Crimini partigiani a Lodi e a Parma

Su certi tragici accadimenti avvenuti tra Lombardia ed Emilia alla fine della Seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra raccogliamo la testimonianza del signor G. M., nato a Monsummano Terme il 7 gennaio 1936. Al di là degli orrendi misfatti narrati, il racconto rappresenta anche uno spaccato della solidarietà e dell’ospitalità caratterizzanti la civiltà contadina, che in quei drammatici frangenti diedero grande prova di sé.

Con la mia famiglia – composta da mio padre Marcello, mia madre Dina e mio fratello Narciso –  abitavamo a Monsummano Terme, nella casa dei nonni materni. Mio padre era di Montecatini, ove lavorava come cameriere presso il Caffè Biondi; nel 1922, a sedici anni, aveva preso parte alla Marcia su Roma sotto le insegne del Fascio montecatinese, del quale per la giovanissima età rappresentava la mascotte. Continuata a vestire convintamente la camicia nera per tutto l’arco del Ventennio, una volta costituitasi la Repubblica Sociale assieme ad altri camerati concittadini aveva aderito al fascismo repubblicano, arruolandosi nella Brigata Nera “Aldo Resega”: scelta che comportò il trasferimento di questi fascisti valdinievolini, con al seguito le rispettive famiglie – una decina – a Lodi, sede di un importante distaccamento di quella brigata milanese.

Il 1° giugno 1944 avvenne la partenza della carovana, a bordo di quattro o cinque camion militari preceduti da un’automobile e scortati da un’ambulanza della Croce rossa; alla mia famiglia si era unita una cugina di mia madre, Derna. Lungo la strada della Collina la colonna subì un mitragliamento da parte di un cacciabombardiere americano, che tuttavia non riuscì a colpirla. All’arrivo a Milano ci sistemammo in una palestra all’ingresso della città, ove rimanemmo per una ventina di giorni sino al trasferimento a Lodi; mio padre era deputato alla guida di un motocarro Guzzi, carico di vettovaglie.

Fummo tutti alloggiati dentro il castello lodigiano, i cui saloni erano stati riconvertiti in appartamenti di fortuna, con cucine economiche e un lenzuolo a dividere il soggiorno dal reparto notte. Noi bambini frequentavamo la scuola posta di fianco al castello. L’inverno del ‘45 fu particolarmente rigido, con una nevicata eccezionale e gelate i cui effetti si protrassero fino all’inizio della primavera. Mentre dal punto di vista bellico la situazione rimase tutto sommato tranquilla sino all’arrivo dei tedeschi; i quali insediarono la Kommandantur proprio nell’edificio scolastico, piazzando anche una mitragliatrice sulla torre del castello, in funzione di contraerea. Di conseguenza, l’attività didattica fu spostata all’interno del castello, con l’accorpamento delle classi data la mancanza di locali.

In realtà un episodio cruento riguardante il distaccamento repubblichino lodigiano era avvenuto: non al castello bensì alla caserma in cui era acquartierata la brigata, situata in piazza della Vittoria. Una notte dei partigiani vi avevano compiuto un blitz finalizzato al prelievo di armi e munizioni. La sentinella però si avvide dell’incursione e aprì il fuoco, uccidendo un partigiano e ferendone un secondo, che fu poi finito da un altro milite sopraggiunto.

Si arriva così al periodo più tragico di quella esperienza: l’aprile del 1945. Particolarmente terrorizzanti risultavano per noi le frequenti incursioni aeree dei mitragliatori alleati, che a orari piuttosto regolari (tra le 11 e mezzogiorno la mattina, allorché il sole era basso al pomeriggio) mettevano a ferro e fuoco il castello, che pagava così la contiguità con il comando germanico. A scuola ci si era organizzati: all’ordine della maestra, ci si rannicchiava sotto ai banchi, appositamente addossati alla parete. Qualora però l’attacco avvenisse al di fuori dell’orario di lezione, noi bambini non rinunciavamo all’aspetto ludico neppure in quei drammatici frangenti.

Mentre infatti al suono della sirena gli adulti – per la maggior parte donne, essendo gli uomini impegnati nelle attività militari –  correvano a rifugiarsi nei sotterranei, noi andavamo ad appostarci dietro le colonne del castello, facendo a gara a chi raccoglieva più bossoli e proiettili. Ricordo il panico che provavamo nell’udire il rombo dell’aereo lanciato in picchiata prima della mitragliata, il suo allontanarsi per poi ritornare anche diverse volte. Nonostante le lesioni provocate all’edificio, tra le nostre file non si registrarono vittime; viceversa, il cecchino tedesco centrò un caccia americano, che precipitò in un campo senza incendiarsi. Ricordo a tale proposito che i documenti rinvenuti addosso al cadavere del pilota consentirono di appurare essere egli italiano, e per la precisione siciliano.

Destino volle che proprio nei giorni immediatamente precedenti la liberazione il motocarro guidato da mio padre fosse fatto oggetto di un attentato partigiano nel mentre si recava a Milano a fare scorta di nafta, essendo stata quella in dotazione requisita dai tedeschi. L’agguato ebbe luogo fra Tavazzano e Melegnano; a bordo erano altre due persone. Il primo era un montecatinese, Oliviero Galli: fascista della prima ora, di qualche anno più anziano di mio padre, del quale oltre che fraterno amico era anche collega. Dell’altro brigatista non ricordo il nome; si trattava comunque di un lodigiano di  diciotto anni, appena arruolatosi e che si distingueva per la sua altezza non comune, sui due metri. Nell’aggressione rimasero feriti il Galli a un polmone e mio padre a una gamba. Non vedendoli rientrare, al castello si sparse la voce che nessuno di loro fosse sopravvissuto all’attentato.

In realtà, una volta ricongiuntasi la mia famiglia il babbo mi avrebbe raccontato come era riuscito a salvarsi. Abbandonato il motocarro, assieme agli altri due avevano raggiunto un casolare situato nel territorio di Melegnano, ove rimasero qualche giorno venendovi curati e ricevendo anche degli abiti civili. Qui furono raggiunti dalla notizia che la guerra era finita; si recarono perciò a Milano, ove contavano di trovare conoscenti conterranei grazie ai quali poter fare rientro a Montecatini. Una volta raggiunto il capoluogo lombardo, però, si imbatterono in un corteo partigiano che sfilava per le vie della città. Da una jeep, una ragazza si mise a urlare: “L’è lù! L’è lù!”, indicando il più giovane dei tre – ossia lo spilungone – fermatisi anch’essi a vedere il passaggio del corteo.

Il lodigiano riconobbe subito nella giovane partigiana una concittadina. Subito disse agli altri due: “Mi ha riconosciuto! Voi state fermi, che io scappo”, valutando che gli abiti civili li avrebbero salvati. Ma nonostante il suo tentativo di fuga, fatti pochi metri fu fermato dalla folla, mentre da quella stessa jeep erano scesi la ragazza in questione e due uomini. Il poveretto fu pestato a sangue, trascinato fino alla jeep, legato con una fune sotto le ascelle e agganciato alla ruota di scorta: in quella maniera, con le gambe che gli strascicavano per terra, fu portato in giro per la città, come un trofeo. Mio padre, che aveva con sé la pistola, avrebbe voluto intervenire a difesa del giovane camerata; ma il Galli, mostrando maggiore avvedutezza, lo dissuase dal farlo, facendogli notare che quel gesto sarebbe equivalso a un suicidio.

Lo sfortunato ragazzo fu infine portato al cimitero monumentale, e lì fucilato. Venuti a sapere della cosa, mio padre e il Galli si fecero accompagnare al cimitero ove, appeso al ramo di una pianta per le gambe, penzolava il cadavere del giovane, con i piedi attaccati al corpo solo per la pelle dato che il prolungato strascicamento aveva consumato le ossa dei calcagni. Dalle numerose ferite di arma da fuoco si capiva inoltre che, moribondo o più probabilmente già morto dissanguato, l’accanimento con il mitra sul corpo del poveretto doveva essere stato il più feroce.

La sera del 25 aprile anche i tedeschi di stanza a Lodi batterono in ritirata. Per noi la situazione precipitò già il mattino successivo, allorché all’ingresso del castello giunse un furgone dal quale scesero cinque partigiani, tutti con il fazzoletto rosso al collo, uno dei quali portava anche una fascia azzurra al braccio. Che quest’ultimo fosse il comandante si deduceva anche dal fatto che mentre gli altri erano armati di mitra o di moschetto, costui impugnava una pistola. Subito si capì che la spedizione era finalizzata all’uccisione dei repubblichini; il grosso dei quali però non era presente, essendosi dileguato da diversi giorni. Al castello si trovavano dunque soltanto i familiari; con l’eccezione di un componente la brigata, che peraltro non aveva mai partecipato ad alcuna azione militare limitandosi a svolgere la sua funzione di amministratore della “Resega”.

Il povero brigatista fu prelevato assieme a tutta la sua famiglia – composta dalla madre, dalla moglie e da quattro figlioli – e portato in piazza Castello, ove il capo del commando gli chiese di rivelargli il nome del commilitone che la notte del blitz alla caserma aveva dato l’ordine di uccidere il partigiano rimasto ferito, garantendogli in cambio la salvezza. Nonostante l’uomo avesse fatto un nome, ugualmente si abbatté su di lui il fuoco degli assassini, davanti agli occhi dei congiunti. Ricordo che per quanto i carnefici lo avessero messo con la faccia al muro, al momento della scarica egli riuscì a voltarsi, venendo colpito in pieno petto proprio mentre alzava il braccio nel saluto fascista. Nonostante fosse evidentemente morto, il comandante partigiano gli si avvicinò per assestargli il colpo di grazia alla testa.

Ma quella mattinata continuò a tingersi di sangue: secondo obiettivo del commando era infatti la vineria situata nelle immediate vicinanze del castello. Io la conoscevo perché a volte vi ero stato mandato dai miei genitori a prendere il vino; sapevo perciò che a gestirla erano un signore più anziano con la moglie, il figlio e quella che presumo fosse la nuora. Preciso che potei osservare l’orribile scena che vado a descrivere – così scioccante per i miei occhi di bambino di nove anni – da una finestra del castello.

La mescita aveva due ingressi; vidi due partigiani dirigersi verso quello posto sul retro, che dava su un giardino. Prelevati il vinaio padre e le due donne, li condussero sullo stradello, ove li legarono per i polsi alla ringhiera soprastante il muro, per poi fucilarli. Ma all’appello mancava ancora il figlio: io non so se quel poveretto si fosse nascosto da sé dentro una botte, nel tentativo di salvarsi, o ve lo avessero ficcato a forza gli stessi partigiani. Fatto sta che la sua esecuzione fu di una atrocità unica: dopo essere rientrati nella cantina, gli aguzzini ne uscirono sospingendo questa botte, che fecero ruzzolare tramite una tavola disposta sullo scalino del cancello della bottega in modo da farle raggiungere lo stradello.

Di lì essa fu sospinta per farla scivolare verso la scarpata che segnava l’inizio della prateria adiacente l’abitato, e che poi era la stessa in cui era precipitato l’aereo americano abbattuto dai tedeschi. Ho la certezza che dentro vi fosse un uomo – e che non poteva essere che il quarto componente di quella famiglia – perché vidi prima un partigiano sparare con il mitra sulla botte nel mentre ruzzolava, e subito dopo il solito comandante, che aveva assistito all’esecuzione dallo stradello, avvicinarsi anche in questo caso al corpo per dargli il colpo di grazia. Nella tragica corsa che fece quella botte prima di schiantarsi, potei vedere distintamente lo sfasciarsi di doghe e cerchi, in una sequenza che non avrebbe potuto risultare più agghiacciante.

Il terrore che a seguito di tali fatti si diffuse dentro al castello è facilmente immaginabile. Eravamo sorvegliati da due sentinelle partigiane; ricordo che la sera stessa dell’eccidio mi consentirono di uscire per andare a prendere il latte da un contadino. Seguirono tre giorni e tre notti segnati da continui spari, che dovettero fare numerose vittime lì attorno dal momento che il fetore che ammorbava l’aria si fece insopportabile. Allorché con mia madre uscimmo per andare a comprare da mangiare, potei vedere diversi cadaveri, sia a terra che dentro la vasca della piazza; un altro era appeso al cancello che delimitava le mura del castello. Essi furono portati via soltanto tre o quattro giorni dopo, per mezzo di un carro trainato da due bovi; ricordo che dovettero utilizzare anche una carriola, dal momento che alcuni giacevano in punti disagevoli. Tutti quanti quei poveri corpi furono comunque gettati sul carro alla stregua di sacchi di patate. Quest’opera di pulizia precedette di poco l’arrivo delle truppe alleate.

Per noi quel momento rappresentò un momento di gioia: vivendo praticamente da reclusi dentro al castello, i soldati americani ci passavano tramite una corda un paniere ripieno di cioccolate, vasetti di pasta di nocciole, sigarette. Si era ai primi di maggio quando venimmo a sapere che mio padre era vivo e che era rientrato a Montecatini. Lo apprendemmo da un monsummanese, Aldo Tacconi: catturato dagli inglesi in Africa, in seguito passato nelle file alleate come meccanico, era venuto a Milano a fare rifornimento di gomme per i camion americani. Essendo solo, egli poté portare con sé anche la Derna, facendola passare per la propria moglie; io e mia madre non potemmo aggregarci poiché il regolamento consentiva agli autocarri militari di trasportare un solo civile oltre all’autista.

Mio fratello invece era già tornato a casa da qualche settimana, sfruttando l’opportunità offertagli da un albergatore montecatinese amico della nostra famiglia e che si trovava anch’egli a Milano, Amerigo Galli: il quale si offrì di dargli un passaggio con la propria automobile ritenendo che essendo Narciso più grandicello rispetto a me – aveva 13 anni – potesse rischiare di rimanere anch’egli vittima della terribile mattanza in atto, che non mostrava di farsi scrupoli circa l’età dei malcapitati. Anche in questo caso io e mia madre non potemmo approfittare dell’occasione poiché sulla vettura – sulla quale oltre al Galli e alla moglie erano anche le loro valigie e quella che noi affidammo a Narciso – non c’era più posto.

Rimanemmo a Lodi ancora una ventina di giorni, finché non ci fu consegnato un avviso – affisso anche al portone del castello – che disponeva la nostra partenza per la mattina di sabato 26 maggio. Alla trentina di persone componenti il nostro gruppo si unirono parecchie altre famiglie di fascisti, tanto che alla stazione di Lodi ci ritrovammo in un centinaio, fra donne e bambini; ricordo che l’unico uomo adulto presente in quella comitiva era un nano. Fummo messi in tre carri bestiame, collocati in fondo al treno. Essendo quest’ultimo diretto a Cremona, il cambio con il convoglio diretto in Toscana sarebbe dovuto avvenire a Piacenza; ma essendo il ponte sul Po stato fatto saltare dai tedeschi in fuga, ci fu annunciato che una volta giunti in prossimità del fiume il treno avrebbe proceduto a passo d’uomo in modo da consentire al nostro gruppo di scendere per raggiungere l’altra sponda in barca.

Il servizio traghetto – a pagamento – era ben organizzato: la presenza di decine di barche ci consentì di attraversare il fiume in poco tempo, tanto che arrivammo alla stazione di Piacenza ancor prima di mezzogiorno. Ma il traffico ferroviario per il sud della Penisola era ancora nel caos più completo; ricordo che partivano solamente convogli della linea per Alessandria. Ci fu perciò detto di aspettare, dal momento che l’eventuale partenza di un treno che potesse fare al caso nostro sarebbe stata decisa da un momento all’altro: per cui pernottammo in stazione.

Nella tarda mattinata della domenica il venditore ambulante di bibite ci disse che qualche ora prima dalla piazza antistante la stazione era partito un autocarro militare che aveva caricato una parte delle persone in attesa. Con gli altri compagni di viaggio organizzammo allora una sorta di staffetta, in modo da controllare sia l’eventuale arrivo di un altro camion, sia la stazione, nella speranza che fosse fatto partire un treno diretto a sud. Verso le tre una donna venne ad annunciarci la partenza di un autocarro militare: assieme ad altri io e mia madre ci affrettammo per non perderlo. Si formò così un gruppo di una trentina di persone: una ventina di donne, diversi bambini (il più grande dei quali ero io; ricordo che c’era anche un lattante) e il nanetto.

A guidare il camion era un nero americano, in divisa; assieme a lui, ad aiutarci a salire a bordo era un partigiano, munito anche in questo caso di fazzoletto rosso e fascia azzurra, e con il mitra a tracolla. Quest’ultimo chiese a ciascuno i soldi necessari al viaggio, che avrebbe dovuto condurci a Parma. Inoltre, non essendo stato possibile far salire il nano assieme a noi per mezzo della scaletta, i due conducenti dell’autocarro decisero di sistemarlo in cabina assieme a loro. Una volta giunto nelle vicinanze della città, il camion svoltò sulla destra, sino a imboccare una strada sterrata in salita che portava verso le colline: sentii allora il nanetto chiedere al partigiano il motivo di tale deviazione. Quello gli rispose che più avanti la Via Emilia era interrotta a causa di un ponte fatto saltare.

L’autocarro continuava a salire a velocità molto bassa, essendo il fondo stradale stretto e accidentato. Nell’unico punto un po’ più largo esso fu costretto a fermarsi, essendo la strada ostruita da una sbarra. Le donne a quel punto ne approfittarono chiedendo di poter scendere allo scopo di soddisfare bisogni fisiologici: cosa che fu loro consentita, per cui venne abbassata la sponda posteriore del camion. A sua volta il nano scese – stavolta senza problemi – accostandosi alla pianta più vicina. Il partigiano invece passò sotto la sbarra e cominciò a chiamare delle persone: perché subito oltre erano due case coloniche. Le raggiunse continuando a fare questi nomi, a gran voce.

Si ripresentò dopo un quarto d’ora, ancora vociando, assieme a una donna di mezz’età, che vestiva abiti contadini tenendo in mano la manovella necessaria a manovrare la sbarra; la discussione tra i due aveva luogo nel dialetto locale e a voce alta. Di lì a poco ne apprendemmo il motivo, e nella maniera più drammatica; perché mentre il partigiano si riavvicinava al camion, la donna si rifiutò di alzare la sbarra, gridandogli: “Assassìn! Assassìn!”. Il nanetto doveva essere lucchese, perché una volta compreso i termini della discussione si mise a sua volta a urlare, rivolto a noi: “Scappate! Ci ammazzin tutti!”. Furono le ultime parole di entrambi: perché, impugnato il mitra, il partigiano li fece secchi all’istante; il povero nanetto proprio nel mentre si riabbottonava la patta dei pantaloni.

In quel momento qualche donna era ancora nel campo, altre erano già risalite sul camion: tutti quanti ci demmo alla fuga. Si era all’imbrunire; verso la cima della collina, nei boschi ove presumibilmente conduceva quella strada, avevo notato dei fuochi che facevano pensare alla presenza di persone. Senza mettere tempo in mezzo ci buttammo in un boschetto di là dalla strada con l’intenzione di passarvi la notte, all’unico scopo di salvare la vita e senza pensare ad altro. Si formarono così dei gruppetti allo sparpaglio; del nostro, oltre a me e mia madre facevano parte due donne e una bambina, più o meno della mia età.

A distanza di tanti anni, credo di essere in grado di dare una spiegazione a quel tragico episodio cui assistetti. Questo sia grazie a rivelazioni di cui venne a conoscenza mio padre, che si interessò molto a quella vicenda informandosi presso suoi ex camerati che conoscevano la situazione; sia per le riflessioni che ho maturato nel tempo, basandomi su quanto detto dalle due persone che furono falciate davanti ai miei occhi. I fuochi da me avvistati segnalavano la presenza su quella collina di un accampamento di soldati neri americani; l’autocarro aveva deviato verso quella postazione non – come aveva detto il partigiano al nanetto – per una interruzione lungo la Via Emilia, bensì per portare a quel campo le donne allo sbando caricate qua e là: perché – a quanto fu riferito a mio padre – quei militari pagavano i partigiani per essere riforniti di donne.

Evidentemente anche il camion partito in precedenza dalla stazione di Piacenza era stato portato lì, e le donne a bordo dovevano essere state nel migliore dei casi violentate, nel peggiore anche uccise, assieme agli eventuali bambini che avevano con sé. Dico questo per deduzione: perché solo così si spiega il disperato avvertimento lanciato dal nano prima di essere messo a tacere per sempre. Ma soprattutto la reazione della contadina freddata; la quale presumibilmente al mattino, ignara delle intenzioni dei due responsabili – chiamiamoli così – dell’autocarro lo aveva lasciato passare, acconsentendo all’apertura della sbarra. Poi però lo aveva visto ridiscendere vuoto, avendo con ogni probabilità udito anche urla, spari: insomma gli echi di una carneficina. Per questo al ritorno dei due “assassini” aveva avuto quella reazione: perché non voleva essere complice di un’altra strage, che a questo punto avrebbe avuto sulla coscienza.

Ovviamente io non posso avere la certezza che tutta la trentina di persone – presupponendo che fosse stato caricato un gruppo più o meno equivalente al nostro – trasportate su quel camion abbia fatto quella fine; ma ritengo assai probabile che in quell’accampamento delle uccisioni vi fossero state. Per cui mi reputo un miracolato: e non posso fare altro che ringraziare il Cielo che la stessa sorte non sia toccata a noi. Che evidentemente dovemmo la nostra salvezza soltanto alla reazione ferma e sdegnata di quella eroica donna che seppe opporsi alla protervia dei due criminali e fu per questo ammazzata come un cane; al pari dello sfortunato nanetto, divenuto anch’egli scomodo testimone dei misfatti che su quella collina vedevano complici “liberatori” e “patrioti”. Così come devo dare atto che invece di fare fuoco anche su di noi il mitra del partigiano si abbassò, consentendoci di scappare.

Dormimmo all’addiaccio, riparati dai soli vestiti. Al mattino successivo, nell’attraversare un grande prato posto a valle del bosco notammo un casolare, con il camino acceso: si trattava di una casa colonica, raggiunta la quale vi trovammo diverse donne del nostro gruppo. Datici una lavata al pozzo, la famiglia di contadini che abitava lì ci diede da mangiare una grossa e gustosa frittata di verdure, che doveva bastare per tutti. Ricordo la fame con cui divorai la mia porzione: perché era dal mattino del giorno prima che non mangiavo, dalla colazione fatta al castello prima di partire. Ci diedero anche delle mele gialle, che io riposi nel sacco che portavo sempre con me.

Pure in questo caso mia madre mise mano al portafogli; anche perché il contadino ci disse che ci avrebbe portato fino alla Via Emilia caricandoci sul carro del fieno, trainato da una mucca: soltanto noi cinque, essendo quelle altre donne che avevamo trovato alla colonica andate via per conto loro. Una volta raggiunta la strada principale iniziammo a percorrerla in direzione di Reggio, principalmente a piedi ma potendo anche usufruire di qualche mezzo di fortuna. La sera, ancora distanti dalla città, trovammo da mangiare e dormire presso un’altra casa colonica; le donne furono sistemate in un lettone, io sul divano. Il martedì di buon mattino riprendemmo il cammino, sino ad attraversare tutta Reggio a piedi; il giorno non ci fermammo neppure a mangiare, sostenendoci con dei panini consumati senza interrompere la marcia allo scopo di raggiungere Modena prima di buio.

Ciononostante, la sera ci colse senza che fossimo riusciti a giungere a destinazione; fummo perciò nuovamente costretti a cercarci un riparo per la notte. Vedendo un casolare situato a breve distanza dalla strada, ci avvicinammo trovando la porta socchiusa; pur essendo la casa tutta in ordine, dentro non c’era nessuno: per cui non ci parve il vero di approfittare di tale insperata opportunità. Mia madre accese il lume a petrolio sulla tavola della grande cucina, mentre le altre donne accesero il fuoco e misero a bollire la pentola, dal momento che nella stanza erano anche delle patate; io e la bambina ci mettemmo a sedere in attesa del pasto.

Di lì a poco si udì sopraggiungere sullo stradello che serviva il casale un automezzo, che pensammo fosse quello dei padroni di casa. Invece si presentarono all’uscio cinque uomini, che portavano tutti al collo il fazzoletto rosso: e fu subito chiaro che le loro intenzioni erano tutt’altro che amichevoli. Irruppero nel cucinone e tra le urla delle donne due di loro presero me e la bimba per rinchiuderci nel fienile posto dirimpetto, congiunto al primo edificio da un arco sotto il quale passava lo stradello. Una volta usciti sentii che sbatterono la porta della casa, mentre le donne continuavano a urlare. In qualche modo io e la bambina ci addormentammo, tenendoci stretti nella paglia per farci coraggio.

Nella notte le donne vennero a prenderci, in lacrime: quei cinque delinquenti le avevano violentate a turno, per diverse ore. Per la mentalità di allora un fatto del genere significava vergogna e disonore, specie per delle madri di famiglia: quelle povere donne ci fecero perciò giurare che non avremmo mai rivelato a nessuno quel che avevano avuto a patire. A distanza di tanti anni, però, io mi sono sentito in dovere di rendere pubblico quanto accaduto a mia madre, per onorarne la memoria e per renderle giustizia: perché non mi pare giusto che quei criminali che fecero violenza a lei e alle altre due siano rimasti impuniti, ricevendo magari dallo Stato medaglie e onorificenze in quanto esponenti della “Resistenza”. In ogni caso, io penso che qualcuno di quei farabutti ci avesse visto passare, avesse seguito i nostri movimenti e poi avvertito gli altri; del resto, che appartenessimo a famiglie fasciste – volendo attribuire il loro accanimento a tale motivazione – era facilmente deducibile dal fatto che in quei giorni in cui i treni non partivano, allo sbando come eravamo noi non potevano essere che reduci repubblichini e loro congiunti.

Io ero abbastanza grande per comprendere la gravità di quanto accaduto alla mamma: vissi il resto di quella interminabile odissea come assente, sconvolto, per cui non ho la stessa lucidità di ricordi di quella che conservo per i giorni precedenti. Al mattino le donne scaldarono l’acqua, ci lavammo e si ripartì in direzione di Modena; camminammo finché non ci caricò un camion che trasportava mobili, a bordo del quale attraversammo la Secchia facendo un bel pezzo di strada e scendendo oltre Modena. Fummo ospitati in un’altra casa colonica, dove ci diedero da cenare e ci misero a dormire nel fienile. Ne ripartimmo al mattino del giovedì percorrendo il primo tratto di strada sul carro – anche in questo caso trainato da una mucca – dello stesso contadino che ci aveva ospitato, il quale aveva da portare a vendere un vitello; dopodiché riprendemmo la nostra marcia.

Verso le cinque del pomeriggio giungemmo a Casalecchio, ove ci fermammo a rifocillarci in un bar; mia madre chiese al gestore se di lì ci fosse un qualche mezzo per arrivare a Pistoia. Usciti dalla bottega, il barista ci indicò la casa di un pescatore del Reno che ogni venerdì mattina portava il pesce al mercato di Pistoia. A quel punto, proseguendo le nostre tre compagne di viaggio in direzione dell’Adriatico le salutammo, in maniera particolarmente affettuosa e commossa. Entrati nella casa di questo pescatore vi trovammo la moglie, la quale ci fece sedere in attesa che rientrasse il marito. Giunto l’uomo con il camioncino, ci disse che ci avrebbe portati; cenammo lì stesso da loro e per dormire ci misero a disposizione un divano.

La partenza avvenne in piena notte, per quella che si sarebbe rivelata come la degna conclusione della mia via crucis. Non essendovi posto per sistemarmi in cabina assieme a mia madre, fui messo dietro, sotto la tenda del furgoncino, incastrato in mezzo a una decina di cassette di pesce che emanavano un puzzo insopportabile; usai il mio sacco a mo’ di cuscino e tenendo i piedi appoggiati alla valigia. Costipato a quella maniera dovetti sorbirmi l’intero viaggio, prendendomi tutti i colpi dovuti al fondo stradale accidentato, resi ancor più duri dalla lamiera del pianale. All’alba arrivammo a Pistoia, sulla Sala, alla cui fontana ci lavammo ma senza che il fetore del pesce che mi aveva ormai impregnato se ne andasse.

A riportarci a casa fu infine un pullman della Saca; ma la famiglia non poté riunirsi. Mio padre era in carcere: assieme all’inseparabile Galli avevano infatti deciso di costituirsi ai carabinieri, per evitare di finire anch’essi ammazzati dai partigiani. A quel punto mia madre, sola e così provata da tutto quanto passato, preferì tornare a Monsummano tenendo con sé il solo Narciso, affidando me ai miei zii paterni di Montecatini.

Io mi posso dire orgoglioso di essere riuscito a superare tutti i traumi di quella terribile esperienza infantile con le mie sole forze, senza dover ricorrere all’ausilio di dottori e psicologi.

 

Crimini partigiani a Lodi e a Parmaultima modifica: 2020-03-04T20:33:01+01:00da tradersimo
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