttore di Lucca. Una serie di trucchetti e piccole bugie che ritiene prima o poi lo porteranno alla verità”. Lungo la strada per la quale però il giudice istruttore incontra un ulteriore ostacolo, rappresentato dal pubblico ministero: il procuratore di Pisa, Raul Tanzi, è infatti convinto sia del movente sessuale del delitto che del fatto che esso abbia effettivamente avuto luogo a Viareggio; per questo preme perché il collega rinunci all’inchiesta rimettendola nuovamente a Lucca.

Scaduti per Vangioni i termini di carcerazione preventiva, Mazzocchi emette sul suo conto un nuovo mandato di cattura, per omicidio volontario e tentata estorsione; il giovane si dà allora alla latitanza. Senonché la Cassazione accoglie il ricorso presentato dai suoi legali, dal momento che nel provvedimento il giudice pisano ha omesso di indicare quei “sufficienti indizi di colpevolezza” che lo sosterrebbero. Nel ‘71 tornano in libertà anche Della Latta e Baldisseri: il primo si trasferisce; l’altro – al verde e “vivendo nella paura” – resta nei dintorni di Viareggio, accampandosi in una tenda che una sera viene fatta oggetto di colpi di pistola: “spari decisamente intimidatori, che confermano la pista politica del delitto Lavorini”.

Ma la politica condiziona pesantemente la stessa indagine: il procuratore generale di Firenze, Mario Calamari, “magistrato integerrimo ma decisamente conservatore, all’attacco della nascente corrente di Magistratura democratica, chiede il trasferimento di alcuni giudici di sinistra, tra cui Mazzocchi, accusato di condurre l’inchiesta con “incertezze e indecisioni””. Pur approvando tale richiesta, la Cassazione concede al magistrato pisano il tempo necessario a portare a termine l’istruttoria relativa al delitto Lavorini.

Trascorsi infruttuosamente altri due anni, è tuttavia solo nel ‘73 che Mazzocchi torna a concentrarsi su Baldisseri e sulle sue accuse a Vangioni, formulate già quattro anni prima ma con l’Autore che pare adesso avere dimenticato quella pagina. “Ora Marco sostiene che il rapimento di Ermanno fu organizzato dal Fronte monarchico giovanile che intendeva finanziarsi per compiere attentati; e scarica tutto su Vangioni. Della Latta, invece, si è trincerato dietro il solo ruolo di seppellitore: lui dell’omicidio di Ermanno non sa nulla”.

La richiesta di rinvio a giudizio giunge il 24 gennaio ‘74. “Per il giudice Mazzocchi la morte di Ermanno va ricondotta al clima che si era creato in Versilia dopo i fatti della Bussola: fu allora che cominciarono a costituirsi alcuni “Comitati di salute pubblica”. In quell’atmosfera, un gruppo di giovani, coagulati attorno al Fronte monarchico, di cui Vangioni era il capo e Baldisseri il segretario-cassiere, pianificò il sequestro per finanziare azioni eversive di destra. Il bimbo, percosso da Baldisseri, cadde ferito a morte e fu finito da Della Latta, che lo soffocò con un fazzoletto. Il cadavere fu sepolto nella sabbia di Marina di Vecchiano; la banda sperava che non sarebbe mai stato trovato. Per intorbidire le acque i ragazzi accusati inventarono e ingigantirono storie di omosessuali pedofili, di festini, di convegni di pineta, coinvolgendo personaggi in vista a Viareggio fra i quali Meciani, Zacconi, Berchielli e Martinotti”.

Nella definizione dell’impianto accusatorio però il magistrato pisano “non ha avuto coraggio, cedendo a un compromesso” evidenziato dalla “strana formula” in cui si risolve il capo d’imputazione: omicidio volontario non necessariamente premeditato; ossia un “punto debole, debolissimo, che condizionerà tutto il processo”. Non solo: fin dal momento in cui ha assunto la conduzione dell’inchiesta, Mazzocchi “non ha studiato a fondo le carte fin lì raccolte: soprattutto i primi interrogatori dei carabinieri, gestiti in toto dal colonnello De Julio”. Mancanza che ha fatto sì che la sua istruttoria non si emendasse di tutti gli errori e condizionamenti caratterizzanti quella sciagurata fase investigativa: sino ad indurre il giudice alla consapevolezza “che in aula perderà”.

Il processo ha inizio il 9 gennaio ‘75: ben sei anni dopo il delitto. “I “ragazzi di pineta” sono scomparsi. Ora sul banco degli imputati ci sono giovani uomini fatti, con un lavoro, per quanto precario, con mogli e figli”. Presenti Vangioni (tuttora detenuto) e Della Latta, Baldisseri è assente per malattia; nell’aula gremita di giornalisti figurano la mamma di Ermanno e la vedova di Meciani (nel frattempo peraltro convolata a nuove nozze). Per quanto riguarda invece la cittadinanza viareggina, “è come se avesse voltato pagina”.

Nella sua relazione il pubblico ministero Giovanni Sellaroli – che sostituisce Tanzi, ammalato – ripropone, pur senza individuarne il luogo, la tesi del festino a sfondo sessuale, nel corso del quale Ermanno avrebbe trovato accidentalmente la morte (omicidio preterintenzionale), escludendo quella formulata da Mazzocchi del rapimento finalizzato all’ottenimento di un riscatto necessario a finanziare le attività eversive del Fronte monarchico giovanile versiliese (omicidio volontario) e lasciando intendere che per Vangioni chiederà il proscioglimento per insufficienza di prove, ritenendolo estraneo al mortale convegno. Qui dunque la contrapposizione non è quella classica fra innocentisti e colpevolisti – perché “pubblico e giornalisti sanno di avere davanti i responsabili del delitto Lavorini” – “ma tra chi crede al giudice istruttore (trama politica) e chi al pm (trama sessuale)”.

“Esteriormente gli imputati sono cambiati; ma le cose che dicono rispondendo alle domande del presidente della Corte sono le stesse: bugie e ancora bugie che si contraddicono l’un l’altra. Non si sono neppure messi d’accordo: ognuno recita la parte di sempre”. Reiterate da Della Latta e Vangioni le loro ignobili messinscene – e senza che nessuno faccia loro le osservazioni più adeguate a scardinarne l’ostinata mendacità – con la guarigione di Baldisseri “entra in aula la dodicesima verità: perché nel corso della lunghissima istruttoria lui di versioni della morte di Ermanno ne ha distillate ben undici”, peraltro costate la vita a due persone.

“Riconosco che tutte le altre versioni fornite in sede istruttoria non avevano alcun fondamento di verità”, esordisce il bullo viareggino. Il motivo? “Non sapevo più cosa dire: pensavo fosse meglio sollevare più polverone possibile. Conoscevo Lavorini soltanto di vista; quando morì, non ero presente”, aggiunge, inventandosi un alibi per quel pomeriggio e scaricando ogni responsabilità su Della Latta e Meciani. Tra gli applausi del pubblico, Sellaroli ne chiede l’arresto per falsa testimonianza e calunnia; ma la corte respinge l’istanza.

Baldisseri prosegue raccontando di come il giorno successivo all’omicidio Della Latta gli si mostrasse preoccupato, confidandogli di avere dovuto seppellire il corpo del ragazzo e chiedendogli di testimoniare il falso in cambio di denaro: “Se tu venissi chiamato in questura, devi dire che il 31 gennaio, alle 16.45, eravamo assieme in una pizzeria e che entrambi avevamo visto passare Ermanno. Tu sei minorenne e incensurato: se ti accusi di quanto è successo, te la potrai cavare con due-tre anni di riformatorio. Noi siamo disposti a pagarti bene”, senza tuttavia specificare a chi si riferisse con quel “noi”. Ma anche dietro le accuse a Meciani stava l’imbeccata del necroforo: “Accusai quell’uomo perché così mi era stato suggerito da Della Latta; poi, quando seppi che aveva un alibi, fui costretto a modificare la versione dei fatti. Parlando di estorsione e di festini sessuali, coinvolgendo altre persone non feci altro che eseguire quanto raccomandatomi da Della Latta: “Cerca di sollevare il più gran polverone possibile””.

Il dibattimento mostra tutti i limiti e le forzature dell’istruttoria: a cominciare dal fatto che “le indagini sono state monopolizzate dai carabinieri, che hanno letteralmente escluso la polizia”. Caroppo giunge ad ammettere implicitamente il fatto che i militari dell’Arma si fossero prestati ad assecondare il “doppo gioco” attuato da Vangioni dopo l’arresto di Baldisseri allo scopo di tutelare la reputazione del Fronte monarchico, mettendogli anche a disposizione un’auto di servizio: “Sospettai quasi subito che egli frequentasse i nostri uffici non per portare notizie ma per raccoglierne”, rigira la frittata il colonnello. Mentre ancor più grave risulta la rivelazione di Della Latta secondo la quale sarebbero stati gli stessi carabinieri a “suggerirgli” le accuse contro Berchielli e Martinotti, mostrandogli loro foto e facendogli intendere di nutrire già dei sospetti sul loro conto.

La gran parte delle sessanta testimonianze che seguono risultano perlopiù evasive o reticenti. In particolare, non fanno chiarezza quelle chiamate a confermare l’alibi presentato da Vangioni; il quale è peraltro difeso da un principe del foro del calibro di Alfredo De Marsico, noto esponente monarchico dopo una prestigiosa carriera politica percorsa sotto il fascismo. L’ultima ad essere ascoltata è la madre di Baldisseri: la quale rivela che dopo l’arresto del figlio trovò a più riprese nella cassetta della posta buste contenenti denaro, per una cifra complessiva attorno al mezzo milione di lire, accompagnato da biglietti firmati da “un amico” che vi si dichiarava intenzionato a “contribuire a difendere Marco che certamente è innocente”.

In questo strano processo in cui la procura si presenta spaccata, le parti civili – che oltre alla famiglia di Ermanno comprendono anche quella di Meciani – si schierano dalla parte del giudice istruttore, dunque dissociandosi dalla tesi del delitto sessuale ribadita dal pubblico ministero nella sua requisitoria. Per quanto Sellaroli si veda costretto per tenerla in piedi a ricorrere ad un artificio, consistente nell’escludere dalla scena dell’omicidio Vangioni per tirarvi dentro Meciani; ma sottolineando ad ogni pie’ sospinto la generale debolezza dell’impianto accusatorio: “il processo resta con le sue inquietanti ombre”; “la dura, lunga, faticosa inchiesta giudiziaria ha raccolto pochi frutti”; “la ricostruzione dei fatti che ho offerto non è né nuova né completa perché la verità processuale ha manifestato tutti i suoi limiti”.

A fronte di tali sofismi, non appare congruente la durezza delle sue richieste di condanna: 21 anni per Della Latta, 16 per Baldisseri; entrambi per concorso in sequestro di persona, omicidio preterintenzionale, occultamento di cadavere e calunnia continuata nei confronti di Zacconi, Berchielli, Martinotti e sorprendentemente anche di Meciani, per averlo indicato come l’assassino di Ermanno nel corso di quel fantomatico festino. La pena richiesta per Della Latta comprende anche gli atti di libidine violenta commessi sul minore Benedetti; mentre per Vangioni viene chiesta l’assoluzione (il testo non specifica con quale formula).

La sentenza non si discosta granché dalle richieste dell’accusa: 19 anni a Della Latta, 15 a Baldisseri, con due anni condonati per entrambi; Vangioni assolto ma per insufficienza di prove. Essa peraltro non risolve la questione delle cause della morte di Ermanno: il ragazzo fu picchiato e nel cadere a terra sbatté la testa contro un sasso, oppure, persa conoscenza a seguito delle percosse subite, fu soffocato? Nel dubbio – che la stessa medicina legale non è riuscita a sciogliere – i giudici scelgono, nel rispetto della legge che impone in tali casi di favorire gli imputati, la prima ipotesi, che si traduce nel reato di omicidio preterintenzionale, rispetto alla seconda che comporterebbe quello volontario, ma precisando: “È vero che gli imputati hanno fatto grossi sforzi per accreditare certe versioni che comportavano una loro responsabilità per omicidio preterintenzionale, ma non si può escludere che essi mirassero a tener nascosta una verità più grave”.

Al processo d’appello che si tiene a Firenze l’anno successivo, il procuratore generale Enzo Fileno Carabba si propone di azzerare le conclusioni cui è giunta l’assise pisana, giungendo a definirle addirittura “paranoiche”. Convinto che Ermanno sia stato soffocato dopo essere stato atterrato da una scarica di cazzotti, ironizza sull’espressione utilizzata in proposito dalla sentenza: “Cosa c’è di “più grave” dell’omicidio volontario compiuto a scopo di estorsione?”.

Tra i due possibili moventi del delitto Lavorini il pubblico ministero pare orientarsi sulla matrice eversiva, ricostruendo la temperie storica dalla quale sarebbe scaturito il sequestro: “Nel gennaio ‘69 la Versilia visse giornate di particolare tensione sociale e politica per via del noto episodio di Capodanno avvenuto alla Bussola. Perfettamente logico pertanto che in quel clima l’intrepido e spavaldo Vangioni – che attuava manifestazioni clamorose e sognava colpi di stato – abbia avvertito la necessità, per sé e per il suo gruppo, di incentivare le operazioni e quindi di far denaro anche con il riscatto. Egli andò a caccia affannosa di alibi per coprire la sua attività nella giornata del 31 gennaio e di codesti alibi ne è rimasto in piedi, estremamente vacillante, uno solo. Attorno all’imputato ruotano persone disposte a mentire con lui – e per lui – per sviare e confondere le indagini: un gruppo di persone accomunate dalla stessa ideologia politica”. Ma senza poter escludere neppure un coinvolgimento nel delitto di Meciani: “Può darsi che gli autori del rapimento abbiano agito di propria iniziativa, con l’intenzione di presentare Ermanno a Meciani che ne avrebbe tentato l’iniziazione sessuale, pagando ai procacciatori un’adeguata ricompensa. Può darsi invece che fosse stato Meciani ad avanzare la generica richiesta di un ragazzo di quel tipo. Trovatisi poi, per circostanze impreviste, con un cadavere tra le braccia, i rapitori si sarebbero visti costretti a ricorrere al destinatario della “primizia” e questi, a causa della sua doppia vita, sarebbe venuto a trovarsi nell’impossibilità di esimersi dal collaborare”.

Escluse per motivi procedurali dal processo di primo grado le registrazioni dei colloqui tra gli imputati carpite a loro insaputa, essendo intervenuta in proposito una sentenza della Cassazione esse possono invece essere utilizzate in questo di appello. Dal colloquio tra Baldisseri e Della Latta, emerge l’accordo preso dai due per sostenere la tesi del convegno sessuale con Meciani, della morte di Ermanno nella pineta viareggina e quindi della preterintenzionalità dell’omicidio; con Baldisseri che, nel polemizzare con l’interlocutore, a un certo punto afferma: “Era meglio che si sosteneva tutti [le accuse contro] il Meciani”. In quello tra Vangioni e Baldisseri, mentre il primo appare più cauto in quanto sospettoso della presenza del registratore, l’altro si lascia andare a una previsione in merito a un’eventuale condanna: “Tuttalpiù mi possono dare un concorso in omicidio perché io col ragazzo mi ci sono picchiato”.

Dopodiché i due si concentrano sulla morte di Ermanno; con Vangioni a condurre una sorta di interrogatorio che non appare come eccessivamente genuino, potendo anche in questo caso essere condizionato dalla consapevolezza della presenza della microspia. “È stato veramente Della Latta ad ammazzarlo? L’hai visto te? – C’ero anch’io, no? – E perché hai accusato Meciani? – È stato Della Latta a montarmi la testa. L’unica persona che ho sulla coscienza è Meciani – E io che sono in galera per le tue accuse? – Io dico di morti sulla coscienza – Chi ha sotterrato Lavorini? Della Latta? – Sì. Lo si incontrò al luna park di Viareggio alle due e un quarto – Con che scusa lo portaste in pineta? – Così, a fare un giro – Ma Della Latta che intenzioni aveva? – Di rapirlo: poi invece… – Perché Della Latta l’ammazzò? Il ragazzo si mise a urlare? – Della Latta si allontanò per dieci minuti; io litigai con il ragazzo perché voleva andare via: mi dette uno schiaffo, si fece a spintoni, a botte. Poi tornò Della Latta e lo soffocò perché stava male: cadendo, aveva picchiato la testa – Insomma avete fatto tutto tu e Della Latta. E quei nomi che avete buttato fuori, c’entrano? – No”, risponde Baldisseri ridendo.

Ad una analoga sequela di domande Vangioni sottopone anche Della Latta: “Perché hai detto che la telefonata del riscatto l’ho fatta io? – Con questa gente! Mi vengono a interrogare per quindici ore di continuo… Ma tu credi che sia in galera per qualcosa io? – Ma tu c’entri o no? – Non c’entra nessuno di quelli che sono imputati – E chi l’ha ammazzato il ragazzo? – E chi lo sa? – Ma come l’hai trovato te? – Mi è venuto a chiamare Baldisseri. Adesso dice che l’ho ammazzato io: ma al processo ci vogliono le prove e non ce ne sono né contro di me, né contro di te, né contro Baldisseri – Baldisseri mi ha detto che l’altro ieri ti hanno lasciato solo con lui in auto. Come mai? – Che ne so. Forse c’è qualche registratore qui sotto – Qui? – Hai voglia che ci può essere. Ma non importa se c’è. Se c’è gli dico che sono tutti pezzi di merda, non ho mica paura”.

Al momento dell’interrogatorio di Baldisseri, il suo avvocato Graziano Maffei non è presente, per cui si deve ricorrere a un difensore d’ufficio. L’imputato continua a svicolare dall’accusa principale parlando di Meciani: “Quello è un morto che mi pesa sulla coscienza perché l’ho accusato ingiustamente”. Ennesima ostentazione di sufficienza che provoca la reazione del giudice a latere (del quale non viene riportato il nome): “Sembra che Ermanno non conti più niente. Era un ragazzo di dodici anni, un giorno del 1969 è improvvisamente scomparso, l’hanno ritrovato cadavere. Mi rivolgo all’imputato, oggi non più “ragazzo di vita”, per esortarlo a dire la verità. C’entra, lui, con la morte di Ermanno? Hanno litigato? L’ha battuto? L’ha colpito con un pugno?”. Alla negativa risposta di Baldisseri, Della Latta grida: “C’è gente che dopo sette anni viene qui a dire di non sapere niente!”. La corte dispone allora l’ennesimo confronto tra i due, destinato a rivelarsi inutile quanto i precedenti. “Dillo, dillo cosa si è fatto!”, incalza il necroforo; e l’altro: “Sei tu che devi dire cosa hai fatto!”. Non si procede oltre; né alcuna novità offre il successivo interrogatorio di Vangioni.

Nella sua requisitoria, Fileno Carabba va dritto per la sua strada: non solo nel formulare le proprie accuse ma anche nel difendere la reputazione della vittima dalle calunnie gettategli addosso da quell’accozzaglia di giovani deviati, criminali e assassini. “Ermanno Lavorini fu rapito a scopo di estorsione e non di libidine. Quando tentò di ribellarsi fu picchiato, soffocato, seppellito. Non si trattò di omicidio preterintenzionale, cioè accidentale: fu un omicidio vero e proprio, cioè volontario. La sentenza della corte d’assise di Pisa è errata; i giudici d’appello hanno il dovere di correggerla, punendo come si conviene i tre principali imputati: Della Latta, Baldisseri e Vangioni. Ermanno era estraneo all’equivoco mondo della pineta, non aveva mai avuto rapporti con i “prostituti”, non era in lui traccia di deviazioni sessuali: grazie al cielo questo ragazzo sbirciava le gambe delle commesse. Quel pomeriggio a Marina di Vecchiano egli volle tornare a casa non appena si accorse che qualcosa non andava: ma glielo impedirono al punto di ucciderlo”.

Secondo l’illustre magistrato fiorentino i tre imputati meriterebbero l’ergastolo, colpevoli come sono di concorso in sequestro di persona, omicidio volontario e soppressione di cadavere; Della Latta e Baldisseri, anche di calunnia pluriaggravata continuata nei confronti di Meciani. Ma la pena che prova per queste “anime perse” porta Fileno Carabba a ridurre le proprie richieste di condanna a 30 anni per Vangioni e Della Latta – evidentemente individuati il primo come l’ideatore del rapimento, il secondo come l’omicida materiale – e 22 per Baldisseri. “È proprio nell’ambito del Fronte monarchico giovanile di Viareggio che è stata concertata l’azione di gruppo: il sequestro di Ermanno Lavorini con il preciso scopo di chiederne il riscatto”. L’ideazione del piano delittuoso era stata rivelata, nella sua confessione al giudice istruttore, da Benedetti, il “bambino di pineta” anello debole della catena cui la giovanissima età ha peraltro evitato il processo: “Il fatto fu preparato durante le riunioni nella sede del Fronte. Con i soldi del riscatto si dovevano comperare degli esplosivi che sarebbero poi serviti per compiere una serie di attentati”.

Nella sua arringa De Marsico cerca di sminuire il ruolo del Fronte, presentandolo alla stregua di una sprovveduta formazione composta da ragazzi che “giocavano con la politica”. Mentre Maffei – riassunto il proprio ruolo – si schiera praticamente con l’accusa, sposandone la tesi che vuole Ermanno ucciso durante il fallito sequestro. Ma precisando non trattarsi di un delitto di ragazzi, bensì di adulti, e segnatamente quattro, due dei quali rimasti sconosciuti: oltre a Della Latta e Vangioni, quello che fece la telefonata ai Lavorini nonché il presunto cinquantenne notato sulla 500 di Vangioni al momento in cui venne portato via il sacco a pelo. Tutto ciò allo scopo di sminuire il ruolo giocato nell’affaire da Baldisseri, limitatosi ad assumere colpe altrui.

La sentenza recepisce l’impostazione dell’accusa, ma con una variante fondamentale: escludendo negli imputati la volontà di uccidere il ragazzo. L’opzione dei giudici per la preterintenzionalità dell’omicidio fa ovviamente crollare l’entità delle pene comminate: undici anni e dieci mesi per Della Latta; nove anni per Vangioni; otto anni e sei mesi per Baldisseri. Come non bastasse, due anni vengono loro condonati. Insomma, la classica sentenza all’italiana, pavida, compromissoria e profondamente ingiusta, e che il 13 maggio ‘77 riceverà il sigillo della Cassazione. Ciò a dispetto della richiesta del procuratore generale, Antonino Scopelliti, di rifare il processo d’appello partendo finalmente dall’imputazione di omicidio volontario.

Ma la nefanda vicenda giudiziaria produrrà ulteriori iniquità anche nella sua coda: grazie ai vari benefici di legge i tre assassini sconteranno infatti sì e no cinque anni di carcere a testa. Uno Stato ottuso, insensibile e sommamente iniquo ha dunque voluto riservare un trattamento di estremo favore, dall’inizio alla fine ed in nome del popolo italiano, a chi non solo ha ucciso brutalmente un bambino, ma si è sempre rifiutato di collaborare con la giustizia seminando anzi una valanga di bugie, calunnie e infamità che hanno peraltro causato la morte (o la rovina) di altri innocenti.

Donde il commento finale dell’Autore, che vede quella partorita dai tribunali come “una soluzione di compromesso”, frutto di “processi senza prove e senza certezze” e che “lascia dietro di sé un lungo e doloroso elenco di domande: chi uccise materialmente, ma senza volerlo, Ermanno Lavorini? Dov’è la baracca di Marina di Vecchiano in cui l’ostaggio sarebbe rimasto prigioniero fino al termine del rapimento? Chi fece la telefonata al negozio dei Lavorini? Qual era il disegno complessivo di gestione del sequestro? Quali i compiti dei singoli partecipanti? I rapitori erano davvero solo tre? E il resto dei ragazzini del Fronte monarchico che ruolo ha avuto? Fecero tutto senza l’aiuto di adulti un po’ più adulti di Vangioni e Della Latta? Era quella, davvero, solo una banda di ragazzini fanatici?”. Questioni una più rilevante dell’altra alle quali lo sciagurato iter processuale “non ha potuto rispondere. Resta una sensazione angosciante di ingiustizia e di impotenza della giustizia. La ragnatela di bugie, finte rivelazioni, ritrattazioni, calunnie ha strangolato non solo Ermanno ma anche la ricerca della verità sulla sua tragica fine. Resta il dubbio di un processo e di una sentenza entrambi figli del loro tempo”.

Tempo in cui un giovanissimo Provvisionato iniziava la propria carriera giornalistica ma coltivando interessi diversi rispetto a quelli criminologici: altrimenti – ne siamo certi – sarebbe stato egli stesso a fornirci un degno libro d’inchiesta in grado di dipanare tutti quei misteri dalla sentenza lasciati irrisolti. Su alcuni dei quali proveremo – assai indegnamente – ad azzardare un’ipotesi noi.

Quel maledetto pomeriggio Ermanno, diretto al luna park, incatena la bicicletta dinanzi al commissariato: evidentemente una sua abitudine, dettata dalla preoccupazione di garantirsi una maggiore sicurezza, e che ne rivela la natura di ragazzino accorto e previdente. Incontra Baldisseri, il quale in attuazione del disegno estorsivo ai danni della famiglia Lavorini deciso nelle riunioni del Fronte monarchico lo conduce in pineta, ove i due ragazzi vengono notati dalla proprietaria del bar del bocciodromo e dove sa di trovare Della Latta. Sfruttando il naturale ascendente esercitato sui ragazzetti dai compagni più grandi, i due malintenzionati convincono Ermanno a recarsi con loro nella defilata pineta di Marina di Vecchiano, per un’escursione assai più avventurosa di quanto possa offrire il solito pomeriggio viareggino. Si tratta – sostanzialmente – della ricostruzione fatta da Baldisseri in caserma, al cospetto del colonnello De Julio: ma sostituendo l’incolpevole e artificiosamente coinvolto Meciani con Della Latta.

Oggettivamente la scelta di segregare il ragazzino in una baracca del litorale vecchianese apparirebbe come eccessivamente fiduciosa, e più adatta all’idea di un sequestro-lampo: teoricamente infatti una zona del genere, posta a pochi chilometri di distanza da Viareggio ed a sua volta piuttosto malfamata, non avrebbe potuto sottrarsi alle battute a tappeto delle forze dell’ordine, presumibilmente effettuate con l’ausilio delle unità cinofile. Bisogna tuttavia prendere atto di come il corpo venisse ritrovato oltre un mese dopo, e in circostanze del tutto fortuite: nelle stesse settimane infatti gli inquirenti erano strenuamente impegnati a dare vita al primo atto di quel “disastro investigativo” dal saggio capillarmente ricostruito.

Ma una volta giunti sul posto lo sveglio Ermanno non tarda a comprendere le intenzioni per nulla amichevoli dei due conoscenti di cui si è incautamente fidato: prende paura, reagisce, chiede di essere riportato  indietro, probabilmente tenta anche di scappare. A quel punto Baldisseri dimostra tutta la propria natura delinquenziale, violenta e senza scrupoli, reagendo nella maniera più brutale: ossia tempestando il povero bambino di cazzotti che gli provocano quelle gravi lesioni cerebrali evidenziate dalla prima autopsia. A completare l’opera interviene allora Della Latta, strangolando Ermanno caduto a terra privo di sensi. Quindi la sommaria sepoltura, fatta giusto da dei balordi che, una volta sfuggita loro di mano la situazione, hanno avuto a loro volta paura, non vedendo l’ora di andar via di lì; né nessuno della sgangherata “organizzazione” penserà di sistemare meglio quel cadavere – magari nottetempo – se non di farlo sparire del tutto. Eppure la telefonata per ottenere il riscatto – ad omicidio appena compiuto – viene fatta: quella sì.

A distanza di cinquant’anni, resta in noi tutta la tristezza per una tragica vicenda piena di lati oscuri che commosse il Paese come nessun’altra, e che Sandro Provvisionato ha contribuito a ricostruire e – nei limiti del possibile – a chiarire da par suo. Una vicenda umanamente straziante quanto giudiziariamente sconcertante, e destinata a marchiare a fuoco le carni di un’intera generazione.

Il caso Lavorini di Sandro Provvisionatoultima modifica: 2019-06-25T21:31:10+02:00da tradersimo
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