L’ultimo carabiniere a cavallo. Giorgio Alessandri, una vita per l’Arma

 L’infanzia al Molino

Giorgio Alessandri nasce a Montefiore di Casola in Lunigiana il 6 dicembre 1931, secondo di cinque figli, primo maschio.

Come in tutta la terra apuana, a Montefiore vigono ancora le regole ancestrali della civiltà contadina: a fronte dei pochi signorotti proprietari delle terre, la gran parte della popolazione si guadagna da vivere lavorando nei campi e con le vacche. La gente di queste montagne è notoriamente semplice, onesta, laboriosa, pacifica, religiosa.

La sua vita ruota attorno all’“economia del castagno”, il cui legno è necessario anzitutto alla costruzione delle case (oltre alla mobilia ne vengono infatti ricavati infissi, scale, pavimenti, solai), all’alimentazione dei forni nonché dei camini, specie nelle lunghe veglie invernali allorché la serata viene trascorsa da più famiglie riunite a raccontarsi le fole: suggestive narrazioni evocanti fantastici abitatori della montagna, avventure comiche, apparizioni spiritiche.

Del prezioso “albero del pane” vengono quindi utilizzate le foglie, per la lettiera del bestiame; laddove la farina dolce ricavata dalle castagne viene a costituire l’elemento base della gastronomia locale, assieme alle patate e alla polenta. Quest’ultima viene ricavata dalla coltivazione del formentón, varietà di granturco: oltre alla parlata e ai costumi, dunque, pure l’alimentazione porterebbe ad assimilare questa parte di Lunigiana più al Settentrione e in particolare all’Emilia che non alla Toscana.

Da un simile quadro alimentare non può che discendere la centralità nella vita del paese del mulino: quello di Montefiore è gestito da generazioni proprio dagli Alessandri. Si tratta peraltro di uno degli impianti più importanti di tutta la Val d’Aulella sin dal Settecento, con le sue tre macine da castagne, le quattro per granaglie ed il frantoio, tutti azionati da una maestosa ruota verticale servita da una gora ricavata dal torrente Cendrato.

A rimodernare l’intero complesso molitorio ha provveduto mezzo secolo prima nonno Faustino, singolare figura di inventore-artigiano, capace di mettere a punto dinamo così come orologi per campanili. Grazie a lui sarebbe inoltre rimasta a lungo impressa nella memoria degli abitanti di Gragnola la prima visione di un ciclomotore, avvenuta la mattina in cui l’ingegnoso molinaro si recò al mercato in sella all’inedito cavallino meccanico appositamente approntato.

Lo stesso meccanismo che fa funzionare il mulino è il frutto del genio del mugnaio: il quale, oltre all’ingranaggio delle sette macine tutte collegate tra loro che danno vita a un vero e proprio capolavoro di ingegneria idraulica, ha predisposto in fondo alla struttura una dinamo che sfruttando anch’essa la corrente dell’acqua tiene costantemente accese le lampadine del complesso, giorno e notte. Tale sistema di alimentazione fa sì che l’intensità della luce vari a seconda della frequenza dei giri della ruota perpetua: cosicché le continue variazioni della luminosità finiscono con il creare nei frequentatori del Molino un certo effetto di stralunamento, essendo tutti quanti gli abitanti della zona abituati a servirsi di lumi a olio, lanterne a petrolio o al limite – chi può permettersele – candele di cera. Un impianto elettrico piuttosto economico, oltretutto, dal momento che le lampadine a filamento durano una vita; a richiedere maggiore manutenzione sono invece le cinghie che consentono la trasmissione tra i vari ingranaggi, le cui giunture vanno spesso soggette a strappi dato il continuo logoramento cui sono esposte.

Al complesso Faustino ha inoltre annesso una piccola bottega con mescita e sali e tabacchi, affidata alla moglie Adelina. All’estroso mugnaio non difetta neppure la battuta: la quale si fa più pungente nei confronti degli adulatori. C’è in particolare un paesano dalla circonferenza cranica piuttosto pronunciata che ogni volta che si trova di fronte una nuova invenzione non manca di lusingarne l’ideatore, ripetendogli: “Vorrei avere la tua testa”. Finché un giorno il molinaro non gli ribatte: “Anch’io vorrei avere la tua testa…”. Al che l’altro, interdetto: “Per farne cosa? – Uno scrigno!”.

Anno cruciale per l’intera vallata è il 1883, allorché viene ultimata la “Strada dell’Alto Circondario”, che unisce Castelnuovo Garfagnana a Fivizzano. In particolare, la costruzione del ponte che consente alla rotabile di attraversare l’Aulella sotto Montefiore rivoluziona la viabilità locale, che prima vedeva transitare dall’abitato del Molino la mulattiera collegante il fondovalle sia con i Carpinelli e la Garfagnana che con Regnano e l’Alpe. Con il suo antico acciottolato, il sentiero discendente dal castello medievale posto sulla sommità del poggio che dà il nome al paese superava il fiume poco oltre il complesso molitorio mediante un caratteristico ponticello in pietra, per poi risalire all’altezza di Vimaiola: la “via maiora” per la Lunigiana.

Il padre di Giorgio, Giuseppe, è stato uno dei valorosi “Ragazzi del ’99” arruolati nel 1917 e rapidamente inviati al fronte dopo la rotta di Caporetto: dato il proprio contributo alla riscossa patria, sarà cavaliere di Vittorio Veneto e inoltre, grazie alla licenza elementare acquisita, consigliere del Fascio di Casola; dalla Grande Guerra non farà invece ritorno il fratello Armando.

La mattina del 7 settembre 1920 sulla Lunigiana si abbatte il terremoto più catastrofico della sua storia: rinunciato a ricostruire la parte più lesionata dell’agglomerato del Molino (la quale rimarrà per lunghi decenni a terra), gli Alessandri si rimboccano le maniche, risanando gli altri edifici e dotando inoltre il complesso di pastificio e forno, per la panificazione settimanale del sabato.

Benvoluto da tutti per la sua bonarietà, sempre serafico e sorridente, gran bevitore di vino eppure mai ubriaco in vita sua, nell’arco della giornata Beppe appena può interrompe il suo andirivieni su e giù per il Ponte coi sacchi in collo per fare una capatina alla bottega di Vimaiola a sorseggiarsi il suo irrinunciabile bicchiere di rosso in compagnia, giacca e berretto sempre infarinati. Oltremodo altruista e disinteressato, con i paesani più poveri il mugnaio suole rinunciare alla “decima” spettantegli sulla macinazione: giungendo così a rimetterci, dal momento che il criterio di far corrispondere a tanti chili di castagne l’equivalente in farina non tiene conto di essiccazione e sbucciatura, che di certo non hanno fatto lievitare il peso della quantità ricevuta.

Conoscitore di tutte le leggende della montagna, affabulatore nonché arguto coniatore di soprannomi, Beppe si diletta inoltre di poesia, citando a memoria la Commedia dantesca e componendo a sua volta canti a maggio: le rappresentazioni agresti delle eroiche gesta di paladini e crociati messe in scena da ruspanti compagnie di attori-contadini che alla domenica si spostano da un paese all’altro a salutare il ritorno della bella stagione. Uno spettacolo atteso tutto l’anno dalle genti di Lunigiana e Garfagnana, che vede il pubblico disporsi in circolo attorno ai “maggianti” (con a sedere soltanto quei privilegiati che si sono portati da casa la carea) e i due musicanti – violino e chitarra – accompagnare i canti in rima incrociata e sottolineare i gustosi duelli tra i prodi spadaccini. A Montefiore le rappresentazioni del Maggio sogliono tenersi sull’ampio prato di San Rocco – posto ai piedi del colle – oppure in Vimaiola.

Il poeta mugnaio si è dedicato in particolare all’epopea cavalleresca del Guerin Meschino: la sua fama di novello trovatore può così procurargli, per le osterie della zona, di essere sfidato a tenzone in ottava rima da qualche altro verseggiatore, rappresentante la vena dei paesi limitrofi e che magari ha alzato un po’ il gomito: particolarmente intraprendenti in tal senso il “Lungo” di Regnano e il “Dò” di Podezzone. Se può tuttavia Beppe si diverte di più a defilarsi mandando avanti in sua vece l’amico Costone, poderoso collaboratore del mulino nei periodi di maggior lavoro ma soprattutto macchietta locale sia per la caratteristica vocina stridula che per la spassosa suscettibilità con cui suole reagire alle soventi provocazioni appositamente rivoltegli dai paesani.

A quel punto per i presenti le risate sono assicurate: perché nel suggerire le rime all’incauto duellante il beffardo molinaro si prende la licenza di spingere la propria vis comica sino ai livelli più salaci. Egualmente ispirato ma assai più compunto Beppe si mostra invece quando è chiamato a intervenire ai banchetti delle cerimonie ufficiali; a cominciare dalle nozze dei figlioli, allorché in vece del discorso in prosa di prammatica egli declama quattro quartine in rima baciata che, dopo avere divertito e commosso i convitati, si concludono immancabilmente con una professione di modestia: “Vi ringrazio o amici tutti e scusate i miei errori / son figlio di Faustino e non di professori”.

Sull’oratorio di San Rocco detengono antico diritto di patronato gli Alessandri, i Benedetti, i Salvetti e i Franconi: oltre a curare la chiesa, le quattro famiglie, alternativamente, ospitano a pranzo i tre sacerdoti officianti la messa solenne del 16 agosto, vero e proprio culmine dell’anno montefiorino. Al Molino il banchetto si tiene nella bella sala dal pavimento in cotto, da sempre adibita alle grandi occasioni, miracolosamente scampata al terremoto e la cui ultima vestale sarà proprio la moglie di Beppe: Ada Bartoli.

La donna è assai religiosa, non mancando a una funzione né alla pieve di Offiano né all’oratorio essendo devotissima, in particolare, a Sant’Antonio da Padova; oltre che alla Madonna dell’Argegna, “Guardiana” di Garfagnana e Lunigiana. Un particolare ascendente esercitano inoltre sugli Alessandri gli eremiti: ogni anno un pomeriggio domenicale viene dedicato alla visita al pittoresco romito di Minucciano, coi suoi mutandoni bucati appesi ad asciugare al camino e le galline che gli starnazzano per la cucina; nell’estate, poi, con l’avvento dei mezzi motorizzati diverranno d’obbligo i pellegrinaggi al più distante eremo di Calomini così come al suggestivo santuario di San Pellegrino in Alpe.

Energica e autoritaria, di dieci anni più giovane del marito, l’Ada è la vera arzdora del Molino: provetta cuoca e pasticcera, alleva pollame, conigli e maiale; laddove Beppe attende all’orto avendo un particolare occhio di riguardo per gli amati gatti, da lui gratificati dei nomi più pittoreschi. La donna possiede inoltre a sua volta una non indifferente vena artistica, che realizza in vari ambiti, a cominciare da quello tessile: coperte, coltroni, lenzuola, asciugamani, tappeti i pregiati prodotti del suo telaio, dalle trame inconfondibili; ed è uno spettacolo vederla lanciare la spola da una parte all’altra dell’ordito, azionando al contempo velocemente i pedali. All’occorrenza sa poi essere una simpatica polemista: se intraprende una discussione con qualcuno capace di tenerle testa, è in grado di dar vita a gustosi battibecchi in dialetto dal tono talmente mordace e provocatorio da far sbellicare dal ridere chi ha la ventura di ascoltarli. Duetti impagabili vengono inoltre fuori quando si accanisce sul paziente ma arguto marito; del quale peraltro non condivide l’attitudine alla beneficenza sul lavoro, dal momento che spesso la famiglia non ha di che mettere insieme il pranzo con la cena.

In gioventù l’Ada è stata anche una straordinaria ballerina, capace di inanellare sulle aie parate a festa di Vigneta giri di valzer e mazurche tali da strappare applausi a scena aperta e da indurre gli spettatori più anziani, in presenza di un partner alla sua altezza, a pagare di tasca propria lo straordinario all’orchestrina – composta da fisarmonica, violino e chitarra – pur di vederli danzare da soli ed entusiasmarsi alle loro magistrali piroette. Una certa passione per la musica Giorgio erediterà da lei dilettandosi con l’armonica a bocca.

Come tutti i ragazzi del paese, egli viene mandato a scuola in Sasseto, dalla compaesana maestra Francesca Salvetti: all’apogeo del regime fascista, la didattica è quella rigida e patriottica imposta dall’ex maestro elementare Mussolini. Sul ragazzino esercita poi un certo ascendente l’autoritaria figura dello zio materno Ariante, “pelle fine e sangue grosso” proprio come gli antichi Apui descritti da Tito Livio. Commerciante di legna e carbone, il Bartoli dispone di una nutrita scuderia, composta da una quindicina di muli e un paio di cavalli: con i primi va a fare i carichi su all’Alpe, con i secondi li trasporta a valle sul barroccio, spingendosi talvolta fino alla Spezia.

Giorgio prende ben presto dimestichezza con le bestie dello zio, sino ad accompagnarlo regolarmente nelle sue consegne: dopo un po’ di apprendistato con brusca e striglia, inizia a cimentarsi nelle prime cavalcate. Spettacolari sono in particolare le “file” che lo zio suole comporre per i trasporti più grossi: all’andata i cavalli davanti, con i rispettivi “vetturini” in sella e accodati i muli scarichi, legati per la cavezza l’uno al basto dell’altro; mentre al ritorno le bestie una volta caricate vengono fatte marciare con la testa legata alla soma, in modo da obbligarle a procedere regolarmente e senza distrazioni.

Ariante è inoltre provetto cacciatore: il nipote erediterà da lui pure quest’altra passione. Con la calura estiva, poi, le cinque “serre” che scandiscono il corso dell’Aulella nel tratto montefiorino divengono per la gioventù maschile del paese le varie piscine della situazione, ove in costume adamitico s’impara a nuotare: l’atletico Giorgio – che col fiume è del resto di casa – s’improvvisa allora istruttore per i più inesperti e timorosi. D’inverno è invece d’obbligo farsi il bagno alla domenica mattina, prima di andare a messa, nella “bagnarola” che l’Ada ha provveduto a riempire con l’acqua riscaldata nel pentolone al camino.

Il ragazzo cresce sveglio, in gamba: tanto che alla fine delle elementari la pia maestra consiglia i genitori di fargli proseguire gli studi presso il convitto di Soliera, gestito dai frati francescani: un collegio popolare, nella migliore tradizione del Poverello, nel quale perciò vitto e alloggio non sono propriamente da educande; ma che per le famiglie di quegli sperduti villaggi di Lunigiana rappresenta l’unica prospettiva accessibile per assicurare ai figli una certa istruzione.

Se la sua infanzia è stata scandita dai rigori della pedagogia fascista, l’adolescenza conosce invece le pesanti restrizioni della guerra: anche al Molino i tempi si fanno duri, con la farina di scarto avanzata dalle macinazioni che diviene anch’essa preziosa per sfamare la numerosa famiglia composta, oltre che dal nucleo di Beppe, anche da quello del fratello Tommaso, prematuramente scomparso lasciando la moglie e quattro figlioli.

La situazione diviene particolarmente critica nel corso del ’44, allorché tutta questa zona compresa tra Lunigiana e Garfagnana viene a trovarsi a ridosso della Linea Gotica finendo così stretta tra due fuochi: da una parte i tedeschi, disposti a tutto pur di difendere l’estremo baluardo rappresentato per loro dal fronte; dall’altra i partigiani, imboscatisi in gran numero tra il Castello di Regnano e il vallone di Monte Tondo. In tale frangente non è facile per il buon Beppe tirare avanti, costretto com’è a servire gli uni e gli altri nonché a riorganizzare la macinazione in orario notturno onde eludere i controlli delle autorità repubblichine in modo da fornire al paese la farina necessaria a compensare le draconiane restrizioni imposte dall’economia di guerra.

Finché il Molino non finisce involontariamente nella storia, causa un episodio che provoca la prima vittima della guerra civile in Val d’Aulella. Con il favore delle tenebre i partigiani sogliono calare da Regnano attraverso la mulattiera della Pila, per portare a macinare a Montefiore granaglie e castagne: e con il mugnaio essi non vanno tanto per il sottile, pretendendo più farina di quella loro spettante dalla “molenda”. La sera del 27 aprile, però, il destino ci mette del suo: contemporaneamente si muovono infatti verso Regnano le guardie repubblicane di Fivizzano assieme ai carabinieri di Casola, allo scopo di effettuare un controllo sul bestiame ed eventualmente requisire quello in eccedenza rispetto alle rigide disposizioni belliche.

Una volta superato il ponte sul Cendrato, la pattuglia si imbatte proprio nel somaro partigiano appena caricato di farina e dai suoi tre accompagnatori ricondotto verso la base del Castello. Accingendosi i militi ad impossessarsi della prima, presunta bestia clandestina individuata, ne vengono impediti da una micidiale scarica di fuoco che dalla soprastante boscaglia fa secco un repubblichino e ferisce un carabiniere; mentre gli altri si salvano solo perché al “cecchino” del trio si inceppa il mitra.

Della spedizione faceva parte anche il segretario del Fascio di Casola: il quale però nell’occasione non manifesta un particolare ardimento, dando anzi vita ad un episodio comico, pur nella sua drammaticità. Rifugiatosi terrorizzato al Molino, vi viene accolto da Beppe che dopo avervelo fatto pernottare gli fornisce degli abiti femminili consentendogli al mattino di scappare così travestito giù per il fiume e fare ritorno a casa.

Una settimana più tardi, però, toccherà proprio al mugnaio di rischiare di rimetterci la pelle, in occasione del primo grande rastrellamento che vedrà i tedeschi coadiuvati dalla Decima Mas culminando nell’eccidio di Mommio. Dal momento che al nome Alessandri figurano negli elenchi dei renitenti alla leva di Salò diversi suoi nipoti, al capofamiglia viene fatto passare un terribile quarto d’ora, sospeso tra la fucilazione e la deportazione in Germania: alla fine sarà solo il provvidenziale intervento dell’influente bottegaio di Vimaiola, Filippo Benedetti, a salvarlo.

Una volta terminata la rappresaglia, tuttavia, i partigiani hanno buon gioco nel tornare a fare i propri comodi per la vallata. Nello sbando di ogni autorità costituita che si registra nel giugno, un giorno essi scendono al Molino per andare a mitragliare il marmoreo stemma apposto dal regime nel ’36 a celebrare la ristrutturazione del ponte, sfigurando il profilo di Vittorio Emanuele III. Inoltre, dopo l’insediamento a Montefiore di un presidio tedesco di sussistenza per le truppe in marcia per il fronte, altre noie Beppe avrà da parte degli stessi ribelli regnanini, per via della sua amicizia con il gioviale sergente che ne è a capo.

Preso pieno possesso di questo lembo di Lunigiana da parte delle truppe germaniche con il maxi rastrellamento scattato il 30 giugno, le azioni di disturbo attuate dalle formazioni partigiane proseguono, provocando puntualmente rappresaglie naziste sempre più efferate destinate a culminare nei massacri di San Terenzo e Vinca. In quel clima tremendo anche i ragazzi si vedono costretti a crescere in fretta, rinunciando anzitempo ai sogni dell’età per fare i conti con la durezza della guerra e imparare anzitutto a salvare la pelle.

Il 20 agosto i tedeschi scendono nuovamente al Molino con fare protervo: stavolta ad essere prelevato è proprio il dodicenne Giorgio, costretto sotto la minaccia delle armi a seguire i soldati fino a Castelnuovo Garfagnana per accudire vacche e cavalli requisiti dagli occupanti. In tale condizione di prigionia rimarrà quattro giorni: sinché, approfittando di un momento di distrazione delle sentinelle, non riuscirà a fuggire e a fare ritorno a casa.

                                                    La scelta per l’Arma

In queste valli la guerra non lascerà solo infiniti lutti e devastazioni, ma cambierà profondamente anche il senso delle cose: per i sopravvissuti, niente sarà più come prima. Negli anni immediatamente successivi la fine del conflitto tanti giovani decideranno allora di emigrare, sfruttando anche le opportunità – impensabili solo fino a poco tempo prima – offerte dal nuovo corso socio-politico imboccato dal Paese. Le avite regole della civiltà contadina, che vedono nei figli anzitutto braccia da lavoro per aiutare e quindi sostituire i genitori (visti come autorità cui si dà obbligatoriamente del voi) nelle tradizionali attività di famiglia, iniziano ad essere violate: pure questi borghi dell’Alta Aulella prendono così lentamente a spopolarsi.

Diviene di conseguenza il Casón – ossia la foce dei Carpinelli – l’ideale spartiacque per la manovalanza giovanile di queste montagne. Chi guarda alla valle del Serchio sceglie generalmente di andare a cercar fortuna “in Toscana” (espressione popolare che richiama la storia, vivendo quassù anticamente non gli Etruschi bensì i Liguri apuani, dalla parlata così dolce e particolare), puntando in particolare sulle aziende della piana lucchese; chi invece a quella del Magra, prende preferibilmente la via della Liguria: Sarzana ma soprattutto La Spezia, per le notevoli possibilità di occupazione offerte dall’Oto Melara e dall’Arsenale; ma anche l’Italsider di Genova. Una piccola colonia montefiorina andrà inoltre a formarsi nella zona di Novi Ligure, ove ha sede lo stabilimento piemontese della medesima industria, ammiraglia della siderurgia nazionale.

Il tramonto della società contadina passa anche attraverso la dismissione del vecchio mulino ad acqua, inesorabilmente soppiantato da quello elettrico, assai meno complesso e macchinoso e soprattutto impiantabile ovunque: anche per gli Alessandri il lavoro comincia così a calare. Sino al triste giorno della chiusura dell’impianto, vera e propria fine un’epoca: ancora in età lavorativa Beppe s’impiega allora come operaio in lavori saltuari, a cominciare dai rimboschimenti della Forestale, andando via di buon mattino col suo zainetto; mentre l’Ada arrotonda andando a servizio.

Conseguita la licenza media ed intrapresi gli studi ginnasiali senza però condurli a compimento, possedendo la famiglia tutti i requisiti e garanzie richiesti dalla rigorosa selezione ministeriale (indispensabile, oltre alla probità della stirpe, anche l’orientamento politico anticomunista: i genitori simpatizzano infatti per la Democrazia cristiana), a diciott’anni Giorgio tenta la carriera militare, partecipando ai concorsi per sottufficiale banditi nel ’50 sia per i carabinieri che per la guardia di finanza e superandoli entrambi. Montefiore – come del resto tutto il comune – ha già dato diversi elementi all’Arma: della quale gli parla bene in particolare Renato, un amico di Casola arruolatosi pure lui sottufficiale qualche anno prima. È così che Giorgio sceglie di vestire anch’egli la divisa di Salvo D’Acquisto, divenendo allievo carabiniere il 27 ottobre ’50, presso la scuola che ha sede tra le mura dell’antico castello sabaudo di Moncalieri.

La ferma di tre anni prevista dal bando ministeriale prevede un primo esame consistente in un esperimento pratico di due mesi da effettuarsi presso un comando di stazione: assoltolo positivamente a Capriata d’Orba e ottenuta il 20 agosto ’51 la qualifica di carabiniere a piedi, il successivo 1° novembre Giorgio viene aggregato al II Battaglione allievi sottufficiali di Firenze. Conseguita l’abilitazione al servizio in bicicletta, il nostro presenta domanda per essere ammesso nel prestigioso corpo dei carabinieri a cavallo: l’aitante allievo dello zio Ariante ha così modo di affinare la propria destrezza ippica a Roma, presso la celebre scuola di equitazione dell’Arma diretta dall’olimpionico Raimondo D’Inzeo, conseguendo l’ambita qualifica il 30 aprile ’52.

Una volta rientrato alla sede fiorentina lo attende un nuovo cimento operativo, della durata di un mese, che il destino vuole egli debba svolgere proprio tra le sue montagne, presso il comando di Castelnuovo Garfagnana. Si tratta di una delicata operazione di intelligence: nel borgo apuano di Gorfigliano si ritiene infatti che i partigiani abbiano nascosto una ingente quantità di armi, in prospettiva della futura rivoluzione comunista. Ad avvalorare tali sospetti sta il fatto che proprio in tale località la “Todt” – la struttura bellica tedesca deputata alla fortificazione della Gotica – teneva un deposito, poi caduto nelle mani dei banditen. Assieme ad un collega, Giorgio viene incaricato di infiltrarsi fra questi potenziali “guerriglieri” onde scoprire il nascondiglio: facendo vita comune con i componenti la banda, dormendo assieme a loro per capanne e metati sino a conquistarne la fiducia essi riescono alfine a mettere le mani su quello che si rivelerà un vero e proprio arsenale (75 fucili mitragliatori, un cannoncino, un mortaio, bombe a mano), al punto di riempirne due camioncini.

Ma nell’ambito di tale operazione gorfiglianese si svilupperà anche un episodio assai curioso. L’indagine è stata disposta nella massima segretezza, e pertanto tenuta nascosta agli stessi colleghi della locale stazione di Gramolazzo. Senonché una sera il diavolo ci mette la coda: mentre a bordo della “Topolino C” loro assegnata si trovano a transitare per il ponticello che conduce a Gorfigliano, i due agenti segreti vengono fermati proprio dai carabinieri. Alla richiesta dei documenti, i nostri provano ad abbozzare: “Dai, lasciaci andare…”, ammiccano. Del resto, l’ordine che hanno ricevuto di non rivelare la propria identità è tassativo; così come è evidente che il minimo passo falso rischierebbe di mandare a monte l’intera missione. Non resta perciò loro che sperare nell’indulgenza – se non nella perspicacia – del collega: il quale si rivela però intransigente, insistendo nella propria richiesta. A quel punto non rimane ai due clandestini che forzare il posto di blocco, pur nella maniera più bonaria e adeguata al contesto agreste: prendendo il malcapitato militare e gettandolo in un campo!

Una volta risaputosi l’accaduto, il sindaco di Minucciano pensa bene di cavalcarlo ai propri fini, presentandosi come il paladino della legalità e chiedendo perciò ai superiori dei due spregiudicati carabinieri di comminare loro una punizione esemplare, valutandone il gesto come un vero e proprio atto di insubordinazione e dunque tale da meritare l’arresto. Dello stesso avviso non si rivelano tuttavia i vertici dell’Arma: i quali dispongono anzi l’encomio e la promozione per i due giovani infiltrati che hanno saputo svolgere alla perfezione la missione loro assegnata. Il 10 agosto ’52 Giorgio è così a tutti gli effetti vicebrigadiere a cavallo. A lui vanno però solo i galloni: al pari dei suoi stipendi, le seimila lire del premio di arruolamento le manda infatti al babbo.

I mesi successivi lo vedono nuovamente a Roma, al Gruppo Squadroni, per il corso di perfezionamento di equitazione. Il 10 dicembre la definitiva destinazione operativa: la Legione di Salerno, con assegnazione alla stazione di Avigliano, remota località montana della provincia di Potenza. La povera caserma ha per pavimento un nudo tavolato di legno, proprio come le stanze del suo Molino: dalla camera egli ha pertanto modo di controllare direttamente il cavallo nella sottostante stalla attraverso le fessure che si aprono fra le tavole; per una situazione che si fa parecchio critica in inverno, allorché il freddo pungente complica non poco il prender sonno. Negli ultimi mesi del suo servizio lucano Giorgio avrà inoltre modo di fare la sua prima esperienza da comandante interinale di stazione: prima nella stessa Avigliano, quindi a Pignola.

                                                    I successi di Montella

Il 10 ottobre ’53 il trasferimento nella vicina Irpinia, alla Tenenza di Montella, località sede di pretura: l’antica istituzione territoriale italiana in cui la giustizia viene amministrata in maniera sobria, efficace e soprattutto vicina alla gente. Il suo incarico è quello di vicecomandante della stazione, la cui giurisdizione spazia su un territorio assai vasto e nel quale le violazioni della legalità da parte dei numerosi banditi in circolazione sono all’ordine del giorno: violenze di ogni genere, omicidi compiuti, tentati, minacciati, abigeato, ruberie… Qui insomma i carabinieri hanno sempre un gran daffare: lui in particolare, comandante del piccolo nucleo a cavallo – composto da tre militi – e perciò costantemente in prima linea. La caserma non dispone del resto di altri mezzi che quello animale; eccezion fatta per un camion, residuato bellico lasciato dagli americani ma dai militari utilizzato soltanto per il trasporto del fieno per gli stessi cavalli.

Il suo diretto superiore è il maresciallo Francesco Ruffolo. Calabrese, assai preparato sul piano professionale ma anche gran gentiluomo, negli anni costui ha saputo imporsi in paese quale punto di riferimento capace ed autorevole: alla sua scuola Giorgio si formerà definitivamente come sottufficiale, continuando peraltro a considerarlo per tutta la carriera quale suo maestro. Vacante l’ufficiale comandante, a sostituirlo alla guida della Tenenza è proprio Ruffolo; di conseguenza, a Giorgio spetta il comando interinale della stazione.

Il nostro si trova dunque ad operare in una terra dalla natura assai simile alla sua di origine, altrettanto appenninica e rurale; le differenze si fanno tuttavia sensibili dal punto di vista socio-economico. Se la civile Montella con i suoi novemila abitanti si presenta come un centro operoso, con diverse aziende ed un livello medio di vita come di istruzione sicuramente superiore a quello diffuso tra le montagne lunensi, i lunghi secoli di baronaggio dell’ex regno borbonico hanno lasciato anche qui la parte meno evoluta della popolazione in condizioni di notevole arretratezza e ignoranza.

Chiamato a contrastare i suddetti, frequenti episodi criminosi, il giovane vicebrigadiere non si tira certo indietro, cercando anzi di onorare al meglio la divisa indossata: puntuale, scrupoloso, coraggioso, il senso del dovere passa per lui avanti a tutto. I tempi poi, il contesto, le circostanze faranno sì che molti dei suoi interventi al servizio della legge paiano quasi scritti da un romanziere.

Non appena insediatosi in terra irpina Giorgio ha modo di rendersi conto del clima di omertà instauratovi dai discendenti dello storico esponente del brigantaggio postunitario Alfonso Carbone, autore di innumerevoli delitti al punto da far lievitare nel 1868 la taglia posta sulla sua testa dal sindaco di Montella sino alla cifra di mille ducati. Quasi un secolo dopo sono il nipote Antonio (la cui infinita fedina penale risale addirittura al 1908, quand’era appena quindicenne) con i giovani figli Pasquale e Alfonso ad emularne le gesta: bovari, esercitano le loro angherie in particolare sugli altri pastori, ma costringendo di fatto tutti quanti – e specie la gente più povera e indifesa – a sopportarne in silenzio soprusi e misfatti per il terrore di  ritorsioni.

A testimonianza di ciò sta un fatto avvenuto nel giugno ’53, allorché i due fratelli tentano di rapire e violentare una diciannovenne montellese, Rosa, strappandola letteralmente dalle mani dello stesso fidanzato, Raffaele, disperatamente aggrappatosi alla ragazza nel tentativo di sottrarla alla presa dei banditi. La giovane riuscirà alfine fortuitamente a scamparla, ma a che prezzo: per imposizione dei criminali il matrimonio va a monte; Raffaele si vede costretto a trasferirsi da Montella a Salerno per sottrarsi alla loro vendetta; mentre la stessa Rosa se ne dovrà restare chiusa in casa per quattro mesi, vivendo sotto l’incubo di una rappresaglia e perciò rinunziando a denunciare alcunché.

La scena si ripete pari pari il 9 gennaio ’54, allorché al calar delle tenebre sette individui rapiscono Livia, ventiquattrenne figlia di un facoltoso medico montellese, al momento in cui sta rincasando in compagnia di una sua colona. Immediatamente scattate le ricerche a seguito della denuncia di quest’ultima, grazie alle impronte lasciate nella neve dai rapitori ed evidenziate dalle torce la sera stessa la giovane viene rintracciata dagli uomini del maresciallo Ruffolo, dentro un casolare situato in un pianoro boschivo sopra il paese.

Particolarmente drammatico il momento in cui Livia, all’udire le invocazioni con cui il cugino Ubaldo, unitosi ai militari, la chiama a gran voce nella notte, risponde: “Sono qui!”. All’interno, assieme a lei, Pasquale Carbone; il quale però – come la stessa giovane confermerà – non è riuscito nell’intento di violentarla su quell’improvvisato letto rappresentato da un saccone di paglia: le resistenze della donna, il poco tempo a disposizione, il pronto intervento dei militari hanno difatti impedito il compiersi del fatto.

Arrestato Pasquale, nel mirino degli inquirenti finisce anche il padre: il quale, giusto una settimana prima, aveva compiuto una insolita visita a casa della famiglia di Livia, con la scusa di volerne visionare una stanza, a suo avviso pericolante. Per poi però informarsi dalla madre sul giorno in cui la giovane – insegnante elementare a Somma Vesuviana – sarebbe ripartita da Montella, giungendo inoltre a paventare la possibilità di un suo rapimento da parte di un colono. Qualche giorno prima del misfatto l’uomo aveva inoltre lasciato il paese, per farvi ritorno solo a cose fatte: probabile avesse così inteso crearsi un alibi. Una volta tornato si era immediatamente premurato di avvicinare lo stesso Ubaldo, ingiungendogli: “Venisse aggiustato tutto”. Il che porta gli investigatori a sospettare che più che nel semplice scopo del matrimonio – cui potrebbe far pensare il tentativo di violenza carnale – il movente del ratto possa essere ricercato, anche in considerazione delle ingenti proprietà della famiglia della rapita, in un disegno estorsivo ai danni di quest’ultima.

Neppure evita ad Antonio l’arresto la scena madre cui dà vita una volta messo a confronto col figlio. Sforzandosi di piangere, egli ha parole di esecrazione nei confronti di Pasquale e di quanto da lui perpetrato contro quella povera ragazza; in uno scatto d’ira mostra addirittura di volersi scagliare contro di lui dicendo che è un pessimo soggetto, che lo odia e che vorrebbe vederlo per sempre in galera. Resta così da catturare il solo Alfonso: il quale, lungi dal darsi alla macchia, va avvicinando tutti coloro che dovranno deporre contro lui stesso e congiunti per sottoporli a pesanti minacce.

Tutta Montella sta nel frattempo tifando per la giustizia, nella speranza di potersi liberare almeno per qualche tempo di quella canaglia che – come avrebbe successivamente relazionato lo stesso Giorgio – “aveva generato nella popolazione, colla sua criminalità e colla sua violenza, uno stato di paura ed omertà di sapore addirittura medioevale”. La mattina del 19 gennaio giunge così in caserma una telefonata anonima, che segnala il ventenne Carbone nel giardino di casa sua: “ma state attenti che è armato”, soggiunge la voce. Immediatamente sul posto si porta allora Alessandri, con altri sei carabinieri: disposti i quali tutt’attorno all’abitazione e al muro di cinta e arrampicatosi su quest’ultimo, il sottufficiale scorge Alfonso seduto in un angolo dell’orto, su un pendio.

Calatosi nel giardino, la pistola in pugno, il nostro intima al ricercato il mani in alto: questi però reagisce spostandosi fulmineamente da quel punto così scoperto, estraendo anch’egli la pistola e sparando tre colpi all’indirizzo del militare; il quale fa fuoco a sua volta imitato da tre dei colleghi, nel frattempo saliti anch’essi sopra al muro. Approfittando di tale fatto il malvivente, prontamente riparato in casa e serrata quella porta sul giardino, da un’uscita secondaria riesce a dileguarsi per i vicoli adiacenti.

Le successive ricerche portano i carabinieri a imbattersi in un uomo incaricato di andare a informare i familiari del Carbone che costui, colto da malore per strada, è stato trasportato in una casa del paese: ove i militari lo trovano, adagiato su un letto e ferito al torace. Domandatogli chi lo abbia ferito, il bandito, rivolgendosi al vicebrigadiere, risponde: “Ecco questo disgraziato: però mi debbo vendicare”. Incurante della minaccia Giorgio procede alla sua perquisizione, che porta al rinvenimento nelle tasche della giacca di una bomba a mano e di una pistola automatica calibro 7.65, per poi dichiararlo in arresto; dopodiché, portatolo in caserma e fattolo visitare dal medico che ne giudica gravi le condizioni, sono gli stessi carabinieri ad accompagnarlo all’ospedale di Avellino.

Nella soddisfazione generale e con il solo rammarico di chi avrebbe preferito la definitiva eliminazione dello stesso Alfonso da parte dei militari, costui – accusato a questo punto oltre che dei numerosi reati connessi al rapimento di Livia anche del tentato omicidio del sottufficiale – da consumato malavitoso si difende attaccando: ossia sostenendo di non avere fatto uso di alcuna arma contro i carabinieri, considerandosi perciò quale parte offesa. Conseguentemente il giudice istruttore di Sant’Angelo dei Lombardi deve aprire un fascicolo sul conto dello stesso Alessandri: ma dopo che gli altri carabinieri hanno unanimemente testimoniato sulla reale sequenza della sparatoria, la perizia balistica su un bossolo del medesimo calibro della pistola sequestrata al Carbone dal nostro rinvenuto all’interno del giardino – dallo scrupoloso procuratore avellinese commissionata alla Direzione di artiglieria di Napoli – sancisce che esso è stato espulso dall’arma dell’arrestato; per cui sarà lo stesso pubblico ministero a chiedere l’archiviazione del procedimento.

Nel frattempo giunge agli uomini del maresciallo Ruffolo il plauso del comandante la V Brigata napoletana: “Esprimo ai militari operanti il mio vivo compiacimento per la decisione manifestata nella loro azione, conclusasi con l’arresto del pericoloso pregiudicato Carbone Alfonso, la cui cattura è stata particolarmente segnalata dalla stampa”.

Presentatosi in maniera così brillante nella nuova sede, anche grazie alla mobilità garantitagli dal cavallo Giorgio realizza successivamente una serie di successi nella vicina Cassano: a cominciare dall’arresto di due pericolosi malfattori, anch’essi discendenti di famiglie notoriamente malavitose e che si fanno forti, oltre che dell’omertà, anche della natura isolata e accidentata dei luoghi in cui sono rifugiati.

Il primo, Palatano, da tempo ricercato per vari reati fra cui un tentativo di omicidio, viene catturato al termine di una battuta che impegna i tre carabinieri a cavallo. Avvistato dai militari, il latitante si dà alla fuga per l’impervia campagna: lanciandosi al galoppo però Giorgio è lesto a raggiungerlo, riuscendo ad ammanettarlo solo al termine di una violenta colluttazione e grazie all’aiuto dei colleghi, rimasti indietro sullo scatto. Dopodiché il criminale viene tradotto in caserma legato dietro al cavallo del comandante: proprio come nella scena di un film western.

Più che mai figlio d’arte l’altro, Roberto: il cui genitore in epoca fascista è stato addirittura condannato a morte per fucilazione avendo ucciso due carabinieri che una notte a Nusco l’avevano sorpreso a rubare assieme a dei complici. Anche il Roberto si rende responsabile di un tentativo di omicidio, ma la sua latitanza dura assai meno di quella del Palatano: appena poche ore. Alle 13 infatti compie il misfatto, alle 17 i medesimi tre cavalieri in divisa gli sono addosso: e la scena è la medesima dell’arresto precedente. Entrambi vengono infatti denunciati anche per resistenza nei confronti dei militari.

Non oppone invece una reazione violenta, limitandosi a rimpiattarsi tra i cespugli alla vista dei militari mimando un bisogno fisiologico, il giovane contadino cassanese che un giorno, accecato da una delusione amorosa, si avventa sulla sua bella per vendicarsi nientemeno che a forchettate. Qualcuno però da un telefono pubblico dà l’allarme ai carabinieri: facilmente individuatolo nonostante il maldestro tentativo di nascondersi effettuato, Giorgio stavolta non ha difficoltà a mettergli le manette e accodarlo al cavallo.

Ben altra caratura criminale ha il compaesano Orlando, latitante fin dal ’45, responsabile fra l’altro di evasione con violenza agli agenti di custodia e ricercato persino dall’Interpol. Grazie al canale dei confidenti Giorgio acquisisce sul suo conto fruttuose informazioni che consentono a Ruffolo di predisporre un appiattamento che porta all’arresto del malfattore.

Più curioso che di particolare rilevanza giudiziaria l’ultimo intervento cassanese del vicebrigadiere. L’intera famiglia di un insegnante elementare vive da giorni in uno stato di terrore, sotto l’incubo di continue lettere minatorie con cui si richiedono svariate somme di denaro, minacciando al contempo i malcapitati di morte. È solo al termine di pazientissime indagini e appiattamenti che Alessandri riesce a individuarne i sorprendenti autori: due ragazzini di dieci anni o poco più. Che il nostro non esiterà tuttavia a stimare “paragonabili, per la loro dimostrata precoce abilità delinquenziale, ai più esperti ed incalliti criminali”.

La stessa fine fa in ogni caso la contadina che, a Montella, invia al parroco una lettera minatoria con l’ingiunzione di portare del denaro in un luogo solitario, depositandolo in un buco del muretto. Acquattatosi nei pressi vestito in borghese, Giorgio coglie sul fatto l’estorcitrice, arrestandola nel mentre, passando con l’asino, sta provvedendo a ritirare il malloppo.

Su due tentativi di omicidio commessi tempo addietro nelle campagne attorno al paese non si è riusciti a fare luce: compiuti di notte, in luoghi diversi e in zone disabitate, sono stati denunciati dalle vittime come ad opera di ignoti. Sospetti portano però Alessandri a mettere nel mirino il montellese Capone: raccolte precise notizie sul quale, il sottufficiale ottiene dal tenente di poter effettuare un appiattamento in abito civile, che si conclude con l’arresto dell’indiziato, prontamente disarmato della pistola che ha con sé. Proseguendo nella non facile inchiesta, Giorgio raccoglie ulteriori elementi che portano all’incriminazione del Capone per i due delitti.

Se tale indagine ha mostrato l’acume investigativo del nostro, la successiva ne rivela tutto lo scrupolo professionale. Nella medesima campagna montellese viene rinvenuto, in stato di avanzata decomposizione, il cadavere di un uomo trucidato a fucilate, rivoltellate e colpi di arma bianca, che si rivelerà essere un pastore. In licenza Giorgio, le indagini condotte dai colleghi portano al fermo dei familiari della vittima: padre, matrigna, fratellastro e sorellastra. Una volta rientrato in sede, il vicebrigadiere compie sul luogo del delitto ulteriori, minuziosi accertamenti, che lo portano in particolare al rinvenimento di un bossolo 7.65, evidentemente sfuggito ai precedenti sopralluoghi.

Nel mentre l’autorità giudiziaria emette mandato di cattura nei confronti dei quattro fermati, Alessandri, poco convinto di tale soluzione, si orienta verso un’altra pista, che porta dritto ad uno dei Carbone: il quale peraltro – come egli scriverà in una successiva memoria – “conservava la pistola nell’apposita fondina: segno quindi che soleva portarla seco sprovvisto di porto d’arma, come solitamente usano i malviventi montellesi”. Ma c’è ben altro: sul conto del suddetto la Cassazione ha recentemente emesso condanna definitiva per l’uccisione di numerosi bovini di proprietà di un pastore montellese: ebbene, la principale testimonianza a carico del Carbone era stata resa proprio dall’uomo così barbaramente assassinato. Il quale perdipiù, l’ultima volta che di buon mattino era uscito di casa per portare le bestie al pascolo, avrebbe ricevuto la visita proprio del bandito, il quale subdolamente gli avrebbe proposto di recarsi assieme verso la campagna.

Della necessità di approfondire le indagini in questa nuova direzione Giorgio informa a quel punto il pretore: il quale, dando credito all’intuizione del vicebrigadiere, propone al tenente di fermare il sospetto pregiudicato, sottoponendolo a misure di polizia giudiziaria ed esperendo ulteriori accertamenti. Inopinatamente, però, è proprio l’ufficiale ad opporsi a tale iniziativa nei confronti del Carbone: il quale, in questo caso, finisce così collo scamparla.

Il destino vorrà che questa rimanga l’ultima indagine svolta da Alessandri nel suo servizio montellese. Del quale egli avrà un giorno a tracciare il seguente bilancio: “Ho preso parte o personalmente condotte importanti operazioni di servizio, scoprendo numerosi delitti ed assicurando alla giustizia altrettanti malviventi, il tutto per adempiere coscienziosamente al mio dovere in quel paese ove ve ne era tanto bisogno perché l’omertà regnava incontrastata e la gente dabbene, che aveva ormai perduta la fiducia nella legge, viveva sotto il continuo terrore dei temibili malviventi quanto mai numerosi, che impuniti commettevano ogni sorta di angherie”.

Quella stessa “gente dabbene”, da parte sua, ha preso ad ammirare questa insolita figura di militare, benefico paladino della giustizia: così giovane eppure esemplare nell’adempimento del proprio dovere, intrepido nel difendere i diritti degli onesti, rigoroso nel tutelare la legalità, incrollabile nel servire la legge. Insomma quel ragazzo venuto da chissà quale parte del Nord pare davvero avere le mostrine cucite sulla pelle; così stimato in pretura, in paese egli è ormai divenuto un personaggio: per la gente egli è, semplicemente, “il biondino”.

                                                          Il ferimento

Quando nel settembre ’55 il maresciallo comandante la stazione di Montemarano va in licenza, i superiori non hanno dubbi su chi mandare a sostituirlo: Alessandri. Chissà che dietro tale scelta non sia la speranza che l’abile vicebrigadiere, dopo tutti i brillanti arresti compiuti a Montella, riesca ad assicurare alla giustizia anche il più celebre e feroce fra i latitanti locali, al punto di guadagnarsi l’appellativo di “Giuliano d’Irpinia”: Vito Nardiello.

Di Volturara, postosi nell’immediato dopoguerra a capo di una banda, costui ha terrorizzato con una serie di violente rapine prima i viaggiatori della Nazionale (l’antica Via Appia), aggredendoli soprattutto a ridosso dello scollino del “Malepasso”, quindi gli abitanti delle masserie dell’Agro, totalizzando, fino all’arresto avvenuto alla fine del ’46, cinque omicidi.

Evaso nel ’51 dal presunto “supercarcere” avellinese, l’anno successivo, scovato dai carabinieri volturaresi in casa dell’amante (perché nella sua singolare latitanza il signorino non si fa mancare nulla), ha reagito a colpi di mitra, ammazzandone uno e ferendone un altro. La voce corrente vuole che il criminale sia tuttora in loco, alternandosi a seconda dell’aria che tira tra la macchia, la casa paterna e l’alcova della donna. La quale gli ha già dato due figli, per poi venire ad abitare presso i genitori del bandito: logico perciò supporre che anche quest’ultimo non sia troppo lontano.

Sinché, nell’aprile del ’55, non è intervenuto un fatto clamoroso, che ha suscitato lo sdegno dell’opinione pubblica: sulla medesima Nazionale, in territorio del comune di Montemarano, si è consumato un violento tentativo di rapina ai danni del sindaco di Torella dei Lombardi Luigi De Laurentiis (cugino dell’omonimo produttore cinematografico), scampato all’agguato solo per miracolo e rimasto comunque ferito da uno dei proiettili sparati dai banditi. Se le indagini non sono riuscite a fare chiarezza sull’episodio, questo pare tuttavia portare l’inconfondibile firma di Nardiello.

Giorgio prende servizio a Montemarano il 25 settembre: il giorno successivo giunge in caserma una telefonata che segnala per quella sera, lungo la stessa Nazionale e nel tratto verso valle, un transito di bestiame rubato. Conseguentemente il sottufficiale dispone un servizio di perlustrazione, da svolgersi peraltro assieme all’unico carabiniere presente in stazione – altrettanto giovane – e potendo disporre di un solo mitra.

Verso le 23, oltrepassato l’incrocio per Castelvetere e nascostisi tra la vegetazione a ridosso della strada, i militari odono dei passi provenienti da valle. A quel punto il comandante, prima di muoversi allo scopo di individuare quei sospetti viandanti, nell’ordinare al collega di appiattarsi nella scarpata sceglie di affidargli il mitra – meglio utilizzabile da quella posizione privilegiata in caso di reazione violenta da parte degli individui – tenendo per sé il moschetto.

Una volta constatato trattarsi di due persone, il nostro esce allo scoperto intimando loro l’altolà; e poiché uno di essi si ostina a tenere la mano destra nella tasca della giacca, puntandogli contro l’arma gli ingiunge di cacciarla fuori. La reazione di costui è però la più fulminea: estratta la pistola ne esplode contro il militare gli otto colpi, prontamente imitato dal complice che spara a sua volta altre revolverate.

Colpito all’addome dal primo proiettile, Giorgio si getta a terra, reagendo a sua volta al fuoco e sparando tutte le sei pallottole a disposizione, trovando nonostante il dolore la forza di azionare il movimento di riarmo delle successive cartucce richiesto dal moschetto. Messi così in fuga i malviventi ed impugnata la pistola, mentre il sangue gli sgorga copioso dalla ferita si pone in cerca del commilitone: per scoprire tuttavia che costui non solo ha mancato di proteggerlo, ma che sin dall’inizio della sparatoria se l’è data a gambe.

È solo dopo avere percorso alcune centinaia di metri in direzione di Montemarano che il militare si degna di rispondere alle invocazioni di aiuto del superiore e di raggiungerlo: ma una volta riguadagnato il paese Giorgio lo manda in caserma a dare l’allarme, per strascicarsi da solo fino all’abitazione del medico condotto: giunto nei pressi della quale cade a terra stremato e dissanguato. Sono allora dei vicini ad avvisare il dottore, trasportando al contempo il ferito all’ambulatorio con una macchina di fortuna: la quale si decide peraltro a mettersi in moto solo dopo ripetuti tentativi.

Constatata la grande quantità di sangue perduta, il medico ne dispone il trasporto al pronto soccorso di Avellino: ma facendo al contempo capire che le possibilità di sopravvivenza sono minime. Ricevuta una prima donazione di sangue da parte di un carabiniere, con un camioncino Giorgio viene portato all’ospedale, ove giunge più morto che vivo. Ormai divenuto tutto giallo, dato anche qui per spacciato viene messo su un lettino, in attesa che spiri: oltre al dissanguamento i medici valutano che il proiettile sia stato ritenuto, ledendo in particolare il fegato.

Lui a quel punto, a gesti avendo perduto anche la voce (e traendo tali residue forze non si sa da dove), volgendosi dalla parte del dorso indica loro il foro d’uscita della pallottola, implorando un qualche intervento con il quale perlomeno si provasse a salvarlo. Solo a quel punto gli viene fatta una trasfusione: ma usando un sacchetto di plasma destinato a rivelarsi infetto, dal momento che Giorgio vi contrae l’epatite, che non lo abbandonerà più sino alla fine dei suoi giorni.

In bilico tra la vita e la morte, al mattino il povero giovane riceve la visita del maresciallo Ruffolo, del comandante la Legione di Salerno nonché dell’intera pretura montellese. Da parte sua, nel valutare l’episodio l’opinione pubblica si spacca: mentre infatti i più non hanno dubbi nell’attribuire il ferimento alla mano di Nardiello, soprattutto a Montella non sono pochi coloro che, conoscendone bene i trascorsi, ritengono il sottufficiale essere stato attirato per vendetta in un tranello da qualcuno dei criminali da lui a suo tempo perseguiti. Ipotesi quest’ultima che risulta tuttavia poco convincente, dal momento che in quel caso l’agguato si sarebbe presumibilmente svolto in tutt’altre circostanze.

Cosicché anche i due principali quotidiani campani riflettono tale differente chiave di lettura: mentre infatti il “Mattino”, ricollegando quest’ultimo misfatto all’aggressione subita dal De Laurentiis, riferisce senza mezzi termini che “è opinione diffusa che a questo nuovo episodio di criminalità non sia estraneo il famigerato Nardiello, l’ergastolano di Volturara tuttora alla macchia nella zona”, il “Roma” sceglie di volare più alto, limitandosi a rilevare come “la zona in cui è avvenuto il delittuoso fatto è quella stessa in cui aveva operato il bandito Nardiello” ma giungendo alla conclusione – chissà sulla base di quali deduzioni – che costui “deve comunque ritenersi estraneo al fatto”.

Se lo stesso Giorgio qualche anno dopo in una sua memoria scriverà amaramente che “gli autori del delitto sono rimasti ignoti: eppure non doveva essere difficile scoprirli”, il suo intuito non lo farà mai recedere dal convincimento di avere incontrato sulla sua strada, quella maledetta notte, proprio il “Giuliano d’Irpinia”. Egli non verrà però mai a conoscenza di quanto appurato un mese dopo l’episodio da un maresciallo della polizia giudiziaria della questura avellinese, informato da un confidente che in quel periodo Nardiello era impegnato in combutta con altri pregiudicati in furti di bovini, viaggiando sempre con la pistola in tasca e pronta all’uso.

Fino ad arrivare alla rivelazione chiave: “Mi è stato pure riferito che a sparare al vicebrigadiere dei carabinieri di Montemarano, in occasione di un furto di bestiame, fu il Nardiello, che quella notte si trovava in azione con i componenti della sua banda, riusciti a fuggire dopo l’alt ricevuto dai militari dell’Arma”, scriveva il poliziotto. Ora è proprio il riferimento all’abigeato a far pendere la bilancia a favore dell’attendibilità di quel confidente: che il pattugliamento fosse stato disposto a seguito della segnalazione per quella sera proprio di tale genere di reato Giorgio non lo avrebbe infatti mai scritto né in un rapporto sull’episodio (del resto mai redatto a causa del ferimento) né in una successiva memoria ai superiori in cui egli avrebbe ricostruito le operazioni svolte nel corso del servizio montellese. Esso sarebbe così rimasto un dettaglio a beneficio dei soli congiunti, rivelato nel rievocare quel drammatico frangente che aveva rischiato di troncargli la vita.

Se comunque la giustizia ordinaria non riesce a fare chiarezza sull’accaduto, almeno quella militare fa il suo corso. Ad Alessandri il comandante la Legione, “a tangibile riconoscimento del lodevole slancio, coraggio e decisione dimostrati”, conferisce l’encomio semplice, oltre a un premio di diecimila lire: ossia l’equivalente di uno stipendio. Evidentemente il colonnello non rileva gli estremi né per conferire l’encomio solenne né tantomeno per proporre ai superiori la promozione del sottufficiale, anche come riconoscimento per la qualità di tutto il suo servizio irpino; altrettanto intransigente egli si rivelerà tuttavia nei confronti del carabiniere vilmente sottrattosi al proprio dovere.

“Ordine del giorno n° 86 del 15 ottobre 1955

In data odierna ho denunziato al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale Militare di Napoli il C.re F. P., della Stazione di Montemarano, perché resosi responsabile del reato di abbandono di posto, previsto dall’art. 120 C. P. M. P. Il 26 settembre c. a., il Vicebrigadiere Alessandri Giorgio, comandante interinale della Stazione di Montemarano, mentre eseguiva con il predetto Carabiniere un servizio perlustrativo, notò due individui che percorrevano la strada in senso inverso alla sua direzione di marcia. Il sottufficiale nell’intento di procedere alla identificazione si fermò con il dipendente e quando i predetti giunsero a pochi metri da lui, intimò l’ALT qualificandosi, e poiché uno di essi aveva la mano destra nella tasca della giacca gli puntò contro il moschetto invitandolo ad alzare le mani. In tale gesto fu imitato dal C.re F. che era armato di mitra. Lo sconosciuto, però, anziché obbedire all’intimazione, impugnando con la mano destra una pistola fece fuoco contro il Vicebrigadiere Alessandri che, colpito al fianco destro, cadde a terra. Il sottufficiale, benché ferito, ebbe la forza di rialzarsi e sparò sei colpi di moschetto, probabilmente andati a vuoto, contro i due malviventi, i quali si allontanarono continuando entrambi a far fuoco contro i militari. Il C.re F. P. – secondo la dichiarazione del sottufficiale – appena iniziato il conflitto scomparve, e solo dopo che la sparatoria ebbe termine, quando già il V. b. Alessandri aveva percorso 200 metri per rientrare alla propria stazione, rispose alle invocazioni di aiuto del superiore, avvicinandosi nel contempo allo stesso, che poi accompagnò in paese, dove il sottufficiale ricevette le prime cure da un medico del posto.”

Il tribunale militare concluderà per la colpevolezza del carabiniere, condannandolo per abbandono di posto e violata consegna con conseguente radiazione dall’Arma. Mentre a Montefiore a portare la notizia del ferimento è la radio: a sentirla è Luigi Franconi, maggiorente del paese nonché sindaco democristiano di Casola: il quale ha tuttavia il tatto di non andare a riferirla agli amici del Molino. Difatti, dal momento in cui apprenderà quanto accaduto al suo ragazzo, l’Ada non si darà più pace: tanto che alla fine le figliole si vedranno costrette a far sparire la divisa insanguinata del fratello, dalla madre conservata come una reliquia ma che al contempo rischierà seriamente di farle perdere il senno.

Nel frattempo si compie tutta la via crucis del nostro, sopravvissuto solo per miracolo e grazie alla forza della sua giovinezza ma per trascorrere lunghi mesi di autentica passione, avendo quali inseparabili compagni di quelle tremende giornate l’itterizia, i disturbi gastrici, l’inappetenza. Trasferito il 6 ottobre all’ospedale militare di Napoli, dieci giorni più tardi Giorgio ne viene dimesso con due mesi di convalescenza per carenza di globuli rossi. Allo scadere dei quali viene ricoverato all’ospedale militare di Livorno per il protrarsi dell’itterizia: per uscirne il 19 gennaio ’56 ma con altri quaranta giorni di convalescenza. Trascorsi i quali gli viene riscontrato pure l’ingrossamento del fegato: altra quarantena che lo porta così ad essere dichiarato nuovamente idoneo al servizio solamente il 9 aprile, per essere provvisoriamente assegnato prima alla stazione di Sant’Angelo dei Lombardi, poi a quella di Quindici.

                                              Il trasferimento in Toscana

Mentre l’Ada ripiomba nella disperazione al sapere il figlio nuovamente nella fossa dei leoni, Beppe prende più pragmaticamente carta e penna per impetrare dal ministro Togni (dominus democristiano della circoscrizione elettorale tirrenica) il trasferimento di Giorgio in Toscana. Il desiderio paterno viene esaudito: dopo ulteriori ricadute che ne hanno alfine determinato il trasferimento dal servizio a cavallo a quello a piedi, il 21 luglio ’56 Alessandri viene assegnato alla Legione di Livorno, prima alla stazione dell’Ardenza e quindi presso il nucleo autocarrato labronico.

Trasferito il 16 ottobre ’57 alla stazione di Lucca, il 30 dicembre viene spostato a quella di Viareggio: e sarà proprio presso la Compagnia versiliese che il nostro potrà ritrovare un minimo di continuità di servizio, rimanendovi un paio d’anni; senza tuttavia che i postumi del ferimento lo abbandonino, dovendo adesso fare i conti in particolare con gastrite e duodenite. Se non altro, nel frattempo il ministero della difesa gli ha concesso l’autorizzazione a fregiarsi dello speciale distintivo d’onore riservato ai militari feriti in servizio.

È peraltro proprio a Viareggio che il sottufficiale riceve il suo primo encomio solenne, collaborando ad una complessa inchiesta che porta alla scoperta di una organizzatissima banda di ladri con centrale operativa a Milano ma con frequenti incursioni per mezza Italia ed in particolare in Versilia. Questa la motivazione: “Coadiuvava validamente i propri superiori in laboriose e complesse indagini dirette alla scoperta di vasta associazione per delinquere, operante in varie città della Repubblica e responsabile di 23 furti aggravati di ingenti valori. L’operazione di servizio, conclusasi con la denunzia di tredici associati, di cui tre in stato di arresto e col sequestro di refurtiva per il valore di circa 6.400.00 lire, riscuoteva l’unanime plauso delle autorità, della stampa e dell’opinione pubblica”.

Assegnato il 30 maggio ’59 alla stazione di Querceta, il 9 aprile ’60 Giorgio viene spostato a quella di Pietrasanta: ove due giorni più tardi gli giunge l’agognata promozione a brigadiere. Nei pochi mesi in cui vi permarrà non succederà granché; se non un curioso episodio che – oltre a dimostrare l’intransigenza del nostro nel tutelare l’onore della divisa indossata – porta il segno dei tempi, sia evidenziando la presunzione di certi imprenditori in pieno “boom” economico che facendo risaltare la centralità di uno dei suoi simboli: il telefono.

Nel clima arroventato scatenato nel Paese dalle forze di sinistra contro il governo Tambroni, e che culmina nei tragici fatti di Reggio Emilia del 7 luglio, lo sciopero generale indetto dalla Cgil per il giorno successivo porta alcuni manifestanti versiliesi ad abbandonarsi ad atti intimidatori e violenti nei confronti di un’azienda tessile pietrasantina: donde la denuncia dei proprietari. Recatosi sul posto una decina di giorni più tardi assieme ad un collega, prima di poter dare inizio a interrogatori e accertamenti il brigadiere viene tuttavia invitato da un dipendente ad attendere l’arrivo della titolare.

Presentatasi al cospetto dei militari solo dopo una mezz’ora, l’arrogante imprenditrice li aggredisce dando ai carabinieri dei maleducati e prendendosela in particolare con colui che qualche giorno prima le ha telefonato chiedendole di mandare subito in caserma una dipendente per essere interrogata: “Voi carabinieri abusate della vostra autorità: le cose dovete chiederle per favore, poiché io non sono l’ultima arrivata”.

Inutilmente il nostro prova a placarne la stizza osservando diplomaticamente che lui, di carabinieri maleducati, non ne conosce: dandogli sulla voce la donna prosegue nella sua nevrotica quanto ingiuriosa filippica; non recedendo neppure una volta invitata a calmarsi e avvertita che il proferire espressioni oltraggiose nei confronti di pubblici ufficiali costituisce reato, ma reclamando anzi dai due malcapitati militari il nome del collega telefonista.

Vistasi preclusa ogni possibilità di indurre l’esagitata interlocutrice alla ragione, Giorgio a quel punto decide di rientrare in caserma per riferire al comandante, preferendo rinunciare alle indagini piuttosto che subire ulteriori umiliazioni. Mentre procedendo nel suo sconcertante atteggiamento l’imprenditrice telefona a sua volta al maresciallo, per ribadire il concetto della maleducazione dei suoi sottoposti, pretendendo il nome di quel carabiniere e avendone per lo stesso Alessandri: “Questo brigadiere se n’è andato e io non voglio essere più disturbata”.

A questo punto l’accertamento dell’episodio della telefonata che tanto ha fatto infuriare la signora prende nell’agenda dei militari paradossalmente il posto dell’inchiesta sul burrascoso sciopero. Si scopre così che qualche giorno prima, verificatosi in paese un grave incidente stradale con due morti, i carabinieri avevano ritenuto di basilare importanza per ricostruirne la dinamica la testimonianza di una donna, vista scendere da una corriera in transito su quella strada al momento del sinistro. Identificata la teste in una dipendente della ditta tessile in questione, se ne erano interessati i dirigenti affinché la avvertissero di recarsi al comando per essere interrogata.

Andate però a vuoto le prime due convocazioni telefoniche, al terzo tentativo rispondeva la stessa titolare, ribattendo che l’impiegata non poteva recarsi in caserma in orario di lavoro, ma solamente al termine di esso. Solo dopo una quarta richiesta in cui si faceva presente l’urgenza di quella testimonianza la donna si degnava di accordare alla dipendente il consenso di recarsi dai carabinieri: una volta al cospetto dei quali, tuttavia, quasi ad accrescere la paradossalità della vicenda la presunta testimone negava di essere la persona in questione, arrivando a smentire quanto dichiarato in tal senso dalla sua stessa madre.

Prende allora corpo una certa chiave di lettura dell’episodio: alla dispotica titolare della ditta non sono andate giù le reiterate richieste degli inquirenti di poter interrogare la dipendente in orario lavorativo, presuntuosamente e con assai scarso senso civico valutandole come un’ingerenza nella propria sfera; donde quella reazione isterica alla venuta dei militari, peraltro provocata da lei stessa. Con il suo insulso atteggiamento la signora è così riuscita nel non facile intento di porre le basi per passare da denunciante a denunciata: infatti, mentre il carabiniere autore della telefonata tanto contestata, forte del fatto che questa è stata udita dai colleghi presenti, chiede ai superiori l’autorizzazione per poter querelare l’imprenditrice per diffamazione aggravata, sul conto di quest’ultima lo stesso maresciallo apre un fascicolo.

All’inchiesta non mancheranno sviluppi ridicoli: resasi finalmente conto della situazione in cui si è cacciata nonché della determinazione del brigadiere nei suoi confronti, in un goffo tentativo di confondere le carte la donna, sfruttando sia il particolare di possedere una voce mascolina, sia l’accondiscendenza della testimonianza resa dal dipendente che ha accolto i carabinieri (che è peraltro suo nipote), finisce con il coinvolgere nell’indagine pure il marito; il quale da parte sua esibisce un alibi, sostenendo di trovarsi il giorno della visita dei carabinieri altrove, assieme al ragioniere della ditta. Non avendo mancato neppure di avanzare calunniose insinuazioni sul conto dello stesso Alessandri – e dopo avere invano tentato di telefonare pure al capitano – la squilibrata industriale finisce incriminata per avere offeso l’onore e il prestigio sia dei due militari recatisi in ditta che dell’Arma in generale; e una denuncia si becca anche il marito, a sua volta accusato di una telefonata oltraggiosa in caserma.

L’esperienza versiliese vedrà poi Giorgio acquisire ulteriori titoli, sia frequentando il corso di perfezionamento per indagini e tecniche di polizia giudiziaria che conseguendo l’abilitazione per la guida delle motociclette Guzzi 500. Assai duratura si rivelerà inoltre l’amicizia nata in riva al Tirreno con Francesco Corbo, maresciallo calabrese destinato a comandare a lungo la Squadra di PG viareggina.

Come tutti gli italiani, poi, pure il nostro viene contagiato dai nuovi dettami imposti dall’avvento del miracolo economico, a cominciare dalla nuova religione dell’automobile. Alla Vespa di seconda mano acquistata ai tempi montellesi subentra così una Moretti altrettanto d’occasione: la prima di una lunga serie di auto, che finiranno con il costituire un’altra sua passione.

Trasferito dalla Legione di Livorno a quella di Firenze ed assegnato al Battaglione mobile del capoluogo toscano, il 12 novembre ’60 Giorgio si sposa con una giovane conosciuta a Montella. A tal fine il militare ha dovuto attendere non solo il compimento del 28° anno di età come da regolamento per i sottufficiali, ma anche l’autorizzazione dal comando di Divisione una volta esperiti gli accertamenti sulla famiglia di lei.

Nel settembre ’63 il brigadiere viene mandato a comandare la stazione di Marliana, caratteristico comune rurale dai tanti ridenti paesini disposti a cavaliere tra la collina della Val di Nievole e quella pistoiese del Vincio. Nei progetti dovrebbero essere solamente sei mesi di prova di comando onde conseguire la promozione a maresciallo: di fatto però diverranno tre anni, dal momento che Giorgio sceglierà di non spostarsi anche una volta ottenuto lo scatto di grado.

Va detto che qui le affinità con la sua terra di origine sono davvero tante: naturali anzitutto, economiche e per giunta anche politiche, dal momento che ad amministrare il paese è l’eterno sindaco democristiano Canigiani. Marliana rappresenta la classica realtà decentrata, in cui i carabinieri sono chiamati a svolgere niente più che l’ordinaria amministrazione: al massimo qualche bega paesana, oltre ai pattugliamenti in motocicletta e, d’inverno, i soccorsi agli automobilisti rimasti bloccati nella neve; in compenso, però, la gente mostra di amare la divisa e di rispettare chi la indossa. Di conseguenza, la redazione serale del brogliaccio di stazione – quasi il libro parrocchiale del curato di campagna – con i principali fatti accaduti viene a rappresentare di fatto la principale incombenza della gran parte delle giornate. Insomma il posto ideale per chi avesse quale obiettivo il quieto vivere: guai, però, a chi agli occhi dell’intransigente sottufficiale si permette di offendere l’onorabilità dell’Arma.

Un giorno, in occasione di una sagra in una delle frazioni, un automobilista ha parcheggiato la macchina malamente, al punto di intralciare il traffico. In servizio assieme all’appuntato (il fedelissimo Savini), Giorgio chiede del proprietario dell’auto, il quale sopraggiunge di lì a poco: si tratta di un pratese, imprenditore nel tessile, che qui ha la casa per le vacanze. Senonché, alla richiesta dei militari di rimuovere il mezzo, in modo da non costringerli ad elevargli la contravvenzione di 10.000 lire, il marrano risponde con una prepotenza degna del parcheggio effettuato: “Con diecimila lire vi fo un cappotto a tutt’e due”.

“Appuntato, manette”, la secca replica del comandante: perché il tuttora vigente codice di procedura penale del 1930, ponendo al primo posto la tutela dell’onore e del prestigio di ogni organo dello Stato, prevede l’arresto immediato per chiunque giunga a oltraggiare un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. A nulla valgono a quel punto suppliche e piagnistei dell’insolente automobilista, né le scuse che verranno a portare in caserma moglie e parenti: Giorgio lo rilascerà solamente il giorno successivo, e nella speranza che la notte trascorsa in cella gli sia servita di lezione.

Ma il rigore disciplinare dell’epoca esige anzitutto l’impeccabilità degli stessi militari. Una mattina dal comando di Compagnia di Montecatini giunge di buon’ora il maresciallo incaricato dei controlli sull’efficienza delle stazioni e sul rispetto del regolamento da parte dei loro componenti. Malauguratamente proprio quella volta il giovane piantone cui spetta il mattiniero compito di riassettare gli uffici e accendere le stufe ha tralasciato di radersi: particolare che non sfugge all’ispettore da lui accolto in caserma, il quale non manca di rimarcarlo al brigadiere in quanto responsabile della disciplina interna.

Promosso maresciallo il 27 novembre ’65, Alessandri si muove solo allorché al Gruppo di Pistoia si rende vacante il comando del nucleo di polizia giudiziaria. Nel luglio del ’66 lascia Marliana, ma rimanendo nel cuore della gente: tante saranno infatti le amicizie nate quassù che egli continuerà a coltivare negli anni.

                                                    Il ventennio alla Squadra

Ha così inizio il momento culminante della carriera del sottufficiale: il quale comanderà per ben vent’anni la “squadra” di PG della caserma di via Abbi Pazienza, percorrendo brillantemente tutti i gradi di maresciallo e caratterizzando con le sue indagini quel lungo periodo di vita cittadina.

Città particolare, Pistoia: se infatti al cospetto di altre realtà toscane a maggior vocazione sia industriale che turistico-culturale essa può apparire come chiusa e provinciale, la sua natura appartata e tranquilla ne farà una sorta di oasi anche nei famigerati “anni di piombo”. Qui insomma il fatto di cronaca nera capace di colpire l’opinione pubblica è destinato a diventare – proprio in virtù di tali presupposti – ancora più eclatante.

Se molti saranno i casi giudiziari risolti grazie al suo intuito e alla sua abilità investigativa, Alessandri sarà in prima linea anche nel fronteggiare l’attività eversiva delle formazioni extraparlamentari, cruciale tappa di avvicinamento alla escalation terroristica. Ma soprattutto, qui egli finirà con l’acquisire un ruolo chiave agli occhi dello stesso procuratore della repubblica, del quale diverrà l’insostituibile collaboratore.

Funzione tutta particolare, quella della polizia giudiziaria, soggetta al comando del Gruppo CC solo per quanto concerne la disciplina militare: è difatti la procura a stabilire la sostanza del lavoro da svolgere. La delicatezza delle sue mansioni è data inoltre dal fatto che determinate indagini affidatele dal magistrato non sono necessariamente finalizzate ad arresti o denunce, ma semplicemente ad appurare determinate circostanze e situazioni: donde l’implicita necessità per l’agente di PG di spogliarsi della propria veste burocratico-repressiva per assumerne un’altra assai più informale e diplomatica. Conseguentemente, costui non potrà svolgere servizio che in borghese; e altrettanto civile sarà l’automobile in dotazione al reparto.

Dai superiori militari come dal procuratore il nostro si farà apprezzare, oltre che per l’innato rigore dell’ossequio formale (che rimarrà sempre quello sacrale inculcato nelle severe aule del castello di Moncalieri) per i suoi rapporti, redatti all’inseparabile Olivetti: precisi, dettagliati e soprattutto puntuali nei riferimenti normativi, con in particolare il codice di procedura penale (peraltro curato dall’illustre omonimo Renzo Alessandri) che diverrà la sua bibbia al punto di non farlo sfigurare neppure al cospetto dei più affermati penalisti.

Giorgio, in pratica, vive per il lavoro: e anche quando è a casa – ammesso che non abbia qualche fascicolo per le mani – con la testa è sempre in ufficio. Probabilmente esagera, visto che ad appena 37 anni viene colto da infarto: sovraffaticamento, dirà la diagnosi; ma certo anche il fumo deve aver fatto la sua parte. Unica evasione che si concede, qualche serata estiva all’ippodromo di Montecatini, a gustarsi l’affascinante spettacolo delle notturne di trotto. Notevole poi la sua passione per la Storia: cui arriverà a dedicare, negli anni, una discreta libreria, con particolare riguardo agli eventi del Novecento e segnatamente alla Seconda guerra mondiale. Ma in cima ai suoi pensieri resta sempre Montefiore, ove trascorre puntualmente la licenza estiva, oltre ai fine settimana liberi e senza mai mancare alla suggestiva messa natalizia di mezzanotte alla Pieve di Offiano.

La sua natura lo porta del resto a preferire all’opportunismo delle relazioni sociali cittadine, dettate dalla posizione e dalle convenienze, la semplicità della vita di paese: devotissimo ai genitori, cordiale e deferente con i paesani, ossequioso verso la sacra gerarchia dettata dall’età, sempre disponibile verso chiunque gli si rivolga. Qui i suoi passatempi sono quelli tipici del campagnolo: la caccia al passo dal capanno (con i richiami appositamente accuditi tutto l’anno); la ricerca dei funghi su all’Alpe – avvalendosi dell’ausilio del babbo, gran conoscitore delle fungaie – e le battute campestri in cerca di raponzoli; per finire con la rituale partita a carte del dopocena casalingo, qualora vi siano i quattro giocatori necessari alla briscola e allo scopone (e non potendo contarsi su Beppe, che alle carte preferisce comunque il suo fiaschetto).

Nel ‘67 avviene un fatto decisivo ai fini della carriera del nostro: l’insediamento al vertice della procura di Pistoia del dottor Giuseppe Manchia. Infaticabile, scrupoloso, esigente il magistrato sardo pretende dai suoi collaboratori il massimo; con Alessandri si intenderanno subito, formando a lungo una coppia affiatatissima al servizio della Giustizia, con reciproca stima e fors’anche simpatia personale, pur nella rigida distinzione gerarchica imposta dai rispettivi ruoli.

Ulteriormente motivato dalla sintonia con il nuovo procuratore capo, Giorgio diviene se possibile ancor più stacanovista: in ufficio tutti i giorni, mattina e pomeriggio, sabato compreso e pure al mattino della domenica, così come degli altri giorni festivi. Pare proprio non potersi staccare da quelle stampe che appese ai muri della stanza rievocano le battaglie risorgimentali dell’Arma come le gesta dei suoi eroi.

Nei pomeriggi festivi può capitare che egli si conceda un film al cinema con la famiglia, con preferenza per western e genere storico; ma quando la Pistoiese gioca in casa (la società arancione si accinge a vivere il favoloso ciclo della presidenza Melani: in cinque anni dalla serie D alla A) può capitare che gli venga affidato pure il servizio allo stadio. Frequenti poi le chiamate notturne: ogni volta che si verifica un fatto tale da richiedere l’intervento della procura, è sempre lui ad arrivare sul posto per primo, in modo da agevolare il compito del magistrato. Insomma quell’incarico pare fatto apposta per lui.

Così rigoroso con sé stesso, è inevitabile che sia a sua volta parecchio esigente con i sottoposti. Lavorare alla Squadra è ambito: si veste in borghese, si occupa un ruolo di prestigio nell’ambito della caserma, si ha la possibilità di compiere un passaggio cruciale ai fini della carriera. C’è però chi vi rimane lo spazio di un mattino: vuoi per la mole di lavoro e il piglio incalzante dello stesso comandante; vuoi perché a quest’ultimo basta poco per valutare l’attitudine del candidato.

Ma chi resiste, e supera la prova acquisendo la stima e la fiducia del maresciallo, può mettere la mano sul fuoco: dalla scuola di Alessandri uscirà definitivamente formato, come militare ma anche come uomo. Perché per il nostro la prima virtù è la lealtà: se assegna un incarico a un suo collaboratore, o gli concede un giorno di permesso, poi, qualunque cosa dovesse accadere, lo difende finanche davanti al generale, assumendo su di sé ogni responsabilità.

Rispettosissimo con gli appuntati più anziani (cui dà rigorosamente del lei) Giorgio è con i pari grado sempre cordiale e disponibile: lungi da lui invidie, malignità, rancori tipici dell’ambiente militare. Rossi, Tafani, Tiberio, Nucera i colleghi degli altri reparti con cui per lunghi anni avrà modo di collaborare proficuamente; potendo inoltre contare nel tempo quali fidati bracci destri alla Squadra sui vari Amati, Galluzzi, Lunardi, Satta, Vanneschi.

Ma non mancando neanche di avere un occhio di riguardo per i conterranei: in particolare l’antico mentore Egisto “Renato” Novelli da Casola, comandante la stazione di Borgo a Buggiano, e Francesco Gherardi da Carpinelli, in servizio a Ponte Buggianese. Mentre altri amici apuani trapiantati a Pistoia saranno il maresciallo della finanza Andrea Borzani, di Vinca, nonché il giornalista della “Nazione” Valeriano Cecconi, di Forno.

Responsabile della cronaca nera cittadina per il quotidiano fiorentino è invece Alberto Ciullini: spesso il nome del nostro comparirà nei suoi articoli, finendo addirittura in prima pagina in occasione delle indagini più eclatanti. Sempre calorosi, poi, i rallegramenti in occasione delle promozioni: ad esempio per quella a maresciallo capo – che ha luogo il 27 novembre ’67 – il giornale li rivolge “all’amico Alessandri, conosciuto ed apprezzato per le sue doti di intelligenza e capacità”.

Per la particolare posizione occupata, inoltre, il capo della PG viene chiamato spesso a testimoniare ai processi. Giorgio finirà così con il diventare un personaggio anche a Pistoia: cosicché, vedendolo la mattina passare per la centralissima via Orafi per recarsi in procura con il suo tipico soprabito color ghiaccio, ai pistoiesi verrà naturale ribattezzarlo come il “tenente Sheridan”, assimilandolo al popolare investigatore televisivo dell’epoca.

Primo significativo banco di prova del nostro alla Squadra l’impegno profuso nel contrastare l’attività di Lotta Continua, la formazione extraparlamentare destinata a rappresentare più di altre l’anello di congiunzione fra contestazione sessantottina e terrorismo, e che nella rossa Pistoia fa tendenza soprattutto fra gli intellettuali delusi dal dinosauro rappresentato dal PCI e la cui attività eversiva si manifesta attraverso ciclostilati clandestini e affissioni altrettanto abusive. Frequenti perciò le perquisizioni di Alessandri e dei suoi uomini nella centralissima sede dell’organizzazione in Borgo Strada, con sequestri e fermi senza andare troppo per il sottile, come imposto dal severo codice in vigore; arresto che immancabilmente scatta anche nel caso l’attivista sorpreso ad affiggere abusivamente manifesti reagisca oltraggiosamente all’intervento degli agenti di PG.

Particolarmente turbolenta la campagna elettorale per le politiche del ’72, che faranno registrare una forte avanzata del Movimento sociale di Almirante: la sera del comizio dell’ammiraglio Birindelli, in piazza Duomo si scatena una vera e propria battaglia tra forze dell’ordine ed esponenti dell’ultrasinistra; desterà scalpore, in particolare, l’arresto di un prete di LC colto in prima fila a lanciare sanpietrini contro la forza pubblica. Quella notte pure Giorgio tornerà a casa con un braccio malconcio.

Promosso maresciallo maggiore il 30 ottobre ’73, l’anno successivo anche Alessandri si cimenterà senza fortuna nel “giallo” pistoiese per eccellenza, destinato a rimanere irrisolto e sul quale la stampa locale marcerà a lungo: quello delle due donne scomparse a Chiazzano. La sera dell’8 aprile ’74 Isola Innocenti e la figlia Emanuela, residenti nel “paese dei maghi” (oltre che dei vivaisti), escono di casa con la loro 500 per recarsi a un appuntamento con un santone che abita poco distante: la madre soffre da tempo di dolorosi disturbi renali che nessun specialista è riuscito a curarle; donde l’iniziativa della figlia di tentare anche la via dell’occulto. Le due si portano dietro una vanga, dal momento che il rito da effettuarsi prevede il sotterramento di un indumento della donna.

Senonché la loro auto verrà ritrovata in un luogo assai distante dalla piana pistoiese: a Torre del Lago, vicino ad un camping della pineta. Sparita la vanga, all’interno vengono rinvenuti un sacchetto di plastica, una fune, della sabbia e soprattutto sangue, dappertutto; il sedile di guida risulta inoltre spostato parecchio all’indietro, tanto da far pensare che a guidare sia stata una persona ben più alta della piccola Emanuela. Le analisi diranno trattarsi di sangue umano; mentre la sabbia non risulterà di pineta bensì proveniente dalla riva del mare.

Nonostante l’impiego di elicotteri e unità cinofile, le battute che setacciano macchia e litorale non sortiscono alcun risultato: al punto di far supporre che l’aver fatto ritrovare la macchina in quel luogo possa costituire un depistaggio. Nessun elemento producono inoltre gli interrogatori cui vengono sottoposti i familiari delle due donne, il fidanzato di Emanuela nonché il mago in questione: il quale peraltro afferma non solo di non averle viste la sera in questione, ma di non conoscerle affatto. A notarle quella sera sarebbero invece stati due uomini, ma in un bar di Torre del Lago.

Nei giorni successivi il mistero si infittisce ulteriormente, fra telefonate di mitomani ai familiari e l’iniziativa di questi ultimi di rivolgersi a loro volta ad un veggente per sapere che fine abbiano fatto le congiunte: ciliegina sulla torta di un giallo che per tutti i suoi ingredienti finirà involontariamente con il rappresentare il paradigmatico antesignano degli infiniti “chi l’ha visto” nazionali degli anni a venire.

Il caso che invece commuoverà di più il nostro – come tutta quanta l’opinione pubblica – sarà un rapimento vero, purtroppo conclusosi nel peggiore dei modi. I sequestri di persona rappresentano del resto in questi anni una vera e propria emergenza nazionale: ad operare in Toscana è in particolare l’“anonima sarda”, composta da ruvidi ex pastori. La sera del 10 novembre ’75, a Prato, viene rapito il trentaduenne Piero Baldassini: il cui padre, Dino, si è imposto fra gli imprenditori tessili locali fino a diventare presidente del Prato calcio. Nonostante la consegna ai rapitori da parte del legale della famiglia dei 750 milioni di lire pattuiti già il 22 novembre, l’ostaggio non viene rilasciato. Se le indagini degli inquirenti fiorentini continuano a brancolare nel buio, a nulla vale neppure la taglia di 120 milioni sottoscritta da un gruppo di industriali pratesi nel tentativo di smuovere l’inchiesta.

Questa avrà un sussulto solamente due anni più tardi: a seguito di un’iniziativa dello stesso avvocato dei Baldassini, gli inquirenti riescono a raccogliere le rivelazioni di un’amica del capo dell’anonima sarda Mario Sale, facendo così luce su un altro rapimento avvenuto in Toscana. Dopodiché il cerchio si stringe anche attorno agli autori del sequestro Baldassini, portando in particolare all’incriminazione di un uomo: sul conto del quale si rivela particolarmente pesante la testimonianza di una donna, che nel ’78 dichiara agli investigatori di averlo visto seppellire il corpo del giovane imprenditore dentro una fossa scavata dietro un cascinale di Casa al Vento, sulle colline del Montalbano, ove era stata condotta da lui stesso.

Le ricerche nel punto indicato dalla teste non portano tuttavia che al rinvenimento, sotto della terra smossa, di un lungo pezzo di cavo telefonico, probabilmente servito a legare il cadavere; che gli altri componenti la banda si sono evidentemente premurati di rimuovere, una volta saputo delle confidenze del complice all’amica. Dopo un altro anno di stallo, la vicenda trova la sua tragica quanto preannunciata soluzione grazie all’indagine condotta dalla PG pistoiese, che porta prima all’arresto del principale responsabile del rapimento, quindi, il 22 aprile ’79, al rinvenimento dei resti del Baldassini, nel pozzo di una casa non distante dalla precedente località.

I polsi del poveretto si presentano ancora serrati dal fil di ferro. La colpa da lui pagata a prezzo della vita era stata quella di avere visto in faccia il capobanda, dal quale era stato immediatamente freddato con un colpo di lupara in pieno petto, la stessa notte del rapimento. Dopodiché gli assassini ne avevano pure mutilato il cadavere, allo scopo di facilitarne l’occultamento, legandolo a un blocco di cemento e forse facendolo anche straziare dai cani, onde renderlo irriconoscibile: la ferocia di quei criminali era infatti tale che un altro rapito era stato addirittura dato in pasto ai maiali, al fine di cancellarne ogni traccia.

Mai encomio risulterà così amaro quale quello ricevuto dal nostro nella triste occasione, per le “serrate indagini” esperite dai suoi uomini. Mentre emblematico dell’inaudita brutalità della vicenda rimarrà quanto dichiarato anni dopo da Dino Baldassini, richiesto da uno dei rapitori del perdono onde poter beneficiare degli sconti di pena: “Lo perdono solo se mi restituisce mio figlio”.

Ben più semplice per Giorgio risolvere il caso successivo: il “delitto dell’Orsigna”, che nel giugno di quello stesso ’79 scuote tutta la montagna pistoiese sia per l’efferatezza della vicenda che per la notorietà del luogo che le fa da cornice: un rinomato ristorante posto lungo la “piana” del Reno. La moglie del cui titolare – la trentanovenne Adriana Daini, madre di due figli – si è invaghita di un giovane cameriere, a sua volta sposato, che qui viene ad arrotondare i proventi del suo lavoro notturno di panettiere; gli incontri fra i due amanti hanno luogo di conseguenza al mattino.

Finché un giorno la donna, recatasi di buon’ora all’appuntamento, non ha una sorpresa: l’amante le chiede infatti di fingere un rapimento, allo scopo di estorcere un riscatto al marito. Al suo rifiuto, lui pone in atto un piano evidentemente premeditato: dopo averla legata mani e piedi, incurante delle implorazioni della poveretta la uccide strangolandola e accoltellandola; dopodiché, con l’aiuto di un complice, si disfa del cadavere abbandonandolo sul greto del torrente Orsigna, tra i cespugli.

All’ora di pranzo di quello stesso giorno il marito riceve una telefonata con cui gli si comunica l’avvenuto rapimento della moglie con una richiesta di riscatto di cinquanta milioni: cifra che appare esigua rispetto alle abituali richieste dei rapitori; i quali per giunta sono soliti farsi vivi non nell’immediatezza del sequestro, bensì dopo avere lasciato trascorrere qualche giorno. È Giorgio a condurre in prima persona l’inchiesta, individuando ben presto il poco scaltro assassino (il cui furgoncino da lavoro si fa subito notare per il fatto di apparire eccessivamente lindo: difatti è stato appena lavato), facendolo crollare con un memorabile terzo grado e assicurando alla giustizia anche il complice. Tutto ciò nel volgere di pochissimi giorni: donde un nuovo encomio, per le “tempestive e diligenti indagini” svolte.

Un rapimento conclusosi felicemente è invece quello del pistoiese Osvaldo Ferretti, facoltoso industriale con interessi sia nel settore della plastica che in quello petrolifero. Caso che finirà con il rappresentare una delle inchieste più delicate esperite dal nostro nell’arco della sua carriera: ma anche quella in cui la Squadra avrà modo di dare una delle migliori prove di sé.

Sequestrato nel febbraio ’82 dagli esponenti di una ‘ndrina calabrese già responsabili di altri rapimenti al Nord, il Ferretti non viene liberato neppure dopo il pagamento da parte dei familiari dei due miliardi di lire richiesti dai malviventi. Pericolosi quanto estenuanti accertamenti tengono allora impegnato per oltre otto mesi tutto quanto il comando pistoiese, con numerose battute sui luoghi potenzialmente utilizzabili dalla ‘ndrangheta come prigioni per i suoi sequestri, a cominciare dall’Aspromonte. Sinché tanto prodigarsi non sortisce l’esito più felice: la liberazione dell’ostaggio, la decapitazione della banda, il recupero di parte del riscatto versato, il sequestro di numerose armi.

Tale è la soddisfazione dell’intera opinione pubblica per un simile epilogo da indurre la stessa procura a farsi interprete di tali sentimenti, rivolgendo un elogio direttamente al comando generale dell’Arma per la capacità e il coraggio con gli uomini del Gruppo pistoiese hanno saputo condurre a termine l’ardua operazione.

“A conclusione, eccezionalmente positiva, delle complesse, difficili, estenuanti indagini di P. G., mi è particolarmente gradito rivolgere il più vivo apprezzamento per l’attività svolta dagli Ufficiali ed Agenti di P. G. del Gruppo Carabinieri di Pistoia. Un plauso ed un elogio particolarmente voglio esprimere al Maresciallo Giorgio Alessandri, Comandante la Squadra di P. G. di Pistoia, per il costante impegno, l’abnegazione, l’eccezionale capacità dimostrati nello sviluppo dei lunghi accertamenti che hanno portato alla felice conclusione delle indagini, condotte in circostanze particolari sia per l’ambiente in cui si è operato (organizzazioni criminose calabresi), sia per i luoghi di intervento (Nord Italia e Calabria). È indubbio che il risultato ottenuto, concretatosi con la denuncia di 15 persone, di cui 13 in stato di arresto, e con l’acquisizione di materiale probatorio di accusa di notevole rilevanza, è in gran parte da ascrivere al coraggio dimostrato dagli inquirenti, che hanno operato con elevato rischio personale in difficili situazioni di tempo e luogo.”

Per la medesima inchiesta sarebbe giunto al nostro dai superiori militari anche un altro encomio solenne: “In occasione di sequestro di persona a scopo di estorsione, partecipava a complesse e rischiose indagini che si concludevano con l’identificazione di 15 pericolosi appartenenti ad organizzazione criminosa calabrese, di cui 13 tratti in arresto. L’operazione di servizio portava al parziale recupero di ingente somma pagata per il riscatto, al sequestro di numerose armi da guerra e comuni ed al rilascio dell’ostaggio”.

Gli ultimi anni pistoiesi rappresentano per il maresciallo Alessandri l’apoteosi: conosciutissimo, stimato e benvoluto per la sua affabilità, in città è ormai un punto di riferimento per tutti. Il motivo è da ricercarsi anche nella singolare durata del periodo di permanenza alla guida della PG: fra il ’75 e l’81 egli ha difatti conseguito le tre medaglie di lungo comando – bronzo, argento, oro – che sommano al periodo di permanenza effettiva a capo di un reparto i meriti acquisiti sul campo. Naturale perciò che, rimanendo gli ufficiali pochi anni per le frequenti promozioni dettate dalle esigenze della carriera, egli abbia implicitamente finito con il rappresentare la continuità dell’istituzione Arma agli occhi di molti, autorità come semplici cittadini. Lui si rende conto del particolare ruolo venuto a ricoprire con il tempo, giungendo a sviluppare il senso delle pubbliche relazioni ben al di là della mera funzione formale assegnatagli dalla carica eppure senza rinunciare alla sua innata semplicità.

D’altra parte l’incondizionata stima di cui gode da parte del procuratore ne fa, anche agli occhi dei superiori, il diplomatico punto d’incontro fra le direttive della procura e le autonome linee operative del Gruppo (oltre che, in certi frangenti, il termometro dello stato dei rapporti fra le due istituzioni giudiziarie). Ciò senza mai derogare alla peculiarità delle prerogative della Squadra, che gli impongono di tutelarne la funzione sostanzialmente svincolata rispetto alla gerarchia militare.

Maresciallo aiutante sin dal 10 luglio ’78, da allora Giorgio sostituisce per ben tredici volte i vari capitani succedutisi al comando della Compagnia pistoiese. Nominato inoltre cavaliere anche dal punto di vista onorifico, una volta superata la boa dei cinquant’anni egli incomincia a mettersi avanti per la pensione: grazie alla sua parsimonia (mai un viaggio, o una vacanza appena mondana: solo il pellegrinaggio militare annuale a Lourdes) è riuscito ad acquistare un terreno al suo paese, costruendovi una casa per la vecchiaia. Nel frattempo si affina come agricoltore: chi lo vedesse d’agosto ammazzarsi di fatica nel campo – il cappellone in testa, la nuvola di tafani che non gli dà tregua – stenterebbe a riconoscervi il compassato “tenente Sheridan” pistoiese, sempre inappuntabile nel gilet da cui spunta l’orologio a taschino. Di quando in quando poi la sera ridà fiato all’organetto, a rievocare motivetti folcloristici della sua giovinezza itinerante.

Finché nell’86 non accade un fatto nuovo: l’Arma bandisce un concorso per ufficiali aperto anche ai sottufficiali. Giunto ad un bivio (l’alternativa sarebbe difatti il pensionamento, di lì a poco), il nostro sente di avere ancora qualcosa da dare alla Benemerita; al contempo però si immagina che alla selezione parteciperanno molti laureati, precludendo agli appartenenti alla vecchia guardia la possibilità di farcela. Quando ha modo di leggere il bando apprende tuttavia dell’esistenza di una riserva di posti per quei marescialli che siano in possesso di determinati titoli: vantandoli egli tutti, a quel punto decide di tentare.

                                                            Ufficiale

Brillantemente superate le prove d’esame, il 27 ottobre ’86 Alessandri viene ammesso al primo corso per tenenti del ruolo tecnico-operativo, cui partecipa con altri 34 colleghi: i quali scelgono di dedicare idealmente il ciclo di lezioni cui sono chiamati presso la Scuola Ufficiali di Roma al leggendario collega Chiaffredo Bergia, distintosi negli anni della legge Pica per un’esaltante serie di azioni contro il brigantaggio tali da farlo assurgere dal grado di carabiniere semplice a quello di capitano.

Nel frattempo Giorgio ha già lasciato il glorioso ufficio pistoiese per insediarsi nel nuovo comando assegnatogli: quello del nucleo operativo del Gruppo di La Spezia. Il destino vuole dunque che il montefiorino debba aprire questa nuova pagina professionale tornando alle sue radici, proprio nella città che aveva visto fanciullo scendervi con i carichi di carbone dello zio.

Degna di nota l’accoglienza riservatagli dai quotidiani locali, ed in particolare dalla “Nazione”, che il 1° maggio ’86 scrive: “Da quasi quarant’anni in servizio nelle file della Benemerita, della quale ha percorso tutte le tappe guadagnandosi sempre la stima di superiori e commilitoni, gli è stato ora affidato il comando del nucleo operativo del comando gruppo carabinieri della nostra città: incarico nel quale si è già segnalato, conducendo a termine con successo importanti indagini. Prima della promozione Alessandri ha diretto il nucleo di polizia giudiziaria di Pistoia, ove le sue doti di umanità e professionalità hanno più volte avuto unanime riconoscimento”. Mentre da parte sua la stessa redazione pistoiese del giornale gli rivolge un caloroso saluto di commiato: anche negli anni successivi, del resto, essa non mancherà di registrarne successi e promozioni, considerandolo a tutti gli effetti come un concittadino, se non altro d’adozione.

E sarà appunto il suo invidiabile bagaglio di esperienza, la proverbiale conoscenza a memoria del diritto penale a farne agli occhi dei nuovi colleghi una sorta di enciclopedia giudiziaria vivente: tanto che lo stesso comandante del Gruppo, il colonnello Giuseppe Lepore (dai suoi uomini soprannominato “baffo elettrico” per la sua ardita intraprendenza) prenderà l’abitudine di consultarlo prima di decidere il da farsi circa i casi più delicati.

Qui Giorgio riceverà riconoscimenti tra i più importanti della sua carriera; in più, oltre all’abituale supplenza a capo della Compagnia, gli toccherà un comando interinale probabilmente inedito per un tenente: avendo infatti i vertici dell’Arma deciso di unificare il nucleo operativo e quello informativo in un unico “reparto operativo” assegnato al comando di un maggiore, nell’attesa della nomina di quest’ultimo la reggenza della nuova struttura viene affidata proprio a lui. Ma soprattutto, nel corso della permanenza nella città ligure – sede di un importante porto militare nonché dell’Oto Melara, azienda leader  nella produzione bellica – egli avrà modo di cimentarsi, fra l’altro, in un paio di casi di spionaggio internazionale degni di fare da soggetto a film di 007; del primo, in particolare, si occuperanno a lungo le cronache nazionali, anche per certi suoi compromettenti risvolti politici interni.

La procura di Massa sta da tempo lavorando ad un’inchiesta su un traffico di armi e droga tra il Medio Oriente e l’Italia che ha fra i suoi terminal anche Marina di Carrara: il cui piccolo porto, da sempre adibito al trasporto del marmo apuano, pare venga utilizzato anche da agenti del terrorismo arabo. A tessere la trama della vicenda è un ambiguo personaggio di Lerici, Aldo Anghessa, titolare di una ditta import-export di legname la quale pare però essere solamente una copertura a traffici ben più scottanti: spesso in Siria e in Libano – ufficialmente per i suoi affari – costui lavora in realtà per i servizi di sicurezza, in qualità di informatore; oltre a tenere oscuri rapporti con le alte sfere della stessa Democrazia cristiana. Il faccendiere si è impegnato a collaborare con la magistratura massese, a ciò mosso anche dall’intento di alleggerire la propria posizione circa una serie di reati minori addebitatigli.

La situazione entra nel vivo nell’estate dell’87, allorché l’“agente provocatore” – come la nuova normativa ha voluto ribattezzare la figura dell’infiltrato – preannuncia al procuratore l’imminente arrivo nel porto spezzino di un mercantile libanese carico di armi: il Boustany One. È perciò proprio ai carabinieri di La Spezia che il magistrato affida la complessa inchiesta: la quale viene gestita in prima persona dal comandante del Gruppo, con l’ausilio dei suoi ufficiali. In caso di successo l’indagine potrebbe riservare sviluppi di enorme portata: con i suoi referenti, infatti, il fiducioso trafficante non esclude di poter riuscire ad attirare in una trappola i principali esponenti del terrorismo internazionale, in modo da propiziare una retata generale.

Senonché ai primi di settembre il cargo si blocca improvvisamente al largo di Bari, senza che al comando spezzino se ne conosca il motivo: sentendosi puzza di bruciato, si decide allora di inviare in missione nel capoluogo pugliese proprio il navigato (nonché il decisamente meno in carriera tra gli ufficiali) Alessandri, affinché appuri se e come la matassa possa essere sbrogliata. Dall’agente del Sisde – nel frattempo riparato in albergo – il tenente apprende tuttavia che il motivo dell’imprevisto stop non è di carattere burocratico-legale, bensì di tutt’altra natura, a dire il vero più da film comico che non spy: alla nave è difatti malauguratamente finito il carburante proprio a un tiro di schioppo dal porto barese, per cui servono sull’unghia cinque milioni di lire in contanti per reperire il gasolio necessario a farla ripartire.

Il rischio che un’operazione di tale rilievo possa andare in fumo per un motivo così banale è concreto: ma come inventarsi una soluzione così su due piedi in un territorio che non è il suo e dovendo per giunta agire con la massima urgenza? Il buon Giorgio si dà una risposta da idealista: mi aiuteranno i colleghi del posto. Ma nella fatua era della “videocrazia” ormai in auge anche l’Arma è cambiata, non è più quella dei Salvo D’Acquisto: la prospettiva di finire sotto i riflettori diviene spesso più forte di qualunque scrupolo di lealtà e solidarietà fra commilitoni.

Difatti il comando barese cui egli si è rivolto fiuta immediatamente la risonanza mediatica della vicenda: il pretesto è dato dalla competenza territoriale, che sarebbe stata violata dai colleghi spezzini. La stessa linea sposa ovviamente il procuratore di Bari: per cui al malcapitato Alessandri, accusato di sconfinamento, non resta che fare rientro alla base, dopo avere passato il quarto d’ora professionalmente più critico della sua carriera, salvato da guai peggiori solo dall’intervento del magistrato massese (il quale con grande lealtà assume su di sé l’intera responsabilità dell’iniziativa) e nell’infuriare della tempesta fra i due comandi contendenti.

L’importanza che le cronache attribuiranno all’operazione sarà comunque enorme, superiore a quella di qualunque altra delle pur numerose e rilevanti indagini cui il nostro ha preso parte negli anni. Nelle riprese dai vari tg nazionali effettuate davanti alla caserma di via Foscolo comparirà anche Giorgio; così come lo stesso Anghessa, nel suo quarto d’ora di celebrità, non mancherà di fare il nome di Alessandri nelle interviste rilasciate ai settimanali politicamente più impegnati, quale suo referente nella delicata missione.

L’altra delle capitali inchieste spezzine acquisirà addirittura un valore storico: essa costituirà infatti l’ultima operazione italiana di controspionaggio dell’epoca della “guerra fredda”. Siamo all’inizio dell’89 – l’anno che vedrà la caduta del Muro di Berlino – allorché, nel quadro di un lungo lavoro di sorveglianza finalizzato allo smantellamento di una vasta rete spionistica operante in Italia per conto dell’Unione Sovietica (e condotto tramite accurati pedinamenti, intercettazioni telefoniche, fotografie rubate) il servizio segreto militare decide di mettere sotto particolare osservazione due personaggi, sospettati di essere agenti del Kgb; uno dei quali risulta operante proprio alla Spezia, ove ufficialmente svolge l’attività di grossista di pellami.

Da anni sono del resto in corso tra le due superpotenze le trattative per il disarmo atomico: naturale perciò che gli armamenti necessari alla guerra “convenzionale” (ossia non condotta con armi nucleari) riscuotano sempre maggiore interesse nei servizi segreti di entrambi i blocchi, avendo ovviamente un occhio di riguardo per le assai quotate aziende belliche italiane. Per portare a compimento la complessa indagine, il Sismi chiede la collaborazione del locale comando CC: Lepore a quel punto sceglie ancora una volta di farsi affiancare dal suo specialissimo tenente.

La laboriosa inchiesta rivelerà alla fine un vero e proprio “intrigo internazionale”, nel quale risulteranno implicati i servizi di diversi paesi. La tranche spezzina in particolare porterà all’arresto anche di due dipendenti di altrettante aziende fornitrici dell’Oto Melara: erano proprio costoro a fornire al commerciante messo nel mirino dal servizio militare documenti segreti Nato di notevole importanza strategica (dai progetti – ottenuti copiando disegni di armi e carri armati – ai piani militari). In tale attività spionistica il movente ideologico contava fino ad un certo punto: difatti il Kgb pagava le sue spie per mettere le mani su quella documentazione.

L’importante contributo dato alla notevole operazione di intelligence porterà Giorgio a vivere una delle giornate più solenni della sua carriera: il 7 giugno ’89, in Arsenale, in occasione della festa per i 175 anni dell’Arma, alla presenza delle maggiori autorità civili e militari, gli viene conferito l’elogio. “Comandante di nucleo operativo di gruppo coadiuvava con elevata capacità e diuturno impegno il superiore diretto in complesse e laboriose indagini – partecipandovi personalmente – che si concludevano con la disarticolazione di una rete spionistica di vaste proporzioni che mirava ad impossessarsi di segreti nazionali di rilevante importanza strategica”. Stavolta a rendergli l’omaggio principale è il “Secolo XIX”, che nella foto a corredo dell’articolo relativo alla cerimonia immortala proprio il momento della consegna dell’onoreficenza al tenente: del resto il suo giovane redattore spezzino Paolo Brosio ha finito con il giocare nei confronti di Alessandri il ruolo a Pistoia a lungo appartenuto al buon Ciullini.

Sarà così il medesimo quotidiano genovese un mese più tardi a dare conto del conferimento da parte del presidente della repubblica della medaglia mauriziana, con cui ad Alessandri vengono riconosciuti dieci lustri di carriera militare “ad attestazione del lungo e meritevole servizio prestato nelle forze armate”. L’articolo non manca perciò di riportare tutte le principali tappe del percorso dal lunigianese compiuto nelle file della Benemerita.

La regola della brevità della permanenza nell’incarico vale anche per un ufficiale particolare come il nostro: l’ottobre di quello stesso anno vede così il suo ritorno a Firenze, per assumervi la guida della sezione antidroga presso il comando di Borgognissanti. Per la prima volta in vita sua egli si trova così a dover fare il pendolare: essendo infatti la moglie ed i tre figli rimasti ad abitare a Pistoia, come un qualsiasi lavoratore opta per il treno; di conseguenza sveglia presto al  mattino, per rientrare a casa la sera.

Più che mai figlio dei tempi, il reparto è stato appena costituito: una volta superata dal Paese l’emergenza del terrorismo, quegli anni Ottanta hanno difatti visto prendere sempre più corpo il dibattito sulla diffusione delle sostanze stupefacenti, nonché sulle norme con cui ribattere al sempre più dilagante fenomeno della droga. È in tale contesto politico-legislativo che l’Arma ha deciso di istituire apposite “sezioni” regionali finalizzate alla lotta al narcotraffico, alle dipendenze di un comando centrale con sede a Roma. Nel capoluogo toscano viene costituito un reparto “d’élite”, composto da quindici uomini, quasi tutti sottufficiali e la cui età media è piuttosto bassa: naturale perciò che a riequilibrare l’aspetto anagrafico debba essere insediato un comandante di lungo corso.

Alessandri si trova dunque ad assolvere a un delicato incarico di polizia giudiziaria, per certi aspetti analogo a quello svolto a Pistoia: nell’intendimento di chi lo ha voluto, infatti, l’attività del nuovo raggruppamento deve tendere non tanto al conseguimento di eclatanti sequestri di partite di droga quanto alla disarticolazione delle strutture criminali preposte al traffico degli stupefacenti. La peculiarità del lavoro da svolgere è data soprattutto dal coinvolgimento della sfera morale, mediante l’introduzione della figura dell’agente provocatore: ossia il carabiniere incaricato di insinuarsi sotto mentite spoglie all’interno del racket onde acquisire gli elementi necessari alla denuncia.

Nel delinearne i compiti, infatti, il nuovo ordinamento ha finito con il lasciare un confine assai labile fra quanto è legale e quanto non lo è. Non essendo in particolare consentita all’ufficiale di polizia giudiziaria operante sotto copertura la “provocazione” – ossia, in questo caso, la richiesta di droga allo spacciatore – costui, se vorrà penetrare nei gangli dell’organizzazione, dovrà conquistarsi la fiducia del trafficante, dismettendo i panni del tutore della legge per indossare volta volta quelli del ricco finanziatore intenzionato a garantirsi facili guadagni mediante speculazioni illecite, dell’acquirente di sostanze stupefacenti, dello spacciatore con il suo giro di clienti. Tutt’altro che facile, dunque, per un esponente della vecchia guardia come il nostro – nonché uomo integerrimo fin negli aspetti più marginali della vita – calarsi in tale nuova veste di attore, di camaleonte costretto a giocare, magari nell’arco della stessa giornata, i ruoli più diversi.

Questa nuova esperienza toscana finisce così con il diventare per l’ormai cinquantottenne Alessandri una sorta di prova del fuoco in cui viene rimesso in discussione tutto; a cominciare dalla concezione classica dell’indagine cui egli si è sempre saldamente ancorato: quella cioè più naturale che vuole l’investigatore acquisire l’informazione dalla strada, quindi vagliarla e ottimizzarla per poi indirizzare lo strumento operativo verso un obiettivo preciso.

Di conseguenza il romantico vicebrigadiere che in Irpinia ebbe a rischiare la vita per servire lealmente la giustizia così come lo scrupoloso segugio della Squadra pistoiese – entrambi abituati a perseguire i propri obiettivi senza trucchi o sotterfugi – si vedono adesso costretti a lasciare il posto a tutt’altro genere di servitore dello Stato, disposto a considerare lo stratagemma di infiltrarsi all’interno dell’organizzazione criminale fingendosi amico del malvivente (e quindi acquisendo le necessarie informazioni solo grazie a tale poco ortodosso espediente) come una normalità investigativa. Insomma un bell’esame finale prima del congedo: in cui saggezza, diplomazia, disponibilità al compromesso rischiano di non essere mai troppe.

Nella nuova veste il tenente ha oltretutto la responsabilità di dover formare un bel gruppo di giovani, inculcando loro con il suo esempio quotidiano quelli che sono gli irrinunciabili valori dell’Arma ma dovendone al contempo anche frenare l’ardore ed orientare la professionalità, vista la complessità del quadro – sia normativo che strutturale, dipendendosi comunque da Roma – all’interno del quale si svolge l’attività della Sezione. Anche con questi suoi ultimi allievi il legame risulterà comunque forte: loro avvertiranno il valore anche umano del vecchio comandante, e lui li ricambierà con altrettanto affetto, avendo sempre al primo posto nella scala dei suoi valori onestà ed esemplarità del modello offerto.

Con l’avvento degli anni Novanta prende ad imporsi, anche in ambito giudiziario, l’utilizzo del computer: Giorgio si rivela tradizionalista anche in questo, non recependo tale moda e continuando ad affidarsi alla sua vecchia, elegante stilografica da scrivania. Per quanto riguarda invece le innovazioni tecnologiche necessarie alle indagini, egli si adopera affinché l’Antidroga possa disporre della strumentazione più evoluta, a cominciare dalle microspie. Bisogna infatti considerare che il diffondersi della telefonia cellulare ha reso ormai obsolete quelle “cimici” tradizionalmente impiegate per intercettare le comunicazioni fatte da cabine e utenze private: fra coloro che traggono i massimi vantaggi da tale innovazione sono così proprio i narcotrafficanti, dal momento che non tutte le forze di polizia possono disporre della tecnologia necessaria a intercettare i portatili.

Riguardo poi alle progressioni di carriera, il 22 dicembre ’90 a Giorgio viene conferita la massima onoreficenza militare legata all’anzianità di servizio: la croce d’oro con stelletta, suggello ai suoi quarant’anni nell’Arma. Anche in questo caso la cerimonia di consegna del prestigioso distintivo ha luogo il giorno della festa del Corpo: quindi il 5 giugno ’91, presso la Caserma Baldissera sede del comando di Legione, sulle amate note della Fedelissima.

Mentre la promozione a capitano gli giungerà il 31 luglio ’92. Impressionante la serie di felicitazioni che per l’occasione egli riceve da ogni dove, dai vari vertici dell’Arma ai colleghi fiorentini allo stesso procuratore Manchia: il quale non manca di omaggiare il suo indimenticato braccio destro quale “esempio di fedeltà”. Lo scatto di grado prelude ai suoi ultimi mesi in divisa: ma soprattutto alla conclusione di un’importante indagine che finirà con il rappresentare il degno coronamento di una carriera unica.

Sviluppandosi nell’arco di poco meno di un anno, essa non mancherà di offrire ai suoi protagonisti momenti di autentica tensione. Tra gli uomini dell’Antidroga fiorentina è in particolare un maresciallo talmente abile, coraggioso e spregiudicato da rappresentare la quintessenza dell’infiltrato: pur non condividendo il modo eccessivamente disinvolto con cui questi suole affrancarsi dalle regole abituali, il comandante non può tuttavia non ammirarne le eccezionali qualità professionali: fors’anche rinvenendo nel fervore del giovane collega quel fuoco sacro per la causa della divisa da lui stesso altamente onorato all’inizio della carriera, pur in tutt’altri tempi e mentalità.

Una sera costui, in un ristorante della Valdinievole, dà vita ad una scena degna di un film: fingendosi un bandito genovese, è a tavola con un trafficante della zona, allo scopo di pattuire l’acquisto di un chilo di cocaina; seduti ai tavoli accanto, a vigilare, i colleghi, a loro volta mimetizzati come normali avventori. A un certo momento, però, tutti trattengono il fiato, vedendo i due agitarsi: finché il sottufficiale, da sotto il tavolo, non punta la pistola a tamburo da gangster procuratasi per l’occasione contro il commensale, onde indurlo a più miti consigli.

A tale mossa – davvero da consumato malavitoso – è stato indotto dall’atteggiamento del trafficante, il quale ha tentato una speculazione alzando il prezzo della droga. Bianco in volto, Alessandri sarebbe tentato dall’arrestarli su due piedi entrambi, onde evitare guai peggiori; ma si trattiene, limitandosi a chiedere successivamente al proprio collaboratore di stringere, a scanso di ulteriori degenerazioni. Il tenente è ben consapevole che così facendo si rischia di limitare il successo dell’operazione, conseguendo il sequestro di una quantità di droga inferiore alle aspettative; ma da quando, un giorno, uno dei suoi uomini non si è presentato all’appuntamento convenuto, facendo così temere che i narcos lo avessero fatto fuori, egli ha deciso di imporsi dei limiti nella pur particolare indagine: ciò sempre in ossequio al fattore morale, allo scrupolo di chi è figlio di un’altra epoca.

Grazie alle intercettazioni ambientali viene individuata una baracca situata nella campagna di Pieve a Nievole, dal medesimo trafficante utilizzata quale base  per concordare la compravendita di ingenti quantitativi di stupefacenti. Date tali premesse, l’inchiesta parte perciò nel segno della collaborazione tra gli specialisti del nucleo fiorentino ed i colleghi della Compagnia di Montecatini Terme.

Per il pomeriggio del 17 febbraio ’92 è annunciato l’incontro fra il suddetto malavitoso e un suo cliente: acquattati tutt’attorno, all’ora convenuta i militari vedono difatti arrivare, a bordo di un fuoristrada, un individuo: perso di vista per qualche minuto, egli riappare nel piazzale antistante la baracca in compagnia del trafficante in questione. Usciti dai loro nascondigli, i carabinieri intimano allora ai due di non muoversi: il narco però prima accenna a un tentativo di fuga, quindi desiste ma gettando in una pozza d’acqua il contenuto dell’involucro che aveva in mano.

Dalle perquisizioni condotte viene fuori diverso materiale interessante. Per cominciare, ciò di cui il malvivente si è disfatto l’idrovora dei vigili del fuoco rivela essere una busta di nylon, che doveva presumibilmente contenere oltre mezzo chilo di cocaina: questo sia per la natura dei rimasugli della sostanza rinvenuta nel contenitore, sia perché all’interno del casotto vengono trovati due sacchetti identici a quello recuperato dall’acqua. Avvolti in una banconota da mille lire l’uomo ha inoltre in tasca 300 milligrammi di cocaina: apparendo lampante che i due stessero contrattando la partita di coca in precedenza esaminata nella baracca, vengono entrambi tratti in arresto.

Le successive perquisizioni domiciliari confermano i ruoli degli arrestati. Decisamente più rilevante quello dell’uomo da tempo sotto controllo: un pregiudicato napoletano residente a Ponte Buggianese, e che lavora presso le scuderie dell’ippodromo di Montecatini. La cui villa tanto per cominciare si presenta alla stregua di un bunker, con tanto di cancelli automatici, telecamere a circuito chiuso e cani da guardia: egli si rivelerà infatti il capo dell’organizzazione criminale. Nell’abitazione i carabinieri rinvengono altre due buste identiche alle precedenti, nonché una rubrica; in quella del suo acquirente, una bilancina di precisione ed un attrezzo per aspirare la coca.

A dire il vero i carabinieri hanno già individuato anche il fornitore del trafficante valdinievolino: nientemeno che un ex agente di Gladio, il quale, una volta dismessi i panni del paracadutista al servizio della patria, si è dedicato a tale nuova, più remunerativa attività rifornendosi in Sudamerica per approvvigionare di droga, fra gli altri, i pregiudicati al soggiorno obbligato in Versilia. Fine primario dell’Antidroga è però come detto non il compimento di arresti clamorosi, bensì lo smantellamento delle organizzazioni deputate alla distribuzione degli stupefacenti: donde la tattica temporeggiatrice adottata.

Ora nel corso di una telefonata intercettata l’ex gladiatore aveva indicato all’ippico un codice di sicurezza con cui criptare i numeri telefonici: una volta sequestrata quell’agenda, Alessandri riesce a far dotare la Sezione di una strumentazione sperimentale adeguata a controbattere nella maniera più efficace alla sofisticata metodologia adottata dai criminali allo scopo di occultare oggetto dei traffici, luogo degli scambi e identità delle persone implicate. Il che consentirà ai suoi uomini di scoprire la chiave segreta predisposta dai narcos, applicarla ai dati segnati sulla rubrica e infine decrittare quei numeri occulti corrispondenti ai cellulari dei vari trasportatori, corrieri e “skipper”, oltre che degli acquirenti.

Così, dopo lunghi mesi necessari alle tecnologiche indagini, nonché alle conseguenti intercettazioni telefoniche e appostamenti, il blitz che all’alba del 23 novembre scatta un po’ in tutta la Toscana – tale era infatti la rete del racket – vedendo impegnati un centinaio di carabinieri porta alla disarticolazione di quella che la stampa denominerà la “banda della cocaina”. Quindici le persone arrestate; mentre dalle trenta perquisizioni domiciliari effettuate saltano fuori complessivamente 750 grammi di coca (per un valore di un miliardo di lire), un chilo e mezzo di hashish, tre chili di sostanze necessarie al taglio della droga, 300 bustine di plastica da utilizzarsi per confezionare le dosi; oltre a vari strumenti ricollegabili allo spaccio, come una bilancia elettronica e un sigillatore.

A finire in carcere sono anche insospettabili professionisti e giovani incensurati: in particolare, un noto commercialista con studio a Monsummano e l’ex portiere del Montecatini calcio, che è poi il figlio del boss. Inoltre, quella che le cronache presenteranno come la “magistrale operazione” rivela anche la ragguardevole entità del patrimonio dell’organizzazione, ammontante a svariati miliardi: i proventi derivanti dal vasto traffico venivano infatti riciclati in investimenti legali quali l’acquisto di immobili, titoli, azioni; donde la centralità della figura del commercialista. Giorgio avrà così la soddisfazione di vedere ancora una volta la propria foto sul giornale, scattata durante la conferenza stampa di rito.

                                                            Il congedo

Ma quel 1992 è anche anno di storici rivolgimenti, ad ogni livello. È in primis l’Arma a subire una profonda riforma strutturale e gerarchica, che oltre a sostituire le gloriose “legioni” e “brigate” con le più prosaiche “regioni” fa registrare un vero e proprio rivolgimento riguardo la carriera dei sottufficiali. Mentre infatti sino ad oggi per formare un comandante occorrevano non meno di una quindicina d’anni di servizio, d’ora innanzi gli allievi della scuola fiorentina ne usciranno direttamente con il grado di maresciallo.

Ma in quell’anno si ha soprattutto il culmine dell’irreversibile crisi del sistema politico italiano, demolito giorno dopo giorno dall’inchiesta milanese di Tangentopoli come dalle “picconate” dello stesso presidente Cossiga; con l’escalation degli attentati mafiosi che assesta il colpo di grazia all’ormai agonizzante Stato democristiano.

La cui parabola ha praticamente coinciso con gli anni in cui il nostro ha vestito la divisa della Benemerita: ma d’ora in poi le regole del gioco muteranno profondamente, per dar vita a quella “seconda repubblica” che finirà con il far rimpiangere tanto la prima, pur con tutti i suoi vizi e peccati. E a fare maggiormente le spese della profonda rivoluzione morale saranno in primis – oltre alla dignità formale della politica, ridotta a mero teatrino per i salotti televisivi – l’etica della magistratura come dei corpi di polizia, stravolta anch’essa dalla spettacolarizzazione della Giustizia nonché dallo strapotere dei mezzi d’informazione; nonché la sacralità della procedura penale, svilita sia dalla riforma del codice in chiave “garantista” che dai nuovi costumi correnti, a tutto vantaggio di chi delinque ed a discapito delle forze dell’ordine.

Inevitabile a questo punto che chi ha operato una vita adeguando la propria professionalità ad una certa concezione della morale pubblica e del conseguente diritto rischi adesso fortemente di apparire come un sopravvissuto. Ma soprattutto, dopo 42 anni di onorata carriera è giusto godersi anche il meritato riposo; e poi c’è Montefiore che aspetta.

Promosso maggiore il 6 dicembre ’92, allo scadere del 61° anno di età, dal giorno successivo Alessandri viene collocato in ausiliaria: l’eufemismo teso a rendere più militante il pensionamento degli appartenenti alle forze armate. La valutazione finale del suo operato è quella di sempre: “eccellente”. Mentre i vari superiori chiamati a valutarne il conclusivo periodo di servizio paiono quasi volergli rivolgere idealmente l’ultimo, solenne saluto militare, sentito e riconoscente.

“Ufficiale di ottime qualità morali, militari e di carattere. Colto, professionalmente preparato ha atteso ai suoi compiti con zelo, determinazione ed elevato spirito di sacrificio fornendo rendimento pieno e sicuro”.

“Il capitano Giorgio Alessandri riunisce un elevato complesso di qualità, fra cui emergono la collaudata preparazione tecnico professionale e la convinta partecipazione al servizio. Sempre solerte e attivo, molto determinato e sicuro dei propri mezzi, il validissimo ufficiale, che ho avuto modo di conoscere e apprezzare anche in diversa posizione d’impiego, ha fornito prestazioni di piena soddisfazione”.

Calorosa la lettera rivoltagli dallo stesso comandante generale Viesti, tributo ai meriti del militare ma anche auspicio di un proficuo proseguimento nella nuova dimensione di vita.

“Caro Alessandri, nel momento in cui si accinge a lasciare le file dell’Arma, dopo quarantadue anni di servizio, desidero farLe pervenire il mio cordiale saluto di commiato. L’occasione mi è propizia per sottolineare i vari riconoscimenti a Lei tributati nel corso della carriera, tra i quali due encomi solenni, un elogio, la medaglia mauriziana, la medaglia d’oro al merito di lungo comando, la croce d’oro con stelletta per anzianità di servizio e l’onoreficenza di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Nella certezza che il formale distacco non attenuerà i vincoli ideali che La uniscono alla grande famiglia dell’Arma, significati anche con la medaglia concessaLe a ricordo del servizio prestato, accolga i miei più fervidi voti augurali affinché l’avvenire Le riservi ulteriori soddisfazioni.”

Ma quello che gli tocca più il cuore è forse il messaggio indirizzatogli dai ragazzi della Sezione, riconoscenti per quanto ha saputo trasmettere loro l’amato comandante ma anche ideali portavoce di tutte le generazioni di militari da lui formate negli anni: “Orgogliosi di essere stati alle Sue dipendenze, Le formuliamo i più sinceri auguri per l’avvenire”. Affollatissima la cena con cui il congedato saluta amici e colleghi di una vita, e che si tiene ovviamente in quel di Pistoia; commovente in particolare l’intervento del dottor Manchia, il quale ha ancora parole di elogio per il suo storico collaboratore: dopodiché può avere finalmente luogo tra i due indefessi servitori della Giustizia quell’abbraccio ai tempi della Squadra mai materializzatosi in ossequio all’etichetta.

D’ora in avanti Giorgio dedicherà la gran parte del suo tempo a Montefiore, vestendovi i preannunciati panni del Cincinnato e dedicandosi in particolare alla vigna (lui quasi astemio: eppure devoto al rito contadino della vendemmia), agli olivi (tutti ripiantati dopo la gelata dell’85), all’innesto di nuove piante, al roseto, all’orto. Ma senza dimenticare l’amato cavallo, al cui agio dedica un boschetto appositamente acquistato, recintato e dotato di ogni comfort: a cominciare dall’acqua corrente, ottenuta mediante la derivazione di una gora, da lui approntata personalmente.

Dismessa la sella della sua ardente gioventù, è adesso il momento di una più riposante baracchina: naturalmente d’epoca, ed a vestire i cui finimenti giunge nientemeno che un trottatore dimesso dall’ippodromo di Montecatini. In auge sale poi anche la Storia: sia dedicandosi alla lettura di libri che raccogliendo oggetti simbolici della civiltà contadina. Mentre quando si trova nella casa di Pistoia sono ancora i devoti ragazzi dell’Antidroga a fargli respirare ancora, con le loro periodiche visite, l’atmosfera dell’Arma e dell’ufficio.

Ma il maggiore non è certo tipo da vivere di ricordi, o di nostalgie: del resto, ad impedirgli una tranquilla vecchiaia da pensionato è il conto lasciato in sospeso con la vita quella drammatica notte del ’55. L’epatite cronica contratta a causa di quella infausta trasfusione è purtroppo nel frattempo degenerata in cirrosi epatica: una malattia tremenda, che corrode il fegato giorno dopo giorno compromettendone le funzioni vitali, ed il cui effetto più evidente e fastidioso è per Giorgio una lesione permanente al labbro, che nessuna cura né cauterizzazione riuscirà a sanare; a ciò si aggiungano la vitiligine, che lo affligge ormai da anni, il riacutizzarsi dei dolori all’addome nonché tutta una serie di patologie collaterali.

Sa tuttavia affrontare dignitosamente anche il suo male: sinché il fegato, ormai ridotto alle dimensioni di una noce, non sarà più in grado di depurare il sangue, compromettendo di conseguenza anche il cervello; nei suoi ultimi mesi egli sarà per giunta colpito dai sintomi dell’Alzheimer, perdendo progressivamente la propria lucidità e con essa ogni normalità di vita.

Sino alla morte, che avviene il 27 gennaio 2005, all’ospedale di Pescia. Giorgio Alessandri va a ricongiungersi agli amati genitori nel piccolo cimitero di Offiano, in mezzo alle sue montagne, rivolto verso i luoghi a lui più cari.

                                                           Ringraziamenti

A Ruggero Battaglini, amico d’infanzia di Giorgio, ispiratore della presente biografia nonché raffinato custode di tanti bei ricordi montefiorini.

A Paris Musetti, impareggiabile memoria storica: su Montefiore, sul Molino, su Beppe, su Giorgio.

Ad Antonio Musetti, per la sapida rievocazione della figura di Nonno Faustino e la meticolosa ricostruzione del meccanismo di funzionamento nonché dell’atmosfera del Molino.

A Tito Bartoli, per la descrizione dell’organizzazione della “scuderia” del padre Ariante.

A Pietro Fileccia, giovanissimo collaboratore alla Squadra, devoto al Comandante come un figlio.

A Carmine Apicella, per il commosso ricordo degli anni dell’Antidroga.

A mia madre, per i vividi ricordi e la pazienza.

L’ultimo carabiniere a cavallo. Giorgio Alessandri, una vita per l’Armaultima modifica: 2015-12-09T20:51:29+01:00da tradersimo
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