Una testimonianza sull’aggressione subita da Giovanni Amendola a Pieve a Nievole

Il saggio raccoglie la testimonianza del sig. Graziano Marcelli, figlio del montecatinese Marcello Marcelli che fu protagonista dei fatti.

La morte dell’esponente liberale Giovanni Amendola viene comunemente attribuita alle conseguenze di un pestaggio di marca fascista che egli avrebbe subito in Valdinievole il 20 luglio 1925. Una versione accreditata anche dalla retorica targa apposta sul luogo dell’aggressione nel 1965 da parte dei Comuni di Montecatini, Monsummano e Pieve a Nievole: “Alla memoria di Giovanni Amendola filosofo scrittore e parlamentare insigne che in questo luogo aggredito dal cieco odio fascista difese, morendo, la libertà sua e degli uomini civili”. Secondo tale vulgata, la morte dell’illustre politico campano sarebbe dunque da assimilare a quelle di don Minzoni, Matteotti, Gobetti; a conclusioni diverse inducono tuttavia sia l’esame della documentazione relativa alla vicenda che la testimonianza da noi raccolta.

Per comprendere l’episodio che vide protagonista Amendola occorrerà risalire al primo dopoguerra, ricostruendo in particolare il clima politico instauratosi in Valdinievole. La località dei “Bagni di Montecatini” contava allora 5.000 abitanti ed era situata in provincia di Lucca: dopo i fasti della Belle Époque e la pausa imposta dal conflitto mondiale, la consuetudine da parte dell’alta società di scegliere per le cure termali la rinomata stazione toscana non aveva tardato a riprendere. Al contempo, nei rurali paesi del circondario (Ponte Buggianese, Chiesina Uzzanese, Traversagna) si andava diffondendo l’idea socialista: tanto che a Margine Coperta – ove a favorire la formazione di una coscienza rivoluzionaria era stata soprattutto la presenza del Pastificio Maltagliati – la concentrazione di maestranze fortemente caratterizzate in senso ideologico aveva guadagnato l’appellativo di “Piccola Russia”.

L’economia montecatinese ruotava invece attorno alle varie strutture turistiche e commerciali deputate a servire la ricercata clientela delle terme: donde il prevalere di una tendenza politica assai più moderata e conservatrice. Il conflitto ideologico e sociale si fece insanabile all’esplodere delle violenze del “biennio rosso”, allorché gli aspiranti bolscevichi locali si organizzarono in bande armate che oltre a occupare fabbriche e terreni presero a compiere sempre più frequenti scorrerie nella località termale, finalizzate a devastare le strutture destinate all’accoglienza e al soggiorno dei “signori”: dagli alberghi ai saloni di bellezza, dai negozi di tessuti alle gallerie d’arte. Particolarmente preso di mira viale Forini, dagli assalitori eletto a simbolo del potere borghese in quanto sede degli esercizi più eleganti nonché della “Commerciale”, l’edicola-libreria frequentata dal bel mondo; gravemente danneggiato fu inoltre l’Hotel Parigi.

Occorre precisare che i comunisti valdinievolini avevano buon gioco nel mettere in atto tali raid anche grazie all’esiguità della forza pubblica, a Montecatini limitata a due carabinieri, due guardie municipali più una terza, peraltro adibita al solo servizio alle terme. Del resto sino a poco tempo prima nessuno avrebbe potuto immaginare che in una tranquilla località di villeggiatura così appartata rispetto ai grossi centri nonché tradizionalmente frequentata da una clientela d’élite l’ordine pubblico sarebbe potuto degenerare fino a quel punto.

Come in quelle città in cui il confronto politico era più serrato e violento, anche a Montecatini sorse allora per reazione un Fascio di combattimento particolarmente forte e agguerrito, prevalentemente composto dai figli di commercianti e albergatori, al duplice scopo di supportare le scarne forze dell’ordine e tutelare l’attività di famiglia. Per ovviare all’imprevedibilità degli assalti i giovani fascisti si organizzarono in un servizio di “fischietti”: ronde che presidiavano a turno i vari punti di accesso alla cittadina in modo da poter dare tempestivamente l’allarme in caso di arrivo dei teppisti rossi.

Molti di quei ragazzi avrebbero poi preso parte alla Marcia su Roma: tra questi Marcello Marcelli, la cui famiglia gestiva un salone di coiffeur in viale Forini. Classe 1906, il 28 ottobre 1922 Marcello fu presente nella capitale quale mascotte al seguito dei camerati del Fascio lucchese: il che ne avrebbe fatto uno dei più giovani a potersi fregiare dell’onorificenza della “Sciarpa littorio” concessa ai “marcisti”.

Il 1925 rappresenta notoriamente l’anno della svolta autoritaria del regime, preludio all’avvento della dittatura vera e propria formalizzata l’anno successivo con l’emanazione delle “leggi liberticide”. Il 19 luglio Amendola giunge a Montecatini per la consueta cura delle acque a tutela del fegato, scendendo al centralissimo Hotel La Pace: ma una volta diffusasi la notizia del suo arrivo, sin dal mattino successivo si forma a ridosso dell’albergo un assembramento di facinorosi che prende a contestare in maniera sempre più minacciosa la presenza dell’esponente liberale nonché leader della “secessione aventiniana” seguita al delitto Matteotti.

La folla tumultuante, disposta lungo corso Roma e invadendo anche l’adiacente piazza Umberto I, si accalca di fronte all’ingresso principale dell’albergo sino a far temere di poter penetrare al suo interno per mettere le mani sullo stesso parlamentare. Preoccupati che la situazione possa precipitare da un momento all’altro e tardando ad arrivare i rinforzi richiesti al Comando di Lucca dai carabinieri locali, i dirigenti del Fascio montecatinese (con in testa Arduino Mariani) decidono di comunicare quanto sta avvenendo al Federale lucchese Carlo Scorza: il quale, tempestivamente giunto dal capoluogo, si premura di tutelare l’incolumità di Amendola facendolo fuggire di nascosto, ricorrendo a tale scopo a un escamotage.

Mentre nella camera da lui occupata viene posto un dipendente dell’albergo, accanto alla finestra in modo da far pensare ai manifestanti che vi sia ancora presente l’onorevole, questi viene fatto uscire dall’ingresso secondario e fatto salire con i bagagli sull’automobile (una Fiat 501, fornita assieme all’autista dal Garage Morescalchi) che dovrà condurlo alla stazione ferroviaria di Pistoia, donde potrà rientrare a Roma fruendo di uno scompartimento riservato e perdipiù protetto da un tenente della Milizia con due militi. Non essendo alle 19 ancora giunto il contingente di carabinieri deputato a fare da scorta lungo il tragitto stradale, il Federale dispone che ad accompagnare Amendola siano tre giovani fascisti locali, ingaggiati al volo.

La macchina si mette dunque in marcia lungo via della Torretta avendo a bordo quattro persone: davanti, alla sinistra dell’autista1, si siede il Marcelli, con ancora indosso la divisa da cameriere in quanto appena smontato dal turno di lavoro pomeridiano all’attiguo Caffè Biondi. Dietro, a destra, lo stesso Amendola, al cui fianco prende posto il secondo accompagnatore, mentre il terzo monta sul predellino. La direzione presa è ovviamente quella opposta rispetto ai manifestanti; una volta percorso viale Verdi e allontanatisi dalla zona “calda”, l’uomo posizionatosi fuori dall’abitacolo abbandona la comitiva.

Superate Pieve a Nievole e la Colonna di Monsummano, giunta all’altezza della fontana della Panzana l’automobile è costretta a fermarsi a causa di un tronco d’albero che ostruisce la strada: sceso per rimuoverlo, nel mentre si china a terra viene colpito con un bastone il Marcelli, prima al collo e poi alle gambe, da un individuo apparso all’improvviso. Al contempo, sia dal fosso di fianco alla carreggiata che da una stradina adiacente sbucano altri aggressori (forse sette o otto), uno dei quali, armato anch’egli di bastone, raggiunto il lato destro della vettura ne sfonda il finestrino posteriore destro, dunque in corrispondenza del posto occupato da Amendola il quale viene investito dai frantumi.

L’agguato è evidentemente finalizzato a dare una lezione all’esponente antifascista; senonché gli assalitori – con ogni probabilità squadristi monsummanesi – vengono impediti nel loro intento delittuoso da due imprevisti verificatisi in rapida successione. Il secondo giovane di scorta onora fino in fondo il proprio ruolo, balzando a sua volta in mezzo alla strada e sparando in aria con la pistola a scopo intimidatorio; mentre dalla direzione opposta – ossia da Serravalle – sopraggiungono una dopo l’altra due macchine, inducendo definitivamente i criminali a rinunciare ai loro truci propositi e a fuggire.

La 501 può così ripartire: al pronto soccorso dell’ospedale di Pistoia vengono medicati sia il Marcelli per gli ematomi riportati che lo stesso Amendola, che lamenta delle lesioni alla parte destra del capo. Le superficiali ferite non impediscono al parlamentare di ripartire alla volta della stazione, raggiunta la quale non ha problemi a salire in treno sulle proprie gambe; non prima tuttavia di avere calorosamente ringraziato i due giovani montecatinesi che con il coraggioso atteggiamento assunto a sua difesa lo hanno salvato: e al Marcelli, che ha preso le bastonate al posto suo, dà anche un buffetto sulla guancia.

La giustizia di regime non poté esimersi dall’aprire sull’attentato subito da uno dei capi dell’opposizione un procedimento d’ufficio, per quanto rivolto contro ignoti e destinato a finire rapidamente archiviato. L’indagine fu tuttavia riaperta nel 1945, risentendo inevitabilmente del particolare clima politico dell’immediato dopoguerra: essendosi avuta nel 1926 la morte di Amendola, essa veniva dal nuovo impianto accusatorio ricondotta alle percosse da lui presuntivamente subite nel corso dell’aggressione verificatasi l’anno precedente. Il capo d’imputazione era omicidio premeditato, il mandante del delitto veniva identificato nello stesso Scorza e i suoi esecutori individuati negli esponenti del Fascio montecatinese – a cominciare dall’ex podestà – compresi i tre accompagnatori del parlamentare e a prescindere dal ruolo da ciascuno effettivamente assunto nella vicenda.

Grazie a testimonianze emerse a distanza di 20 anni dai fatti venivano così messi sotto accusa non i responsabili dell’agguato (del resto mai identificati) bensì coloro che si erano adoperati per la salvezza del politico campano; con l’ex Federale giudicato in contumacia in quanto nel frattempo riparato in Argentina. Istituita nel 1927 la provincia di Pistoia, il procedimento si tenne presso il tribunale di questa città – laddove l’episodio era avvenuto in territorio all’epoca lucchese – andando avanti per tre anni e non modificando il proprio orientamento neppure dopo l’amnistia Togliatti del 1946, finalizzata a risolvere casi di questo genere nel segno della pacificazione nazionale.

Latitando non solo le prove, ma pure gli indizi, decisiva ai fini dell’esito del processo risultò la testimonianza dell’autista: il quale dichiarò che a costringerlo a fermarsi alla Panzana era stato lo stesso Marcelli, puntandogli contro la pistola per poi immediatamente iniziare a percuotere Amendola con un bastone. L’inopinata deposizione provocò la sdegnata reazione della moglie del Marcelli, che fu espulsa dall’aula; a sostegno dell’estraneità a tale accusa del giovane che aveva fatto da accompagnatore al parlamentare stava peraltro la circostanza che già all’indomani della fine della guerra egli si era costituito all’autorità giudiziaria spontaneamente, per rispondere dei propri trascorsi fascisti.

Il Marcelli avrebbe tuttavia ricevuto soddisfazione in una delle udienze successive, allorché, incalzato dalle domande degli avvocati difensori, il principale teste dell’accusa cadde in contraddizione sia rispetto alle dichiarazioni rilasciate in istruttoria che a quanto affermato in precedenza in aula, tanto da essere incriminato dal presidente della corte per falsa testimonianza. Sull’attendibilità della sua deposizione gravò inoltre il fatto di non aver saputo rendere conto del motivo per cui egli avesse modificato a propria discrezione il percorso di fuga dall’albergo rispetto a quello indicatogli da un commissario di polizia2. Tempo dopo l’uomo si sarebbe giustificato sostenendo di essere stato costretto a dichiarare il falso dalle minacce ricevute da parte di tre individui penetratigli nottetempo in casa alla vigilia della sua deposizione allo scopo di imporgli la versione da sostenere in aula, terrorizzando sia lui che i familiari per mezzo delle armi impugnate: voci che nella piccola Montecatini non tardarono a correre.

Nemmeno tale incidente valse tuttavia a modificare il convincimento dei giudici pistoiesi, i quali riconobbero la colpevolezza di tutti gli imputati condannandoli a 30 anni di reclusione per concorso in omicidio premeditato, a piena conferma della tesi accusatoria che voleva un collegamento tra l’aggressione patita e il decesso di Amendola; l’unico a beneficiare di uno sconto di pena fu proprio il Marcelli, che ne ebbe 25 in quanto all’epoca dei fatti minorenne. Secondo la sentenza, Scorza, in combutta con i dirigenti fascisti locali, avrebbe volutamente tratto in inganno il leader dell’opposizione, mostrandoglisi preoccupato per la gravità della situazione ma al solo scopo di farlo cadere nel tranello architettato. Nelle motivazioni non venivano tuttavia spiegati diversi punti cruciali: a cominciare dall’aggravante della premeditazione, che se risultava giustificata nei confronti di chi avrebbe organizzato l’attentato non appariva applicabile a chi, ingaggiato all’ultimo momento per un incarico del tutto inatteso, era rimasto vittima egli stesso della violenza degli aggressori.

L’incongruenza delle conclusioni della corte d’assise rispetto a quanto emerso in dibattimento indusse la Cassazione ad accogliere parzialmente il ricorso presentato dalla difesa degli imputati, rinviando il processo dinanzi alla corte d’appello di Perugia: la quale rimediò alle forzature dei giudici di primo grado sia sottoponendo le testimonianze utilizzate a supporto della condanna a un esame più scrupoloso, sia attribuendo la giusta rilevanza al referto del pronto soccorso pistoiese. Quest’ultimo infatti limitando i danni riportati da Amendola alle ferite causate dai vetri escludeva che egli fosse stato colpito con corpi contundenti non solo e non tanto dagli ignoti responsabili dell’agguato, quanto dallo stesso Marcelli.

A conferma del fatto che il parlamentare avesse riportato lesioni cutanee e non interne abbiamo inoltre la testimonianza del figlio Pietro, a detta del quale il 30 agosto 1925 il padre si trovava in una clinica francese, “dove è andato a sottoporsi a un trattamento chirurgico che limiti i danni riportati al volto e alla testa nell’aggressione subita a Montecatini […]. Gli hanno rasato i capelli perché si possa lavorare alle ferite”; dalla degenza Amendola aveva difatti inviato alla famiglia una foto che lo ritraeva con la testa rasata3. A sua volta un altro figlio del politico campano, il più celebre Giorgio, in un suo scritto attribuisce onestamente la malattia che costrinse il padre all’intervento dal quale non si sarebbe più ripreso alla presenza di un tumore4.

Nell’ottobre 1950 la corte perugina si pronunciò per l’assoluzione degli imputati, per quanto per insufficienza di prove; del resto la gravità della condanna comminata in primo grado non lasciava ai giudici d’appello grossi margini di manovra. In ogni caso gli accusati si erano fatti in galera i cinque anni e quattro mesi intercorsi tra incriminazione e assoluzione.

Note

1) L’auto aveva la guida a destra.

2) Cfr. C. Martinelli, Incriminato l’autista che condusse l’on. Amendola, “La Patria”, Firenze, 30 marzo 1947.

3) Cfr. N. Ajello, L’assassinio di Giovanni Amendola, “La Repubblica”, Roma, 5 aprile 2006.

4) Cfr. G. Amendola, Un’isola, Milano, Rizzoli, 1980.

Una testimonianza sull’aggressione subita da Giovanni Amendola a Pieve a Nievoleultima modifica: 2014-04-22T21:12:21+02:00da tradersimo
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