La narrativa di Giuseppe Fanciulli

Giuseppe Fanciulli è stato un maestro della letteratura per l’infanzia novecentesca. Nella sua narrativa confluiscono tanto la favolistica classica quanto i principi cristiani: l’amore per il prossimo, la carità, il sacro valore della famiglia, della vita, del Creato. Pedagogista dalla fervida fantasia, ha scritto racconti, favole, fiabe ispirate ai valori della solidarietà, della fratellanza, della lealtà, del lavoro. Della sua opera presentiamo un piccolo florilegio.

Il ventino falso

Giovannino aveva un ventino falso. Gliel’aveva dato Lello in cambio di quattro palline; ma ora nessuno lo voleva. Nelle botteghe lo battevano sul banco, e subito dicevano: “Bambino, questo ventino è falso!”. “Se nessuno lo vuole – pensò Giovannino – lo darò a un povero e così farò un’opera buona”. Difatti, quando passò davanti a un cieco, prese di tasca il ventino e glielo lasciò cadere nel cappello. “Dio gliene renda merito….” disse il cieco. Ma Giovannino si allontanò di corsa. Sentiva che la sua opera buona era falsa come il ventino.

 Sul mare

Distesi sulla sabbia calda, dopo il buon bagno della mattina, i ragazzi parlavano fra loro. Una vela bianca passava sull’orizzonte turchino. E Pippo domandò: “Chi avrà insegnato all’uomo a fare i bastimenti?”. “Prima dei bastimenti – osservò Renzo – ci sono state le barche”. “Benissimo – ribatté Pippo – e allora da chi ha imparato l’uomo a fare le barche?”. “Io dico – riprese Renzo – che quando l’uomo dei tempi antichi vide per caso un guscio di noce galleggiare sull’acqua, ebbe la prima idea di una barca”. “No, ragazzi – osservò Giovannino – l’uomo ha imparato dal pesce. Il pesce è fatto come una barca; il muso è la prua, la coda è il timone, e le pinne sono i remi”. “Sì – disse Renzo che non si voleva dare per vinto – ma dentro al pesce non può andare nessuno. “Ci va lui! – esclamò pronto Giovannino – E ti pare poco?”.

Tesoro nascosto

Il sole per lunghi anni dette vita e calore ai larghi rami del castagno. Sfolgorava sulla vasta cupola verde, arrivava dalle fronde ai rami più grossi e fino al tronco. Ogni anno il castagno a quel tepore si infiorava, e poi preparava i grossi marroni, bruni e lustri, dentro ai ricci spinosi. Uomini, donne, ragazzi andavano nel castagneto a raccogliere i frutti. Passarono tanti anni e il castagno incominciò a invecchiare. Un grande ramo morì; poi un altro ancora. La gente che andava nel bosco a raccogliere i marroni non si fermava più sotto al vecchio castagno, perché dalle rade fronde ormai non cadevano frutti. Il padrone disse: “Bisognerà abbattere questa pianta; non è più buona a nulla”. E il castagno mormorò con le sue ultime foglie: “Ho ancora per voi un tesoro nascosto”. Ma nessuno lo sentì. Vennero i boscaioli e fecero a pezzi il vecchio castagno; i pezzi vennero portati alla casa del padrone. E in un giorno d’inverno nero nero, due di quei pezzi furono gettati sul focolare. Allora si alzò una gran fiamma chiara, la cucina parve inondata di luce, e un buon calore arrivò fino alle facce dei bambini, fermi lì davanti. Era quello il tesoro: il sole, tenuto nascosto per tanti e tanti anni dal castagno.

Due ombrelli

Due ombrelli si ritrovarono insieme nell’angolo di una stanza di entratura. Erano due ombrelli diversissimi. Uno era alto, grosso, coperto d’incerato verde; aveva le stecche di giunco, e il manico di legno giallo. L’altro era piccolo, sottile, coperto di seta lucida; aveva un manico di tartaruga. I due ombrelli rimasero per lungo tempo silenziosi. Poi l’ombrello di seta si annoiò, e tanto per attaccar discorso dette il buon giorno a quello d’incerato. Questo rimase confuso di tanta gentilezza, e cominciò a parlare con piacere.

“Devi fare una bella vita – diceva – per conservarti così lustro e pulito”. “Sì – rispondeva l’ombrello di seta – non posso lamentarmi; lavoro poco. La mia padroncina esce di casa quasi sempre in automobile e perciò non mi apre quasi mai”. “Oh, a me il lavoro non manca, invece! – rispondeva l’ombrello d’incerato – La mia padrona mi porta sempre in giro, appena vede in cielo qualche nuvolone. E quali passeggiate facciamo! E quali fatiche sopporto! A volte devo sostenere scrosci d’acqua terribili, e a volte i larghi e gelidi fiocchi di neve….”. “Eppure – aggiunse dopo un momento l’ombrello di seta – t’invidio. Io mi annoio tanto! Passo lunghe giornate in questo cantuccio, non vedo mai nulla, non conosco nulla del mondo. “Ah, poverino! – disse l’ombrellone d’incerato – Ti compatisco davvero. Io ho veduto tanto cielo, tante strade, tanti boschi…. E non ho tempo per annoiarmi. La mia padrona ripete spesso ai suoi ragazzi che solamente chi lavora non si annoia”. Ed ecco, la contadina passò di lì. L’ombrellone ebbe appena il tempo di dire al suo compagno: “Addio! Addio!”. E dopo un momento era teso sotto lo scroscio dell’acqua che veniva giù dal cielo nero.

Come un sogno

Una povera cucitrice lavorava ogni notte fino a tardi, per guadagnare qualche soldo in più. Ma una volta si sentì prendere dal sonno; gli occhi le si chiudevano, i piedi cessavano di spingere il pedale della macchina, e le mani ricadevano in grembo, abbandonate e pesanti, come se reggessero tutto il sonno della terra. “Eppure – pensava Anna, la cucitrice – devo lavorare almeno per altre due ore. Se non riporto domani al negozio gli asciugamani orlati, non mi pagheranno, e non potrò comprare il pane, il latte, la carne, il lardo”. Anna si smarriva pensando a tutto quello che non avrebbe comprato. E già vedeva il musino imbronciato di Lucia, udiva il brontolio di Renzo, e il pianto di Mariolina. “Altre due ore – si ripeteva Anna – altre due ore solamente”. Ma la testa le ricadeva sul petto, le mani erano ormai tanto pesanti che proprio non si potevano tirar su. “Se le mani dormono – pensò vagamente Anna – è inutile che io resti alzata”. Spense il lume e andò a buttarsi sul letto; non aveva fiato nemmeno per spogliarsi. Un minuto dopo, il suo respiro agitato si univa a quello tranquillo dei figliuoli.

Intanto l’altra stanza era rimasta vuota e silenziosa. La luna si affacciava dalla vetrata. Il gran mucchio degli asciugamani, sulla seggiola, pareva un monte di neve, e la macchina da cucire scintillava. A un tratto una vocina disse: “È una bella vergogna restar qui in ozio, soltanto perché la nostra padrona è morta dal sonno e dalla fatica!”. Chi parlava era la spola, tutta lustra in quel lume di luna. La ruota della macchina disse: “Per me, se si tratta di girare, sono sempre pronta”. Anche gli asciugamani dissero che pur di avere un orlo fatto bene, avrebbero preso il loro posto sulla macchina; uno per volta, s’intende. “Ma non avete paura di svegliare quella povera donna?” domandò la cinghia che doveva smuovere la ruota e perciò non aveva tanta voglia di affaticarsi. “Faremo pianino….” rispose la spola. “E poi ci penso io” disse un’altra voce liscia. Infatti, si fece avanti un cosino, che era l’oliatore, e incominciò a versare sugli ingranaggi le stille del liquido che aveva portato con sé. “Hai cambiato la qualità dell’olio – osservò una rotellina – che bontà”. “Infatti, – aggiunse l’oliatore – è olio di bontà”. La ruota cominciò a girare, la spola continuò a sbattersi su e giù come una pazza, gli sciugamani a uno a uno andarono a farsi orlare, e poi tornarono sulla seggiola bell’e orlati.

Proprio in quel momento Anna faceva un bel sogno: trovava gli asciugamani pronti, li portava al negozio, e la padrona le diceva: “Venti lire solamente? Questa volta ne prenderà almeno cinquanta; non un centesimo di meno. Piuttosto, farà un regalino alla spola e alla ruota, e anche all’oliatore; creda, se lo meritano”.

Generosità

Lungo il viale si era fatto un capannello di gente, che a mano a mano andava ingrossando; e lì in mezzo, sopra alla panchina, un vecchio suonava il violino. Quale strazio! Le corde allentate mandavano suoni stonati, e l’archetto pareva inseguirle nella inutile speranza di mettere insieme una melodia. Ma forse il vecchio credeva di suonare ancora come ai suoi bei giorni; col mento appoggiato al violino e gli occhi socchiusi, si dondolava lentamente, e con un piede che usciva da una scarpaccia rotta batteva graziosamente il tempo. Quell’atteggiamento contrastava tanto con la sua orrenda musica, che la gente non si poteva trattenere dal ridere; tutti lo guardavano come un pagliaccio grottesco, e nessuno pensava che era un uomo capace di godere e di soffrire. Una più forte, lacerante strappata alle quattro corde terminò il pezzo, e il vecchio si raddrizzò, risollevò una faccia beata, come se uscisse da un sogno.

“Questo, signori – prese a dire con un accento strascicato – fu eseguito da me per la prima volta alla presenza di Sua Maestà lo Zar di tutte le Russie…. e Sua Maestà lo Zar ha dato a me cinquecento rubli….”. Applausi, risate coprirono le ultime parole, e il vecchio si inchinò gravemente. “Ora io non chiedo tanto – riprese a dire – ma solo qualche cosa per la mia grande arte e il mio povero appetito….”. Così dicendo, trasse fuori un piattello; e subito, un ragazzo vi depose un sasso, raccolto dalla ghiaia del viale. L’esempio fu seguito; altri sassi piovvero nel piattello; chi era lontano, li tirava; e in breve successe un finimondo. Una di quelle pietre rimbalzò sul violino, e colpì una mano del vecchio trasognato, imprimendovi un segno di sangue.

Ma proprio in quel momento un signore alto si faceva largo fra quella folla impazzita; di balzo salì sulla panchina, accosto al vecchio; la sassaiola cessò sull’istante. Il signore alto disse con chiara voce: “Il mio collega si scusa, se oggi non ha potuto contentarvi; è un poco indisposto, e anche il suo violino non sta bene”. Un mormorio si diffuse tra la folla meravigliata. Intanto il signore sconosciuto aveva preso di mano al vecchio il violino, e rapidamente lo accordava. Poi salutò in giro con l’archetto, e disse: “Se permettete, sostituisco il collega”.

L’arcata sicura trasse dal violino un primo accordo squillante; poi nel gran silenzio si svolse sotto quelle agili dita una magica aria di Vivaldi; le foglie dei platani col loro lento stormire tenevano bordone. La folla era sospesa; pochi avevano mai udito suonare con tanta maestria e con tanto impeto appassionato. Qualcuno mormorava: “Ma chi è?”. L’aria era alla fine, e un concorde applauso, dopo un attimo di silenzio, salutò il violinista. “Ed ora, signori – disse lo sconosciuto – facciamo il nostro dovere”. Mise per primo una moneta d’argento nel piattello; e poi versò le monete, rapidamente ammucchiate, nella palandrana del vecchio. Per ringraziamento suonò un allegro tempo di danza. Poi ridendo restituì il violino, e attraversata la folla plaudente, riuscì ad allontanarsi. Ma qualcuno l’aveva riconosciuto, e disse: “È il primo violino della grande orchestra italiana”.

La narrativa di Giuseppe Fanciulliultima modifica: 2018-08-30T21:38:38+02:00da tradersimo
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