Giocatori

Claudio e Lello avevano vent’anni. Entrambi di buona famiglia, vivevano a Prato; si erano conosciuti tramite un comune amico ed ex compagno di scuola, Giacomo, con cui Lello aveva condiviso le elementari, Claudio le superiori.

Spesso Claudio e i suoi amici si prendevano gioco di Giacomo, il quale amava atteggiarsi ad esistenzialista dal profilo leopardiano, ma con esiti piuttosto esilaranti: bravo studente, egli soleva oscillare tra l’autoironia e l’autocommiserazione, partendo dalla sua cronica sfortuna con le ragazze (quelle di cui si invaghiva finivano regolarmente per avere storie con i suoi stessi amici) per concludere con la sostanziale inutilità della sua vita. Per certi aspetti il suo personaggio sarebbe stato bene in Ecce bombo, il celebre film di Moretti uscito qualche anno prima e nel quale si dipingeva il fallimento dei giovani della generazione precedente.

Agli occhi degli amici la posizione di Giacomo si fece ancor più comica dopo la sua iscrizione all’università. Lui avrebbe voluto iscriversi a Economia e commercio, facoltà ambita e anche di moda all’inizio di quei rampanti anni Ottanta; ma la consapevolezza dei propri limiti nelle materie scientifiche lo aveva portato a ripiegare sull’indirizzo economico di Scienze politiche. Solo che quando gli domandavano che studi facesse lui rispondeva genericamente “economia”, credendo così di acquisire prestigio ma inventandosi di fatto una facoltà inesistente. Il che accresceva il dileggio degli altri nei suoi confronti; il quale suscitava però la riprovazione del più sentimentale Lello, che pur non facendo parte del gruppo prendeva le difese del suo vecchio e caro compagno criticando Claudio per quel sadico atteggiamento e dicendogli che un vero amico non avrebbe dovuto comportarsi così.

In effetti i due giovani erano molto diversi. Rimasto prematuramente orfano del padre, l’aria da uomo vissuto, gran fumatore eppure sportivissimo (ciclista, calciatore, culturista, nuotatore, giocatore di biliardo, tennista, sciatore, rallysta…), per nulla portato allo studio Claudio aveva conseguito la maturità sperimentale solo perché Giacomo gli passava regolarmente i compiti in classe; dopodiché si era iscritto all’Isef. Al contempo aveva iniziato a lavorare in piscina, conseguendo i brevetti sia di istruttore di nuoto che di bagnino; di lì a poco si era tolto anche il pensiero del militare, riuscendo a farlo in polizia. Di carattere aperto e intraprendente, Claudio un po’ di mondo lo aveva visto.

Al contrario, Lello incarnava appieno la grigia figura dello studente del Classico, senza particolari slanci né colpi di testa; conseguito il diploma, si era iscritto a Filosofia. Grazie alle conoscenze paterne aveva evitato il servizio di leva; scelta di cui il genitore avrebbe peraltro avuto a pentirsi, visto il debosciato che si sarebbe ritrovato in casa. Appassionato di ciclismo e pedalatore egli stesso, simpatizzava per l’affabile e pacato Saronni; mentre Claudio teneva per il guascone “sceriffo” Moser.

Assai differente risultava anche l’approccio dei due nei confronti delle ragazze. Curato nell’aspetto, brillante, sicuro di sé, ben inserito nel tessuto giovanile cittadino e non privo di un certo charme, Claudio vantava un robusto fisico da palestrato che, nell’era di Rambo e Rocky, piaceva non poco alle donne. Pur essendo a sua volta un bel ragazzo, il trasandato Lello al contrario non concludeva nulla, per la sua timidezza, l’asocialità e soprattutto il vizio che sin dalla prima adolescenza ne aveva condizionato fortemente personalità e rapporti umani: il gioco d’azzardo.

Perché era questo il terreno sul quale si era cementata l’amicizia tra i due: la passione per le scommesse sulle corse al trotto, praticata soprattutto negli ippodromi di Firenze e Montecatini. Claudio vi giocava i proventi del lavoro; Lello i soldi ricevuti dai genitori nonché quelli rimediati in prestito dal fratello, quindi da altre persone e giungendo anche a impegnarsi gli ori ereditati dall’infanzia. Godendo dell’incondizionata fiducia genitoriale, sin dalle medie egli aveva iniziato a recarsi alle corse da solo, la domenica portandovi pure dei compagni di classe, tra lo sconcerto dei loro genitori. Da liceale aveva anche preso a frequentare le scuderie, sognando di diventare guidatore; poi però alla vigilia del corso allievi aveva lasciato perdere, sia per la durezza del lavoro che per la repulsione progressivamente maturata verso la quotidianità dell’ambiente ippico, così diversa dallo scintillio delle giornate di corse ma anche lontana le mille miglia dal suo essere.

Inutile dire che perdevano quasi sempre; per cui un giorno Claudio – forse prendendo spunto dal Felice di Febbre da cavallo – imparò a lasciarsi in macchina diecimila lire, per avere garantite sia la benzina che un minimo di disponibilità per la serata. Il momento più nero era quando il cavallo sul quale avevano puntato entrambi perdeva in maniera particolarmente sfortunata, beffarda, rocambolesca: specie se all’ultima corsa, senza possibilità di rifarsi e lasciando perciò loro dentro sconforto e desiderio di rivalsa fino al convegno successivo. “Non diciamo nulla”, ingiungeva allora Claudio con una smorfia imboccando mestamente il vialetto che portava al parcheggio, onde risparmiarsi penose recriminazioni e piagnistei.

Diverso era comunque l’atteggiamento con cui i due amici vivevano la sfida del gioco: il filosofo e il poeta. Lello pretendeva di spuntarla ricorrendo all’esperienza, lo studio, l’attenzione per le situazioni ricorrenti, affidandosi perciò prevalentemente ai soggetti più attesi: specie se avvantaggiati dal numero, fondamentale in pista piccola. Claudio si disponeva invece maggiormente in sintonia con la fortuna, la quale notoriamente aiuta gli audaci; donde continue intuizioni, invenzioni, azzardi. Insomma la razionalità contro la fantasia; o – volendo ispirarsi ancora al cult movie dei giocatori di cavalli – il Pomata e Mandrake.

Opposto risultava peraltro anche lo spirito con cui – specie il sabato – i due giocatori vivevano il viaggio di ritorno. Avendo sempre in programma qualche impegno in compagnia (dall’appuntamento galante alla cena con gli amici alla partita a poker), Claudio schiacciava sull’acceleratore, in modo da non mancare di puntualità, mettendosi così alle spalle le delusioni del pomeriggio ippico. Lello invece non avendo niente da fare, e sapendo che una volta a casa disfatto com’era non avrebbe potuto far altro che andarsene a letto – senza neppure cenare – avrebbe preferito che il tragitto non finisse mai.

Ogni tanto c’era tuttavia da passare dal negozio della sorella di Claudio, alla quale quest’ultimo inventando scuse sempre diverse soleva chiedere prestiti. Pur intuendone il motivo, la benevola congiunta accondiscendeva, staccando l’assegno; il quale di sabato poteva essere cambiato soltanto alla Coop, in modo da non mancare alle corse il giorno successivo. “Oggi ce li rendono tutti insieme”, il grido di guerra lanciato allora dai due nel ripartire all’attacco.

Ma al di là delle differenziazioni caratteriali – che ogni tanto sfociavano anche in accese litigate – la stima reciproca era fuori discussione. Per molti aspetti ancora adolescente, Lello provava ammirazione per questo amico così diverso dagli altri – pochi – che aveva, che non appariva mai in difficoltà dinanzi a niente e sapeva sempre come comportarsi. A sua volta Claudio era affascinato dalla cultura del coetaneo, specie dopo che questi gli ebbe fatto conoscere Dostoevskij e i suoi personaggi maledetti: al punto di ribattezzarlo “Fëdor”. Ma era colpito anche dalla sua competenza in campo ippico, tanto da considerarlo come il “professore del trotto”.

A volte poteva capitare che, il giorno delle corse, all’avvicinarsi della fatidica ora nessuno dei due fosse riuscito a rimediare una lira. Con reciproche, febbrili telefonate dagli esiti anche comici: “Ma tu me lo potresti fare un prestito? – Veramente volevo chiederlo io a te…”. Con somma costernazione, bisognava rinunciare; e a quel punto non si sarebbe andati neppure all’agenzia ippica a vedere gli arrivi, temendo di ritrovarsi vincenti tutti i cavalli su cui si sarebbe puntato. Perché la regola aurea che si erano dati – sperimentata sulla loro stessa pelle – era categorica: mille volte meglio perdere che non avere giocato un cavallo che poi ha vinto. Tanto che “marciare non marcire” divenne il motto con cui Lello riprese goliardicamente la vecchia parola d’ordine nazionalista, trasponendola dal contesto della guerra al loro bisogno vitale di scommettere.

In settimana non era raro la sera vederli in giro per le case del popolo; non certo per fare politica o darsi al ballo bensì per partecipare ai tornei di briscola, altra loro comune passione. Il venerdì era d’obbligo concludere la serata a Firenze, e segnatamente all’edicola della stazione per apprendere in anteprima da Trotto Sportsman i partenti del fine settimana. Quando poi d’estate le corse si svolgevano in notturna, era l’andamento del gioco a decidere dove i due – ovviamente digiuni per poter essere presenti in pista sin dall’inizio del convegno – avrebbero cenato: se perdenti, una focaccia al volo nella peggiore pizzeria cittadina, frequentata più che altro dai militari di leva; altrimenti, nel rinomato ristorante di Montecatini aperto fino a notte fonda proprio in funzione degli ippici e nel quale era bello, quando si era vinto, continuare a respirare la magica atmosfera delle corse.

Ma come detto la normalità era che perdessero; per cui inesorabili si accumulavano i debiti, cui entrambi dovevano far fronte con le differenti possibilità di cui disponevano. Eterno studente (per potersi dedicare a tempo pieno al gioco), una volta Lello finì talmente in rosso da dover destinare ai vari creditori il denaro ricevuto dai genitori per pagare la salata tassa universitaria. Così facendo però rischiò di perdere l’anno accademico, e con esso l’alibi degli esami che comunque regolarmente superava; per cui si ritrovò a dover sfruttare – con la compiacenza del medico – una lunga influenza per potersi iscrivere dopo la scadenza dei termini, riducendosi a impegnare la bicicletta da corsa: la prestigiosa Colnago regalatagli dal babbo. “E meno male che non puoi venderti la macchina”, ironizzava Claudio riferendosi al fatto che l’amico utilizzava l’utilitaria di famiglia: la Dyane, scelta dal padre per la sua adattabilità al fuoristrada ma che essendo ormai divenuta un’icona dell’anticonformismo giovanile finiva con il conferire allo scioperato studente una certa aria bohémien.

Lavorando, solitamente Claudio aveva una macchina sua, rigorosamente sportiva; per poi però trovarsi costretto a venderla nei momenti più critici per ripiegare anch’egli sulla più modesta Visa di casa. Cambiava spesso anche occupazione, facendone talvolta due insieme: bagnino nella piscina estiva del miglior albergo della città, buttafuori in discoteca, per qualche tempo per guadagnare di più aveva fatto anche il distributore di giornali, avendo perciò dovuto acquistare un furgone e trovandosi costretto, ogni mese, alle acrobazie più spericolate per poter onorare la rata del leasing. In genere studiava il cavallo più affidabile che corresse nel convegno immediatamente precedente la scadenza per caricarvi tutti i suoi averi, e pregare. Alla fine però sia per l’esposizione debitoria, sia per la scomodità dell’orario di lavoro mandò tutto al diavolo; per poi ritornare nel preferito ambito sportivo, occupandosi in una palestra come istruttore di body building. Sfumato il fidanzamento “serio” che avrebbe potuto cambiargli la vita, si rifaceva con qualche flirt, anche allo scopo di sottrarsi al vizio: destino volle che fosse proprio una furba frequentatrice della palestra con cui si vedeva a insegnargli la sveltezza di mano.

Prestando attenzione sia ai giorni del mese in cui era concentrato il pagamento dell’abbonamento, sia alle abitudini del titolare nonché dello stesso Claudio che fungeva anche da segretario, una volta la ragazza, nel venir via al termine dell’allenamento, fu lesta a impossessarsi del milione di lire che giaceva nel cassetto; per poi spedire ad entrambi una cartolina dalle Maldive, ove si era recata in vacanza a spese della palestra! Ciononostante il gestore – non avendo prove – non sporse alcuna denuncia.

Trovandosi preso male, qualche tempo dopo fu il medesimo Claudio a imitarne le gesta, arraffando qualche centinaio di migliaia di lire che andò a nascondere in macchina. Le cose però non andarono come egli avrebbe sperato; immediatamente scoperto l’ammanco, stavolta il titolare gli impose di chiamare seduta stante i carabinieri: e così fu lo stesso ladro a dover denunciare il furto. La sorte fu tuttavia benevola con l’ex poliziotto. La palestra era frequentata anche da un drogato, venuto ad allenarsi proprio in quel frangente: un po’ per l’inevitabile pregiudizio dei militari nei confronti del balordo, un po’ perché furono gli stessi denuncianti a spingerli in quella direzione (pur sudando freddo Claudio riuscì a non perdere la lucidità), fu il tossicodipendente a finire sotto torchio, nonostante proclamasse in ogni maniera la propria innocenza.

Ma di lì a poco anche Lello avrebbe compiuto il suo passo oltre la legalità: e visto che c’era, il botto riuscì particolarmente fragoroso. Più che il gioco, a indurlo a passare il Rubicone furono tutta una serie di circostanze, anche casuali e imprevedibili. L’estate era passata lasciandogli in eredità una storia d’amore con una ragazza conosciuta al mare, ove – dipendendo ancora completamente dai genitori – si era recato con la famiglia. Perdutamente innamorato, voglioso di mettere finalmente ordine nella sua vita, al ritorno a Prato lo studente per la prima volta si cercò un lavoro, come presupposto indispensabile al fidanzamento.

Destino volle che proprio presso la sala corse cittadina si liberasse un posto: un giovane impiegato partiva per il servizio militare. Trattandosi di un impiego pomeridiano, esso si attagliava perfettamente alle abitudini del nostro di dormire fino a tardi; per cui si diede subito da fare per trovare la raccomandazione adeguata. Allorché si presentò al lavoro, però, l’accoglienza non fu delle migliori: “Se avessi saputo che eri tu non ti avrei assunto, perché sei un giocatore”, gli disse a brutto muso il direttore, per il quale ‘scommettitore’ era sinonimo di ‘disonesto’. E dire che in agenzia ne correvano di voci, sul suo conto; in particolare si diceva che si fosse fatto una lussuosa villa in collina coi soldi ricavati da accoppiate vincenti confezionate al termine delle corse, allorché rimaneva in ufficio da solo. Perché la sala non era sua, ma di un boss di Firenze che ne possedeva diverse.

Mortificato da tali parole – perché per trovare il denaro per andare a giocare ne aveva escogitate tante, ma rimanendo sempre nel lecito – Lello iniziò a lavorare; per rendersi ben presto conto che lì dentro rubavano tutti. L’organizzazione era perfetta: l’impiegato addetto a segnare sui tabelloni arrivi e quote comunicava al socio impegnato ai biglietti l’accoppiata appena battuta dalla telescrivente, che veniva successivamente incassata con la compiacenza del cassiere. Il quale doveva essere in combutta anche con gli altri impiegati, che facevano da sé aspettando che gli arrivi venissero marcati sul tabellone: tanto che si diceva si fosse comprato la Golf anch’egli a spese del proprietario fiorentino. Da parte sua Lello assisteva al bordellone che quotidianamente si scatenava attorno a lui facendo finta di niente; ma soprattutto senza derogare a quei principi di onestà inculcatigli dalla ferrea educazione ricevuta. Finché la situazione non precipitò.

Al momento in cui la telescrivente annunciava la partenza di una corsa, il direttore comunicava agli impiegati il numero e l’ippodromo della corsa stessa, affinché li segnassero sul borderò in modo da chiudere il gioco su di essa. Solo per il fatto di essere stato fino a poco tempo prima dall’altra parte della barricata, Lello era l’unico ad essere controllato: dal direttore, da un odioso collega che si atteggiava a suo vice, da quello che segnava gli arrivi; le rare volte che c’era, dallo stesso proprietario. Ciò nonostante fosse l’unico, in quella casa dei ladri, a non rubare. In breve la situazione divenne insostenibile: al punto che il giovane pensò di rivolgersi allo stesso che lo aveva fatto assumere, persona assai influente e sicuramente in grado di farsi sentire da quei farabutti. Senonché il destino volle che le cose andassero diversamente.

Tra i frequentatori dell’agenzia ve n’era uno dal quale il nostro era rimasto particolarmente colpito: un signore di mezz’età, distinto, dai modi raffinati, che non aveva niente a che vedere con la marmaglia costituita dalla gran parte dei giocatori. Una sera, mentre si recava a sbrigare una commissione per la madre, Lello lo incontrò in città, e lo fermò; immediatamente tra i due nacque una simpatia. Il signore si chiamava Gianfranco, ed era veramente un personaggio: dopo avere fatto per lunghi anni il barman sulle navi da crociera, attualmente lavorava nella discoteca più in voga della zona. Raccontò al giovane della sua passione per le scommesse sui cavalli, e di come questa avesse rappresentato la rovina della sua vita.

Presa fiducia per tali confidenze, Lello gli accennò a sua volta di quanto gli stavano facendo passare alla sala, confidandogli anche il proposito di rivolgersi a quel personaggio potente affinché quei mascalzoni prendessero a portargli rispetto. Rivelandosi fine psicologo, Gianfranco gli consigliò di non effettuare quel passo – che a suo avviso non sarebbe servito a nulla – invitandolo ad andarlo a trovare in discoteca, che durante la settimana fungeva da pianobar. Qui, nell’atmosfera soffusa ed elegante del locale notturno, l’uomo riuscì a convincere il riottoso moralista a vendicarsi dei torti subiti nel modo più semplice e naturale: iniziando a vergare a sua volta accoppiate fatte, sfruttando quei momenti in cui inevitabilmente i controlli si allentavano.

Già il giorno dopo Gianfranco venne a giocarsi la prima accoppiatina, alla quale ne seguirono altre; la spartizione del bottino avveniva ovviamente la sera, al pianobar. Entrambi ci presero gusto: tantopiù che a Lello parve che più biglietti truffaldini faceva, meno quei cani gli stavano addosso. Finché la sfida non prese il sopravvento sull’ordinarietà: cosa più che comprensibile in chi sino ad allora era vissuto solo di studio e scommesse perdenti.

Le pezzature dei biglietti sui quali venivano scritte le giocate andavano dalle mille alle centomila lire; a Lello – ultimo arrivato nonché malvisto – venivano assegnati i registri da mille e duemila. Le agenzie ippiche avevano inoltre dei massimali, che le tutelavano rispetto a vincite troppo elevate: la più alta era quella relativa ai multipli che contemplassero almeno cinque cavalli vincenti, per la quale il banco si esponeva sino alla quota di 500/1. Lello pensò che la vera rivincita sarebbe stata assestare alla sala corse una stangata di quel genere, altro che le accoppiate da quattro soldi.

Nel comunicare a Gianfranco del suo nuovo proposito, egli incontrò lo scetticismo del barman; il quale avrebbe preferito andare avanti a piccoli passi, accontentandosi dell’uovo quotidiano. Ma l’altro ormai era partito: munitosi di calcolatrice, condusse uno studio aritmetico partendo dal presupposto che al limite di 500 fosse preferibile arrivare non con cavalli quotati a cifre eccessivamente alte, bensì mediante cinque vincenti non propriamente scontati ma comunque prevedibili che moltiplicati fra loro avrebbero consentito di raggiungere di misura la fatidica soglia. Così non solo la corposa vincita sarebbe risultata più credibile: ma anche la beffa maggiore.

Il piano – del quale informò anche Claudio – andava messo in atto nel fine settimana: sia perché in quei giorni si correva su parecchi ippodromi, avendosi quindi maggiore possibilità di scelta; sia perché la sala era più affollata, e quindi i vari controllori indaffarati. Coi tagli che aveva, la ragionevole scommessa massima avrebbe potuto essere di 8000 lire; per cui un sabato, appena insediatosi, Lello lasciò in bianco quattro biglietti da 2000, componenti un’intera pagina del blocchetto. A una certa ora del pomeriggio egli scrutò sui tabelloni alla ricerca dei cavalli da segnare, che non tardò a individuare. Puntuale si presentò quindi Claudio, che si accostò al bancone fingendo di giocare; con la copertura dell’amico il nostro trasse dallo scaffale il borderò di inizio pomeriggio, proteggendo le nude matrici sottostanti con un foglio perché le scritte non si ricalcassero, segnando i cinque nomi magici e consegnando il biglietto al complice, che aveva l’incarico di recapitarlo a Gianfranco che, fuori, attendeva di andare a riscuotere i quattro milioni della vincita.

Al barman il giovane aveva infatti imposto di coinvolgere nel colpo anche Claudio, rimasto senza lavoro: anche per tutti i prestiti intercorsi, la solidarietà fra i due amici-compagni di sventura si era fatta del resto fortissima. Particolare che si rivelò decisivo: lo studente aveva infatti detto all’amico che, prima di dare l’ok alla riscossione, voleva controllare con calma come fosse venuta scritta la matrice. Difatti, essa si rivelò più sbiadita rispetto alle altre; Lello non aveva tenuto conto del fatto che, allorché scriveva, i biglietti sottostanti non c’erano più: per cui con la penna avrebbe dovuto calcare maggiormente. Allo smanioso Gianfranco però il ticket pareva buono, per cui avrebbe voluto andare ugualmente all’incasso; ma Claudio, preoccupandosi di tutelare l’amico, fu fermo nell’impedirglielo.

Quella rimase dunque una sorta di prova generale: la quale consentì comunque a Lello, appena sette giorni più tardi, di confezionare un biglietto perfetto. A quel punto al banco non restò che pagare. Nonostante l’unico a correre rischi fosse stato lui, il malloppo venne diviso in parti uguali; questo a conferma del fatto che il nostro idealista non aveva agito tanto per denaro, quanto per prendersi una grande soddisfazione sui suoi aguzzini. Inoltre, egli era felice del fatto di avere finalmente messo nelle mani del vecchio giocatore Gianfranco quello che da sempre l’immaginifico Claudio amava definire come “il sogno di tutta una vita”.

La mazzata produsse ovviamente un ulteriore peggioramento della posizione di Lello nell’agenzia; lui però prendeva adesso tutte le angherie che gli toccava di subire con tutt’altro spirito, vista la vendetta che si era preso. Finché la situazione non divenne tale da fargli meditare un secondo, risolutivo colpo; per assestare il quale occorreva però far passare del tempo, in modo che le acque si calmassero e la nuova vincita potesse apparire credibile.

Fu l’esperto Gianfranco a suggerirgli il tipo di giocata cui ricorrere stavolta. Partendo dal solito presupposto che i biglietti sui quali lavorare non superavano le duemila lire, il massimo che si potesse azzardare era una combinazione da 14000, composta da un sestuplo e sei quintupli. Ossia: sette biglietti da 2000, con i quali lo scommettitore aveva inteso legare sei cavalli vincenti, cautelandosi però circa la possibilità che potesse saltarne uno. Pur risultando l’importo di una simile puntata alquanto maggiorato rispetto al taglio dei ticket assegnati al nostro, il giocatore che volesse effettuare una scommessa per quella cifra doveva per forza recarsi dall’impiegato che teneva i registri da duemila lire.

Con gli altri però Lello evitò di fissare scadenze. In realtà era combattuto; da una parte sapeva che più in là si andava, meglio era: perché stavolta c’era la sicurezza di essere nel migliore dei casi licenziato, nel peggiore denunciato. Dall’altra tuttavia non ce la faceva più a stare lì a ingoiare veleno, facendo peraltro un lavoro da ragazzetti; se non da mentecatti, vista la qualità della fauna costituita dagli habitué dell’agenzia, che ormai disprezzava sempre più visceralmente. Insomma era cambiato; e oltretutto, la ragazza che gli aveva fatto perdere la testa (e cercare un impiego) era presto sparita, rivelandosi una sciacquetta.

Un sabato, appena arrivato, il giovane subì un’umiliazione terribile, davanti a tutti. Disponendosi gli impiegati in ordine crescente rispetto ai borderò detenuti, quello in combutta con l’addetto a segnare gli arrivi amava disporsi in fondo, gestendo gli importi minimi, in modo da poter fare i propri comodi sia in quanto isolato rispetto agli altri sia perché massimamente distante dal direttore. Ma colui che la dirigenza utilizzava come una sorta di mastino gli disse di prendere i blocchetti da 5 e 10 mila; il che comportava di posizionarsi al centro del bancone. Quello si ribellò: “Non ne ho voglia, lasciami stare in fondo: dalli a Lello quei tagli lì… – Non è possibile: lo sai che di Lello il direttore non si fida”, l’agghiacciante risposta che gli diede l’energumeno, coram populo.

Fu la goccia che fece traboccare il vaso: pur non avendo avvisato gli altri, il nostro decise che quell’offesa sarebbe stata l’ultima, e che stavolta avrebbe fatto tutto da solo, rischiando al massimo. Lasciò in bianco i sette biglietti e aspettò che trascorresse il pomeriggio. Al termine del quale, in un momento che gli parve propizio, ritirò fuori il primo registro e, trattenendo il respiro, vi vergò i sei nomi prescelti, dovendo per giunta aggiungervi la complessa formula caratterizzante la giocata in questione e sigillare il tutto con la spillatrice. Attimi interminabili, surreali, con i nervi tesi allo spasimo e il cuore che gli esplodeva nel petto: ma quando rialzò gli occhi, vide che nessuno si era accorto di nulla. Era fatta.

Il biglietto fu consegnato a Claudio, che si recò da Gianfranco; il quale si fece tuttavia degli scrupoli, dal momento che quel giorno non era andato in sala. “Non importa – gli ribatté prontamente lo scaltro giovane – vorrà dire che ci si penserà da noi”. A quel punto l’altro si convinse, accettando di andare a incassare lui i sette milioni. Della nuova batosta il cassiere informò subito il direttore; il quale ebbe una reazione scomposta, dimostrando una volta di più la sua assoluta mancanza di fair play.

La domenica, allorché si presentò al lavoro, le cose andarono esattamente come Lello aveva previsto; del resto, ricorrendo nuovamente a Gianfranco egli aveva aggiunto alla truffa l’elemento della provocazione. La faccia del direttore non prometteva niente di buono; subito gli disse di seguirlo in ufficio, ove fu lesto ad aggregarsi il cassiere. “Secondo te questo biglietto è regolare?”, gli chiese nero di rabbia, mostrandogli il milionario coupon. “E che ne so io… – Via, non è possibile che la stessa persona faccia nel giro di un mese prima una vincita da quattro milioni, poi un’altra da sette… – Se codesta persona è così brava a prevedere i cavalli vincenti, tanto di cappello: e poi credo che chi fa un lavoro come il vostro debba mettere in conto anche di perdere, ogni tanto… – Io ti avevo dato la mia fiducia: ma adesso non l’ho più. Per cui non ti posso più tenere a lavorare”. A quel punto il giovane recitò la sua scena madre, trasformandosi nel Franco di Eccezzziunale veramente: “Non sei tu che mi licenzi: sono io che me ne vado! Da quando sono entrato qua mi hai sempre trattato come un ladro… questa che hai tirato fuori oggi non è altro che una scusa per mandarmi via: vergognati”, puntandogli contro l’indice.

Una volta fuori, Lello tirò un sospiro di sollievo. Primo, perché a questo punto era evidente come anche quest’altro colpo fosse stato effettuato in maniera perfetta: ossia senza prestare il fianco a denunce ma al tempo stesso dando al nemico la certezza di essere stato buggerato. Secondo, perché era di nuovo un uomo libero: libero anzitutto di andare alle corse, che tornavano ad essere una passione e non una serie di nomi da scrivere su dei ridicoli foglietti colorati, per quattro lire. Dalla cabina di fronte all’agenzia telefonò a Claudio, già allertato: “Vienimi a prendere, che si va a Montecatini”.

In quell’agenzia egli sarebbe anche ritornato a giocare: e il massimo della soddisfazione era quando azzeccava un cavallo ad alta quota puntandovi una bella cifra e quindi passando necessariamente per le mani dello stesso direttore, il quale come suo solito accusava visibilmente il colpo augurando a denti stretti che la vincita finisse tutta in medicine. Mentre il cassiere – ancora scornato dai bigliettoni che aveva dovuto pagare – al momento della riscossione si metteva a canticchiare In questo mondo di ladri, pensando così di ferirlo ma finendo in realtà con l’accrescerne il compiacimento.

Di lì a poco Lello portò a termine il suo primo corso di laurea, iniziandone subito un altro. Claudio tornò invece al vecchio lavoro in piscina: e come da antiche abitudini, quando era di turno da solo la gran parte dell’incasso del nuoto libero finiva all’ippodromo. Ciononostante, a un certo momento egli si ritrovò promosso direttore. Titolare dell’impianto era un milanese, che venendo a Prato di rado aveva bisogno di un dipendente esperto e di fiducia che fosse in grado di mandare avanti la piscina, che anche a fronte del degrado della concorrente comunale diventava sempre più frequentata, nonché di moda.

Nel frattempo i due avevano modificato la propria tecnica di gioco. Dopo essersi a lungo concentrati sulle trio – la nuova scommessa resa possibile dall’informatizzazione del totalizzatore – non mancando di differenziare i sistemi rispettivamente giocati in modo da avere maggiori probabilità di vincita (e poter eventualmente rimborsare quello dei due che aveva perso), Claudio impresse alla propria ludopatia una svolta in un certo senso scientifica, coinvolgendo in ciò anche l’amico. Con la sua consueta perspicacia egli si era accorto di come certi cavalli venissero offerti sulle lavagne dei bookmaker a quote eccessivamente ribassate rispetto alle loro oggettive possibilità di vittoria; fatto che portava la maggior parte della “punta” a lasciarli perdere, valutando non valere la pena metterci dei soldi per così poco. Il fatto era però che il più delle volte quei cavalli vincevano.

Il che fece comprendere al giovane che su quegli anomali favoriti doveva essere già avvenuto un bel movimento di gioco: evidentemente a seguito della conoscenza da parte dei meglio informati di notizie riguardanti una particolare condizione del cavallo; se non di vere e proprie combine per farlo vincere. Di conseguenza, egli prese a concentrare le proprie puntate su quelle determinate situazioni, valutando attentamente il da farsi in occasione degli immancabili “casi limite” e riducendo al minimo l’interesse per le altre corse. Era sorprendente vederlo adesso limitarsi a fare lo spettatore allorché i cavalli sgambavano e andavano dietro la macchina, rimanendo comunque impassibile anche nel caso avesse vinto il cavallo sul quale gli era cascato l’occhio ma che alla fine – in omaggio alla regola che si era dato – aveva deciso di non giocare. Il suo atteggiamento era diventato quello del professionista: e più che mai generoso nei confronti dello squattrinato Lello in caso di vincita.

Fiducioso di avere finalmente individuato la giusta metodologia, una volta divenuto direttore Claudio si scatenò. La domenica, a ora di pranzo – allorché ogni attività natatoria era cessata e l’impianto chiuso – passava dall’ufficio, prelevava dalla cassetta di sicurezza una milionata e poi via verso l’ippodromo, assieme all’inseparabile compagno di vizio. Senonché alla lunga anche tale sistema si rivelò fallibile; per cui la sera non restava al perdente che ripassare dalla piscina e far sparire ricevute di abbonamento in quantità tale da compensare il maltolto.

Ma non essendo fondamentalmente il giocatore un bandito (quanto piuttosto un malato), i sensi di colpa lo divoravano; per cui Claudio si rivolgeva all’amico che lo osservava nel mentre compiva quei maneggi come parlando alla propria coscienza. “Voglio che tu sappia che io non sono un ladro. Sono costretto a fare quello che vedi solo perché oggi ho perso. Ma se avessi vinto, o fossi andato pari, avrei rimesso i soldi al loro posto, fino all’ultimo centesimo – Del resto mica è colpa tua se Estenio è stato battuto sul palo…”, tentava allora di rincuorarlo l’altro, facendo riferimento al cavallo sul quale Claudio aveva puntato tutto e dando vita a una più o meno involontaria ironia.

Una volta, due, tre: alla fine il divertito quanto mordace Lello non fu in grado di trattenersi. “Ma scusami: com’è possibile che il proprietario non si accorga di nulla? Qua sono somme piuttosto ingenti che spariscono, mica bruscolini… – Vedi, perché venisse fuori l’ammanco servirebbe un controllo incrociato tra gli abbonamenti riscossi e il numero di corsisti effettivamente presenti in vasca: controllo che non sarà fatto mai – E ci credo: anche perché a farlo dovresti essere tu!”. Signore come sempre, Claudio si trattenne dal mandare a quel paese l’impertinente amico.

Ma il tempo è galantuomo, e ci pensa lui a rimettere a posto le cose. Venne il giorno in cui il proprietario si stufò di dover venire fino a Prato per curare gli affari della piscina, e la mise in vendita; immediatamente Claudio si offrì di acquistarla. Da una stima che fece fare, la licenza – l’attività aveva sede in un locale in affitto – poteva valere dai 30 ai 35 milioni di lire; per rimediare i quali egli avrebbe ipotecato certi terreni di famiglia. Al momento della trattativa, però, il navigato uomo d’affari fece un sol boccone del giovane acquirente: “O mi dai 50 milioni, altrimenti ho già un altro disposto a darmeli: per quanto – come vedi – ti riconosca il diritto di prelazione”. Chissà che l’astuto milanese non avesse fatto apposta a far ingolosire il suo dipendente, lasciandolo a lungo fare per poi riprendersi con gli interessi quanto costui gli aveva indebitamente sottratto negli anni.

Il nuovo incarico, la pesantezza del mutuo contratto responsabilizzarono Claudio, riducendo l’importanza nell’economia della sua vita delle corse. Da sempre in lite con la madre, egli aveva inoltre ripiegato su una convivenza con una donna più grande e con figlio a carico, già sua collega in piscina e che dopo che ebbe promossa a sua segretaria lo controllava dalla mattina alla sera. Tale compagna nutriva una forte avversione nei confronti di Lello: forse perché lo vedeva come il malefico tramite fra il proprio uomo ed il pericolo costituito dal gioco; o forse per semplice gelosia femminile, talmente forte e radicata appariva l’amicizia tra i due. Fatto sta che i loro rapporti si deteriorarono.

Lello non seppe tuttavia rassegnarsi alla nuova situazione. Non accettava di essere classificato tra le “cattive amicizie”; ma soprattutto non gli pareva possibile che l’amico che aveva tanto ammirato sin da ragazzo per la sua forza di carattere e la sua indipendenza fosse divenuto succube di una simile arpia. Il destino volle che la resa dei conti tra i due avvenisse proprio all’ippodromo, dove entrambi si recavano ormai sempre più di rado. Fu lo studente a muovere all’attacco, affrontando l’amico appena lo vide, eludendone i diplomatici convenevoli e dicendogli in faccia quel che gli doveva dire. La risposta di Claudio fu altrettanto aspra.

Entrambi se ne andarono via tristi: perché avevano capito che quell’amicizia, nata per caso e corroborata da anni di sofferenze e complicità, era finita per sempre. Certo, abitando nella stessa città la sorte li avrebbe fatti rincontrare; ma le volte che avveniva evitavano di rivangare il passato, e di rievocare quel che erano stati.

Anche perché adesso erano consapevoli del fatto che al gioco essi avevano perso la cosa più bella e preziosa che avessero mai avuto: la giovinezza.

Giocatoriultima modifica: 2019-10-23T22:59:14+02:00da tradersimo
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