Anni Trenta di Enrico Nistri

Nel saggio Anni Trenta, pubblicato nel 1995 per i caratteri della Loggia de’ Lanzi, il professor Enrico Nistri raccoglie una serie di suoi interventi sul “Giornale”, che rappresentano altrettanti viaggi fra gli usi, i costumi, gli eventi culturali e politici di un decennio che segnò una svolta fondamentale nell’ambito del Novecento, gettando al contempo le basi di una nuova cultura destinata a caratterizzare fortemente gli anni a seguire, per poi inesorabilmente tramontare assieme al secolo stesso. Il leitmotiv dello studio sta proprio nel confronto tra quanto prodotto da quel vivace e fruttuoso periodo e il desolante panorama offerto dall’Italia fin de siècle; con un particolare occhio di riguardo per la città di Firenze, che sia per la pregnanza dei fermenti culturali – testimoniati dalle prestigiose riviste letterarie che vi vedevano la luce – che per l’importanza dei personaggi che vi operarono si trovò a vivere in quegli anni una sorta di secondo Rinascimento.

L’appassionata ricerca condotta per giornali e riviste offre inoltre al lettore un’interessante antologia che viene a completare il ritratto a tutto tondo di un decennio iniziatosi con la grande crisi del ‘29 e finito con la tragedia della guerra. Ne sono protagonisti i beneficiari delle sovvenzioni del Ministero della cultura popolare, i partecipanti ai Littoriali della cultura, l’appello del Partito Comunista d’Italia alla riconciliazione degli italiani dopo la guerra d’Etiopia, la presa di posizione di Elsa Morante a favore del voi, quella con cui Michelangelo Antonioni approva il film antisemita Süss l’ebreo, l’elogio rivolto da Giacomo Debenedetti allo stile del Mussolini scrittore.

In Italia gli effetti del crollo della Borsa di Wall Street si rivelarono meno devastanti che altrove: al 1934 – anno culminante della depressione economica – la media dei consumi privati risultava diminuita solo del 3% rispetto a cinque anni prima. La politica monetaria attuata dal regime fascista e finalizzata alla salvaguardia del valore della lira consentiva alle famiglie più agiate di continuare a onorare il rito delle vacanze estive, agli impiegati di mantenere la domestica; ma neppure sugli operai la recessione ebbe un impatto troppo pesante. In molti poi fruivano della possibilità di viaggiare per il Paese: i più giovani grazie agli annuali raduni dei “Campi Dux”, riservati ai migliori avanguardisti; gli adulti sfruttando le opportunità offerte dal Touring Club.

Sul piano culturale, l’autore fa notare il mutamento di orizzonti rispetto al decennio precedente, caratterizzato dalla polemica tra i movimenti letterari “Strapaese” e “Stracittà”, entrambi impegnati, con le rispettive riviste, ad orientare la politica del regime: il primo, fautore della restaurazione di un’Italia rurale, tradizionale, paesana, cattolica, patriottica; il secondo, auspice della modernizzazione del Paese e della sprovincializzazione della cultura. Il nuovo clima dettato dall’ambiziosa tabella di marcia impostasi dalla dittatura finirà infatti con il rendere obsoleta tale contrapposizione, frustrando in particolare le aspirazioni degli strapaesani.

I primi anni Trenta vedono il boom della radiofonia: la radio a galena, “che entra in funzione dopocena”, conquista rapidamente le famiglie italiane, soprattutto quelle borghesi; e chi non possiede il richiesto apparecchio si organizza andando ad ascoltare le trasmissioni nei locali pubblici o a casa di amici. “Eiar, eiar, alalà” diviene il calembour più in voga, visto l’enorme successo riscosso dai programmi musicali, e in particolare dalle canzonette; di conseguenza si rivela azzeccata la scelta del regime di privilegiare la programmazione leggera e d’intrattenimento rispetto a quella giornalistica e politica. La stessa linea viene perseguita in campo cinematografico, favorendo rispetto alla produzione più impegnata quella d’evasione: la quale risponde al disegno governativo di indurre il pubblico a sognare, in modo da fargli dimenticare le difficoltà del momento.

Nistri interpreta poi come un plebiscito nei confronti del regime il fatto che nel ‘31 soltanto undici docenti universitari su 1200 si rifiutassero di giurare fedeltà al fascismo, sottolineando al contempo il particolare che a costoro venisse comunque concesso il “paracadute” del pensionamento anticipato. Se all’antifascista Croce veniva consentito di continuare a sedere in Senato e di manifestare il proprio dissenso dalle colonne della Critica, eccezionale risultò anche il caso di uno dei suoi discepoli più illustri, lo storico della filosofia De Ruggiero, al quale fu lasciata la cattedra pur non avendo egli prestato il giuramento. Altrettanto tollerante la dittatura si rivelò nel consentire a molti intellettuali dissenzienti o comunque non allineati di collaborare all’Enciclopedia Italiana di Giovanni Gentile. Anche in questo caso l’autore cita un caso al limite dell’aneddotica: quello dello storico Gaetano De Sanctis, epurato dall’università per il mancato giuramento eppure assunto tra gli enciclopedisti.

La centralità nella politica fascista dell’urbanistica, la necessità di dar vita a città e quartieri che rinnovassero radicalmente le vecchie concezioni accademiche secondo uno stile che fosse al tempo stesso moderno e “littorio” – ossia emblematico delle crescenti ambizioni del regime – determinò la valorizzazione dell’architettura, con l’istituzione di apposite facoltà universitarie che promuovevano tale disciplina rispetto ai precedenti Istituti superiori e Accademie di belle arti; alla figura professionale dell’architetto fu inoltre riconosciuto uno status giuridico. L’autore si sofferma sull’influsso esercitato dal razionalismo di Le Corbusier sui maggiori architetti dell’epoca, a cominciare dal gruppo che si raccoglieva attorno a Giovanni Michelucci, non mancando di ricordare lo sconcerto suscitato dall’innovativo indirizzo nell’intellettualità più tradizionalista: diverse furono le riviste che bocciarono il progetto proposto dallo stesso Michelucci per la stazione di Santa Maria Novella, anche giungendo a paragonarne il relativo plastico a una cassa d’imballaggio.

Da fiorentino e da intellettuale, l’autore rende il doveroso omaggio alla figura di Alessandro Pavolini, cui va il merito di avere dato impulso, in veste di Federale di Firenze, a opere pubbliche e iniziative culturali destinare a caratterizzare a lungo la vita cittadina: il nuovo stadio, la nuova stazione ferroviaria, l’autostrada Firenze-Mare, la Mostra dell’artigianato, il calcio in costume, il Maggio musicale. Assieme all’altro grande intellettuale del regime Bottai, Pavolini volle inoltre i Littoriali – gli agoni in cui i giovani universitari si cimentavano inizialmente soltanto nello sport – estesi a arte, letteratura, dottrina del fascismo. Tali manifestazioni ebbero il merito di “far sentire i giovani protagonisti della trasformazione in atto; invitarli a discutere, criticare, polemizzare; mobilitare all’interno del regime energie che gli si sarebbero potute ritorcere contro”. Ironia della sorte, i Littoriali avrebbero finito con il selezionare buona parte della futura classe dirigente democratica e antifascista.

A tale curioso capitolo dell’esperienza del Ventennio viene dedicato un interessante approfondimento nella sezione antologica. “La quantità e la qualità dei littori o aspiranti tali parlano da sole: non solo il fascismo seppe mobilitare un altissimo numero di studenti universitari, all’interno di un corpo studentesco di gran lunga meno numeroso dell’attuale, ma dall’esperienza dei littoriali passarono giovani destinati a brillanti carriere nei più diversi ambiti, dalla critica letteraria (Binni e Bo) al cinema (Lattuada, Comencini e Antonioni, fra i tanti), narratori di buona tempra come un Bassani e artisti come Guttuso, studiosi di estetica come Anceschi e Assunto, e, naturalmente, politici”. Di ogni orientamento: parteciparono infatti ai Littoriali il liberale Bignardi, i comunisti Ingrao, Alicata, Amaduzzi e Granata, i missini Almirante, De Marzio e Tripodi, il repubblicano Cifarelli. La parte del leone toccò tuttavia ai futuri democristiani, sino ai ministri come Ferrari Aggradi e ai presidenti del consiglio Moro e Fanfani: quest’ultimo però in veste di esaminatore, essendo già giovanissimo docente alla Scuola di mistica fascista.

“E poi l’enorme massa dei giornalisti, dei professori d’università e dei presidi di liceo, degli alti magistrati e dei diplomatici, dei grand commis de l’état e dei produttori e sceneggiatori cinematografici. In breve tutta la classe dirigente di una nazione, che imparò l’arte della dialettica, del confronto e a volte dello scontro di idee, discutendo di cinema e di lettura, di teatro e magari anche di corporativismo e di razzismo in queste annuali olimpiadi della cultura. Al di là di ogni giudizio di altra natura, non si può fare a meno di notare come – sia pure su un’impalcatura propagandistica e retorica – il regime fascista seppe offrire alla gioventù studentesca del suo tempo un momento aggregante – come si sarebbe detto negli anni Settanta – e anche un meccanismo di selezione interna sconosciuti invece al restaurato sistema democratico e partitocratico. In cui – spiace dirlo – le possibilità di emergere per gli studenti universitari sono passate molto spesso attraverso il meccanismo delle raccomandazioni, spesso clientelari, ma non attraverso concorsi e dibattiti pubblici”.

La guerra d’Etiopia suscitò un’ondata di mode, canzoni, film, scritti celebrativi dell’impresa coloniale. L’autore si sofferma in particolare sulla vicenda di Faccetta nera, composta dal poeta romano Renato Micheli e portata al successo dal cantante fiorentino Carlo Buti. Nel ‘35, in previsione della spedizione in Africa Orientale, la propaganda di regime diede il via a una campagna di stampa relativa alla schiavitù cui era sottoposta la popolazione abissina, allo scopo di presentare la prossima occupazione italiana come finalizzata alla liberazione di quel popolo da tale stato di oppressione: il che indusse Micheli alla composizione della canzone, dal testo in romanesco essendo destinata al Festival della canzone romana. L’interpretazione che in giugno ne diede Buti al teatro Capranica fu un trionfo; non condiviso tuttavia dai censori governativi, i quali vi avrebbero letto secondo Nistri delle inopportune allusioni alla promiscuità sessuale, al punto di contrapporle una insulsa Faccetta bianca: il cui lancio si risolse però in un fiasco.

E così, “debitamente depurata dalle concessioni al dialetto, Faccetta nera diviene la canzone più popolare della campagna d’Etiopia, con buona pace del regime e a scapito di altre canzoni pur fortunate come Ti saluto, vado in Abissinia, orecchiabile inno del volontario. E lo diviene anche perché contiene tutti gli ingredienti dell’Italia littoria per l’avventura coloniale di Mussolini: fascino dell’avventura esotica, desiderio di un “posto al sole”, ma anche orgoglio di essere l’avanguardia di un colonialismo “progressivo” che allo sfruttamento selvaggio delle risorse e delle popolazioni antepone gli imperativi umanitari: primo fra tutti l’abolizione della schiavitù che, nell’impero del Negus, coinvolge ancora un milione di persone”.

Nell’agosto ‘36, all’indomani della proclamazione dell’Impero, si ha un episodio destinato a rimanere a lungo negletto, al punto di essere escluso da ogni testo storiografico, a cominciare da quelli dedicati al Partito Comunista Italiano: la pubblicazione sulla rivista proletaria francese “L’État ouvrier” di un “appello alla riconciliazione nazionale” a firma di oltre sessanta esponenti comunisti italiani, fra cui lo stesso Togliatti. Evidentemente, una volta fallita l’esperienza dello scontro frontale con il fascismo, e abbandonata la prospettiva di minare la stabilità del regime mediante i tradizionali strumenti cospirativi, i vertici del PCdI in esilio decisero di inaugurare una nuova strategia, basata sull’affinità che il movimento marxista poteva rintracciare con il manifesto fondativo dei Fasci di combattimento del ‘19, da Mussolini elaborato assieme a sindacalisti rivoluzionari, socialisti interventisti, anarchici, futuristi.

In pratica l’appello si proponeva di ricomporre idealmente la dolorosa spaccatura prodottasi nella sinistra italiana nel ‘14, al momento dell’espulsione dell’interventista Mussolini dal PSI, mirando alla costituzione nel Paese di un grande blocco proletario unito nel combattere borghesia e capitalismo, e nell’ambito del quale il compito dei fascisti sarebbe stato quello di scardinare la dittatura dall’interno, proprio nel nome di quei principi “di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori” dal fascismo rinnegati una volta conquistato il potere. Nel fare proprio il programma sansepolcrista i comunisti auspicavano infatti una “unione fraterna del popolo italiano”, da realizzarsi mediante “la riconciliazione tra fascisti e non fascisti” e dicendosi “disposti a combattere assieme per farla finita con la fame e l’oppressione”. “Lavoratore fascista, noi ti diamo la mano perché con te vogliamo costruire l’Italia del lavoro e della pace, e perché noi siamo, come te, figli del popolo, siamo tuoi fratelli, abbiamo gli stessi interessi e gli stessi nemici. È l’ora di prendere il manganello contro i capitalisti che ci hanno divisi, perché ci restituiscano quanto ci hanno tolto”.

Caduto l’appello nel vuoto, i comunisti avrebbero cambiato strategia puntando sulla guerra di Spagna e aderendo – avendo Mussolini scelto di appoggiare massicciamente i nazionalisti – alla parola d’ordine degli antifascisti italiani “oggi in Spagna, domani in Italia”, che li portò a schierarsi dalla parte del Fronte popolare. Ma quello che più sta a cuore a Nistri è la censura dell’atteggiamento tenuto dal Partito Democratico della Sinistra – erede del PCI – in occasione della ristampa dell’appello avvenuta nel ‘94 ad opera della rivista “Storia Verità”: con massima ipocrisia, il partito di D’Alema bollò la pubblicazione come un “falso”. Ciò nonostante “la formulazione del testo appaia del tutto intonata alla spregiudicata tattica leninista praticata anche all’epoca dal partito comunista e, soprattutto, alla politica di cooptazione delle élites politiche e culturali giovanili del fascismo portata avanti dal PCI nel dopoguerra”.

Gli anni di maggior consenso del regime, celebrati dalla conquista coloniale ma anche dalla fondazione di Cinecittà quale autarchica quanto ambiziosa sfida a Hollywood, coincidono con la segreteria di Achille Starace, la cui parabola viene dall’autore efficacemente sintetizzata. “Starace è quasi privo di senso dell’umorismo. È la sua forza e la sua debolezza: Mussolini lo considera un parafulmine dell’ostilità popolare, ma ne teme gli eccessi di zelo, specie se coinvolgono la sua persona. Quando Starace vuol far concludere tutta la corrispondenza ufficiale con la formula “Viva il Duce!”, per fargliene capire gli effetti controproducenti si diverte a declamargli immaginarie lettere, sul tipo: “Vi comunico che vostro figlio caporale si è rotta una gamba. Viva il Duce!”. Quando non riesce più a tenerlo a freno, Mussolini lo liquida, in un clima politico in cui l’esigenza di tenere sotto controllo l’opinione pubblica, evitando i motivi di dissenso, è più viva che mai”.

Il mandato del gerarca di Gallipoli segna l’accentuazione di quegli aspetti contraddittori, grossolani, spesso caricaturali connaturali all’essenza stessa del fascismo. Al contempo, la strada della decadenza politica e mentale irreversibilmente imboccata dallo stesso dittatore a partire dall’abbraccio con la Germania nazista farà raggiungere a tale vena tragicomica del regime punte inimmaginabili.

La pungente analisi nistriana parte dalle leggi razziali, varate nonostante il fascismo, “e soprattutto Mussolini che ha avuto a lungo per amante un’ebrea e deve molta della sua popolarità internazionale a un giornalista ebreo come Emil Ludwig”, non si fossero mai professati razzisti. Al contrario, per far dispetto alla Gran Bretagna il Duce aveva incoraggiato il movimento sionista, e in barba allo stesso Hitler dopo l’emanazione delle leggi di Norimberga non si era peritato di accogliere migliaia di ebrei profughi dalla Germania. Mentre dal canto suo la comunità israelita italiana non solo non era mai stata antifascista, ma anzi dopo aver offerto alla patria combattenti sia per le battaglie risorgimentali che per la Grande guerra aveva fornito allo stesso movimento mussoliniano camerati: compresi quelli più idealisti, spontanei e disinteressati della prima ora.

Dopo che nel ‘37 un intenso dibattito sviluppatosi nel Paese ha visto emergere numerose quanto autorevoli voci di dissenso nei confronti dell’antisemitismo nazista, l’anno successivo, preceduti da “un abborracciato manifesto per la difesa della razza, che porta la firma di molte mediocrità”, vengono varati gli sciagurati provvedimenti discriminatori, destinati a rimanere una macchia indelebile per il fascismo, per la Corona e per l’Italia. Ricordati alcuni dei casi personali più tragici e paradossali, in linea con il taglio generale del saggio l’arguto Nistri si sofferma su altri che sulla tragedia videro “prevalere la commedia, e a volte la pochade. Assai meno rigorose di quelle tedesche, le leggi razziali fasciste riconoscono la cittadinanza italiana ai figli di matrimoni misti passati al cattolicesimo: e saranno 5076 gli ebrei convertitisi dopo il ‘38. In più, siccome la maternitas è semper certa, ma la paternità no, non mancano le madri di famiglia che con dichiarazioni giurate appiccicano le marche da bollo alle corna fatte al marito con un “gentile” per assicurare al figlio l’”arianizzazione”. Né mancano episodi più squallidi, e addirittura più macabri, come il caso di quelle famiglie “arianizzate” che per dare credibilità al proprio pedigree “ariano” fanno dissotterrare dai cimiteri ebraici i resti dei loro antenati”.

Contestualmente, l’ultimo fascismo si mette in testa di “rifare gli italiani”, sostituendo alla retrograda figura del “borghese” quella dell’“uomo nuovo” e riscuotendo le maggiori simpatie negli ambienti giovanili: quasi un’anticipazione dello spirito del Sessantotto, evocato dall’autore nel riconoscere a quel progetto una certa modernità. “I “fascisti di sinistra” – o i comunisti che, rispondendo all’appello del PCI in esilio, si erano infiltrati nelle strutture del PNF – vi scorsero l’occasione per un’evoluzione in chiave rivoluzionaria non solo nella sfera del costume, ma anche in quella dei rapporti sociali. Abolire il lei a favore del più diretto voi ma anche, in prospettiva, del “romano” ed egalitario tu; accantonare nell’Italia meridionale le tradizionali formule di rispetto; infrangere le barriere fra lavoro manuale e intellettuale attraverso una riforma del sistema educativo che elargisse anche ai futuri operai i tesori della cultura umanistica – come auspicava Pratolini sul “Bargello” – erano altrettante forme di una battaglia antiborghese che non si sarebbe certo chiusa con la fine del fascismo ma che continua ancora oggi a influenzare stili di vita, risvolti del costume, scelte educative”.

Il che non toglie che la vicenda legata all’abolizione del lei finisse con l’oltrepassare il limite del ridicolo. Di quella campagna il saggio ci svela l’ispiratore: il letterato fiorentino Bruno Cicognani, il quale, in un elzeviro pubblicato sul “Corriere della Sera” ai primi del ‘38, sosteneva la necessità di abbandonare quella formula di cortesia obliqua, contorta e servile anche nelle scaturigini storiche, essendo stata introdotta in Italia ai tempi della dominazione spagnola, ricalcata sullo spagnolesco usted; quale alternativa lo studioso suggeriva il ricorso al tu o al voi, a seconda delle circostanze. La combinazione della leggerezza mostrata sul punto dal capo del governo con la proverbiale ottusità del segretario del partito segnerà uno dei capitoli più grotteschi dell’intero Ventennio, facendo peraltro registrare la convinta adesione all’iniziativa degli intellettuali più acquiescenti nei confronti del regime.

“Piaciuti a Mussolini, gli argomenti di Cicognani passano dalla terze pagine dei quotidiani ai “fogli d’ordine” del PNF, che pretendono di abolire il lei anche quando è soltanto un innocuo pronome personale: come nel caso del povero settimanale femminile “Lei”, che piuttosto che divenire “Voi” preferisce ribattezzarsi “Annabella”. Metodi di questo genere fanno cadere nel ridicolo l’invito di Cicognani: c’è chi si chiede se anche il massimo astronomo italiano dovrà essere chiamato Galileo Galivoi. Ma i letterati, in tempo di dittatura, non sempre hanno paura del ridicolo. Quando l’ultrafascista periodico “Antieuropa” dedica un intero numero alla questione, contro i “malinconici del lei” si schiera una cinquantina d’intellettuali” fra i quali Quasimodo, Pratolini, Binni, la Morante, Bargellini, Pasquali, Vittorini.

Gli effetti dell’accoppiata Mussolini-Starace si mostrano in tutta la loro grettezza nel portare avanti la battaglia contro la borghesia: anche perché il dittatore vi appare animato da un violento rigurgito di socialismo, quasi ad accogliere lui – pur con qualche anno di ritardo – quell’appello rivolto dai comunisti alla base fascista più sensibile alle istanze sociali e proletarie. Alla fine del ‘38 lo zelante segretario promuove una “mostra antiborghese” consistente in una serie di caricature dei vari aspetti del costume “passatista”: “La stretta di mano, l’abito da società con relativo tubo di stufa, la riverenza, la scappellata, il conferenziere, il rancio d’onore, l’insediamento, i giuochi di società, il tè delle cinque, il pietismo per il giudeo, il saluto del gagà”. L’iniziativa suscita l’ingenuo entusiasmo di molti esponenti della stessa “sinistra fascista” – tra cui Vittorini e Pratolini – i quali si illudono di scorgervi il preludio di un rivolgimento sociale.

Anche in questo caso l’ironia nistriana riesce graffiante: “La stampa giovanile di questi anni ospita tutta una serie di invettive contro l’uso dell’”eccellenza” e del “don” nelle regioni meridionali, di polemiche contro il monocolo e il latifondo, di articoli in cui si auspica che l’abolizione del lei preluda all’introduzione del tu. Fra quelli che alzano di più la voce, molti aderiranno dopo la caduta del regime al partito comunista: e sarebbe interessante domandarsi quanto, intenzionalmente o no, abbiano contribuito a rendere il fascismo insopportabile agli italiani. Nel frattempo, comunque, molti di loro sono riusciti a renderlo più che sopportabile a se stessi. Non tutti arrivano al punto di Pratolini, che nei suoi romanzi del dopoguerra denuncerà le vessazioni poliziesche del fascismo fiorentino con la cognizione di causa di chi è stato un collaboratore della polizia segreta: ma la disinvolta abitudine di farsi iscrivere nel libro paga del regime è generalizzata”.

Nel gennaio ‘39, dopo la pubblicazione di un maldestro articolo di Alberto Savinio in cui la morte di Leopardi veniva attribuita a un’indigestione di sorbetti napoletani, il Ministero della cultura popolare retto da Alfieri decreta la soppressione di “Omnibus”, fondato due anni prima dal prolifico Leo Longanesi e universalmente considerato come il miglior settimanale pubblicato nell’arco del Ventennio. Riconosciutolo come il primo rotocalco italiano, l’autore ne individua il successo nella sapiente alternanza fra articoli di propaganda fascista e più disimpegnate colonne di costume, nonché nello spregiudicato utilizzo del materiale iconografico per la satira sia nazionale che internazionale, con in particolare Francia e Inghilterra sovente ridicolizzate sul piano sociale e istituzionale. “Anche con questa rivista, insomma, Longanesi cercò di servire il fascismo con tutta la sua intelligenza. E forse lo sciocco intervento della censura fece perdere al regime il suo ultimo omnibus”.

Ad Alfieri subentra Pavolini: ed è lui a coniare la categoria del “cangurismo”. “”Canguri”, grandi o piccoli a seconda dei contributi, vengono definiti al ministero della cultura popolare gli scrittori beneficiati. I loro nomi verranno, in parte, resi noti al tempo della Repubblica sociale, quando molti di loro, per nulla appesantiti dal marsupio imbottito di fogli da diecimila, sono ormai saltati dall’altra parte della barricata. Gli interessati ritorceranno sdegnati l’imputazione, accusando il regime di aver corrotto, comprandoli, gli intellettuali italiani. In realtà, dietro la politica culturale fascista c’è anche la consapevolezza che, in un mercato editoriale asfittico come quello italiano, le possibilità per uno scrittore di vivere della propria penna sarebbero pressoché nulle e che, in una realtà sociale ormai mutata, sta emergendo una nuova generazione di letterati, spesso autodidatti e di umile origine, che non possono contare né sui beni al sole, né sul tradizionale ripiego dell’insegnamento”. Strategica anche la scelta di concedere alle nuove leve culturali una relativa libertà di espressione: “perché il regime, se impone ai grandi quotidiani il compito di organizzare il consenso, lascia alle piccole riviste la funzione di organizzare il dissenso, ospitando le voci di quei giovani inquieti che altrimenti potrebbero passare all’opposizione”.

L’elenco dei beneficiari dei fondi segreti del “Minculpop” ci svela i nomi di 893 “canguri piccoli e grandi”: scrittori, artisti, letterati, personaggi del mondo dello spettacolo (fra cui Paola Borboni: “forse omonima della Paola Borboni che dopo il 25 luglio si sarebbe messa alla testa dei dimostranti antifascisti”, chiosa ironicamente Nistri), circensi celebri come gli Orfei. In molti casi si tratta di un contributo meramente assistenziale: come le 12.000 lire elargite a Romolo Murri, già fondatore della prima Democrazia Cristiana e in seguito avvicinatosi alla dittatura. Ma a colpire è la presenza nella lista, “accanto ai fascisti dichiarati e zelanti, di molti futuri avversari del regime in via di dissoluzione: Sibilla Aleramo (235.000 lire), Gianna Manzini (58.000), Alfonso Gatto (33.000)”; al pari dell’assenza “di alcuni intellettuali che dopo la caduta del regime avrebbero manifestato sino all’ultimo la loro fede nel fascismo: come Ardengo Soffici, amico personale di Mussolini”.

Una vecchio compagno – di studi e di lotta politica – del Duce che invece figura nell’elenco è il conterraneo Nicola Bombacci, sindacalista rivoluzionario, internazionalista già collaboratore di Lenin, fondatore del PCdI e pertanto emarginato dal regime eppure beneficiato di 32.000 lire, necessarie alle cure per il figlio malato. Peraltro il riconoscente Bombacci farà il percorso opposto rispetto agli italianissimi voltagabbana che rinnegano la parte perdente, aderendo alla RSI e morendo fucilato a Dongo, per mano di partigiani altrettanto comunisti e che magari durante il Ventennio a differenza sua erano stati fascisti convinti.

L’autore fa comunque notare come in molti casi “le provvidenze del regime non cadano sulle persone sbagliate. Pratolini scrive proprio in questi anni alcune delle sue opere migliori, le prose liriche del Tappeto verde e di Via de’ Magazzini; il suo amico Bilenchi nel 1940 pubblica il suo capolavoro, Conservatorio di Santa Teresa. Da quando, nel 1939, il ministro Bottai lo nomina senza concorso professore di letteratura italiana nei Conservatori, Quasimodo può serenamente limare le liriche di Ed è subito sera, una delle voci più pure dell’ermetismo italiano. E un altro grande poeta del Novecento, Ungaretti, vedrà finalmente premiata la sua poesia con la nomina ad accademico d’Italia, da lui sollecitata con la stessa insistenza con cui la richiederanno, pochi mesi prima della caduta del regime, il filologo Pasquali e lo scultore Messina”.

Ed è proprio sul mancato intervento italiano in guerra nel ‘39 che Nistri ci regala l’ultima freddura: “Invece che di neutralità, vocabolo che fa pensare all’emmenthal svizzero e agli orologi a cucù, si preferisce parlare di “non belligeranza”: marziale litote fascista che prelude ai futuri eufemismi democratici, come non docente per bidello o non vedente per cieco”.

Anni Trenta di Enrico Nistriultima modifica: 2021-04-20T22:59:02+02:00da tradersimo
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