La mistificazione partigiana delle responsabilità dell’eccidio di Civitella Val di Chiana

Tra il febbraio e il marzo 1944 i tedeschi, infuriando la battaglia di Montecassino dopo lo sbarco alleato di Anzio e in previsione del loro prossimo insediamento lungo la Linea Gotica, scelgono il territorio di Civitella Val di Chiana per installare due grossi depositi di materiale bellico – l’uno di munizioni, l’altro di carburanti – nelle località di Finestre Aguzze e Fogliarina. A breve distanza, nei boschi di Cornia, hanno trovato rifugio diversi militari alleati catturati dai tedeschi e quindi fuorusciti dai campi di prigionia nel caos seguito all’armistizio: qui a partire dalla fine di aprile si organizza il nucleo della “Banda autonoma partigiana”, guidata da Edoardo Succhielli.

Classe ’19, di Tegoleto di Civitella, già sottotenente paracadutista della divisione Nembo, dopo l’8 settembre Succhielli ha fatto a sua volta ritorno al paese impegnandosi alla formazione del gruppo partigiano cui il “bando Graziani” del 18 febbraio ’44 – che promette la fucilazione tanto ai renitenti alla leva della Repubblica sociale quanto ai disertori – non tarda a portare giovani i quali, dopo il crollo delle illusioni suscitate dalla proclamazione dell’armistizio e con l’approssimarsi del fronte, non hanno alcuna intenzione di presentarsi al distretto per andare a morire a Cassino per compiacere Mussolini e Hitler. Quale nome di battaglia l’ex parà sceglie quello di “Renzino”, a ricordo dei tragici fatti accaduti in quella località di Foiano della Chiana nell’aprile del ’21: qui un gruppo composto da una ventina di fascisti impegnati in un giro di propaganda per le elezioni politiche del mese successivo era stato aggredito da una squadra avversaria composta da una cinquantina fra comunisti ed anarchici.

Ribaltatosi l’autocarro sul quale viaggiavano i neri a seguito del ferimento dell’autista con un colpo di fucile (pare che il segnale dell’arrivo del mezzo agli aggressori fosse stato dato mediante il suono della campana di una vicina chiesetta), i rossi sbucati dalle fratte a ridosso della strada si erano avventati sui malcapitati avversari senza pietà, massacrandone tre – con brutali mutilazioni inferte ancora in vita – per poi accanirsi sui cadaveri con inaudita crudeltà, sino a staccare ad uno di essi la testa. Immediatamente si era allora organizzata la rappresaglia fascista, che vedeva convergere su Foiano squadristi senesi, perugini, fiorentini che con altrettanta ferocia facevano terra bruciata di circoli e sezioni social-comuniste, sedi di leghe rosse e cooperative, lasciando inoltre sul terreno nove vittime.

Già il richiamarsi ad un episodio del genere significava dunque per Succhielli una precisa scelta ideologica; quello che forse il capo partigiano non poteva prevedere era che anch’egli, con un’avventata iniziativa condotta proprio al suo paese, avrebbe provocato una rappresaglia ben più tragica di quella verificatasi 23 anni prima a Foiano. Renzino attesta la propria formazione tra Cornia, Bollore e Montaltuzzo, inquadrandola al contempo nel “Raggruppamento patrioti Monte Amiata”. L’attività della banda è quella classica concordata con gli Alleati che supportano i partigiani con i rifornimenti aerei, e che prevede azioni di disturbo contro il nemico in ritirata: sabotaggi a ponti e tralicci, blitz nei piccoli presidi repubblichini e tedeschi, trafugamento di materiale da depositi e magazzini (in primis armi, munizioni, scarponi, generi alimentari), cattura di singoli soldati nemici colti di sorpresa.

Nel frattempo, a tutela delle proprie truppe – costrette dalla precarietà dell’imprevista situazione determinatasi con la crescente attività di questi banditen a spostarsi nella più assoluta mancanza di misure di sicurezza – il comando germanico predispone nei confronti della cittadinanza una “strategia di convivenza” in cui da una parte i soldati della Wehrmacht vengono presentati quali amici del popolo italiano, dall’altra si minacciano ritorsioni qualora nei confronti degli occupanti vengano commessi atti di ostilità. Tale campagna viene portata avanti sia mediante l’affissione di manifesti che con avvisi pubblicati sui giornali; in particolare viene minacciata l’uccisione di dieci italiani per ogni tedesco che dovesse essere ammazzato (secondo la proporzione fissata alle Fosse Ardeatine dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo), nonché il rogo della località in cui avesse a verificarsi l’attentato. Ritenendo di scoraggiare così l’offensiva partigiana, viene dunque fissato il principio secondo il quale di ogni gesto compiuto contro i tedeschi sarà comunque tenuta responsabile la popolazione civile.

Ciononostante, il 12 aprile un commando partigiano assalta un’automobile con a bordo tre SS nei pressi di Stia: due soldati vengono uccisi e abbandonati sul posto, mentre il terzo riesce a fuggire. La vendetta germanica non tarda ad arrivare: già all’alba del giorno successivo reparti italiani e tedeschi investono la zona per quella che sarà la prima strage di civili compiuta in Toscana. A centinaia SS e repubblichini prendono parte alla terribile rappresaglia, che per due giorni ha quale epicentro Vallucciole ma estendendosi a Stia, Castagno, Partina e a tutto il circondario. Al tramonto del 14 aprile Vallucciole non esiste più: intere famiglie sono state distrutte, le case incendiate, i cadaveri di 108 persone – donne, bambini, anziani – abbandonati tra le macerie.

L’eccidio non rispetta il rapporto di dieci a uno poiché a differenza delle truppe della Wehrmacht alle SS (“squadre di protezione”: emanazione militare del partito nazista composta non da soldati reclutati fra il popolo bensì da fanatici “protettori” del Führer e del Reich) spetta il particolare compito di “bonificare” tutti quei territori in cui sia accertata l’attività dei “ribelli”. Il principio cui si ispira la loro brutale repressione è quello fissato dal decreto Notte e nebbia, emanato da Hitler fin dal dicembre ’41 e secondo il quale tutti i nemici del Reich presenti nei territori occupati dalle armate tedesche debbono essere eliminati e fatti scomparire “nella notte e nella nebbia”: allegoria di stampo prettamente gotico con la quale si sottintende la necessità di fare terra bruciata di tutto quanto, dalle abitazioni ai cadaveri delle persone uccise, senza alcun limite quantitativo ed anzi sterminando chiunque venga considerato di ostacolo alle mire germaniche.

Le prime a fare le spese di tale strategia nazista sono state le popolazioni dell’Unione Sovietica; adesso tocca all’Italia, il cui popolo, già in partenza considerato inferiore rispetto a quello ariano, si è adesso guadagnato agli occhi dei nostri ex alleati del “Patto d’acciaio” pure il marchio di traditore, a seguito del voltafaccia monarchico dell’8 settembre e della conseguente dichiarazione di guerra alla Germania. E sarà da tale spiccia logica di guerra che scaturiranno i crimini contro l’umanità commessi da questi carnefici che portano la croce uncinata al braccio e la morte secca sul berretto sulle nostre montagne disgraziatamente poste a ridosso della Linea Gotica, in una mostruosa scia di sangue che andrà da Sant’Anna di Stazzema a Bardine San Terenzo, da Vinca a Marzabotto. Alla medesima, indiscriminata logica criminale si atterranno peraltro nell’ultimo anno di guerra anche le varie “divisioni corazzate” imperversanti nel centro-nord della Penisola: a cominciare dalla “Hermann Göring”, la cui attività stragista avrà inizio proprio a Civitella.

Il 4 giugno i tedeschi abbandonano Roma; sullo slancio della conquista della capitale gli angloamericani superano la linea del Trasimeno, costringendo i nemici a ripiegare su di un primo fronte toscano che taglia la Val di Chiana aretina passando per Ambra-San Pancrazio-Civitella-Viciomaggio-Vignale. Giungiamo così all’episodio chiave della nostra ricerca: la sera del 18 giugno, domenica, nei locali del “Dopolavoro dei combattenti” di Civitella sono presenti quattro soldati germanici appartenenti alla 4ª Divisione paracadutisti; essi provengono da una casa colonica posta ai piedi del paese, in località La Madonna, ove sono giunti nel primo pomeriggio assieme ad altri cinque commilitoni, con l’intenzione di pernottarvi.

Trattandosi di un circolo ricreativo, li possiamo immaginare intenti a bere, a giocare a carte, a riposarsi, a socializzare con gli altri avventori, con quello spirito bonario e cordiale che da una parte è tipico dell’uomo del popolo tedesco, dall’altro, nella particolare situazione determinatasi con l’occupazione di questa parte d’Italia, è espressamente prescritto dalle direttive del comando germanico. Senonché, a un certo momento, nel circolo irrompe improvvisamente un gruppo di partigiani, con a capo Renzino: ne segue una sparatoria nel corso della quale due dei militari vengono uccisi, un terzo gravemente ferito. Quest’ultimo viene trasportato dal quarto commilitone – sottrattosi alla carneficina nascondendosi dietro il bancone del bar, nell’altra stanza, e rimasto lievemente ferito a una gamba – fino alla casa colonica ove il reparto ha preso alloggio, nel tentativo di salvargli la vita: ma invano, dato che pure questo soldato morirà il giorno successivo, dopo essere stato trasportato all’ospedale militare di Firenze.

Quella notte su Civitella infuria un violento temporale; alle prime luci dell’alba gli abitanti del paese, dando per scontata la rappresaglia tedesca anche alla luce di quanto accaduto in Casentino, abbandonano il borgo per rifugiarsi nei boschi e nei casolari circostanti. Il 20 giugno i due soldati freddati nel circolo vengono sepolti nel cimitero locale, alla presenza del parroco Alcide Lazzeri (che cadrà anch’egli vittima della strage), di una ventina di civitellini (quasi tutti donne e ragazzi: c’è un solo uomo adulto) nonché di un contingente militare tedesco con i suoi comandanti.

Ma le provocazioni partigiane nei confronti degli occupanti non sono finite: il giorno successivo, nel percorrere la strada che da Monte San Savino porta a Bucine, una staffetta motociclista della “Göring” viene gravemente ferita tra Verniana e Montaltuzzo; vengono inoltre catturati due militari tedeschi al seguito. Conseguentemente due giorni più tardi le truppe germaniche attaccano la fattoria di Montaltuzzo: edificio che si eleva in posizione dominante sulla strada e dai partigiani di Renzino utilizzato quale base. Nell’attacco i tedeschi perdono un uomo; ma i commilitoni prigionieri vengono liberati. La formazione del Succhielli esce inoltre dallo scontro talmente indebolita da cessare di rappresentare per gli occupanti un’effettiva minaccia: difatti i giorni seguenti non faranno registrare nella zona altre azioni degne di nota da parte dei banditen. Mentre la vendetta germanica arriverà soltanto la settimana successiva, quando apparentemente le acque si saranno calmate: e sarà la più barbara ed efferata.

Nel valutare quanto accaduto sia quella sera al Dopolavoro che tre giorni più tardi sulla strada ci sorge immediatamente un interrogativo: com’è possibile che i partigiani locali, alla cui testa era perdipiù un civitellino (e neppure dei più sprovveduti, visto che alla guerra aveva partecipato come ufficiale) abbiano potuto compiere degli atti del genere, ben sapendo delle terribili conseguenze che esso avrebbe comportato per la gente del luogo? Ansiosi di trovare una risposta ci rechiamo presso la “Sala della Memoria” che dal 2004 perpetua il ricordo della strage; essa è stata allestita nei medesimi locali in cui si trovava il circolo teatro dell’agguato, nel complesso dell’antico palazzo pretorio, all’inizio della breve strada che allora si chiamava “Via di Sopra”, e che adesso onora proprio i “Martiri di Civitella”.

Qui, nella scheda che illustra la Carta storica dell’“Eccidio nazifascista del 29 giugno 1944 a San Pancrazio Cornia Civitella in Val di Chiana”, leggiamo: “All’alba del 29 giugno 1944 varie unità militari tedesche (compagnie, plotoni, squadre) della Divisione Corazzata Hermann Göring per un totale di circa 500 soldati accompagnati da alcune diecine di fascisti italiani, irruppero nei paesi di Civitella in Val di Chiana, Cornia e San Pancrazio e nei loro circondari. Sorpresero i paesani nel sonno oppure mentre erano al lavoro nei campi o in cammino verso le chiese dove i parroci si apprestavano a celebrare la messa in onore dei santi Pietro e Paolo dei quali quel giorno ricorreva la festa. Nelle tre località furono uccise 204 persone, soprattutto uomini ma anche donne e bambini, 92 di Civitella e del suo circondario, 60 di San Pancrazio e 52 della zona della Cornia.

“A San Pancrazio e nella zona della Cornia furono fatti alcuni prigionieri che furono portati in una villa nei pressi di Monte San Savino dove vennero interrogati sui partigiani locali e sugli ex prigionieri di guerra alleati fuggiti dai vicini campi di concentramento dopo l’8 settembre 1943. Quattro dei civili fatti prigionieri furono torturati ed infine uccisi nei giorni 30 giugno e 2 luglio 1944. Dei 207 italiani assassinati in quell’eccidio solo un giovane, Luigi Carletti, era un partigiano, tutti gli altri erano civili che non avevano mai partecipato ad azioni militari antitedesche o contro la Repubblica Sociale Italiana. L’unica loro responsabilità fu quella di aver dato un pezzo di pane a quanti avevano cercato rifugio in quel territorio: i renitenti alla leva, i soldati italiani sbandati, gli ex prigionieri alleati”.

Sorpresi dal fatto che nella ricostruzione non si trovi traccia della causa scatenante la rappresaglia, proseguiamo la lettura nella speranza di trovarvi qualcosa di utile a chiarire i nostri dubbi. “Anche i partigiani appartenenti alla formazione “Renzino” cercarono rifugio in quella zona e proprio gli scontri che essi ebbero con i soldati tedeschi permisero a quest’ultimi di delineare il territorio da rastrellare il 29 giugno. Ma più che dalla pericolosità militare dei partigiani, i tedeschi rimasero colpiti, a seguito dello scontro di Montaltuzzo, dalla scoperta di prove sull’esistenza di una cellula locale di spionaggio militare a favore degli alleati, la quale fu erroneamente collegata ai partigiani stessi. Probabilmente fu questo fatto che fece decidere la Wehrmacht di rendere inoffensivo quel territorio distruggendo la vita e i beni degli uomini che l’abitavano. Il 2 luglio in quello stesso territorio si sarebbe stabilito un tratto della linea di difesa del fronte che avrebbe fermato l’avanzata degli alleati fino al 16 luglio”.

Sconcertati dal fatto che nella scheda non venga fatta alcuna menzione della sparatoria al Dopolavoro, che anche la gravità dello “scontro di Montaltuzzo” venga minimizzata e che la responsabilità della strage venga sostanzialmente attribuita all’abbaglio preso dai tedeschi nel ricollegare ai partigiani quella fantomatica “cellula di spionaggio militare” che essi avrebbero così casualmente scoperto (e con lo stesso Renzino che invece di proteggerla ed occultarla avrebbe deciso di mettere in atto un attentato proprio nelle vicinanze del luogo in cui essa aveva la propria base segreta), cerchiamo ulteriori lumi fra l’abbondante documentazione presente nella medesima Sala.

Constatato come i lavori effettuati dai ragazzi delle scuole si concentrino tutti sulle testimonianze dei sopravvissuti al massacro, allo scopo di rimarcarne la spaventosa crudeltà, ma evitando di interrogarsi sulle cause che lo determinarono, e che anche le poesie scritte per le celebrazioni annuali dell’eccidio così come i vari interventi mirati a perpetuarne la memoria vadano nella stessa direzione, ci affidiamo all’opuscolo L’eccidio di Civitella in Val di Chiana: ma anche qui – al di là del lirismo caratterizzante il tono della narrazione – non troviamo niente di più rispetto a quanto già sapevamo.

“Il forestiero che giunge nel ridente paese di Civitella, che ammira il suo panorama, che percorre le sue strade, che sosta nella sua piazza e visita la sua chiesa, si soffermi davanti al bassorilievo che ricorda quei martiri innocenti, vittime della violenza e dell’odio, durante la seconda guerra mondiale. Nel giugno 1944 l’esercito tedesco, incalzato dalle forze alleate, dopo aver superato la linea del Trasimeno si apprestava alla difesa sulla “Arezzo Line”. Civitella, arroccata quietamente sul suo colle, attendeva con trepidazione l’evolversi degli eventi bellici. Domenica 18 giugno, verso l’imbrunire, alcuni partigiani provenienti dai boschi vicini, dove avevano posto da pochissimo tempo la loro base operativa, giunsero in paese e irruppero improvvisamente nei locali del circolo ricreativo dove si trovavano quattro soldati tedeschi. Nell’aggressione improvvisa e cruenta due tedeschi rimasero uccisi, un terzo fu gravemente ferito e il quarto riuscì a nascondersi e successivamente a fuggire, portandosi dietro il compagno agonizzante”.

Le nostre ultime speranze di fare chiarezza sullo sciagurato episodio sono così affidate a tre testimonianze coeve ai fatti, che i puntuali responsabili della Sala hanno provveduto a trascrivere ed esporre. La prima è stata resa da Enrico Centeni-Romani, si intitola L’eccidio del popolo di Civitella della Chiana (Arezzo) per opera dei barbari tedeschi il 29 giugno 1944. “Le cause che lo determinarono” è il titolo del primo paragrafo: il quale catalizza ovviamente la nostra attenzione.

“La mattina del 19 giugno, verso le ore 7,30, giunge insolitamente a casa mia sorella, Suor Luisa, al secolo Giovanna, proveniente dal paese di Civitella dove essa abita in comunità con le suore dell’ospedale. Con raccapriccio ci dice che la sera precedente, 18 giugno, verso le ore 22, i partigiani hanno ucciso, nel circolo del paese, due tedeschi e feritone gravemente un terzo. Nella frazione di Caggiolo (dove abito con la mia famiglia), distante dal paese di Civitella solo 2 km per strada, ci allarmiamo per il fatto accaduto e tutti temiamo che i tedeschi facciano immediata rappresaglia. Poco dopo vengo a sapere che dal paese tutti sono fuggiti, rifugiandosi nei boschi e nelle case di campagna. Verso le ore 13, mi reco nel podere denominato “La Trove”. Ogni persona che incontro commenta con molta impressione l’accaduto. È opinione generale che questi tedeschi siano degli sbandati provenienti dal fronte. La sera del 18 giugno essi avevano rubato una pecora nel podere denominato “Spera” del colono Fabbianelli Ottavio, e quindi, recatisi dal colono Rossi, in località “La Madonna” l’avevano cucinata seguendone una lauta cena. Parte di questi tedeschi rimasero nella casa colonica e quattro si diressero in paese, dove imposero al segretario del fascio, Eliseo Bonichi, l’apertura del circolo, rimasto chiuso, causa la guerra, da molti mesi.

“Prima di entrare nel circolo, i tedeschi spararono in paese dei mortaretti e lanciarono dei razzi illuminanti, forse con lo scopo di attirare l’attenzione dei compagni lasciati nella casa colonica, acciocché venissero pure loro a passare la serata nel locale. Il circolo era ricolmo di persone, quando, verso le ore 22 circa, i partigiani fecero irruzione nella sala, intimando due volte ai soldati tedeschi di alzare le mani; sembra con il solo scopo di disarmarli. Quest’ultimi, anziché obbedire all’intimazione data, diedero di piglio alle armi. Fu in questo momento che i partigiani spararono su di loro, uccidendone nell’istante due e ferendone gravemente un terzo. Nella sparatoria rimasero feriti due giovani del paese. Uno, ferito alla testa è il figlio di Pilade Tiezzi; dell’altro non ricordo il nome. Il quarto militare rimase illeso perché poté salvarsi dietro il tavolo del bar. Ne seguì un fuggi fuggi generale. Il tedesco illeso si caricò il soldato ferito sulle spalle e se lo trainò dal Rossi, dove erano ad attenderlo gli altri compagni, portando seco anche le armi degli uccisi. Da lì il ferito fu subito portato morente a Montevarchi. Tutto questo mi viene detto mentre mi reco dal colono Liberatori Rodolfo, del podere “La Trove””.

La ricostruzione non ci convince, per vari motivi. Primo, si tratta di una testimonianza de relato, resa da una persona che non soltanto non era presente alla scena, ma neppure abitava in paese: e sappiamo bene come nella civiltà contadina le chiacchiere corressero da un posto all’altro, da una bocca all’altra con ciascuno che vi aggiungeva – più o meno consapevolmente – una nota personale, comica o tragica che fosse ma sempre caratterizzante. Ci pare inoltre inverosimile che i partigiani abbiano scelto di mettere in atto un’azione del genere nel mezzo di un circolo così affollato, mettendo a repentaglio l’incolumità degli avventori (nonché paesani) presenti quando avrebbero potuto sorprendere i militari tedeschi sulla via del ritorno, allorché questi – presumibilmente alticci – avrebbero fatto ritorno alla colonica del Rossi, potendo perdipiù sfruttare il fattore tenebre, peraltro accentuato dal maltempo.

L’irresponsabilità partigiana risulterebbe dunque doppia: nel concepire un simile agguato e nel porlo in atto a quella maniera. C’è poi quel particolare secondo il quale gli aggressori avrebbero intimato “due volte” ai militari di alzare le mani, e “al solo scopo di disarmarli”: quasi a voler sottolineare il fatto che i componenti il commando si siano risoluti a sparare da ultimo e per forza, essendovi stati costretti. Infine: come potevano quei quattro soldati starsene al bar con le armi in pugno, quando tutto il loro comportamento di quella giornata domenicale pare improntato alla “ricreazione”, allo svago, alla crapula? Ci accingiamo allora alla lettura delle altre due testimonianze: le quali, rese da persone residenti entrambe a pochi metri dal circolo, si promettono come più dirette e fedeli.

Racconta Lara Lammioni: “Alcune persone stavano uscendo dal circolo in preda ad una grande agitazione. La terribile notizia arrivò subito: “Hanno ammazzato quei tedeschi al circolo – Come è stato? – Mah! Credevano che fossero ubriachi e li volevano disarmare, ma quelli hanno reagito, mettendo mano alla pistola – Chi è stato a sparare?…”. A questo punto voglio chiarire perché si era detto “quei tedeschi”. Si trattava di quattro soldati tedeschi, apparentemente sbandati, che dal mattino si aggiravano per il paese. Il loro atteggiamento non si era rivelato ostile; offrivano sigarette e caramelle ai ragazzi e ai vecchi. Mio nonno tornò a casa con una manciata di caramelle e posandole sul tavolo disse: “Me le hanno regalate i tedeschi”. Li vidi anche lanciare dei razzi verso la valle della Trove dietro il muro del mio giardino; nello stesso punto in cui, dopo, avvenne l’eccidio. Tutti eravamo usciti dalle case, ci si riuniva in gruppetti, parlando concitatamente, mentre si facevano strada nelle nostre menti le terribili implicazioni che portava con sé quello che era avvenuto. Le voci degli eccidi di Partina e Vallucciole in Casentino (a nord di Arezzo) ci avevano raggiunto e perciò temere la rappresaglia tedesca era più che giustificato. Fu tenuto consiglio in tutte le famiglie e la decisione comune fu quella di andarsene subito dal paese e nascondersi dove si credeva fosse più sicuro. Anche in casa mia, dopo concitate discussioni, fu stabilito di andarsene dopo aver riposato qualche ora”.

Più ricca di dettagli la testimonianza di Laura Guasti: “18 giugno 1944… Un acquazzone aveva rinfrescato l’aria e una pioggerella sottile continuava ancora, la piazza principale di Civitella, dove di solito dopo le funzioni si aduna la gente per le solite chiacchierate domenicali era sgombra, mentre i famosi portici che partendo dall’antico Palazzo podestarile, attualmente nostra dimora, a lato di Piazza Becattini arrivano fino a Piazza Vittorio erano affollati di gente, specialmente villeggianti che da Arezzo, Roma, Firenze erano sfollati quassù. Tre soldati tedeschi in piazza con la pistola lanciavano razzi colorati. Si commentava il fatto dei partigiani venuti pochi giorni prima per avere aiuti. Dopo cena ricominciò a piovere, mio marito era uscito pochi passi fuori della porta e parlavano con lui il generale Del Buono, nostro ospite al piano superiore della casa, l’ing. Lammioni ed alcuni paesani. Insieme ai miei bambini aspettavo l’ora del Bollettino delle nove e mezzo quando mio marito insieme al generale rientrò in casa e disse queste parole: “Sono passati di corsa alcuni partigiani, li ho riconosciuti per tali perché ho sentito Balò che chiamava: Renzino…Renzino (sapeva che era il nome del comandante della squadra vicina). Temo che succeda qualche brutta cosa perché ci sono nel circolo del dopolavoro dei tedeschi ubriachi che giocano ancora”.

“Non finì di pronunciare queste parole che udimmo una forte scarica di fucile mitragliatore, poi un’altra. Ci guardammo allibiti e da dietro le persiane potemmo vedere persone che scappavano bestemmiando, udimmo pure una donna urlare: “Ci sono tre tedeschi morti nel circolo”, ed un uomo gridare: “A letto, a letto chi non ha che fare”. Intanto il tempo si era ancor più incattivito e l’acqua cadeva sempre più forte. Pioveva, era tardi, mio marito pensò che per il momento era meglio far stendere sul letto i bambini e lui si mise in una poltrona della sala che guarda verso la piazza, aspettando con ansia, impauriti a ogni rumore, temendo che arrivassero i tedeschi a far rappresaglia come avevamo sentito dire che avevano agito in Casentino. La mattina dopo la pioggia era cessata fin dalle prime ore, la popolazione partiva per ripararsi nei boschi. Nel circolo i cadaveri erano ancora là… dei partigiani… nessuna traccia”.

Le nostre perplessità sono rimaste tali; soprattutto restiamo delusi dal fatto che, con tutta quella gente presente al circolo al momento della sparatoria, nessuno sia stato interpellato dagli stessi curatori della Sala o abbia voluto rilasciare la propria testimonianza. Ma perché, poi, non hanno parlato gli stessi componenti il commando e il loro comandante, visto che nessuno di loro è rimasto vittima della strage? Aumenta in noi il sospetto che qui ci sia sotto qualcosa; per quanto siamo coscienti del fatto di non trovarci in uno dei vari musei o istituti “della Resistenza” – le cui versioni dei fatti non possono che risultare per definizione “partigiane” – bensì in un luogo chiaramente improntato a spirito cristiano.

In tal senso, ci colpiscono in particolare due dei copiosi documenti appesi alle pareti: la piantina originale del Dopolavoro, affiancata dal disegno realizzato da Alberto Rossi (un civitellino – soprannominato “Palombo” – che vi assisté, all’epoca ragazzetto) che adattandolesi perfettamente raffigura la disposizione dei protagonisti della sparatoria, prova inequivocabile della volontà da parte di chi ha allestito la Sala di fare luce sull’episodio scatenante l’eccidio; e la lista delle perdite della 4ª Divisione paracadutisti, con segnati i nominativi dei quattro militari oggetto del raid partigiano: pietoso omaggio a dei soldati germanici caduti nella nostra terra, piuttosto insolito in un luogo in cui si commemorano le vittime di un massacro compiuto dagli stessi tedeschi.

Iniziamo allora ad immaginarci il compromesso cui si è dovuti scendere nella predisposizione della Sala (e nella stesura della suddetta nota cronistica che correda la Carta), fra le esigenze dell’obiettività storica e la necessità di non ledere il buon nome della “Resistenza” rivelando qualcosa di evidentemente inconfessabile. Le ulteriori notizie che acquisiremo sulla vicenda ci convinceranno della bontà della nostra intuizione.

Anche a Civitella infatti, come nelle altre innumerevoli località sulla Linea gotica segnate dalle stragi tedesche conseguenti attacchi partigiani, sin dalla fine della guerra si era determinata una frattura fra la gente del paese, che ancora piangeva i propri morti, e l’Anpi, che non perdeva occasione per farsi bella agli occhi dell’opinione pubblica offrendo un’immagine della “Resistenza” oltremodo mitizzata facendo sostanzialmente leva su due fattori: il poter rivendicare la giustezza ed il valore dell’operato bellico dei partigiani dall’alto dell’autorevolezza politica riconosciutale; la conseguente carta bianca nell’accollare tutta quanta la responsabilità delle tragedie verificatesi alla “barbarie nazifascista”. Qui in particolare era stridente il contrasto fra la percezione che del movimento resistenziale si aveva a Civitella “alta” (ossia nel borgo antico che era stato teatro dell’assalto al circolo e dell’eccidio) e nelle frazioni della piana sottostante: ove – complice una politica che avrebbe visto per lunghi decenni l’ininterrotto predominio comunista – i partigiani venivano unanimemente considerati come degli uomini buoni e giusti, a prescindere, e da valutarsi alla stregua di eroi.

Naturale perciò che lo stesso Succhielli, forte della medaglia d’argento al valor militare conferitagli dallo Stato, una volta presentatosi alle elezioni comunali nelle file del Pci venisse eletto sindaco di Civitella: carica che ricoperse dal ’51 al ’55. Inutilmente la gente del paese – soprattutto le donne – aveva denunciato pubblicamente le responsabilità partigiane dell’eccidio: la pianura “rossa” votò compattamente per Renzino, quasi a spregio di quanto accaduto sette anni prima all’ombra del castello longobardo. A tutela della propria reputazione, allora, l’ex comandante partigiano querelò per diffamazione il quotidiano che aveva ospitato la protesta dei superstiti: ottenendo ovviamente piena soddisfazione da parte del tribunale. Ma facendosi al contempo un nemico irriducibile: il prefetto di Arezzo, che alla fine lo avrebbe costretto a rassegnare le dimissioni, facendolo pure trasferire dalla sede aretina dell’ente per cui lavorava a quella di Sondrio (Succhielli avrebbe rimesso piede al paese soltanto nel ’61).

L’ostilità nei confronti dei partigiani e delle loro stucchevoli (auto)celebrazioni da parte di quanti nella strage avevano perduto i propri cari aveva giustificazioni più che fondate: poiché fin dall’inizio erano emerse diverse testimonianze su quanto accaduto al circolo, destinate a non essere pubblicizzate in quanto in contrasto con la vulgata resistenziale ma che addossavano gravissime responsabilità ai componenti il commando e al loro capo. Mentre infatti questi ultimi avevano sempre sostenuto che loro intenzione era solo quella di disarmare i militari, venendo costretti ad aprire il fuoco dal fatto che all’intimazione di “mani in alto” essi avevano reagito impugnando le armi, persone che avevano assistito alla scena garantivano che quei poveri soldati non avevano opposto all’irruzione partigiana alcuna reazione: anche perché non ne avevano avuto il tempo. I nostri “eroi” li avevano infatti accoppati a sangue freddo, quando le loro armi erano appoggiate al muro, e dunque distanti dal tavolino ove essi erano seduti.

Da qui l’impietoso giudizio che dell’episodio e dei suoi protagonisti davano questi paesani: gente pratica, contadini della Val di Chiana educati al duro lavoro dei campi ma anche alla fede e al buon senso. L’attacco dei partigiani era stato del tutto gratuito ed inutile, non aveva spostato di un millimetro gli equilibri della guerra ed era servito soltanto a provocare la terribile rappresaglia tedesca. Ma la viltà degli uomini di Renzino si era manifestata anche al momento della strage: poiché, pur trovandosi vicini ai luoghi delle esecuzioni e udendone gli spari, essi non avevano mosso un dito a difesa dei civili, che pure venivano massacrati a causa della loro irresponsabilità. Tali elementari considerazioni portavano i civitellini a considerare quei cosiddetti “patrioti” alla macchia – dimostratisi però così poco riguardosi della sorte dei propri com-patrioti – come un’accolita non solo di disertori e renitenti alla leva, ma anche di balordi ed incoscienti imboscatisi solamente per sottrarsi alle retate repubblichine, ed il cui scopo essenziale era quello di salvaguardare sé stessi.

A tali conclusioni giunge sostanzialmente nel ’97 lo storico Giovanni Contini, nel saggio La memoria divisa: un lavoro coraggioso, frutto di una meticolosa ricerca sui luoghi della strage e che liquida definitivamente la versione che dei fatti ha propinato per cinquant’anni la storiografia ufficiale. Contini traccia anche un’acuta analisi dei motivi che dovevano portare la Kommandantur ad ordinare così a cuor leggero massacri del genere: perché lo stillicidio di attacchi e provocazioni messi in atto dai partigiani – proprio come avvenuto da parte della banda di Renzino – rappresentava per gli occupanti la migliore prova della necessità di “bonificare” quei territori, a garanzia dell’incolumità delle proprie truppe, annientandone la popolazione dal momento che non si poteva mettere le mani su questi maledetti banditen che si materializzavano improvvisamente dal nulla per colpire e poi nuovamente eclissarsi, in base al presupposto che un qualche loro legame con i paesani doveva pur esservi.

Una volta sgretolatosi, con la caduta del muro di Berlino, anche quello dell’omertà e della mistificazione partigiana, per l’anziano Succhielli la situazione si fa critica. Lui ha sempre sostenuto una versione dei fatti rivelatasi del tutto infondata, ha pure denunciato e fatto condannare chi aveva osato sostenere la sua indegnità a ricoprire cariche pubbliche: come salvare la faccia adesso che è stato così platealmente smascherato? Alla sua età, egli potrebbe ancora riscattarsi con un’assunzione di responsabilità piena, onesta, dignitosa (per quanto tardiva ed indotta): invece sceglie un atteggiamento che non gli fa onore, risultando anzi in linea con tutta la sua condotta precedente. Si ostina a rivendicare la propria buona fede, ma sconfinando nel ridicolo allorché parla di “involontarietà”: “Noi purtroppo abbiamo portato la rovina in paese, ma involontariamente e per fare del bene: per quanto quella fu un’azione sbagliata”.

Ma l’opinione pubblica italiana, nel nuovo clima determinatosi con la fine della “guerra fredda”, preferisce concentrarsi su altri aspetti legati alla tragedia dell’occupazione germanica. In particolare, la scoperta nel ’94 dell’“armadio della vergogna” provoca tutta una serie di processi che vedranno alla sbarra i responsabili delle stragi perpetrate nella nostra terra dal tedesco in ritirata: ottantenni e perfino novantenni ma non per questo meno vivi, vegeti e soprattutto con una gran faccia di bronzo nel negare la minima responsabilità personale. Tale pretesa italiana di fare giustizia degli orrori subiti da parte dell’ex alleato ad oltre mezzo secolo di distanza rischia peraltro di compromettere i rapporti con la stessa Germania, e proprio negli anni in cui si fanno più saldi i legami politici ed economici all’interno dell’Unione europea. Ebbene, dopo un comprensibile imbarazzo iniziale Berlino sceglie la via diplomatica nel rapportarsi a quel pesante passato, ponendo in atto tutta una serie di scuse, risarcimenti, dichiarazioni di amicizia nei confronti del popolo italiano.

È in tale contesto che, in previsione delle celebrazioni per il 65° dell’eccidio, il sindaco di Civitella scrive all’ambasciatore tedesco a Roma: “Quella che per anni ha costituito una ferita profonda, che ha segnato in modo indelebile la vita dei sopravvissuti, può diventare un’eredità culturale e morale feconda per tutti i cittadini”. Il 2009 vede così l’ambasciatore presenziare alla commemorazione, esprimendo il “senso di colpa, lutto e vergogna” per quanto accaduto provato oggi dai suoi connazionali e dichiarandosi convinto che “i martiri di Civitella, Cornia e San Pancrazio abbiano conferito a noi, italiani e tedeschi, il mandato di creare insieme, con fermezza e perseveranza, il futuro prospero e pacifico della nostra Europa”.

Succhielli, cui per non rinfocolare le polemiche gli anni precedenti non era stato consentito di prendere parte alle celebrazioni, viene finalmente ammesso a quelle del 2010, per quanto non ufficialmente ma come privato cittadino: ma sarà un’altra occasione perduta. Ottenuta la stretta di mano pacificatrice da parte di alcuni sopravvissuti e anche di figli delle vittime, egli infatti dichiara: “Ho pianto, sono vecchio e non ce la faccio più a resistere. Quell’irruzione fu uno sbaglio: ma avevamo vent’anni, eravamo sbandati, partigiani con poca esperienza”. Avrà anche pianto: però ai sopravvissuti alla strage che per rispetto ai propri morti hanno tentato di impedirne l’ascesa politica ha dato un altro dolore, diventandone il sindaco. E per quei tre poveri giovani ammazzati come cani, che non avevano fatto del male a nessuno, e la cui unica colpa era di indossare quella divisa anche trovandosi fuori servizio, ha pianto anche per loro? Ma al di là di tali considerazioni, sono le giustificazioni di circostanza che egli continua ad addurre a non reggere.

Per cominciare, quell’assalto al circolo non può essere liquidato come un’ingenua ragazzata compiuta “per fare del bene”: gli avvertimenti tedeschi erano chiari e inequivocabili, in zona c’erano già state le stragi del Casentino e quindi ciò cui si andava incontro era sotto gli occhi di tutti, come dimostra del resto il comportamento di abitanti e sfollati di Civitella che all’alba evacuarono in massa il paese. Inoltre Succhielli all’epoca aveva non vent’anni ma venticinque, era stato un ufficiale del Regio Esercito e proprio per questi trascorsi gli erano state riconosciute l’autorità e la competenza necessarie a capeggiare una banda partigiana: composta – quella sì – da “sbandati” e “inesperti”, ma ai quali proprio il comandante avrebbe dovuto imporre la linea d’azione più accorta ed avveduta, in considerazione del critico momento legato al passaggio del fronte dalla Val di Chiana.

C’è poi un’altra considerazione a pesare come un macigno sulla buonafede del tegoletino. Pur non avendo la sua “banda autonoma” aderito alle rosse “Brigate Garibaldi”, bensì al composito Raggruppamento dei patrioti amiatini, la sua condotta ricalcò in tutto e per tutto sia quella dei gappisti di via Rasella che quella dei partigiani comunisti. È infatti noto che mentre i partigiani “azzurri” di “Giustizia e Libertà” (azionisti, socialisti riformisti, liberali, monarchici: tutti sostanzialmente filoamericani) si preoccupavano nell’attuare i propri sabotaggi di non mettere a repentaglio la sicurezza della popolazione – perché in fondo quel che più stava a cuore ai tedeschi in ritirata era che non venissero toccati i soldati – quelli “rossi” erano animati da tutt’altri intenti.

Le ciniche direttive del Pci miravano infatti espressamente a fomentare l’odio tra la popolazione civile e l’occupante germanico, in una prospettiva sommariamente rivoluzionaria e filosovietica, partendo dal presupposto che più sangue si fosse fatto scorrere, più si fosse esasperato l’animo degli italiani, maggiori sarebbero state le possibilità di uno sbocco di tipo bolscevico del conflitto. Accadeva così che, ogniqualvolta un “garibaldino” avvistava dei tedeschi isolati o che comunque avessero abbassato la guardia, come posseduto da un demone non poteva astenersi dal premere il grilletto, nella più totale assenza di scrupoli circa le conseguenze del gesto. Evidente allora come, una volta fallite le aspettative sovietizzanti, ed imboccata il nostro Paese la via democratica ed atlantica, tutte le nefandezze commesse e le atrocità provocate diventassero un fardello troppo pesante da sopportare: donde la necessità di occultarle, minimizzarle, “accomodarle” agli occhi dell’opinione pubblica e della Storia mediante una propaganda subdola quanto capillare, complici la potenza politica del Pci e la prosopopea dell’altrettanto politica Anpi.

Ora la formale affiliazione del gruppo del Succhielli all’organizzazione partigiana comunista “ufficiale” non vi fu: tutta una serie di elementi tuttavia ne orientano inequivocabilmente la collocazione ideologica da quella parte. Già la scelta del nome di battaglia, la strategia operativa adottata, la stessa collocazione politica postbellica del comandante rappresentano dei begli indizi. È inoltre un fatto che nel pomeriggio di quello stesso 18 giugno egli si fosse incontrato in Civitella proprio con Luciano Gambassini: il quale, oltre ad essere il medico condotto del paese, era anche il responsabile della locale cellula clandestina comunista. Ma è lo stesso Renzino, nel suo libro autobiografico (pubblicato nel ’79, quando l’incensamento della “Resistenza” da parte di chi se ne proclamava erede politico e morale toccava l’apice), ad ammettere la propria fede, ricordando in particolare come fosse stato il parroco antifascista di Cornia, Natale Romanelli (“il nostro don Natale”), a rifornire la sua banda delle stelle rosse da cucire sui berretti nonché a confezionare la bandiera di seta altrettanto rossa che doveva contrassegnare lo schieramento politico della formazione.

Rapporti confermati da quanto riporta lo stesso Romanelli nelle sue Memorie: le quali rappresentano anche una circostanziata testimonianza sull’improvvisa crescita del movimento partigiano con l’avvicinarsi del fronte, evidentemente favorita dai rifornimenti alleati. “Nel territorio della Cornia esisteva qualche prigioniero inglese, datosi alla macchia con la liberazione del campo di concentramento di Laterina del giorno 9 settembre: ma si trattava di pochi individui abbastanza buoni e di nessuna molestia. Chi poteva dare dava ed essi si contentavano, poveri macchiaioli, di vivere alla macchia sia pure con stenti, prima di vivere nei campi di concentramento in mano dei barbari tedeschi. Non mancarono per questo delle noie a mio riguardo, per parte prima dei “fascisti repubblicani” e poi dei “poliziotti repubblicani”, servendosi senza dubbio di qualche maligno e poco benevolo parrocchiano che faceva da staffetta”.

In particolare il sacerdote ricorda i controlli subiti da parte dei repubblichini il 1° gennaio e soprattutto l’8 marzo ’44, allorché, alle 4 del mattino, una trentina di militi “circondarono la canonica e mi costrinsero a farli passare in casa perché polizia e di più armata, dicendosi mandati per visitare la casa. Non si poteva dire di no e quindi appena entrati ad armi spianate invasero la casa e rovistarono e misero a soqquadro tutto. Con quella visita dovettero comprendere che in casa mia non c’erano né armi, né gente sospetta; ma mi dichiararono favoreggiatore di partigiani. Sopportai in santa pace queste visitine preziose e mi tenni sempre più ad una condotta irreprensibile; tuttavia non dovevo terminare con questo il loro sospetto. Date tutte queste cose, consigliai allora i pochi e poveri macchiaioli inglesi di avere più prudenza, di non gironzolare nei luoghi abitati, di stare più all’erta, oppure di allontanarsi da quei boschi, altrimenti poteva nascere un guaio per me e per tutta la popolazione, vedendo che giorno per giorno cresceva l’accanimento di quei vili repubblicani per la loro cattura.

“Compresero quei poveri giovani la loro situazione, un po’ critica, si allontanarono per qualche settimana ritornando poi con armi per difendersi da qualsiasi eventuale attacco di repubblicani, come si espressero. Dove avessero trovate le armi non lo so, però posso dire che cominciò da quel momento una certa organizzazione. Di quando in quando, si notavano gruppetti di armati con fazzoletti rossi e stella rossa nel berretto che si spostavano da una parte all’altra, non dando però molestia a nessuno, chiedendo più che altro informazioni e anche viveri. La sera del 29 maggio si presentarono nuovamente da me cinque di questi giovani armati, chiedendo un po’ di rifornimento, dichiarando di essere molto accresciuti di numero e sperando – come si esprimevano – di poter difendere a tempo opportuno me e la popolazione intera da qualsiasi aggressione di fascisti repubblicani o tedeschi. Detti loro un po’ di tutto: non perché confidavo nella loro difesa, ma in conformità alla carità cristiana”. Ma qualcuno dové fare la spia: perché già all’alba del giorno successivo la canonica era nuovamente assediata “da 25 armati con mitraglia, bombe a mano, armi di tutte le qualità”.

La persecuzione fascista tuttavia non scoraggia l’ardito sacerdote, il quale continua a nutrire fiducia nella banda di Renzino fino ai tragici fatti di giugno. A rivelarci un episodio che aggrava ulteriormente la posizione dinanzi alla Storia del comandante partigiano è Santino Gallorini, studioso chianino che non ha mai smesso di indagare sui tragici fatti che hanno segnato la sua terra in quei terribili mesi del ’44, riportandoci – nei suoi libri ed articoli – storie commoventi e dimenticate. È grazie a quanto dichiarato allo storico di Vitiano da Giovanni Romanelli, nipote di don Natale, che dobbiamo ascrivere all’irresponsabile condotta del Succhielli la morte di altri due innocenti.

Premesso che dopo l’entusiasmo iniziale il parroco si era convinto che Renzino non fosse “persona atta a fare il capo” – in quella banda “comunista” – al punto di “portarci alla rovina completa” (come egli scriveva nelle stesse Memorie), Romanelli racconta: “Don Natale non perdonò al comandante Succhielli di aver arrestato e portato a Bollore la signora Helga Cau – residente a Gebbia di Civitella – che essendo di origini svedesi, ma di madre tedesca, svolgeva l’incarico d’interprete presso il Comando tedesco di Monte San Savino. Era stato il dottor Gambassini, medico condotto di Civitella e capo della Resistenza locale, a segnalare la Cau quale spia dei tedeschi. Il Succhielli l’aveva fatta arrestare dai suoi partigiani e portata a Bollore l’aveva interrogata. Resosi conto dell’onestà della donna, l’aveva invitata a pranzo assieme al marito Giovanni e poi, con una leggerezza incredibile, l’aveva portata a interrogare due tedeschi suoi prigionieri e accusati di razzie.

“Ma nella notte i due tedeschi erano riusciti a scappare e a tornare al loro comando, accusando la Cau di doppio gioco e segnandone il destino: il 29 giugno essa fu prelevata dai tedeschi e portata a Monte San Savino assieme al marito; i due furono quindi assassinati e seppelliti in una fornace. La donna era sì l’interprete dei tedeschi, ma di ideali antifascisti e antinazisti; spesso andava alla Cornia da don Natale e in gran segreto lo metteva al corrente di importanti informazioni acquisite grazie al suo lavoro: localizzazione dei comandi e dei magazzini, movimenti di truppe, operazioni di rastrellamento ecc. Don Natale andava poi ad Arezzo e riferiva quanto aveva saputo a don Onorio Barbagli, membro del Cln provinciale, il quale a sua volta informava gli altri membri del Comitato e il comando della Brigata partigiana “Pio Borri”. Purtroppo don Natale non poteva rivelare l’importantissimo e rischiosissimo lavoro che svolgeva la benemerita ed eroica Helga Cau; ma pensava che il comando partigiano conoscesse almeno l’aiuto materiale che lei e la mamma davano a ex prigionieri e sbandati vari che transitavano dalla sua abitazione a Gebbia”.

Sull’intercessione della stessa Cau presso la Kommandantur allo scopo di “far capire ai tedeschi che con le uccisioni del Dopolavoro la gente di Civitella non c’entrava per nulla” aveva peraltro contato don Lazzeri allorché, fin dal mattino del 19 giugno, la caritatevole donna, “sempre pronta a dare una mano al prossimo”, non aveva mancato di presentarsi al circolo, ove il sacerdote stava componendo i cadaveri dei due soldati. Egli “non aveva faticato molto per convincerla a fare quanto già da sé aveva capito di dover fare. Fu così che erano stati contattati i locali comandi tedeschi di Dorna e Monte San Savino. Poi Helga era rimasta a Civitella, per attendere l’arrivo dei soldati tedeschi”. Senonché l’improvvido intervento di Renzino aveva frustrato tutte le speranze del parroco, rendendo a questo punto ineluttabile la condanna a morte del paese.

Anche quest’ultimo episodio apprendiamo da uno studio di Gallorini: un pregevole lavoro che colpisce fin dal titolo – Perdonare, mai dimenticare – prendendo in esame i registri sui quali negli anni i visitatori-pellegrini della Sala della Memoria hanno lasciato i loro commenti, e che ha il merito di ricostruire la vicenda da noi analizzata alla luce di un sentimento di pietà ed umanità prettamente cristiano. Anche per i particolari inediti che esso rivela, ci pare perciò doveroso riportarne la versione dell’episodio chiave.

“La sera di domenica 18 giugno, nella prima sala del Dopolavoro, assieme ad una decina di civitellini che giocavano a carte e bevevano vino si erano seduti quattro tedeschi. Facevano parte di un gruppo di nove soldati della 4ª Divisione Paracadutisti, inserita nella XIV Armata (AOK 14), che fin dal dopopranzo si erano insediati presso la famiglia Rossi, in una casa colonica vicina al cimitero. Già nel pomeriggio quattro di questi erano stati visti in Civitella, avevano cercato di familiarizzare con qualche abitante incontrato in paese e poi erano entrati nel Dopolavoro a giocare a carte e bere vino.

“Si erano comportati bene: in special modo con Palombo, un ragazzo di 14 anni che aveva scherzato con loro e a cui avevano regalato caramelle. Si erano dimostrati cordiali e tranquilli; pertanto quando erano stati visti rientrare nel locale pubblico alla sera dopo cena, alcuni avventori avevano riconosciuto quello che sembrava il capo e si faceva chiamare “maresciallo”. Dopo un attimo di timore tutti si erano rilassati: anche perché con quei quattro ragazzoni in divisa c’era quel birbante di Palombo, che aveva un’aria trionfante e un po’ spocchiosa in quanto, seppur troppo giovane per accedere al Dopolavoro, era stato fatto entrare dal suo nuovo amico del pomeriggio, il “maresciallo”. E il segretario del Fascio Repubblicano, che aveva tentato di far rispettare le regole fermandolo sulla porta, non se l’era sentita di discutere con quattro tedeschi armati. Si era solo limitato a raccomandare a Palombo di non avvicinarsi agli alcolici…

“Tutto sembrava procedere nella tranquillità. Chi giocava, chi guardava, chi beveva, chi parlava. E anche i quattro soldati erano ormai della comitiva. Si erano slacciati i cinturoni, avevano appoggiato le armi alla parete, si erano seduti ad un tavolo e si erano messi a giocare a carte. Fra una mano e l’altra, un bicchiere di buon vino della zona di Civitella. Più tardi, il “maresciallo” si era spostato sulla panca accanto alla radio accesa, dove già era seduto Palombo a mangiare le sue caramelle. Un altro tedesco se n’era andato nella sala accanto, quella della mescita, e là si era messo a tentare di parlare con la barista e con il marito di lei: i giovani Alduina e Torquato Menchetti.

“Come un improvviso temporale estivo, proprio quando la calma e la serenità la facevano da padrone, si era scatenato l’inferno. “Mani in alto! Hände hoch!”. Chi gridava era un giovane ragazzo con dei baffetti e i capelli neri un po’ riccioli. Se ne stava con le spalle alla finestra e stringeva in mano una pistola, con cui teneva sotto tiro il tedesco accanto alla radio. Solo pochissimi dei clienti del Dopolavoro lo conoscevano e sapevano che era il famoso “Renzino”, il capo della omonima banda partigiana, che da qualche tempo si era stanziata nei boschi della zona tra la Cornia, Montaltuzzo e Bollore.

“Fino a neanche dieci giorni prima si trattava di una piccola banda, formata da ex internati al campo di concentramento di Laterina – di cui 16 soldati inglesi, due sudafricani, due baschi della Legione Straniera francese – oltre a una decina di italiani, in gran parte ex militari che, dopo l’8 settembre, si erano dati alla macchia. Vi era anche l’anziano Gabelo (Angiolo Valdambrini) il quale fin da subito si era unito ai suoi compaesani di Tegoleto: paese da cui proveniva pure Renzino, l’ex sottotenente dei paracadutisti della Nembo, Edoardo Succhielli. Poi, in pochi giorni, con l’avvicinarsi del fronte, si era acceso un sospetto entusiasmo e gli aspiranti partigiani fiorivano come i circostanti prati. Fatto è che, com’è ben noto, non sempre alla quantità corrisponde la qualità, e quindi i membri della banda oltrepassarono il centinaio; ma fra questi ce n’erano alcuni che definire “pasticcioni” è un eufemismo.

“Renzino era arrivato a Civitella sul far del buio, con una quindicina dei suoi, per il semplice motivo che lo avevano subissato di richieste per tutto il pomeriggio. Occorreva andare a Civitella perché, al dire dei suoi interlocutori, c’erano alcuni tedeschi cattivi e violenti, che importunavano i poveri abitanti e portavano via la roba al macellaio del paese. Ovviamente oggi sappiamo che non era vero, e che molte di quelle bugie venivano dette per costringere Renzino ad entrare in Civitella, al fine di far vedere ai civitellini che qualche loro compaesano era andato con i partigiani. Renzino non voleva che i suoi partigiani entrassero nei paesi, per vari motivi, primo fra i quali evitare problemi con i giovani paesani, a causa di eventuali corteggiamenti alle ragazze. Ma quel pomeriggio, alla fine si decise a entrare in Civitella, anche perché doveva andare da alcuni benestanti del paese per chiedere contributi in denaro e poi – al dire di chi lo aveva spinto a partire per il paese – tra coloro che ne reclamavano la presenza c’era il medico condotto, dottor Luciano Gambassini, autorevole esponente della Resistenza locale.

“E Renzino, dopo un incontro in Civitella con il dottor Gambassini ed altri due paesani antifascisti, aveva deciso di disarmare i quattro tedeschi presenti nel Dopolavoro che – a quanto gli era stato detto da un suo partigiano che era entrato nel locale – avevano deposto le armi da fuoco a terra, appoggiate alla parete. “Si fanno disarmare tanto facilmente”, aveva obiettato Renzino a chi gli paventava i rischi di una possibile reazione da parte dei tedeschi. Era stata quindi organizzata l’azione, che prevedeva l’utilizzazione di quattro partigiani e del comandante Renzino. “Mani in alto! Hände hoch!”. E l’operazione ebbe inizio…

“Purtroppo, la sua realizzazione era risultata alquanto pasticciata e confusa, improvvisata e sbagliata. Lo stesso Renzino – anni fa – la definirà “stupidamente concepita e stupidamente condotta”. Essa si era conclusa con una sparatoria da parte partigiana, durante la quale i tre tedeschi della prima sala erano caduti a terra: due morti e uno gravemente ferito. Il quarto, che si trovava nella sala della mescita, anche se caduto a terra era rimasto soltanto ferito ad una gamba. Ne era seguito un caos generale, con i civili che gridavano: “Basta! Basta!” e tentavano di scappare, i partigiani confusi e Renzino stravolto.

“Nella prima stanza c’erano i tre tedeschi sul pavimento, crivellati da proiettili, in un lago di sangue; c’erano alcuni civili che cercavano terrorizzati l’uscita, due dei quali lievemente feriti; c’era Renzino sconvolto, quasi inebetito, irritato con i suoi due partigiani che avevano sparato, incurante di chi gli chiedeva se prendere le armi dei tedeschi e che diceva: “Andiamo via, andiamo via…”. I partigiani erano poi corsi verso la Porta Senese, l’accesso occidentale del borgo fortificato di Civitella. Si erano quindi dileguati nei boschi vicini, assieme ai loro compagni che li attendevano fuori dal paese.

“La notizia della sparatoria al Dopolavoro aveva fatto immediatamente il giro del centro abitato, mettendo nel panico gli abitanti i quali, paventando una rappresaglia tedesca, sarebbero voluti scappare immediatamente, non sapendo bene neppure dove. Ma la fuga era stata ostacolata da una forte pioggia, che era durata alcune ore costringendo le famiglie a rimanere ancora nel paese, con l’ansia e la paura che erano aumentate a dismisura. Alla fine, diminuita la pioggia, in tanti si erano calati tramite scale a pioli dalle mura, o erano passati per la Porta Senese ed erano fuggiti. Era stata una fuga repentina e drammatica, con solo qualche fagotto: poche cose per l’emergenza. Chi era andato da parenti, chi da amici, chi semplicemente nei boschi vicini.

“Quella notte erano stati davvero pochi quelli che avevano avuto il coraggio di rimanere. Fra loro c’era stato il parroco, don Alcide Lazzeri. Il mattino seguente don Alcide si era recato al Dopolavoro con alcune parrocchiane, tra le quali c’era Domenica Dondolini, l’infermiera dell’ospizio per gli anziani. Il saggio sacerdote aveva chiesto di ripulire il locale, di comporre i cadaveri dei soldati e di mettere nelle loro mani dei gigli, che lui stesso era andato a raccogliere nel giardino della canonica. Ma i cadaveri non erano quattro come c’era da immaginarsi, bensì soltanto due. Che cosa era successo? Il soldato che si trovava nella sala della mescita, che era stato ferito soltanto ad una gamba, quando era calato il silenzio si era alzato, era entrato nella prima sala, aveva constatato la morte di due dei suoi camerati ma aveva trovato il “maresciallo” ancora in vita, seppur in gravissime condizioni. Il ferito si era caricato sulle spalle il “maresciallo” e quindi, con grande fatica e vincendo il dolore, lo aveva portato nella casa colonica, dove alloggiavano i loro commilitoni. Qui, dopo una sommaria medicazione, il “maresciallo” era stato caricato su un camion tedesco di passaggio e portato in un ospedale militare a Firenze, dove era morto il giorno dopo.

“Il “maresciallo” era in realtà un semplice Gefreiter (caporale), si chiamava Camillo Haag, era nato in Lussemburgo il 14 maggio 1924: aveva compiuto da poco i 20 anni. I due tedeschi uccisi con le mani in alto, accanto al tavolo, erano gli Obergefreiter (caporal maggiore) Gustav Bruettger, nato il 28 dicembre 1922 a Rheinhausen, ed Ernst Menschig, nato il 27 aprile 1921 a Braunsdorf. Il ferito ad una gamba – che poi si sarebbe salvato e sarebbe morto anni dopo per cause estranee alla guerra – era l’Oberjäger (grado corrispondente al sergente) Gerhard Schulz, nato il 13 dicembre 1918 a Hindenburg”.

Noi, che da anni ci occupiamo della Linea gotica e delle stragi provocate dagli attentati partigiani, mai avevamo trovato un simile tributo a dei soldati tedeschi venuti a morire come figli di nessuno in questa nostra terra, inviativi da un capo che ormai, a guerra largamente perduta, aveva smarrito anche ogni contatto con la realtà, preferendo nel suo delirio la distruzione del suo paese e la rovina del suo popolo alla resa. Forse quei quattro giovani, nel distribuire sigarette e caramelle agli anziani e ai ragazzi del paese, pensavano ai propri nonni e ai propri fratelli; forse, nel voler vivere con spensieratezza quella giornata domenicale, intendevano illudersi di trovarsi al loro paese, in mezzo ai loro amici: e magari per questo avevano assunto Palombo quale mascotte. Sotto la divisa era tutta la loro umanità, semplice e spontanea non essendo anch’essi che dei figli del popolo: cancellata però da quelle scellerate scariche di piombo piovute loro addosso.

Ecco: noi vorremmo che con altrettanta umanità ci si rivolgesse d’ora in avanti alla memoria di Camillo, di Gustav, di Ernst; di Gerhard, che scampato miracolosamente alla mattanza – grazie sia al fato che alla propria presenza di spirito – pur ferito non esita ad onorare il fatto di essere il maggiore sia nel grado che nell’età, uscendo da quel nascondiglio, caricandosi sulle spalle il povero Camillo e trasportandolo fino alla Madonna, pur non potendosi escludere i carnefici trovarsi ancora nei paraggi. Non si trattava di “nazisti”, come si è sempre sommariamente affermato per giustificarne la brutale eliminazione: erano semplicemente ragazzi cui il destino aveva assegnato di appartenere alle classi chiamate alla leva per la guerra scatenata dal nazismo. In nome della cui ideologia agivano invece pienamente le SS: le quali erano per questo temute dagli stessi soldati della Wehrmacht.

Su quanto accaduto in quel periodo in Italia si sono costruite tante carriere politiche – anche le più prestigiose – continuandosi per decenni a propinare una verità di facciata dogmatica quanto menzognera: eppure inviolabile, come dimostra la vicenda giudiziaria del giornale condannato per l’amore della verità. Così facendo, si sono prolungate all’infinito le contrapposizioni della guerra civile, perpetuando e dilatando contro ogni ragionevolezza la valenza della categoria di “antifascismo”: ombrello protettivo capace di giustificare tutto. In Germania non è stato così: lì alla fine della guerra si è saputo voltare pagina, lasciandosi alle spalle per carità di patria gli orrori del conflitto come le divisioni ideologiche.

La Germania ha chiesto scusa per quanto compiuto dalle sue armate sul nostro suolo, dimostrando coraggio e dignità: si faccia lo stesso anche noi, riabilitando in occasione delle commemorazioni dei nostri borghi straziati anche la memoria degli incolpevoli soldati tedeschi caduti negli attentati. Si abbia la forza – che una democrazia degna di questo nome deve avere – di chiudere definitivamente la stagione dell’odio e delle partigianerie di comodo. Solo così il sacrificio dei Martiri di Civitella, Cornia, San Pancrazio sarà servito a qualcosa.

Bibliografia

Documenti della “Sala della Memoria” dell’eccidio del 29 giugno 1944, Civitella Val di Chiana.

L’eccidio di Civitella in Val di Chiana, pubblicazione a cura dei familiari delle vittime.

Memorie di Don Natale Romanelli sulla strage di Cornia, Associazione “Civitella Ricorda”.

AA. VV., Edoardo Succhelli, in it.wikipedia.org.

P. Cappellari, Renzino, 17 aprile 1921: una barbarie comunista, in www.istitutobiggini.it.

13 aprile 1944: l’eccidio di Vallucciole, in www.infoaut.org.

E. Succhielli, La resistenza nei versanti tra l’Arno e la Chiana, Tipografia Sociale, Arezzo, 1979.

G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano, 1997.

C. Gentile (a cura di), Le stragi nazifasciste in Toscana 1943-45, Carocci, Roma, 2005.

S. Mannino, Strage di Civitella, stretta di mano 66 anni dopo, “La Nazione – Arezzo”, 7 luglio 2010.

S. Gallorini (a cura di), Perdonare, mai dimenticare, Effigi, Arcidosso, 2014.

S. Gallorini, Don Natale Romanelli, un eroico parroco nella tormenta, “ValdichianaOggi”, 3 luglio 2017, in www.valdichianaoggi.it.

La mistificazione partigiana delle responsabilità dell’eccidio di Civitella Val di Chianaultima modifica: 2017-07-26T21:00:15+02:00da tradersimo
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