Il tedesco di Gragnola. Le mille vite di Mario Giuntoni

Mario Giuntoni nasce a Gragnola il 26 aprile 1925 da una famiglia di cavatori e pastori, nella casa dei nonni materni di piazza Gioco, primogenito di Umberto, di Vinca, e di Ada Terenzoni. In quegli anni la vita del popolo apuano è assai grama, con il regime fascista che non fa granché per migliorarne le condizioni: alla sera i bambini aspettano il ritorno del babbo dal lavoro – nei campi, nei boschi, nelle cave – con la speranza che abbia lasciato un tocco di pane per loro.

Nel ‘31 accade un fatto destinato a incidere profondamente sulla vita di Mario: a seguito della scoperta a Lasa, in Alto Adige, di un giacimento di un tipo di calcare sconosciuto, il gerarca carrarese Renato Ricci – in veste di responsabile del Consorzio per l’industria e il commercio del marmo – propone a Mussolini di affidare lo sfruttamento della cava agli esperti marmisti apuani. Anche per il fatto di sposarsi in pieno con quel progetto di italianizzazione del Sudtirolo da sempre in cima all’agenda del regime, l’idea riscuote il consenso del Duce: intere famiglie della Val di Lucido si trasferiscono perciò in quella terra storicamente austriaca. Il piccolo ha dunque modo di apprendere il tedesco: dai tratti somatici decisamente nordici, quasi albino, a quel punto lo si scambierebbe davvero per un discendente dei Celti. Nel ‘35, nel clima della conquista dell’Etiopia, in visita alla cava giunge lo stesso Ricci, nel frattempo divenuto presidente dell’Opera nazionale balilla; il quale, in considerazione dei tanti conterranei trapiantati in Val Venosta, istituisce in loro funzione una sezione locale del partito, affidandone la conduzione al fivizzanese Enrico Bondi.

Al termine delle elementari, avendo ancora a Gragnola i nonni Mario fa ritorno al paese, per proseguire gli studi presso il seminario di Aulla fino al quarto ginnasio, ricongiungendosi alla famiglia solo per le vacanze. Si giunge così al 12 marzo ‘38: il giorno dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Venti di guerra sull’Europa; con in particolare l’Alto Adige a rischiare di finire nell’occhio del ciclone, data la possibiltà che Hitler non si fermi nell’attuazione del suo disegno di “Grande Germania”, mettendo le mani pure su questa regione tradizionalmente asburgica ma dalla Conferenza di Parigi irragionevolmente assegnata all’Italia. In tutto il Sudtirolo le manifestazioni di irredentismo da parte della popolazione di nazionalità germanica si moltiplicano; ed è in particolare a Lasa, il 16 aprile, che si verificano gli incidenti più gravi, con l’impiego da parte dei rivoltosi di armi da fuoco: il che determina il rientro in patria di molte famiglie italiane, compresi i Giuntoni.

Dopo che il padre ha trovato lavoro nel cantiere della “Zona industriale apuana” di Avenza come tecnico della Montecatini, anche Mario vi entra come apprendista; la numerosa famiglia – sei figli – si trasferisce perciò a Nazzano, in una casa assegnatale nei pressi dello stabilimento del carburo di calcio. A seguito dell’entrata in guerra dell’Italia, la situazione alimentare non tarda a farsi critica anche a Carrara: città dalla collocazione geografica non particolarmente felice da tale punto di vista, schiacciata com’è tra la roccia e il mare, priva di una limitrofa campagna coltivabile e di conseguenza anche della possibilità di ovviare alle restrizioni belliche mediante i traffici del mercato nero. La conseguente guerra tra poveri che si scatena vedrà quale vittima gli stessi Giuntoni, la notte in cui dei vicini particolarmente famelici giungeranno a fregarsi le patate da loro appena seminate – e concimate – nel fazzoletto di terra pertinente l’abitazione, al termine di un’intera settimana trascorsa sulla vanga.

Al pari di tanti altri sfollati, la famiglia deve tuttavia fare ritorno a Gragnola già nel ‘42, allorché i bombardamenti alleati iniziano a colpire anche il capoluogo apuano; con la gente costretta a guadagnare le montagne carica di sacchi come muli. Ripreso possesso della casa di piazza Gioco, a quel punto per padre e figlio ha inizio la dura vita dei pendolari; quasi sempre interrotta la ferrovia per attentati o bombardamenti, non resta loro che muoversi a piedi, inerpicandosi su per la montagna fino alla Gabellaccia: il valico che anticamente segnava il confine tra il Ducato di Massa e Carrara e il territorio fivizzanese – appartenente al Granducato di Toscana – essendo deputato alla riscossione dell’odiosa “gabella”, la tassa sul sale destinato all’Emilia. Per poi rimanere a casa meno di 24 ore: la domenica sera infatti Umberto e Mario fanno ritorno ad Avenza, portando con sé la povera scorta di viveri – castagnaccio, necci, polentina di castagne da scaldare giorno giorno – necessaria a sbarcare la settimana, vista la grama fornitura governativa. Per ovviare alla quale si vedono costretti a darsi al mercato nero, ma a quale prezzo: forniti di un paio di chili di sale clandestino a testa ricavato dalla bollitura dell’acqua di mare, debbono salire assieme a un altro figliolo fino in Alta Garfagnana, alle Capanne di Sillano, per barattare di volta in volta il loro prodotto con farina di castagne, pecorino, lana da filare, conigli, galline, un agnello…

Quando poi per Mario scatta l’obbligo di presentarsi al sabato pomeriggio presso il palazzo della Gioventù italiana del littorio di Avenza onde adempiere alle esercitazioni “premilitari” (moschetto, marcia, tattica di guerra), profittando del fatto che in alternativa il regime offre ai giovani il corso di scuola guida egli opta per quest’ultimo, conseguendo la patente di secondo grado per motore a scoppio e con essa la qualifica di autista, riportata sulla carta d’identità alla stregua di un titolo professionale. Sempre intraprendente, mai supino dinanzi alle avversità della vita al compimento del diciottesimo anno il nostro pensa di ovviare alla fame sempre più nera facendo domanda per i Campi Dux: gli annuali raduni nazionali riservati ai migliori balilla e avanguardisti, proseguiti nonostante la guerra e assai ambiti dall’intera gioventù italiana. Ciò per vari motivi: sotto la guida degli istruttori della Farnesina ci si perfeziona negli esercizi ginnico-militari; si acquisiscono meriti fascisti; ma soprattutto, nel critico frangente bellico che si sta vivendo, almeno per un mese si mangia come Dio comanda.

Selezionato fra i trenta ragazzi della delegazione di Apuania e partito ai primi di luglio del ‘43 per Forlì, dopo i vari pellegrinaggi sui luoghi mussoliniani già il 23 Mario ha la sorpresa di sentirsi annunciare la fine anticipata del corso: e saranno appena due giorni più tardi gli eventi del Gran consiglio e l’arresto del Duce a fargli comprendere il motivo dell’improvviso “rompete le righe”. Per un giovane la cui fanciullezza è coincisa con gli anni d’oro del regime, scandita dalle varie fasi della formazione da balilla, imbevuta di tutta la prosopopea con cui la dittatura soleva celebrare i propri fasti e nell’assenza della minima voce di dissenso, quello scioccante evento viene a significare la fine di un mito: “se si è fatto fregare vuol dire che non era quel grand’uomo che ci hanno fatto credere in tutti questi anni”, la spiccia conclusione del disincantato gragnolino all’udire la clamorosa notizia della caduta mussoliniana.

Ma la fregatura più grossa – per Mario come per il Paese – è che, nonostante il successivo armistizio con gli Alleati, “la guerra continua”: con il Nord rimasto in mano ai tedeschi e sottoposto allo stato fantoccio della Repubblica sociale, il 18 febbraio ‘44 il Bando Graziani chiama alle armi i giovani delle classi ‘23, ‘24 e ‘25. A Carrara, la “Speer” – la struttura deputata alla fortificazione della Linea Gotica sotto la direzione di Albert Speer, architetto ufficiale nonché ministro per gli armamenti del Reich, e che diverrà nota come “Organizzazione Todt” – ingaggia autisti italiani cui affidare il trasporto del materiale necessario ad armare il fronte. A chi deve partire militare una simile opzione offre diversi vantaggi: non ci si sposta dalla zona di residenza, soprattutto evitando di finire a combattere a Cassino, lungo la Linea Gustav; si percepisce un salario equivalente a quello di un operaio, laddove alle reclute spetta una misera diaria; per un giovane in età di leva il tesserino rilasciato dal Genio tedesco viene a rappresentare la migliore garanzia agli occhi degli occupanti, e allorché la pena prevista per renitenti e disertori è la morte.

Mario pensa allora di sfruttare la qualifica conseguita per farsi assumere dalla Speer, e in base ad un ragionamento che non potrebbe essere più stringente: “se devo morire, muoio a casa mia”. Viene destinato a Livorno, oggetto di continui bombardamenti che hanno portato la Kommandantur a classificarla come “zona nera” e di conseguenza a evacuarla completamente. Lungo tutto il litorale cittadino, dall’Accademia fino ad Antignano, i tedeschi stanno costruendo bunker; dal santuario di Montenero ove si trova alloggiato Giuntoni deve quotidianamente recarsi con il suo Om Taurus al fosso di Collinaia, a caricarvi la ghiaia da trasportare al cantiere posto presso l’Accademia.

Il 19 maggio, nel mentre sta effettuando il carico suona l’allarme aereo; immediatamente il nostro si porta il più possibile a ridosso del mare, cuscinetto ideale per ammortizzare l’effetto distruttivo delle bombe. Nella limpidezza di quel mattino egli può così vedere avvicinarsi la squadriglia attaccante, composta da una trentina di quadrimotori americani, volando talmente bassi da potersi distinguere il movimento delle eliche e finanche i piloti. Spettacolare nella sua drammaticità risulta inoltre lo stesso lancio delle bombe: le quali, per l’effetto impresso loro dalla velocità degli aerei, non vengono giù perpendicolarmente bensì in tralice, potendo così indurre un profano a pensare a chissà quale diavoleria telecomandata di ultima invenzione statunitense.

Senonché, qualche istante più tardi, un immane fragore squassa la città; riguadagnata la quale al termine del bombardamento, Mario viene fermato dalla Feldgendarmerie, che con grande concitazione gli ordina di recarsi alla stazione ferroviaria. Qui lo scenario che si presenta ai suoi occhi è apocalittico: evidentemente allertate dai servizi d’informazione, con quell’incursione le “fortezze volanti” hanno inteso annientare due tradotte germaniche cariche di soldati della Divisione Göring, dirette a Cassino e momentaneamente ferme per qualche inconveniente lungo la linea. L’intera area della stazione appare disseminata di corpi maciullati e bruciati dalle successive bombe incendiarie; e come non bastasse, nel mentre tutto va a fuoco dalle sconquassate fognature si sprigiona un fetore insopportabile. Dai pochi militari sopravvissuti gli viene fatto cenno di accostare da una parte: ciò allo scopo di caricare quei poveri corpi, uno dopo l’altro, proprio come tanti sacchi di cemento. A un certo momento però suona nuovamente l’allarme: nel generale fuggi fuggi Giuntoni si dirige istintivamente verso Montenero; ove però il camion giunge vuoto, avendo seminato tutto il suo funereo carico lungo il percorso, causa il dissesto della strada e la frettolosa chiusura delle sponde.

Sconvolto da tutto ciò, in quel preciso momento Mario decide di mollare tutto e tornarsene a Gragnola, nella speranza di ritrovarvi un minimo di tranquillità; non avendo tuttavia fatto i conti con l’esplosione del fenomeno delle bande partigiane, in Val di Lucido addirittura concretizzatosi – nel crollo delle strutture della Rsi e con i tedeschi ancora latitanti al di qua delle Apuane – con l’instaurazione di una sorta di “repubblica partigiana”, non proclamata ufficialmente come quelle del Nord ma in cui comunque a fare il bello e il cattivo tempo sono i “ribelli” raccolti nella Brigata Rinaldo, aderente a Giustizia e Libertà e capeggiata da Maggiorino Folegnani. Quasi alla stregua di un signore medievale, onde scongiurare la sorpresa di incursioni nazifasciste Folegnani ha posto a presidio della “Valle dell’Aquila” tutta una serie di posti di blocco e punti di avvistamento.

Nei confronti di questi coetanei che pur di non piegarsi ai diktat degli occupanti hanno scelto la macchia Giuntoni prova inizialmente un misto di scetticismo, diffidenza e simpatia. Quest’ultimo sentimento gli deriva in particolare dal modo in cui i tedeschi sono apparsi ai suoi occhi di piccolo altoatesino: i prepotenti usurpatori dell’Anschluss; i protervi assassini del cancelliere austriaco Dollfuss, l’amico dell’Italia; gli arroganti millantatori di una presunta superiorità razziale, che li portava a nutrire disprezzo verso gli stessi sudtirolesi; i pedanti portatori di una mentalità talmente ligia e quadrata da apparire spesso stolida. Finché, maturando tali riflessioni, il nostro non decide di passare il Rubicone iniziando a collaborare – sia pure dall’esterno – con la banda Folegnani, i cui componenti sono soliti frequentare l’osteria gestita da Emilio Bonfigli.

A fare da galeotta è una Balilla che un rigattiere gragnolino con bottega a Carrara ha pensato bene di imboscare in un fienile del paese onde sottrarla alle requisizioni germaniche: cadendo però dalla padella nella brace, essendosene ben presto impossessati i partigiani. Non essendo tuttavia nessuno del gruppo in grado di guidarla, Maggiorino precetta a tale scopo proprio Mario, che diviene così l’autista della vettura per le varie necessità della banda, a cominciare dai prelievi di farina per i mulini.

Finché, il 2 luglio, il destino non vuole che ad imboccare quella sorta di canyon che dal fondovalle sale a Vinca sia una batteria di alpini tedeschi, composta da un’ottantina di uomini. Non si tratta di una truppa ordinaria bensì di un reparto specializzato di cui fanno parte genieri, cartografi, ingegneri: i quali, provenendo dal versante garfagnino, stanno marciando verso la Sella di Pianza, evidentemente allo scopo di approntare la migliore fortificazione possibile della cresta del Sagro. Armati fino ai denti, equipaggiati con artiglieria da montagna e con l’ausilio di muli, essi hanno involontariamente eluso tutti quanti i controlli predisposti dal Folegnani giungendo non da valle bensì – dopo aver attraversato le montagne – da Equi: ove hanno fatto tappa, entrando senza tanti convenevoli nelle case e in canonica in cerca di cibo, familiarizzando con la gente e infine buttandosi a dormire su ogni letto, poltrona, giaciglio reperibile. A mezzogiorno hanno ripreso la marcia, tra la desolazione di quelle rocce appuntite; finché, giunti all’altezza di Monzone, dall’avamposto di Monte San Giorgio parte una raffica di mitra: ligi alle consegne – e incuranti delle conseguenze di un gesto del genere sulla popolazione – gli uomini lì piazzati dal comandante partigiano hanno inteso dare in tal modo il benvenuto alla truppa in transito.

La cui reazione è immediata: posta una prima mitragliatrice sulla strada, i soldati iniziano a sparare raffiche intimidatorie contro la costa del colle monzonese; mentre in paese, tra la sorpresa generale amplificata dalla giornata domenicale, chi ha maggiormente da temere corre a nascondersi nei rifugi approntati qua e là. Rifacendosi dalla parte bassa del villaggio, alcuni militari bussano a ogni casa per chiedere alla gente i documenti; il grosso della truppa punta invece sul borgo vecchio, a piazzarvi mitragliatrici dappertutto fin sul campanile, onde tenere sotto tiro l’antistante montagna da cui continuano peraltro a partire raffiche di Sten. Le quali tuttavia ben poco possono data la distanza, se non aggravare la posizione del paese agli occhi dei sopravvenuti; finché le sentinelle della Rinaldo non si danno alla fuga: nel corso della quale il cecchino appostato sul campanile ferisce mortalmente un partigiano slavo. Anche i tedeschi comunque lamenteranno un morto; ma colpito per errore da un commilitone, nell’angustia degli spazi concessi dalle viuzze del borgo. Dopodiché si passa al setaccio l’abitato; rinvenutevi armi, viene data alle fiamme una casa: che è poi la santabarbara partigiana, provocando così l’esplosione delle munizioni depositatevi.

Una volta riorganizzate le idee, Maggiorino decide di non tirarsi indietro: a differenza delle brigate comuniste (la cui tattica è quella vile dell’imboscata a sangue freddo onde provocare ritorsioni e quindi fomentare l’odio fra occupanti e popolazione, in una prospettiva sommariamente rivoluzionaria), quelle che si richiamano al Partito d’Azione – spesso comandate da ex militari – non escludono a priori l’eventualità dello scontro diretto. Prima di radunare tutti i suoi uomini e dare battaglia, tuttavia, il capo partigiano intende offrire al nemico la possibilità di un accordo; gli serve però qualcuno che parli il tedesco, da inviare come ambasciatore. Rintracciatolo da Bonfigli, Folegnani incarica della missione lo stesso Giuntoni, consegnandogli una lettera in cui ingiunge ai tedeschi di arrendersi immediatamente, garantendo al contempo che consentirà loro la ritirata una volta che gli siano state consegnate tutte le armi.

L’arrivo del messaggero partigiano finisce con il complicare ulteriormente la vita ai monzonesi. Non potendo escludere un attacco da parte degli imprevedibili banditen, infatti, i soldati pensano a cautelarsi prendendo in ostaggio decine di uomini per segregarli in una casa posta a ridosso della chiesa, pur consentendo alle donne di portar loro da mangiare. Con Mario che il giorno dopo chiede alla sentinella di poter conferire con il comandante: perfettamente calato nel proprio ruolo, il giovane si appella alla Convenzione di Ginevra, in cui è richiamato il tradizionale principio dell’immunità diplomatica. “Nel suo caso non si può applicare, dal momento che lei è rappresentante di un governo irregolare”, l’altrettanto giuridica risposta che riceve, e in cui il riferimento è ovviamente alla parte d’Italia soggetta al re e in guerra contro la Germania. Pure quest’altra giornata verrà così trascorsa dal nostro in gattabuia; per quanto sotto sotto i militari lo abbiano preso in simpatia: oltre alla conoscenza perfetta della loro lingua, alto, prestante, biondo, gli occhi azzurri questo ragazzo sembra veramente un tedesco. Magari qualche soldato appassionato di storia potrà pensare che alligni nelle sue vene un gene delle antiche stirpi germaniche di Cimbri e Teutoni, dai Romani impiegati nelle cave apuane per la loro tempra d’acciaio.

Sinché, ancor prima dell’alba del 4, il comandante non dispone la partenza del contingente; oltre a sfruttare il favore delle tenebre, ci si premura di fasciare gli zoccoli ai muli per non fare rumore, onde evitare di attirare nuove imboscate partigiane, in quell’orrida gola che ci si appresta a risalire portandosi appresso proprio Mario. Giunti alla Bella, ci si inerpica per il Balzone, sino a scavalcare la cresta apuana per poi discendere su Campocecina: ove il prigioniero viene finalmente rilasciato dagli illuminati soldati, e pure in maniera cordiale vista anche l’assenza di ulteriori molestie partigiane. Le donne nel frattempo danno la voce ai familiari che hanno trascorso le due notti all’addiaccio; ma è tutto il paese a tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, vista anche la vittima registratasi tra le file germaniche.

La fortuna di Monzone è probabilmente stata quella di aver avuto a che fare con un drappello “intellettuale”: i cui ufficiali non solo non dovevano essere di fede nazista, ma neppure troppo militari. In ogni caso, a seguito di quell’episodio la vita del paese non sarà più la stessa: per gli operai ingaggiati nelle varie strutture afferenti la fortificazione della Gotica il lavoro scemerà, molte famiglie finiranno sul lastrico e gli uomini in età lavorativa si vedranno costretti a riconvertirsi come carbonai, per poi andare a vendere il combustibile a Carrara. Con sullo sfondo l’incubo di un ritorno dei tedeschi: e quindi il panico generale alla prima avvisaglia che lo possa annunciare.

Dal canto suo Folegnani nel frangente non ha preso alcuna iniziativa: né per disturbare i nemici, né per verificare che fine abbia fatto il proprio emissario. È così solo alla notizia della dipartita teutonica che in paese ricompaiono i partigiani: per passarlo al setaccio nella speranza che i soldati vi abbiano lasciato qualche arma, vista anche la fine fatta dal loro deposito. Mentre Giuntoni, pur non entrando a far parte formalmente della Rinaldo, dopo questa esperienza verrà dai suoi uomini considerato come uno di loro: i galloni partigiani se li è del resto guadagnati sul campo.

La linea delle brigate “azzurre” è quella di compiere attentati contro ponti, tralicci, strutture in modo da creare problemi agli occupanti ma guardandosi bene dal colpire i soldati, onde evitare rappresaglie sulla popolazione. Moltiplicandosi tali punture di spillo da parte degli uomini di Maggiorino, tuttavia, l’influente podestà di Fivizzano – il commendator Zavelani Rossi – pensa di ovviare all’insostenibile situazione determinatasi rivolgendosi alla Decima Mas, la terribile “flottiglia” della Regia Marina parte della quale è stata sorpresa dall’armistizio dell’8 settembre mentre si trovava all’ancora  alla Spezia e che, lungi dallo sbandarsi, è stata prontamente riconvertita dal suo comandante principe Borghese in corpo di repressione antipartigiana. A distinguersi in tal senso è soprattutto la famigerata Compagnia operativa capeggiata dal tenente Bertozzi, responsabile assieme ai tedeschi della strage massese di Forno del 13 giugno e in seguito avventatasi sulla Lunigiana, giustiziandovi diversi giovani spezzini imboscatisi fra queste montagne per sottrarsi alla leva ma anche partigiani locali: tra i quali Rinaldo Tronconi, di Piandimolino, fucilato dai “marò” dopo avergli inferto orribili sevizie ed il cui nome Folegnani ha voluto sopravvivesse in quello della sua formazione.

Il giorno della resa dei conti con la Val di Lucido giunge il 9 luglio, allorché alle prime luci dell’alba a bordo di un Lancia 3Ro la quarantina di uomini agli ordini del Bertozzi giunge al posto di blocco di Gragnola, piazzato all’imbocco del ponte sull’Aulella. Invano le sentinelle, svegliate dal rumore del camion mentre pernottano sotto al ponte, tentano di opporre resistenza: in netta inferiorità numerica e colte per giunta così di sorpresa, soccombono in poche battute; ad avere la peggio è in particolare un partigiano spezzino, Pietro Ribosio. In breve il borgo si ritrova circondato  dai militi, i quali giungono anch’essi a piazzare una mitragliatrice sul campanile, a tenere tutti sotto tiro. Particolarmente bersagliata via Nuova: la gente viene terrorizzata sparando sulle finestre nonché sugli isolanti dei cavi elettrici; ad andarci di mezzo è persino una vacca, stecchita lì sulla strada.

Essendo la casa avita insufficiente per le dimensioni della famiglia, Mario ha preso l’abitudine di andare a dormire assieme a un fratello da una zia, residente in fondo al borgo sopra la macelleria. È qui che i due ragazzi vengono svegliati di soprassalto da dei botti secchi e insistiti, che possono far pensare a degli spari: “Sarà il macellaio che prepara la carne per oggi”, dice allora il nostro anche per tranquillizzare il congiunto; essendo domenica, alle macellerie corre infatti l’obbligo di consegnare a ciascun cittadino in possesso della tessera annonaria l’etto di carne settimanale concesso dalle dure restrizioni di guerra. Senonché di lì a poco una nuova raffica toglie ogni dubbio circa la natura di quei rumori; ormai però è tardi per scappare, essendo il paese stato occupato dai soldati, con il capillare rastrellamento già in atto.

Effettuato casa per casa, esso porta alla cattura di 400 uomini – compreso il parroco – tutti ammassati nel magazzino della piazza della stazione. Fra questi un componente della Rinaldo, rimasto gravemente ferito nella sparatoria avvenuta al ponte e che ha invano cercato rifugio in paese tentando di mescolarsi ai civili: si tratta di Alessandro Bonatti, carrarino di Miseglia. Nel rude interrogatorio cui lo sottopone, Bertozzi gli ingiunge di indicargli quanti fra gli altri rastrellati siano partigiani: ottenendo quale risposta uno sputo in faccia. Al che il maramaldo afferra l’eroico giovane per il collo, gettandolo a terra e ordinando ai suoi di formare seduta stante il plotone d’esecuzione, lì stesso; interviene allora il sacerdote, chiedendo di poter confessare il condannato. Dopodiché l’ufficiale dà vita a una crudele messinscena, dicendo al Bonatti che può andarsene; ma non appena costui – nel lancinante dolore per lo squarcio che ha sul fianco, scoprendone insino le viscere – prende a salire la scalinata della stazione, lo fa mitragliare. Si è difatti trattato solo di un sadico espediente per mettere in atto la fucilazione alla schiena, come previsto dal bando di leva per quanti esso considera come dei traditori. Infine la canaglia si avvicina al moribondo a sparargli il colpo di grazia alla testa.

Per poi riprendere gli interrogatori, concentrandosi in particolare su tre dei rastrellati, apparentemente più compromessi coi partigiani e perciò sottoposti per una mezzora ad un violento pestaggio, data la loro ostinazione a non rispondere a domande che ne danno per certo il ruolo di fiancheggiatori dei ribelli. Uno dei malcapitati è il Bonfigli, nella cui bottega i marò hanno rinvenuto un giubbotto dalla sospetta appartenenza partigiana. Già profondamente segnato nel fisico a causa di un incidente occorsogli nella sua precedente attività di cavatore, “Miglietto” risentirà di tale ulteriore dose di sevizie sino a morire prematuramente.

Senonché a un certo momento la terribile inquisizione decimina è costretta a interrompersi: dall’antistante Colle i soldati sentono infatti fischiare sopra le loro teste sventagliate di mitraglia, che vanno a impattare contro le case facendo pure risuonare le campane, nel tentativo di colpire la mitragliatrice nemica lì asserragliata. Mossi sia dalla eco degli spari che dalle notizie recate dalle staffette, da Campiglione, Vezzanello, Colla stanno inoltre rapidamente convergendo su Gragnola diversi gruppi partigiani, sfruttando quei veloci sentieri che per secoli hanno servito Castel dell’Aquila e anche a dispetto di un acquazzone che si sta abbattendo sulla zona.

Rispetto allo scontro avvenuto all’alba i rapporti di forza si invertono: nel senso che in inferiorità numerica e nella posizione peggiore rischiano adesso di ritrovarsi i marò; donde l’ordine del Bertozzi di andar via. Decisione destinata a rivelarsi quantomai provvidenziale: perché in previsione della ritirata dei nemici i partigiani non si sono concentrati tutti su Gragnola ma si sono portati anche verso Gassano, onde incrociarli sulla strada del loro ritorno, gettandosi a rotta di collo lungo l’antico sentiero malaspiniano che attraversa l’Aulella. Cosicché non appena iniziata la salita di Santa Chiara dal fuggitivo camion si ode una raffica di mitra proveniente dai campi sottostanti. Il fato ha tuttavia voluto che gli attaccanti non riuscissero a giungere a ridosso della strada a tempo per mettere in atto l’agguato: dal quale difficilmente sarebbe uscito vivo qualcuno dei passeggeri dell’autocarro. Una volta tirato il fiato per lo scampato pericolo, i militi prendono ad intonare l’inno della Decima.

Ma a bordo non sono soltanto loro: replicando quanto già attuato in occasione del massacro di Forno, infatti, Bertozzi si è premurato di portarsi dietro alcuni dei rastrellati: i tre seviziati più altri quattro, fatti oggetto di circostanziate accuse che, se da una parte lasciano intuire di come egli si sia mosso a seguito di precise delazioni, dall’altra non lasciano presagire nulla di buono circa la loro sorte, essendo essi tacciati di complicità coi ribelli. Uno degli arrestati è proprio Mario: al quale il tenente ha mostrato una fotografia che lo ritrae alla guida della Balilla partigiana. A nulla sono valse le giustificazioni addotte dal nostro di essere stato costretto con la forza a prestarsi a quel servizio: caricato sull’autocarro, è stato anch’egli portato via. Con la destinazione del viaggio che non potrebbe essere più funesta: il cimitero della Verrucola. Qui un partigiano catturato da qualche altra parte si sta giusto scavando la fossa: “dopo di lui tocca a me”, pensa allora Giuntoni, ben sapendo di essere di gran lunga il più compromesso dei prigionieri per via di quella foto.

Senonché, nel mentre ha luogo la fucilazione del poveretto, egli vede sopraggiungere una Volkswagen anfibia: che è poi la celebre Schwimmwagen, tipico prodotto dell’ingegno militare germanico. A scenderne è un capitano tedesco: il quale si avvicina ai marò per sapere il motivo della loro presenza in quel luogo, non essendo riuscito a comprenderlo dall’auto essendogli la vista impedita dal muro di cinta. Dal fondo del tunnel della sua disperazione il giovane vede accendersi improvvisamente una luce; non avendo niente da perdere, chiede di poter conferire con l’ufficiale. “Ma sei tedesco?!”, la stupita reazione di quest’ultimo, anch’egli tratto in inganno dalle familiari sembianze dell’aitante teutone di Gragnola. Il quale può così esporre al bendisposto militare la propria versione dei fatti, sostenendo trattarsi di un equivoco in cui sono incorsi gli uomini della Decima. Il capitano chiama allora Bertozzi, chiedendogli spiegazioni; con Mario che diviene così paradossalmente l’interprete per nulla disinteressato di quel colloquio, non conoscendo nessuno dei due interlocutori la lingua dell’altro.

La discussione è tutt’altro che amichevole: prestando credito alle parole del ragazzo, il tedesco contesta infatti pesantemente le motivazioni addotte dallo spietato tenente per giustificare la fucilazione; ingiungendogli peraltro che da questo momento costui va considerato come un prigioniero non già della Decima, bensì della stessa Wehrmacht. Viene da pensare che, preso in simpatia l’uno, in antipatia l’altro, l’umano comandante vorrebbe fare anche di più; ma che non possa tuttavia spingersi oltre, per non guastare i rapporti con i camerati italiani. A nulla valgono comunque le rimostranze del Bertozzi: “Ruhig!”, gli ordina alla fine il superiore, mettendolo sull’attenti e imponendogli il silenzio. Il che non impedirà al nostro di farsi oltre sette mesi di detenzione; ma evitando alfine la deportazione in Germania, e a seguito di vicissitudini che non avrebbero potuto essere più rocambolesche; come lo è stata del resto questa stessa giornata del 9 luglio, nel corso della quale egli è sfuggito miracolosamente alla morte non una ma due volte, considerando anche il fallimento dell’attacco partigiano al camion decimino per una manciata di secondi.

Assieme agli altri prigionieri Mario viene tradotto al carcere spezzino di Migliarina; ma a differenza dei compagni sottoposto al comando tedesco della Brigata Almers. Le condizioni di vita sono ovviamente delle peggiori: dall’angustia della cella (dodici persone invece delle dieci previste in una stanza di una ventina di metri quadri, causa il sovraffollamento dovuto ai continui rastrellamenti), alla scomodità della branda (con sul pagliericcio la sola coperta), alla forzata convivenza coi pidocchi, alla miseria del rancio. A mezzogiorno, da un’enorme marmitta – supportata da un carrello che le consente di compiere il giro del ballatoio – viene versato nella gamella di ciascun detenuto il brodo, accompagnato da riso o minestrone; venendo utilizzata per la cottura acqua di mare, il pasto risulta sempre salatissimo: ancor più la sera, allorché si consuma, fredda, la porzione che ci si è lasciati dal giorno. Capillare risulta poi il controllo delle celle, dalle guardie effettuato in coppia: l’una alla porta, pronta a serrarla in caso di sommossa; l’altra a battere con un ferro le grate della finestra – ovviamente priva di vetri – a controllarne il suono, tante volte se ne fosse iniziata a segare una. Quantomai attesa l’ora d’aria, che vede mescolarsi prigionieri comuni e politici; ma l’aspetto più umiliante della detenzione è sicuramente rappresentato dall’assenza di servizi igienici: in ciascuna cella non è altro che un semplice paravento di legno, posto in un angolo a coprire il bugliolo che viene vuotato una sola volta al giorno.

Anche nel corso di questa drammatica esperienza, tuttavia, la buona stella non smetterà mai di assistere il giovane gragnolino, evitandogli se non altro in diverse occasioni il peggio. Rappresentando i detenuti per i tedeschi anche un serbatoio di ostaggi cui attingere in occasione delle rappresaglie, può capitare che dalle celle vengano effettuati dei prelevamenti; ma attuati in maniera talmente naturale da far pensare alla necessità per gli occupanti di manodopera: ad esempio per andare a fare scorta di acqua marina con le damigiane; oppure per spalare le macerie, in occasione dei frequenti bombardamenti sulla città. Uscite dai prigionieri ambite, offrendo esse la possibilità di fuggire, o perlomeno di tentare di farlo; questo allorché molti di essi, all’udire l’inconfondibile rombo dei bombardieri che si avvicinano, giungono a sperare che una volta o l’altra venga colpito lo stesso carcere, a costo di lasciarci la pelle ma avendo almeno una possibilità di evasione.

Il giorno che alla Spezia vengono assassinati due ufficiali tedeschi – per mano di altrettanti ausiliari russi: ma questo lo si scoprirà solamente in seguito – anche Mario non esita a farsi avanti per essere inserito nel gruppo di coloro che saranno portati fuori. Tuttavia il militare incaricato della selezione gli vuole bene, non prendendolo in considerazione: tutti i venti carcerati prelevati finiranno infatti fucilati, in ossequio alla inderogabile disposizione hitleriana del dieci a uno. Da notare, peraltro, che questa rimarrà l’unica volta in cui al fortunato e talentoso giovane non è toccato di essere scelto per qualcosa.

Per avviare i prigionieri ai campi di lavoro i tedeschi sogliono attendere il completamento di un contingente tale da riempire un intero treno, in modo da inviare in Germania un migliaio di operai con un unico viaggio. Una mattina di gennaio del ‘45, che ci sia appena stato un grosso rastrellamento lo si comprende dal fatto che la tradotta che di là dalla strada, alla stazione di Migliarina, attende la colonna di detenuti da inviare nel Reich, comprendente lo stesso Giuntoni, trabocca dalla quantità di uomini stipati dentro a quei vagoni merci piombati, con portiere e finestrini sigillati alla stregua dei convogli destinati alla deportazione degli ebrei. Finalmente il treno si mette in marcia; ma per fermarsi in continuazione, dato il caos regnante lungo la ferrovia in quei giorni di intensi bombardamenti. Mario ne approfitta per dormire; ma al risveglio, convinto che si sia ormai giunti in prossimità del Brennero, la tradotta si blocca nuovamente, le portiere si spalancano con l’ordine di scendere tutti, sotto le canne dei mitra. Egli si rende allora conto di trovarsi a Pontremoli: essendo saltato un ponte lungo la linea della Cisa non è infatti possibile proseguire il viaggio.

I prigionieri vengono quindi alloggiati nell’ex collegio Montessori, dai tedeschi riconvertito in carcere; qui essi trascorreranno un altro mese e mezzo, non potendo mettere neppure il naso fuori dalle finestre avendo le guardie l’ordine di sparare a vista. Una volta riapprontato il viadotto, si può finalmente ripartire alla volta del campo di concentramento modenese di Fossoli, punto di passaggio obbligato per i contingenti da deportare in Germania. Nuovamente pieno come un uovo, il treno riprende la via del Brennero il 23 febbraio; per essere tuttavia costretto a fermarsi a Verona, al pari di numerosi altri convogli sia civili che militari, causa il violento bombardamento in corso sulla città. La tradotta dei deportati viene isolata su un binario morto, in modo che le sentinelle ne possano tener d’occhio ogni uscita; ma allorché il mitragliamento alleato prende a concentrarsi sulla stazione, ogni controllo salta, e ci si ritrova tutti sdraiati a terra.

Nel drammatico caos che si determina, il predestinato Mario finisce così fianco a fianco con un alpino della Divisione Monterosa: “Dove andate? – Sulla Linea Gotica – Vengo con voi! – Però ti devi nascondere: perché se ti trova uno degli ufficiali ti denuncia”. La solidarietà giovanile ha successo, e così il nostro si ritrova ad Aulla proprio nel momento in cui la colonna serale dei mezzi della sussistenza si sta mettendo in marcia alla volta del fronte. A dargli il passaggio è giusto il camion proveniente dal forno: dopo tanti stenti, al ragazzo non pare il vero di potersi scaldare e rifocillare con quelle pagnotte appena sfornate. Giunto a Gragnola a mezzanotte, trova la casa di piazza Gioco vuota; per apprendere da un’incredula vicina che i suoi sono sfollati a Tenerano, e che da tutti egli era ormai dato per morto. A quel punto non gli resta che aggregarsi al gruppo partigiano che ha il campo alle Capanne del Cardeto, sopra la Rocca di Tenerano: il Battaglione Falco, nel quale già militano cugini e paesani; ma soprattutto, il redivivo gragnolino dalle mille peripezie vi viene accolto come un eroe.

Il Falco è uno dei tre battaglioni in cui si articola la Brigata Lunense, appartenente alla Divisione Apuana che fa capo a Giustizia e Libertà ed il cui stato maggiore, insediato alle Cave Walton di Campocecina, è composto interamente da carraresi. Giuntovi lacero e frusto peggio di un mendicante, Mario vi viene rivestito da capo a piedi all’americana: scarpe dalle silenziose suole di para, pantaloni della divisa statunitense, cardigan, giacca a vento imbottita di pelliccia con due tasche laterali in cui riporre ciascuna delle “razioni K” quotidianamente fornite dagli aviolanci.

Data la sua collocazione politica moderata e anticomunista la Apuana può infatti godere degli abbondanti rifornimenti alleati, puntuali a cadere nella conca che si apre tra le Cave del Sagro e i Pozzi, ideale perché non vada perduto un solo paracadute. Ai partigiani “azzurri” i lanci recano anzitutto i moschetti Rifle, moderno ritrovato dell’industria bellica statunitense; altrettanto tipico prodotto del pragmatismo americano risulta la sobria eppure gratificante razione K, frutto di uno studio finalizzato a conciliare le necessità alimentari dei soldati con le difficoltà legate all’impegno in azioni di combattimento. Ma neppure il sonno al Cardeto risulta dei peggiori: dalla stessa seta dei paracadute i nostri ricavano infatti, oltre ai fazzoletti da annodare al collo a distinguersi dai “rossi” garibaldini, enormi quanto morbidi materassi.

Quello che si respira in questa parte di Lunigiana è ormai un clima di fine guerra, con i residui soldati di guardia alle poche strutture ancora attive nel fondovalle in piena smobilitazione. Spesso a passeggio per Monzone Basso ad onorare anch’essi il rito dello “struscio” giovanile, si capisce che non stanno aspettando altro che il conflitto abbia termine. Dall’altra parte le direttive del comando della Apuana sono chiare: limitarsi ai sabotaggi materiali, non infierire sugli sconfitti, disarmarli ma senza farli prigionieri (non sapendo peraltro neanche dove metterli).

In una brumosa mattinata di fine inverno, un gruppo di partigiani del Cardeto sta scendendo verso Tenerano; nel passare da Caterchia dentro a un banco di nebbia si odono delle voci: “Altolà! Chi siete?”. “Gli altri son tutti su – si dicono allora i nostri – per cui questi qua non possono essere che della Monterosa”: immediatamente scaricano allora i mitragliatori in direzione di quelle voci. La reazione fa il suo effetto: allorché la nebbia si dissolve, assieme ad essa risultano eclissati pure gli alpini.

Alla Fornace di Monzone, in un punto ritenuto meno esposto alle incursioni aeree dei micidiali “Pippo” che da mesi martoriano queste vallate, gli occupanti hanno collocato un panificio ambulante, composto di tre camion: due dei quali, contenenti le attrezzature necessarie alla panificazione; con il terzo a fare da navetta sia per il rifornimento della farina che per il trasporto notturno del pane per i soldati al fronte, dalla strada dei Carpinelli. A presidiare la struttura sono stati piazzati una trentina di militari, sia della Monterosa che germanici, distratti nel pur cruciale momento bellico dagli avamposti della Gotica al fine di garantire l’approvvigionamento alle truppe.

Un giorno dalla montagna vengono giù una ventina di uomini del Falco, parte passando da Isolano parte dal Ponte di Sbertoli, in modo da mettere nel mezzo i nemici; armati fino ai denti, hanno pure la possibilità di tenersi in contatto tramite i walkie-talkie. Scrutando le proprie prede dall’alto con i potenti binocoli americani, inoltre, hanno potuto rendersi conto del loro atteggiamento tutt’altro che marziale: diversi soldati stanno passeggiando sulla strada in direzione del paese; con un tedesco che immerso nelle acque del Lucido è intento a sparare alle trote con il moschetto. In un attimo il presidio è circondato; ma mentre i due autisti germanici comprendono immediatamente trattarsi di un blitz dei banditen, dato il carattere del tutto incruento dell’azione qualcuno degli alpini pensa ad uno scherzo.

Al punto che un bergamasco approccia così Giuntoni che lo ha appena disarmato: “Dai, tu sei della Monterosa… su ridammi il fucile, non prendermi in giro…”. Per sentirsi tuttavia ribattere: “Secondo te la Monterosa dispone di queste scarpe qua? E di queste bombe?”, vedendosi al contempo mostrare dal nostro le “pigne” americane, assai più devastanti rispetto alle povere “balilla” nostrane: sorta di bombe carta buone soltanto a fare un bel botto. Il solido argomento esibito risulta convincente: l’intera truppa si arrende senza opporre resistenza, per poi essere immediatamente lasciata libera; con gli alpini che a quel punto si sbanderanno. Mentre gli autocarri vengono portati fino alla Capanna della Bella, per essere smantellati; solamente per il trasporto si trattengono i due autisti tedeschi, affidandosi il terzo camion allo stesso Mario. Come ritorsione per questa scorribanda partigiana, dalla Kommandantur di Monzone si prenderà allora a sparare con un mortaio verso i Campi del Cardeto; fino al giorno in cui un mortaista polacco passato con il Falco non centrerà a sua volta in pieno – e al primo colpo – il tetto della caserma, inducendo così i nemici a più miti consigli.

Con la liberazione, ad opera del Battaglione Nisei composto interamente da nippoamericani, il 10 aprile di Massa, il giorno successivo di Carrara, la situazione per i tedeschi precipita: al punto che il 19 la Gotica appare ormai prossima al cedimento, sotto i colpi degli americani giunti alle porte di Bologna e con i reparti avanzati già in marcia verso il Po. La guerra conosce così i suoi frangenti conclusivi, destinati a rivelarsi per i soldati germanici come i più tragici: nell’ultima settimana ne moriranno infatti più che nell’anno trascorso dalla Wehrmacht sulla Gotica. La disperata resistenza teutonica fa delle alture della Lunigiana sud-occidentale l’ultimo teatro italiano del conflitto; con gli Alleati che, bombardando dalla Versilia, assestano a questa già martirizzata terra il colpo di grazia, portandovi ulteriore morte e distruzione.

Quale estremo baluardo difensivo il comando tedesco sceglie la montagna posta tra Fosdinovo e Castelpoggio, concentrando in particolare a Forte Bastione diversi cannoni. Trasportatovi mediante l’ausilio di due vacche, ne viene piazzato un altro a Fosdinovo: con il quale si spara in tutte le direzioni, dando così agli americani l’impressione che tale postazione possa disporre di chissà quante batterie. In questi giorni del resto la convulsione finale determinata dall’improvviso crollo del fronte induce ad abbagli di vario genere: sino a episodi di “fuoco amico”. Come la notte in cui, alle Cave del Sagro, dopo che i partigiani hanno acceso i fuochi in modo da formare la convenzionale W deputata a segnalare ai piloti alleati il punto di riferimento per i lanci, Zefiro interviene a smorzarli; con la squadriglia che a quel punto, pensando ad una trappola ordita dai tedeschi, al posto degli attesi pacchi fa sganciare dai caccia di scorta bombe.

Di un altro curioso equivoco si rende protagonista lo stesso Giuntoni: il quale, vedendo svolazzare a bassa quota sopra la zona presidiata dal suo battaglione un apparecchio che gli appare identico alla famosa “cicogna” con cui a Campo Imperatore era stato prelevato Mussolini (operazione dai tedeschi filmata per essere ampiamente pubblicizzata in Italia mediante i cinegiornali), sicuro trattarsi di un ricognitore della Luftwaffe imbraccia il Rifle prendendo a mitragliare il velivolo e giungendo a sfiorarne le ali, grazie sia alla distanza ravvicinata che alla correzione del tiro consentita dai proiettili “traccianti” di cui dispone il moderno moschetto. Per sottrarsi ai colpi, il pilota si vede allora costretto a gettarsi in picchiata verso Carrara; senonché, non più di una mezzora più tardi l’intenso cannoneggiamento cui viene sottoposta la zona fa capire all’incauto partigiano di essere andato a molestare un ricognitore della Quinta Armata.

Dopo la liberazione di Carrara, tutta la Lunense si è spostata verso la zona presidiata dai tedeschi, in attesa del congiungimento con l’avanguardia alleata; in particolare gli uomini del Falco si sono appostati su Monte Pizzacuto, assumendone gli ovili quale bivacco notturno e piazzando due mitragliatrici a controllare il rettifilo del cimitero di Gragnana. Nonostante il continuo contatto tra Alleati e comandanti partigiani garantito dalle ricetrasmittenti e l’ulteriore riferimento costituito per entrambi dai ricognitori americani, i nostri prendono un altro abbaglio, mitragliando il reparto avanzato del Nisei nel mentre da Gragnana avanza verso Castelpoggio, avendolo scambiato per un contingente germanico in ritirata: incidente destinato a procrastinare l’assalto finale. Oltre ad un equivoco non privo di comicità: con gli impazienti partigiani che domandano agli interlocutori cosa aspettino a venir su; e questi che prendono tempo valutando quella zona ancora troppo pericolosa, infestata com’è di nemici.

Il malinteso fa dunque slittare di qualche giorno lo scontro conclusivo: che resterà poi anche l’unico ad avere visto i due schieramenti venire a diretto contatto. In occasione della battaglia del Pizzacuto, la sproporzione tra le forze in campo non potrebbe essere maggiore: da una parte si contano forse 150 tedeschi, denutriti, infreddoliti, con il morale a terra e privi di qualsivoglia supporto logistico da parte del loro comando; dall’altra, fra i tre battaglioni apuani e l’infinita moltitudine di nippoamericani – sguinzagliati in caccia della preda proprio come tanti samurai – si sommano almeno un migliaio di elementi. A determinare l’entità dello squilibrio è sicuramente anche il fatto che ai residui battaglioni germanici presenti nella Bassa Aulella sono mancati sia il tempo che la possibilità per congiungersi all’avanguardia del Pizzacuto, annichiliti come sono stati dalla tempesta di fuoco che dalla costa l’artiglieria statunitense ha riversato per tutta la giornata del 20, avendo quale principale obiettivo tutta la brulla montagna sopra Castelpoggio.

Qui una capanna, posta sottostrada all’altezza della curva a gomito che precede la Maestà, è stata scelta dai tedeschi quale avamposto, data la visuale che essa consente sulla piana del Magra. Di lì, l’inferno scatenatosi sulle loro teste li ha costretti a riparare nel bosco soprastante, peraltro l’unico di tutta la zona: la pineta del Pizzacuto, estesa sin sul versante della vallata che dà su Marciaso. Si tratta – ironia della sorte – del frutto di un’iniziativa propagandistica del regime fascista: la Festa degli alberi, volta ad incrementare il patrimonio forestale nazionale legando al contempo la gioventù al territorio mediante l’innesto di una pianta per ogni nuovo giovane fascista.

Esauritosi l’esiziale bombardamento, al mattino successivo può avere luogo l’incontro fra i partigiani – nel frattempo riparati nelle cave di Campocecina – e i risalenti giapponesi: il quale assume le sembianze di una festa, con i secondi a distribuire ai primi razioni K a volontà. Apparendo la montagna deserta, se ne deduce che il prolungato cannoneggiamento sia bastato da solo a dissolvere pure l’ultima resistenza germanica; i nemici probabilmente tutti morti, con al massimo qualche fortunato superstite riuscito in qualche modo a darsi alla fuga. Ci si avvia perciò tutti insieme alla volta della Maestà di Castelpoggio, oltrepassata la quale nel giungere alla curva ci si trova di fronte a una trentina di cadaveri di soldati tedeschi, evidentemente sorpresi allo scoperto dalle prime cannonate e dai commilitoni ammassati al margine della strada: il che rafforza nei nostri la convinzione del completo successo dell’operazione. Nell’osservare quel mucchio di corpi, colpisce in particolare la presenza tra essi di imberbi adolescenti, la cui età non deve superare i 14 anni e la cui tragica fine è dovuta al sadico delirio finale del Führer che lo ha portato a gettare nella fornace dell’ultimo fronte italiano pure i devoti ragazzini della Hitlerjugend.

Senonché, nel completare il gomito della curva, ci si rende conto che il nemico non è affatto annientato: decine di tedeschi ridiscesi dalla pineta stanno infatti rapidamente riguadagnando la postazione abbandonata il giorno prima. L’impatto fra i due schieramenti non potrebbe risultare più improvviso e drammatico, con quella curva che sino all’ultimo ha celato agli uni la presenza degli altri: è in ogni caso in questo momento che la Wehrmacht viene per la prima volta direttamente a contatto con la Quinta Armata. Segue un immediato indietreggiamento generale, in cui ciascuno corre a prendere posizione preoccupandosi anzitutto di abbandonare la strada, ove diverrebbe bersaglio sin troppo facile per le salve nemiche.

È in tale frangente che salgono in cattedra i nipponici: muniti di una paletta che portano attaccata alla cintola posteriormente, a mo’ di pennato, piccoli come sono si scavano in un batter d’occhio la buca da utilizzare come trincea donde mitragliare i nemici; con la “cicogna” in costante collegamento a pilotarne dall’alto le mosse. Dopo un’ora di combattimento, la maggior parte dei tedeschi sgancia verso Forte Bastione e la Spolverina; una cinquantina di loro cadono però nelle mani dei giapponesi, per essere condotti la sera stessa a Castelpoggio. Mentre Radio Londra – sottacendo il particolare della schiacciante superiorità, numerica come di mezzi, dei vincitori – si sofferma a celebrare il combattimento come un capolavoro di strategia congiunta fra militari e partigiani, il 22 giunge da Carrara una jeep con a bordo due ufficiali piloti americani, venuti a scrutare con i binocoli Forte Bastione allo scopo di ottimizzare il bombardamento aereo che si apprestano a compiere e destinato a ridurre la cavouriana fortezza in un rudere fumante.

Resta adesso solo lo spauracchio rappresentato dalla casamatta di Fosdinovo. Mandati in avanscoperta gli uomini del Falco, non serve loro molto per smascherare pure quest’ultimo trucco imbastito dagli irriducibili prussiani: cosicché il 23 possono essere liberate sia Fosdinovo che Sarzana, il giorno successivo Aulla. Mario sta per compiere vent’anni: a fare da guida alla Quinta Armata verso Pontremoli il comando della Apuana delega proprio lui, in quanto poliglotta. La marcia vedrà i neri della Divisione Buffalo procedere a bordo dei camion, la fanteria nippoamericana a piedi.

Nel capoluogo lunense intanto burrascose trattative intercorrono tra il comando germanico e il pugnace vescovo Giovanni Sismondo, unica autorità in grado di esercitare una certa influenza sulle bande partigiane che infestano la Cisa. È infatti questo il valico scelto dagli occupanti per andarsene, essendone la strada asfaltata e con curve tali da poter essere abbordate anche dagli autocarri. Asserragliati a Pontremoli, essi si vedono costretti a trattare con i banditen dei quali temono un’ultima imboscata nell’affrontare i tornanti del passo; rifiutando di arrendersi, in assenza di garanzie giungono a minacciare la distruzione della cittadina, già miracolosamente sopravvissuta agli oltre cento bombardamenti alleati piovuti nell’ultimo anno.

Alla fine il prelato ottiene dagli amici partigiani che non molestino la ritirata degli sconfitti, consentendo loro di valicare senza ulteriori danni l’Appennino. Malfidati fino all’ultimo, a tutelarsi circa il mantenimento della parola avuta i fuggitivi ricorrono allora all’espediente di lasciare indietro, quale minaccia di ritorsione in caso di attentati, parte della truppa. A rimetterci le penne saranno così due sfortunati soldati di quella retroguardia, ligi alle consegne al punto di attardarsi nel borgo sino all’arrivo degli americani: dai quali vengono freddati davanti alla chiesa dell’Annunziata, all’alba del 27 aprile, al momento dell’arrivo della Quinta Armata.

Al termine della guerra, mentre nelle città diviene operativa l’amministrazione militare alleata, nelle regioni decentrate come la Lunigiana viene a mancare ogni forma di servizio d’ordine. Agli ex partigiani vengono così assegnati dai vincitori compiti di polizia militare, comprendenti anche lo sminamento delle bombe lasciate dai tedeschi ad infestare strade, sentieri, campi: incombenza per la quale essi possono peraltro avvalersi dell’ausilio di artificieri di varie nazionalità, tutti disertori dell’esercito germanico. A tale incarico viene chiamato anche Giuntoni, presso il comando di Fosdinovo: sempre alla guida di quella Balilla che per supportare l’attività della Rinaldo aveva accettato di condurre, per la quale ha rischiato di morire dovendo comunque passare un’incredibile odissea, e che adesso è stata adottata quale auto di servizio della polizia partigiana.

In ogni caso Mario si rifiuta di prendere parte alle esecuzioni di ex fascisti che anche da queste parti hanno luogo a conflitto ormai concluso: con il mitra puntato addosso lui si è ritrovato tante volte, in cuor suo sa di essere un miracolato e intende rimanere in pace con la propria coscienza. Nella sua ragionevolezza egli non manca anzi di rendersi conto della meschinità di certe richieste che alcuni giungono a rivolgere ai poliziotti, e che neppure mancano di fantasia: spesso infatti i più rancorosi ricorrono a pretesti di ordine politico per dare sfogo a quelle invidie, antipatie, rivalità personali e familiari notoriamente presenti in ogni paese.

Del resto a Gragnola tale clima da “resa dei conti” ha avuto inizio già il 23 aprile, al momento dell’arrivo della Buffalo, allorché alcuni paesani consegnano agli americani una guardia repubblicana, ferita: quelli fanno per portarsela via; ma il più esagitato del gruppo insiste perché il fascista venga giustiziato sul posto. Un sergente nero cava allora dalla fondina la pistola, porgendola al suo istigatore: “Tieni: ammazzalo tu”. L’altro a quel punto indugia; alla fine l’esecuzione non ha luogo.

A Mario viene invece chiesta la testa di un gragnolino ritenuto il mandante della “spedizione punitiva” contro il paese operata dalla Decima Mas solo per il fatto che l’uomo lavorava presso l’Arsenale spezzino. Ancor più ridicola la richiesta di un altro che gli chiede di mettere a morte un possidente del luogo reo di avere imposto alla figlia il già di per sé gravoso nome di Benita, e che in qualche modo era già stato punito dalla sorte confidando egli evidentemente in un maschio. Il momento è comunque terribile per tutti, e per certi aspetti la guerra è lungi dall’essere finita: ci sono bambini che muoiono dilaniati dalle mine lasciate dai tedeschi; ce ne sono altri che fuggono terrorizzati all’udire il fragore di un camion, scambiandolo per il rombo di un bombardiere che troppe volte ne ha sconvolto la vita.

Dopo che il Ministero dell’assistenza postbellica ha istituito a vantaggio di partigiani e reduci che hanno perso gli anni scolastici a causa della guerra i “Convitti-scuola della Rinascita”, il nostro pensa di sfruttare tale opportunità per conseguire il diploma di geometra: dovendo perciò trasferirsi a Roma, nel collegio di via Savoia insediatosi nell’edificio già sede dell’Istituto Goethe, la scuola italiana per i ragazzi tedeschi. Il collegio può vantare un corpo docente di prim’ordine: a curare la parte tecnica è lo stesso gruppo di architetti cui Mussolini ha affidato il progetto dell’Eur; mentre a tenere seminari e conferenze intervengono politici e intellettuali del calibro di Pertini, Nenni, Togliatti, Parri, Lombardo Radice, Silone, i fratelli Manacorda, i fratelli Pajetta. Essendo l’iniziativa governativa sovvenzionata con i fondi del Piano Marshall, a gravitare attorno all’istituto sono inoltre sociologi, pedagogisti, psicologi sia americani che inglesi interessati allo studio della genesi del movimento italiano di liberazione in contrapposizione alla politica dell’Asse.

Avendo sede nel palazzo accanto al collegio la direzione nazionale dell’Anpi, i suoi studenti divengono per tutti i “partigiani del Nord”, cui spetta fra l’altro la composizione del picchetto d’onore per la commemorazione della strage alle Fosse Ardeatine: non v’è perciò da stupirsi che, alla sera, certi irriducibili “nostalgici” vengano provocatoriamente a cantare loro Giovinezza sotto al naso. Nell’infuocato clima politico del dopoguerra, poi, con la forzata convivenza al governo di Democrazia Cristiana e sinistre dovuta all’Assemblea Costituente pure la cerimonia del 25 aprile all’Altare della Patria diviene oggetto di scontro. Dopo che nel ‘46 i partigiani non vi sono stati ammessi, l’anno successivo vede un aspro braccio di ferro tra Pertini e De Gasperi: in cui a spuntarla è alla fine l’esponente socialista, ottenendo dal capo del governo che ad affiancare i due corazzieri nella cerimonia siano altrettanti studenti-partigiani. Manco a dirlo, uno dei prescelti è proprio Giuntoni: il quale ha così anche il privilegio di vedersi immortalato nel popolare cinegiornale della Settimana Incom.

In quello stesso ‘47 egli viene chiamato a testimoniare a Vicenza, al processo contro Bertozzi (miracolosamente scampato alla giustizia partigiana nei giorni delle epurazioni, nonostante ogni formazione avesse l’ordine di ucciderlo, in quanto condannato a morte da tutti i tribunali partigiani), conclusosi con la condanna capitale; poi però commutata in ergastolo, e quindi ulteriormente ridotta con definitiva scarcerazione nel ‘63, in applicazione dell’amnistia Togliatti.

Dopo i primi due anni di corso, nel ‘48, alla vigilia delle cruciali elezioni del 18 aprile, da Roma il convitto viene trasferito a Genova; con la ventina di studenti carrarini compattamente schierati con il Fronte Popolare. Candidato al Senato per il collegio del capoluogo ligure è proprio Pertini: il quale ingaggia al volo la pattuglia dei suoi ex allievi apuani come attacchini, rivelando ai loro occhi un calore umano e un’affabilità insospettabili. La sera, tra un manifesto e l’altro, caricandosi con l’inseparabile pipetta “Sandrino” delizia la compagnia rievocando gli episodi più buffi e divertenti dei lunghi anni trascorsi nei vari penitenziari isolani destinati al confino dei detenuti politici, conquistando i giovani amici con la sua non comune capacità affabulatoria.

Una volta conseguito il diploma, per Giuntoni si pone il problema di trovare un lavoro: il quale si rivela di non facile soluzione, essendo la ripresa economica del Paese ancora di là da venire. Tale esigenza genera l’ennesimo capitolo rocambolesco nella vita del nostro, convolato a nozze nel ‘52 con una giovane, Margherita, nata in Inghilterra da madre inglese e padre italiano. Il matrimonio ha luogo a Genova proprio la sera precedente l’imbarco di Mario per l’Australia, assieme a 600 connazionali che per campare non hanno trovato di meglio che sottoscrivere un contratto per andare a tosare le pecore dalla parte opposta del globo. Ed è proprio la lunghezza del viaggio a fregarli: durante il mese di navigazione, allo scopo di rilanciare l’economia nazionale il presidente argentino Perón immette sul mercato enormi quantità di lana a prezzi stracciati; per cui, una volta giunta la nave a Sydney, i posti di lavoro non ci sono più. Non solo: non intendendo le autorità australiane sobbarcarsi la spesa del rimpatrio dei mancati emigrati, e rivelandosi la diplomazia italiana impotente non solo a risolvere la situazione, ma anche a tutelare i diritti civili di quei malcapitati, questi vengono confinati per sei mesi nel campo di concentramento in cui durante l’ultimo conflitto mondiale sono stati internati i prigionieri giapponesi.

L’incredibile situazione determinatasi sfocia alla fine in una rivolta; con Mario che, essendo l’unico di loro a masticare un po’ d’inglese, finisce con il giocare il ruolo sia di portavoce degli insorti, sia di paciere che si prodiga per placarne gli animi una volta ottenuto un incontro con il console italiano. Raggiunto da quest’ultimo un compromesso con le autorità che sblocca la situazione impiegando in qualche modo tutta quella manovalanza, l’unico ad essere rispedito in Italia è proprio Giuntoni, immortalato – un’altra volta – in una fotografia scattata in uno dei momenti caldi dell’agitazione per essere pubblicata dai quotidiani di Sydney e nella quale egli viene erroneamente presentato come il capo della sommossa. Se non altro, a pagare il biglietto di ritorno sono gli australiani.

A questo punto per mettere insieme qualche soldo il nostro deve lavorare di fantasia: giovane, aitante s’inventa arbitro di calcio e giudice sportivo di atletica leggera, raggranellando in tal modo gettoni di presenza e rimborsi spese per le trasferte effettuate qua e là per la Toscana. Nel ‘54 ha inoltre l’idea di aprire a Marina di Carrara il primo campeggio toscano: il “Camping Carrara”, frequentato soprattutto, in virtù delle competenze linguistiche sue e della moglie, da tedeschi e inglesi. Queste due attività lo impegnano fino al ‘58, dopodiché anche grazie al suo status di ex deportato egli riesce a superare il concorso per vigile urbano indetto dal Comune di Carrara: incarico che espleterà per oltre trent’anni con solerzia e scrupolosità, guadagnandosi la stima dei concittadini per il fatto di applicare il codice della strada senza guardare in faccia a nessuno.

Ma per il capoluogo apuano il cosmopolita Giuntoni diverrà soprattutto l’alfiere della pace e il pioniere del turismo, con felici intuizioni concretizzatesi in iniziative che prendono il via nel ‘55, anno in cui in visita a Carrara giunge un gruppo di giovani tedeschi di Ingolstadt. Nasce allora nei cittadini più illuminati il desiderio di superare anche moralmente le tragedie della guerra, nel nome della fratellanza tra i popoli: e interprete ideale di tale sentimento umanitario diviene, d’intesa col sindaco, lo stesso Mario, promuovendo prima il gemellaggio fra le rispettive polizie municipali, quindi quello tra le due città, sancito nel ‘62. Impeccabile nell’organizzare manifestazioni ed eventi che negli anni faranno sentire gli ospiti bavaresi a casa loro, valorizzando al tempo stesso le peculiarità territoriali locali (dall’annuale Festa della birra alle visite storico-naturalistiche, sino a quelle richiestissime alle cave di marmo) il nostro “tedesco di Gragnola” diviene ben presto un personaggio anche a Ingolstadt, allorché vi si reca accompagnando gli amministratori delle varie giunte carraresi: e dell’eccezionale simpatia riscossa in quella che finisce con il diventare la sua seconda patria faranno fede i numerosi attestati di merito tributatigli nel tempo.

Con la moglie divenuta una stimata insegnante di Scienze alle scuole superiori, la coppia ha due figli, Maurizio e Gabriele. Nel ‘73 da Marina i Giuntoni si trasferiscono a Battilana, nella campagna verso Avenza. Nel ‘90 Mario va in pensione; nel 2006 viene a mancare Margherita.

Anche da ottuagenario il nostro si rivela un personaggio del tutto speciale: sarà la forza della sua razza, saranno i frequenti viaggi in Germania, saranno quegli avventurosi tour per le cave nei quali supporta brillantemente il figlio, il fatto è che Mario non accenna neppure lontanamente a invecchiare. Affabile, arguto, dotato di un innato fair play il gragnolino trasmette un carisma cui riesce difficile resistere: sempre un passo avanti a tutti, ma al tempo stesso senza mai prendersi troppo sul serio, egli dà quasi l’impressione che la natura umana non abbia ormai per lui alcun segreto. Immutati restano l’amore per la sua terra d’origine e le passioni agresti tipiche del lunigiano: la coltura dei fagioli nel suo orto di Battilana, la ricerca dei funghi nelle annate buone.

Ma è quando rievoca della sua infanzia che diventa irresistibile: e pare quasi che il tempo, piuttosto che affievolirgli la memoria, gliel’abbia potenziata. Con nostalgia racconta della misera vita delle famiglie dei cavatori, che lo vedeva bambino attendere con ansia la sera il ritorno del padre nella speranza che gli portasse il pane avanzatogli dal pasto, intonando anche una filastrocca; dell’arrivo a Gragnola del treno delle 19, che riportava a casa i lavoratori divenendo quotidianamente per il paese come una festa, andandovisi ad accogliere congiunti e fidanzati con l’abito domenicale; del rito annuale della Iara, gli orti gragnolini ricavati sul greto dell’Aulella in cui si coltivavano i prelibati borlotti, la “bistecca dei poveri”; e tanti altri ricordi, uno più struggente dell’altro.

Col socialista che viene fuori quando parla dell’arretratezza cui il regime fascista aveva condannato la Lunigiana proprio sul piano sociale, incancrenendo il sistema di vita dei suoi paesi e riportando indietro le lancette delle conquiste civili rispetto all’età giolittiana. Spiegando che in ciascuno di quei borghi governava di fatto un’oligarchia composta, oltre che dai proprietari terrieri, dal segretario del Fascio, dall’ufficiale postale, dal tabaccaio (la cui licenza era soggetta alla concessione statale), dalla guardia comunale, dalla maestra. Venendo tutte queste figure nominate dall’amministrazione, non potevano che essere organiche alla dittatura; di conseguenza, l’atteggiamento da esse assunto nei confronti della popolazione risultava paternalistico e indottrinante, piuttosto che finalizzato a favorirne emancipazione e crescita civile. In pratica queste persone decidevano della vita di tutti, dal momento che per qualsiasi informazione lo Stato a loro si rivolgeva.

Molti dei ragazzi che avrebbero ingrossato le file partigiane, del resto, erano figli di povere famiglie di braccianti, che da generazioni si guadagnavano da vivere faticando nelle terre dei “signori”, al cospetto dei quali si doveva solo scappellarsi e riverire. E in tali maestranze il senso di deferenza e sottomissione si rivelava talmente radicato, che anche non trovandocisi alla loro presenza se ne parlava con un certo timore reverenziale: una delle cui principali spie era rappresentata dal servile quanto superfluo utilizzo dei titoli con cui essi erano conosciuti, nemmeno fossero stati rimpiattati lì nei pressi ad ascoltare, e potessero risentirsi.

Ed è proprio quando racconta della guerra che Mario diventa insuperabile: documentatissimo su tale pagina di storia, è un vera e propria enciclopedia vivente. Di quell’esperienza descrive minuziosamente ogni cosa: armi e mezzi in dotazione ai partigiani, ai tedeschi, ai fascisti, agli americani; ricorda perfettamente i nomi delle persone, i luoghi, le situazioni, gli aneddoti; osservatore sopraffino, sa introdurre note di colore su quel periodo e sui suoi protagonisti che non troveresti scritte da nessuna parte. Stupendo non poco chi ha la fortuna di raccoglierne le memorie, di quella terrificante giornata di diciannovenne sfuggito più volte alle grinfie della morte ricorda quanto fosse raffinata l’uniforme di quei marò suoi mancati carnefici: “Una sahariana bellissima, con il basco in panno grigioverde, il maglione a girocollo, le mostrine colorate e il distintivo con la scritta X Flottiglia Mas. Rispetto a tutti gli altri corpi militari erano elegantissimi: nemmeno quelle divise le avesse disegnate il miglior stilista”. La sua narrazione riesce talmente suggestiva da far pensare che quei ragazzi si fossero arruolati con Borghese non tanto per fanatismo patriottico quanto per vestire quella fascinosa uniforme color sabbia, davvero degna di un corpo comandato da un principe.

Ottantottenne, ma ancor lucidissimo, Giuntoni si presta volentieri a dare il proprio fondamentale contributo ad un libro che intende ricostruire le vicende lunigiane nel periodo della Linea Gotica partendo da quanto accaduto in Val d’Aulella e nelle vallate limitrofe. Curioso il primo scambio di battute: “Lei è il partigiano…”, gli porge la mano l’autore; e lui, sorridente: “Io sono stato partigiano ma non ladrigiano”, facendo subito intendere di coltivare una visione dell’esperienza resistenziale aliena da ogni prosopopea. Il che va a sposarsi alla perfezione con l’intento demistificatorio dello studio; il cui problema è al momento quello di essere rimasto – nonostante tutte le ricerche effettuate – un po’ smilzo. Al che Mario s’impegna a farlo diventare “grosso come un vocabolario”; per poi mantenere la promessa oltre ogni immaginazione, dando al contempo a quei capitoli che risulteranno maggiormente frutto del suo apporto un’impronta in linea con la sua ideologia socialista.

A tanti anni di distanza, il suo giudizio sul fascismo e i suoi personaggi è rimasto quello sereno e misurato del partigiano azzurro: chiama familiarmente Mussolini “Benito”, come a sottolineare il fatto che si trattava di un uomo – peraltro di origini contadine – con tutti i suoi limiti, e quindi fallibile; dei ragazzi italiani schierati dalla parte opposta alla sua parla senza astio né rancore, ben sapendo che bastava poco perché ci si ritrovasse di qua o di là, e che fondamentalmente la colpa non era di nessuno se non della guerra e di chi l’aveva voluta; non perde occasione per sottolineare – e in una maniera che non potrebbe riuscire più efficace, e divertente – la disparità di mezzi tra i due schieramenti; ti descrive Ricci, Bertozzi, Folegnani: e ti sembra di averli lì davanti. Fuori da ogni retorica celebrativa, ti spiega come nasceva un comandante partigiano: “Maggiorino aveva fatto il militare, era l’unico ad avere impugnato un’arma: non avrebbe potuto essere che lui il capo di quel gruppo”.

Nella terra apuana il libro riscuote un discreto successo, regalando a Mario ulteriore notorietà, con varie presentazioni e interviste cui si concede col piglio di un giovanotto. Essendovi ricostruita la sua drammatica quanto avventurosa esperienza bellica, i primi a stupirsi sono proprio gli amici bavaresi, che mai avrebbero immaginato dei trascorsi del genere. Ma a dargli la soddisfazione più grande sono gli studenti carrarini, che mettono in scena le parti salienti della sua epica vicenda giovanile – forse degna di un film di Kurosawa, o di Leone – a cominciare da quell’incredibile “triello” al cimitero della Verrucola.

Nell’aprile 2018 è invece Ingolstadt a tributargli l’ennesimo omaggio, conferendogli il titolo di “Cittadino d’oro” nel corso di una solenne cerimonia che rappresenta il coronamento di una vita spesa per i valori della pace e dell’amicizia. Nel ringraziare, il nostro delizia l’uditorio con aneddoti e battute che ne dimostrano intatti lo spirito e l’entusiasmo.

Da un po’ di tempo però il cuore gli dà qualche problema, costringendolo ogni tanto a ricoverarsi; all’apparenza nulla di grave: “manutenzione” dovuta all’età. Anche l’intervento che subisce in giugno parrebbe preludere ad un ritorno alla normalità; ma il 12 luglio, un’improvvisa crisi respiratoria si porta via il novantatreenne ragazzo di Gragnola.

Il tedesco di Gragnola. Le mille vite di Mario Giuntoniultima modifica: 2018-11-29T17:21:37+01:00da tradersimo
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