L’enigma Almirante

Conobbi Giorgio Almirante durante la campagna elettorale per le Europee del 1984. Ebbi a intervistarlo in occasione del comizio che tenne a Montecatini, in piazza del Popolo: la città termale gli era particolarmente cara, dato che il Movimento Sociale vi raggiungeva regolarmente percentuali impensabili per la rossa Toscana, anche superiori al 15%. Come responsabile per l’informazione di un’emittente cattolica pistoiese, Radio Insieme – diretta da un sacerdote che in quel collegio elettorale rappresentava uno dei principali referenti dell’organizzatissima corrente democristiana guidata da Andreotti – allorché seppi della sua presenza non ci pensai due volte: munito di registratore mi recai al comizio senza avere contattato nessuno, e ben sapendo come il partito di riferimento della radio fosse la DC.

Per rendere l’idea del significato che potesse avere allora intervistare il capo del partito postfascista in una “Stalingrado d’Italia” qual era la provincia di Pistoia racconterò un aneddoto. Il direttore della tv privata pistoiese – la quale si poteva considerare a tutti gli effetti come un organo della Democrazia Cristiana, e segnatamente della sua corrente di sinistra – nel rivolgersi al segretario missino si sentì in dovere di premettere: “Io ho deciso di intervistarla non perché la pensi come lei – Dio me ne scampi e liberi – ma perché noi intendiamo dare spazio a tutti”. Un approccio decisamente infelice, inopportuno e anche maleducato: perché un giornalista non è obbligato a intervistare nessuno; ma se decide di farlo, deve comunque mettere avanti a tutto professionalità e rispetto, a prescindere dalla collocazione ideologica dell’intervistato. Ma fu come vedere il gatto giocare col topo: il navigato politico fece un sol boccone del gretto e provinciale cronista, facendogli ironicamente notare che non valeva proprio la pena di scomodare il Padreterno per una questione così futile.

Per me era diverso: essendo i miei genitori entrambi di destra, in casa mia Almirante era un mito. Tutta la mia infanzia e adolescenza erano state scandite dalle televisive Tribune che lo vedevano protagonista: la sera che toccava a lui, per noi l’appuntamento davanti al televisore era imprescindibile. Ed era divertente il vederlo sempre spuntarla rispetto all’interlocutore – e talvolta anche al poco imparziale conduttore, in quella democristianissima tv di Stato – con la sua dialettica al tempo stesso raffinata e tagliente, e senza mai perdere il suo aplomb.

Una volta il rappresentante di una testata dell’estrema sinistra non appena avuta la parola gli si rivolse in questi termini: “Con il nostro giornale il sorteggio è stato ingeneroso. Noi con Almirante non discutiamo: la democrazia va usata con chi la rispetta, non con chi invoca la pena di morte nei suoi comizi, con chi deve rispondere in tribunale per ricostituzione del Partito Fascista. Non ci interessa quello che lui risponderà”; dopodiché il giornalista si alzò e se ne andò. Al che il nostro, imperturbabile e sarcastico: “La vostra è la politica della fuga”.

Emozionatissimo, dopo essermi fatto introdurre dal primo dirigente capitatomi a tiro mi avvicinai al celebre personaggio, per rivolgergli domande il cui filo conduttore era: come mai, in anni che vedono in Italia la fine delle discriminazioni legate all’artificio dell’arco costituzionale, a livello internazionale il trionfo delle destre rappresentate dai vari Reagan, Thatcher, Kohl, lei continua a tenere i voti missini “in frigorifero”, piuttosto che inserirli a pieno titolo nel gioco politico?

Ritardando il comizio egli accettò di rispondermi, con estrema disponibilità ma anche con la bonarietà di chi si rendeva conto di avere a che fare con un ragazzo. “Lei ha nominato personalità che sono troppo più in alto rispetto a me – si schermì con la sua consueta ironia – io non sono degno di essere accostato a loro; né il mio partito di essere paragonato a quelli che essi rappresentano”. Al termine, la piccola folla raccoltasi attorno ci rivolse un applauso; con l’Inno a Roma che aveva accolto l’arrivo del capo della Fiamma a rendere il momento ancor più emozionante e suggestivo. Quando poi feci sentire l’intervista al parroco, dalla sua reazione compiaciuta mi parve di capire che – al di là della sua formale militanza andreottiana – egli nutrisse simpatie di destra.

L’anno successivo, per le Amministrative, ebbi una sorpresa: perché fu il più prestigioso degli esponenti del MSI pistoiese, il professor Francesco La Scala, a contattarmi per dirmi che avrei potuto intervistare Almirante all’ora di pranzo, in un ristorante cittadino. Anche stavolta la sua gentilezza fu massima: non appena mi vide si alzò da tavola, mi venne incontro rispondendo con estremo garbo alle mie domande. L’avrei rivisto ancora nell’87 a Firenze, da semplice spettatore del comizio che tenne in piazza Strozzi, per quella che sarebbe stata la sua ultima campagna elettorale.

Non v’è dubbio che Almirante sia stato uno dei principali protagonisti della nostra politica novecentesca: il classico leader che si poteva soltanto amare od odiare. Oratore eccelso, insuperabile nell’infiammare le piazze, dialettico forbito ed astuto che non appariva mai in difficoltà, perfetto in televisione con la sua estrema signorilità, al punto di incantare anche chi la pensava diversamente. Insomma un vero e proprio fuoriclasse: tanto  che divenne un luogo comune, in quegli anni, la considerazione che se egli avesse scelto di militare in un altro partito – a cominciare dalla DC, al pari di tanti altri ex fascisti – la sua carriera politica avrebbe potuto essere la più brillante. Neppure va sottaciuto il coraggio dell’uomo, la cui incolumità era sempre a rischio e la cui vita appesa a un filo: “Vivi come se tu dovessi morire domani, pensa come se non dovessi morire mai” era del resto il suo aforisma preferito, di vaga ascendenza nietzschiana.

Ma se mettiamo da parte ricordi e suggestioni personali passando a valutare oggettivamente l’efficacia delle sue scelte politiche, contestualizzandole nei frangenti storici in cui egli si trovò ad assumere le iniziative e le decisioni più rilevanti, il discorso si fa più complesso, ed il giudizio sul suo operato più critico. Fu lo stratega politico all’altezza del capo carismatico, del trascinatore di folle? Per dare una risposta plausibile a tale interrogativo occorrerà anzitutto risalire alle origini di quello che sarebbe rimasto per lunghi decenni come il principale partito della destra italiana.

Finita la guerra e passati per le armi tutti i principali esponenti della Repubblica Sociale, il fascismo non si era affatto dissolto ma si era incanalato clandestinamente in mille rivoli, in attesa di una – alquanto improbabile – “rivincita”. A dare ai vari capi “nostalgici” una voce unitaria aveva allora pensato il superstite di Salò gerarchicamente più rilevante: vale a dire il vicesegretario del Partito Fascista Repubblicano Pino Romualdi, anch’egli latitante in quanto ricercato per una rappresaglia antipartigiana. Una condizione che non gli aveva tuttavia impedito di trattare personalmente con monarchici, repubblicani e forse con lo stesso ministro di grazia e giustizia Togliatti l’amnistia concessa nel ‘46 dal governo De Gasperi a tutti coloro che dopo l’8 settembre ‘43 si erano macchiati di reati politici, consentendo a 20.000 ex repubblichini di uscire dal carcere.

Del nuovo clima pacificatorio i maggiorenti del neofascismo (il cosiddetto “senato”) avevano immediatamente approfittato per alzare il tiro, puntando alla costituzione di un partito da inserire a pieno titolo nel panorama politico nazionale. Ma se si analizza la genesi di tale formazione, vengono fuori tutta una serie di compromessi e contraddizioni destinati a condizionarne pesantemente la vicenda successiva.

Partiamo dal nome: Movimento Sociale Italiano. I fondatori intesero dunque dar vita a un movimento, non a un partito: proprio come il primordiale fascismo sansepolcrista. Così come l’appellativo di “sociale” non poteva che indicare la diretta filiazione dalla Repubblica Sociale, il cui Manifesto fondativo aveva del resto inteso richiamare gli ideali rivoluzionari e socialisteggianti del ‘19, calpestati anzitutto dallo squadrismo per poi essere definitivamente seppelliti dal fascismo di regime. Lo stesso simbolo della fiamma tricolore, infine – ufficialmente ispirata a un distintivo combattentistico – racchiudeva un significato allegorico, volendo rappresentare la fiaccola ideale ardente sulla bara del Duce per l’eternità, e attribuendo peraltro all’acronimo un significato più recondito: “Mussolini Sei Immortale”.

Capo del movimento avrebbe dovuto essere lo stesso Romualdi: il quale, a dispetto del proprio passato di “falco” e mostrando una notevole lungimiranza politica, avrebbe avuto in mente un partito in grado di rassicurare l’opinione pubblica di una destra più ampia, assumendo in particolare posizioni atlantiste e gradite alla Chiesa. Egli rimaneva però a tutti gli effetti un criminale di guerra, dal momento che il reato contestatogli non rientrava fra quelli condonati dall’amnistia; donde la scelta del direttorio missino di elevare alla carica di segretario Almirante, per quello che sarebbe stato il suo primo e più breve mandato.

Costui era invece il capo della corrente missina più sensibile agli ideali della RSI: dunque tendenzialmente rivoluzionaria, antiborghese, anticapitalista e implicitamente antiamericana. Ma agli occhi dell’opinione pubblica antifascista Almirante era semplicemente l’erede del regime mussoliniano; donde i tumulti che caratterizzarono il battesimo elettorale della nuova formazione, avvenuto in occasione della campagna per le Comunali di Roma del ‘47, e in particolare il comizio tenuto dal segretario in Piazza Colonna. Riscosso dalla Fiamma un discreto successo, con l’elezione di tre consiglieri che in contrapposizione al candidato delle sinistre favorirono l’insediamento in Campidoglio di un sindaco democristiano, la Questura di Roma diramò un comunicato che testimonia tutta l’ambiguità con cui lo Stato democratico guardava al partito neofascista, e nonostante l’amnistia Togliatti.

“Il dr. Giorgio Almirante, segretario della giunta esecutiva del MSI, già redattore capo de Il Tevere e La difesa della razza, capo di gabinetto del ministero della cultura popolare della pseudo Repubblica di Salò, è stato deferito alla Commissione Provinciale per il confino quale elemento pericoloso all’esercizio delle libertà democratiche, non solo per l’acceso fanatismo fascista dimostrato sotto il passato regime e particolarmente in periodo repubblichino, ma più ancora per le sue recenti manifestazioni politiche di esaltazione dell’infausto ventennio fascista e di propaganda di principi sovvertitori delle istituzioni democratiche ai quali informa la sua attività, tendente a far rivivere istituzioni deleterie alle pubbliche libertà e alla dignità del Paese”.

Accusato di apologia del fascismo in relazione al suddetto comizio romano e per questo condannato a un anno di confino, Almirante non scontò la pena grazie alla sospensione del provvedimento disposta dallo stesso questore. Ma a ben vedere era la semplice esistenza del MSI a rappresentare di per sé il più grande dei paradossi possibili, dal momento che esso partecipava alla competizione democratica da posizioni più o meno esaltanti l’esperienza di un regime dittatoriale, avendo esposti nelle sezioni busti del Duce e labari fascisti e non mancando i suoi militanti di salutare romanamente.

Una situazione che neppure la Costituzione avrebbe contribuito a risolvere, limitandosi ad affermare genericamente: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dalla entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”. Senza specificare neppure cosa si intendesse per “capi responsabili”; né precisare se ci si riferisse soltanto al regime fascista vero e proprio, caduto il 25 luglio ‘43, o vi si ricomprendesse anche l’esperienza finale del fascismo repubblicano, di fatto asservito al nazismo.

Processato in contumacia nello stesso ‘47 e condannato a morte, Romualdi fu arrestato l’anno successivo, alla vigilia delle cruciali votazioni del 18 aprile, restando a lungo in carcere ma riuscendo alfine a scamparla grazie a una nuova testimonianza che lo scagionava; di conseguenza, Almirante assumeva il pieno controllo del partito. Le cui varie anime al congresso tenutosi a Napoli dopo le elezioni si attestarono rispetto al Ventennio sulla linea comune del “non rinnegare né restaurare”; il che non impedì una nuova ondata di persecuzioni, concretizzatesi con altri arresti ai vertici con l’accusa di ricostituzione del Partito Fascista; sino al divieto di tenere il congresso del ‘51.

Ma neppure la legge Scelba – approvata l’anno successivo – sanò la contraddizione. Essa intendeva attuare il dettato costituzionale sancendo anzitutto che si aveva “riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. La nuova normativa si risolse tuttavia nel più machiavellico dei compromessi, perseguendo sì l’esaltazione di un periodo e di un regime appartenenti al passato ma senza mettere in discussione la legittimità del neofascismo attuale, rappresentato dal MSI.

Un compromesso che andava bene anzitutto alle sinistre, teoricamente contrarie al riconoscimento della costituzionalità di un partito del genere in quanto dichiaratamente antifasciste; ma in realtà favorevoli alla sua legittimazione in base ad un preciso calcolo elettorale, che nasceva dalla consapevolezza che esso avrebbe finito con il sottrarre voti alla rivale dichiarata DC. Da parte sua il partito cattolico aveva sfruttato la situazione nella maniera più “democristiana”, ossia subdola e spregiudicata: da una parte, sottoscrivendo la teoria dell’arco costituzionale per cui i neofascisti erano di fatto esclusi dalle vicende politiche nazionali; dall’altra, non peritandosi di ricorrere al non trascurabile e generalmente disponibile serbatoio parlamentare missino ogniqualvolta ve ne fosse la necessità.

Nel frattempo Almirante era finito in minoranza, rilevato alla segreteria da Augusto De Marsanich, cui spettava la paternità del compromesso del “non rinnegare né restaurare” e intenzionato a rilanciare l’idea romualdiana di una formazione non arroccata su istanze radicali ma dialogante con gli altri partiti – a cominciare da quello monarchico – da posizioni moderate e conservatrici e con simpatie per gli Stati Uniti e il mondo cattolico. Nonostante il successo elettorale del ‘53 e il clima internazionale di “guerra fredda” ormai imperante, il MSI continuava a presentarsi all’opinione pubblica come un partito imbalsamato, anacronisticamente diviso tra i fautori del richiamo al fascismo “costituzionalizzato” del Ventennio e coloro che gli preferivano quello “rivoluzionario” delle origini, dal regime accantonato per poi tornare tragicamente in auge con Salò.

Ebbe dunque inizio la lunga segreteria di Arturo Michelini, capo della corrente moderata e filoborghese e di conseguenza orientato a schierare il partito su posizioni di destra tradizionale che ne facilitassero la piena partecipazione al gioco politico-parlamentare, soprattutto in funzione anticomunista. Il che provocò la defezione dell’ala più oltranzista del partito, facente capo a Pino Rauti e al suo Ordine Nuovo: movimento dalla variegata ideologia che da una parte si poneva su posizioni oltremodo conservatrici ispirandosi allo spiritualismo aristocratico e tradizionalista del barone Julius Evola, nemico giurato del “mondo moderno” segnato dai modelli della civiltà americana e nostalgico dell’assetto politico e sociale precedente la “caduta delle Aquile” determinata dall’esito del primo conflitto mondiale; dall’altra proponeva una originale forma di neofascismo di sinistra rifiutando tanto il modello capitalistico quanto quello socialista, il Patto di Varsavia come l’Alleanza Atlantica a favore di una “terza via” al tempo stesso rivoluzionaria, terzomondista ed ecologista. Prerogative tali da far sì che Rauti venisse regolarmente invitato a rappresentare la gioventù missina ai dibattiti organizzati dalla Federazione Giovanile Comunista (all’epoca diretta da Enrico Berlinguer), anche allo scopo di superare quella contrapposizione frontale tra gli “opposti estremismi” che finiva con il fare il gioco della DC e del centrismo.

La cauta politica micheliniana diede i suoi frutti, anche paradossali: in Sicilia la Fiamma giunse ad amministrare la Regione assieme al Partito Comunista; mentre a livello nazionale essa compì un progressivo avvicinamento alla maggioranza di governo, con l’appoggio esterno agli esecutivi presieduti dai democristiani Zoli e Segni. Tale percorso di “sdoganamento” giunse a compimento nel ‘60, allorché i voti missini risultarono determinanti nel garantire la fiducia al monocolore DC guidato da Tambroni. Scornate, le sinistre si diedero allora all’organizzazione di manifestazioni di protesta in tutto il Paese, allo scopo di scardinarne l’assetto politico moderato ricorrendo alla piazza e provocando così una lunga scia di morti. Lo strumentale rigurgito di antifascismo giunse a impedire lo svolgimento del congresso nazionale del MSI, in programma a Genova: la proclamazione di uno sciopero portò a scontri con la polizia e a gravi disordini. Di lì a poco Tambroni rassegnava le dimissioni.

Per il partito seguì un nuovo periodo di ghettizzazione; dell’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti della Fiamma in quegli anni fa fede anche un film, Gli onorevoli, nel quale il rappresentante missino viene rappresentato in termini oltremodo caricaturali e denigratori. Tale ostracismo doveva tuttavia subire un allentamento allorché il vento internazionale della contestazione giovanile raggiunse anche l’Italia.

Lo spirito originario della protesta non contemplava discriminazioni di natura ideologica privilegiando piuttosto tematiche antisistemiche e pacifiste le cui critiche erano principalmente rivolte contro la rigidità del rapporto gerarchico docenti-studenti, il valore delle convenzioni dettate dalla società borghese, il sistema politico fondato sui partiti, nonché la guerra che da lunghi anni vedeva gli Stati Uniti impegnati in Vietnam. Il 1° marzo ‘68, in particolare, la cosiddetta “battaglia di Valle Giulia” vide giovani sia di destra che di sinistra fronteggiare fianco a fianco le forze di polizia, che presidiavano la facoltà romana di Architettura dopo averla sgomberata dall’occupazione degli studenti.

Il Movimento studentesco decise allora di occupare Lettere; nel frattempo però all’interno della dirigenza missina era maturato un orientamento diverso riguardo all’atteggiamento da assumere nei   confronti della contestazione. Preoccupato che il posizionamento “sovversivo” dei ragazzi di destra potesse ostare a quel processo di superamento dei pregiudizi legati all’arco costituzionale che Michelini non aveva mai smesso di perseguire e con le elezioni politiche alle porte, il partito decise di ricorrere alle maniere forti, ma schierandosi dalla parte opposta della barricata. Perché fosse chiaro a tutti che il MSI difendeva l’ordine costituito, fu organizzata una sorta di squadraccia il cui intervento risolutivo avrebbe implicitamente mostrato all’opinione pubblica moderata che il governo di centro-sinistra non era in grado di fronteggiare la situazione. A quel punto non ebbe alcuna difficoltà a vestire i panni del capo di quella “spedizione punitiva” lo stesso Almirante, presentandosi il 16 marzo di fronte all’università alla testa di duecento militanti armati di bastoni, i quali si lanciarono all’assalto della facoltà e di chi la occupava.

Le immagini che ritraggono l’esponente missino sorridente nel guidare l’attacco contro gli studenti rimarranno per anni indelebili agli occhi dei suoi detrattori, e fanno riflettere ancor oggi anche i suoi ammiratori. Possiamo spiegare la decisione di Almirante di mettere la faccia nella violenta iniziativa sia con il desiderio di riproporsi quale leader, sia in quanto esplicativa di un assunto cui egli nel corso degli “anni di piombo” avrebbe fatto riferimento più volte: “Allorché il governo viene meno alla sua funzione di Stato, noi siamo pronti a surrogare lo Stato”. Evidentemente i suoi calcoli politici lo stavano portando ad abbandonare il tradizionale “movimentismo” antisistema per spostarsi su posizioni militariste e dispotiche più confacenti all’ortodossia fascista.

Neppure bisogna trascurare, nel ricostruire le tormentate vicende della destra italiana di quegli anni, l’esistenza in Europa – e segnatamente nell’area del Mediterraneo – di vari regimi autoritari ricollegabili all’esperienza fascista. In Spagna e Portogallo perduravano quelli guidati rispettivamente da Franco e Salazar; mentre in Grecia nel ‘67 si era registrato l’avvento della “dittatura dei colonnelli”. Quest’ultimo evento, in particolare, potrebbe aver indotto Almirante a rompere gli indugi sino ad assumere – come nell’occasione – atteggiamenti da “uomo forte”.

Fatto sta che le conseguenze di quella giornata si sarebbero rivelate immani. Dopo lo squadristico blitz missino il monopolio della protesta studentesca fu assunto dalla sinistra: una sinistra tutta particolare, decisamente antiamericana ma non per questo filosovietica, che dopo avere scaricato l’immobilista e conservatore PCI di Longo si votò al culto delle “tre M” rappresentate dall’utopia marxiana, dal Libretto rosso di Mao e dal pensiero alternativo e dissacratorio di Marcuse. Mentre ai giovani di destra non rimase che arroccarsi sui testi del vecchio Evola.

Volendo spingerci ancora oltre, alla stagione degli anni di piombo che in ossequio al principio per cui “uccidere un fascista non è reato” avrebbe visto trucidati anche tantissimi giovani e meno giovani di destra, ci chiediamo se il seme, o comunque uno dei semi che portò a identificare nel patriottico e idealista militante missino – e non piuttosto negli arrivisti e opportunisti politicanti al pascolo nei partiti di potere – un “nemico del popolo” non fosse stato gettato proprio quel giorno, alla facoltà romana di Lettere. In particolare ci chiediamo il senso che potesse avere, nel disegno rivoluzionario, leninista e di abbattimento dello “Stato imperialista delle multinazionali” perseguito dalle Brigate Rosse, l’individuare le loro prime vittime in due attivisti missini – Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci – che da un punto di vista classista erano assimilabili a dei proletari.

Nel ‘69 la scomparsa di Michelini spiana la strada al definitivo ritorno di Almirante alla segreteria, per un mandato che riuscirà lungo quanto un monarchia ma senza alcun potere assoluto: perché il nostro dovrà sempre barcamenarsi tra fronde, contestazioni, equilibrismi fra le varie anime interne, finendo anche in minoranza e soprattutto subendo una rovinosa scissione.

Nonostante gli sforzi profusi dal predecessore il partito non è uscito dall’angolo, finendo alle politiche del ‘68 sotto la tradizionale soglia di riferimento del 5%: per prima cosa, Almirante lo ricompatta facendo rientrare i dissidenti di Rauti. L’eterno dilemma fra le rivendicazioni dell’eredità fascista e l’apertura verso il sistema democratico viene risolto dal nuovo corso almirantiano ricorrendo alla cosiddetta “politica del doppiopetto”, dal segretario così sintetizzata: “Il MSI non è totalitario, ma ritiene lo Stato diverso e superiore rispetto al partito; non è nostalgico, ma moderno; non è nazionalista, ma europeista; non è reazionario né conservatore, ma socialmente avanzato”.

Alla protesta studentesca si unisce quella operaia: con l’“autunno caldo” la situazione degenera nelle fabbriche come nelle piazze. Contestualmente, nello stesso ‘69 prende il via la “strategia della tensione”, con uno stillicidio di attentati dinamitardi che culminano nella strage di piazza Fontana.

Nella campagna per le Amministrative del ‘70 Almirante presenta il suo partito come il garante dell’ordine pubblico e il paladino dell’anticomunismo, giungendo a Tribuna elettorale a richiamare esplicitamente metodi ispirati al modello greco: “A mali estremi estremi rimedi. Noi siamo virilmente pronti alla realtà, senza ipocrisie: qualora soluzioni anche di forza ci salvassero dal comunismo, ben vengano le soluzioni di forza”.

Concetto ribadito a Genova parlando dopo i funerali di Ugo Venturini, attivista missino ucciso nel corso dell’assalto lanciato da militanti di Lotta Continua al palco che ospitava lo stesso Almirante in occasione del comizio tenuto nel capoluogo ligure: “Se altri popoli si sono salvati con la forza, anche il popolo italiano deve saper esprimere qualcuno che sia disposto all’uso della forza, per battere la minaccia comunista”. E che sarà ulteriormente esplicitato in occasione del congresso che il partito terrà quello stesso anno a Roma: “I nostri giovani devono prepararsi all’attacco prima che altri lo facciano. Da esso devono conseguire risultati analoghi a quelli conquistati in altri Paesi europei quali il Portogallo, la Grecia e la Spagna”.

A fronte del proliferare degli scontri di piazza tra le opposte fazioni, il segretario approva inoltre il ricorso alle vie di fatto come reazione alla “violenza rossa”, spiegando: “Ci difendiamo da soli. Io non credo di essere costretto a lasciar la pelle durante una campagna elettorale. La polizia interviene, lo Stato fa il suo dovere? Benissimo. Lo Stato non fa il suo dovere? Ci difendiamo da noi”. Discreto nel complesso il risultato delle votazioni, che vedono il MSI ritornare sopra al 5%.

Se per quanto riguarda le “soluzioni di forza” occorre mettersi l’animo in pace dopo la mancata attuazione del farsesco “golpe Borghese”, al rilancio della Fiamma contribuiscono insperati spazi di manovra offerti da situazioni contingenti, e che Almirante è abile a sfruttare. Anzitutto, il lassismo manifestato dalla Democrazia Cristiana – peraltro squassata in quegli anni da lotte intestine più aspre del solito – nel fronteggiare l’ondata contestataria lo induce a tentare di stanare dal suo calcolato pilatismo il partito di maggioranza, che da sempre fa del compromesso e dell’interclassismo i suoi punti di forza, con l’obbligarlo a schierarsi dall’una o dall’altra parte.

A inaugurare la nuova tattica sono i moti di Reggio Calabria. Nel luglio ‘70 la scelta di Catanzaro quale sede dell’assemblea regionale calabrese scatena la rivolta dei reggini; l’insurrezione scoppia spontaneamente e “trasversalmente”, senza una precisa connotazione politica, come semplice rivendicazione di orgoglio cittadino e avendo sullo sfondo i cronici problemi legati alla questione meridionale: l’assenza dello Stato, la disoccupazione, la precarietà, l’emigrazione quale unica alternativa. Per i partiti – specie quelli di governo – non è facile prendere una posizione ufficiale: sia per motivi di coerenza, sia perché privilegiando l’uno dei campanili contendenti ci si farebbe inevitabilmente nemico l’altro. Autonomamente, il sindaco democristiano della città si schiera dalla parte dei rivoltosi; dai quali si dissociano invece prima i comunisti, quindi i socialisti.

Ad appoggiare apertamente la sommossa è inizialmente solo chi dal punto di vista politico non ha niente da perdere: gli anarchici, Lotta Continua; mentre da destra gli insorti vengono qualificati come “teppisti” e “cialtroni”. Ma allorché alla testa della sollevazione si pone il segretario provinciale della CISNAL Ciccio Franco, Almirante gli dà la sua benedizione. Non nasconde allora la propria soddisfazione per la piega presa dalla vicenda Ordine Nuovo, sino a salutare l’insurrezione reggina come la miccia di una palingenesi istituzionale: “È la nostra rivolta: il primo passo della rivoluzione nazionale in cui si brucia questa oscena democrazia”. Nonostante le violenze caratterizzanti tale fase dei moti (la quale si protrarrà per lunghi mesi, provocando sia compromessi istituzionali che l’intervento dei carri armati), il segretario missino perennemente in bilico tra istanze legalitarie e pulsioni rivoluzionarie non revoca loro il proprio appoggio. Cosicché alle Politiche del ‘72 il MSI a Reggio supererà il 46% dei voti, doppiando la DC; con Franco che, ormai divenuto un idolo per la destra radicale, sarà premiato – oltre che tutelato rispetto all’inevitabile condanna penale – con una altrettanto trionfale elezione a senatore.

Dopodiché le attenzioni del leader della Fiamma si spostano su Milano, città particolarmente martoriata sia da una serie di attentati dinamitardi firmati dalle SAM, le Squadre d’azione Mussolini, che dalle continue esplosioni di violenza legate ai cortei organizzati dall’ultrasinistra. Per quanto riguarda la prima, all’ondata di sdegno antifascista che ne consegue la federazione missina risponde, nel febbraio ‘71, con l’affissione di migliaia di manifesti tricolori che chiedono condanne esemplari per gli attentatori neri.

Maggiore preoccupazione i milanesi paiono tuttavia mostrare per il secondo dei fenomeni che vengono a turbare l’ordine della città, da tempo privata della normalità della vita sociale e che soprattutto al sabato è costretta a vivere una situazione assai simile allo stato d’assedio: violente aggressioni personali, automobili incendiate, negozi devastati, grandi magazzini e supermercati saccheggiati in nome dell’“esproprio proletario”. Non consentendo la legge alle guardie private il ricorso alle armi, i predoni rossi hanno buon gioco nell’assaltare gli esercizi commerciali per farvi man bassa di ogni bene. I criminosi blitz sono talmente frequenti e fulminei da costringere qualche gestore a tenere le saracinesche costantemente semiabbassate, in modo da poterle serrare nel minor tempo possibile.

Inutilmente in consiglio comunale il capogruppo democristiano De Carolis ha proposto l’approvazione di un ordine del giorno di condanna della violenza “da qualunque parte provenga”: la sinistra si è opposta, in ossequio al pregiudizio per cui la violenza può essere solo di destra. A quel punto una parte notevole dell’opinione pubblica cittadina si mobilita, sino a organizzare una “marcia silenziosa” che vuol essere una manifestazione civile e apartitica della diffusa insofferenza nei confronti di una situazione ormai fuori controllo. Ben presto l’iniziativa coinvolge altre città del Nord, denominata come “Maggioranza silenziosa”, etichettata come borghese e destrorsa e pertanto rigettata dalla politica ortodossa: l’unico ad appoggiarla è il MSI.

L’imbarbarimento subito dalla vita pubblica del Paese a partire dal ‘68, le prove di debolezza e incapacità offerte a più riprese dalle istituzioni, la sostanziale acquiescenza comunista alla politica governativa vedono il progressivo spostamento a destra di molti elettori. A ciò si aggiunga la delusione del Meridione per la mancata attuazione di quelle riforme promesse dai vari governi di centro-sinistra: il che renderà la Fiamma particolarmente competitiva al Sud.

Clamoroso risulta anzitutto l’esito delle Amministrative del ‘71, che vedono il MSI sfondare anzitutto a Roma, con una crescita di 7 punti percentuali e l’elezione in Campidoglio di tredici consiglieri, capeggiati dallo stesso Almirante. Ancor più lusinghiero il risultato delle Regionali siciliane, con un incremento di 10 punti cui fa da pendant un calo altrettanto netto del PCI. Lo smacco porta la dirigenza comunista a rendere pubblica una vecchia storia riguardante il segretario missino, e della cui riesumazione egli avrebbe volentieri fatto a meno: si tratta di un documento risalente al periodo della guerra civile, rinvenuto l’anno precedente, evidentemente tenuto nel cassetto fino alla bisogna e che adesso l’Unità pubblica in prima pagina.

Sotto il titolo UN SERVO DEI NAZISTI, il giornale riporta il comunicato emesso dalla prefettura di Grosseto il 17 maggio ‘44, il quale, riprendendo il testo del decreto emanato il mese precedente dalla RSI a contrasto del fenomeno dell’esplosione delle bande partigiane e rivolto a renitenti e disertori, affermava in particolare: “Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena”. In calce al bando appare il nome di Almirante, che lo aveva firmato in qualità di capo di gabinetto del ministro della cultura popolare Mezzasoma (peraltro morto egli stesso fucilato alla schiena, a Dongo).

La linea da tenere nei confronti di quanti si sottraevano agli obblighi di leva era stata concertata da Hitler e Mussolini già all’indomani della costituzione della RSI, e sancita mediante i reiterati “bandi Graziani”. All’epoca Almirante era un giovane di trent’anni, arruolatosi nella Guardia Nazionale Repubblicana con il grado di “capomanipolo” (equivalente a quello di tenente) ed elevato al ruolo di funzionario governativo in quanto valente giornalista. È evidente come nell’emanazione di quel provvedimento le sue responsabilità fossero nulle; ma la firma era la sua, la sua adesione alle iniziative del nazifascismo piena e quindi l’accusa rivoltagli dai suoi avversari di essere stato un “servo dei nazisti” ineccepibile. A seguito di tale rivelazione, al leader missino sarebbe stato affibbiato dalla sinistra l’epiteto di “fucilatore di italiani”, che lo avrebbe marchiato a lungo.

Non impedendo tuttavia che le votazioni che si tengono a fine anno per l’elezione del presidente della repubblica vedano l’elezione al Quirinale di un democristiano coi voti determinanti del MSI. Si tratta di un episodio emblematico dell’ambiguità dell’atteggiamento tenuto dalla DC nei confronti del partito della destra: ufficialmente, refrattario ad ogni accordo; ma sottobanco, opportunistico e interessato all’uopo. Perennemente diviso dalle lotte di potere fra le correnti nonché dalle personali ambizioni dei suoi vari “cavalli di razza”, nell’occasione il partito di maggioranza non riesce a compattarsi attorno a un nome: e così dall’imbarazzante stallo determinatosi si esce soltanto allorché i parlamentari missini segnano sulla scheda il nome di Leone.

Come in un copione prestabilito, da parte democristiana si nega che con la destra siano intercorse specifiche trattative; ma Almirante smentisce tale versione, facendo anche il nome dell’esponente scudocrociato che le avrebbe condotte: Galloni, il quale respinge a sua volta l’addebito. Ma al di là di tali schermaglie, l’intento del segretario missino appare evidente: quello di screditare il sistema politico-istituzionale basato sulla discriminante dell’arco costituzionale con il rendere palese la contraddizione per cui voti di parlamentari rappresentanti a pieno titolo il popolo risultano decisivi per l’elezione della prima carica dello Stato essendo al tempo stesso considerati “reietti”.

L’utilizzo politico della Giustizia nel nostro Paese ha quale prima vittima la Fiamma: alla vigilia delle Politiche del ‘72 viene arrestato Rauti, con l’accusa di concorso in strage per l’attentato di piazza Fontana, dalla quale sarà poi completamente scagionato. Quelle elezioni rappresentano lo spartiacque sia della storia del partito che della carriera personale di Almirante: lo snodo cruciale che porta con sé il rimpianto per quanto avrebbe potuto essere e non è stato.

Per la prima volta dall’istituzione della repubblica una legislatura si conclude in anticipo rispetto alla sua scadenza naturale; alle votazioni del 7 maggio si giunge dopo che in quattro anni si sono succeduti ben sei governi a guida democristiana, uno più inconcludente dell’altro. Il MSI vi si presenta avendo aggiunto al nome tradizionale quello di “Destra Nazionale”; ciò a seguito anzitutto della confluenza del Partito di Unità Monarchica, che porta in dote gli oltre 400.000 voti raccolti nel ‘68. Vi aderiscono inoltre personaggi di estrazione non fascista: a cominciare dall’ammiraglio Gino Birindelli, già nemico del nazifascismo in quanto ufficiale dell’esercito del Regno del Sud e in seguito comandante delle forze NATO del Mediterraneo, e che Almirante nomina presidente della nuova formazione.

Più ambigua la vicenda del generale Giovanni De Lorenzo, ex partigiano e in seguito protagonista di una prestigiosa carriera militare che lo ha visto prima al vertice del Servizio Informazioni delle Forze armate, quindi dell’Arma dei Carabinieri e infine capo di stato maggiore dell’Esercito; incarico dal quale è stato tuttavia destituito a seguito delle rivelazioni concernenti il cosiddetto Piano Solo. Nel ‘64, di concerto con il presidente della repubblica Segni, De Lorenzo avrebbe predisposto un “piano d’emergenza” per scongiurare una eventuale presa del potere da parte comunista e che prevedeva l’impiego della sola Arma – della quale era in quel momento a capo – per compiere azioni di forza sul territorio nazionale. Eletto nel ‘68 alla Camera con i monarchici, il generale è poi passato con i missini: evidente in candidature di questo genere l’intento almirantiano di attingere a piene mani all’elettorato sia militare che “militarista”.

L’operazione Destra Nazionale ricorda per certi aspetti quanto compiuto dal Partito Fascista nel ‘23: la fusione con i nazionalisti, che oltre a corroborarne la precaria ideologia apportandovi una tradizione di patriottismo, costituzionalità, fedeltà alla monarchia gli consentì di assumere la denominazione di “nazionale”. Ma stando a certi retroscena che sarebbero venuti a galla soltanto 40 anni dopo, dietro di essa stava la mano della Casa Bianca: a promuoverla sarebbe stato – in piena Guerra fredda – lo stesso presidente Nixon, allo scopo di indebolire una DC eccessivamente sbilanciata a sinistra. Tramite un facoltoso imprenditore italo-americano a lui vicino, egli avrebbe garantito al partito della destra italiana un cospicuo finanziamento a patto che esso apportasse alla propria immagine delle modifiche tali da superare l’ascendenza fascista; donde le pressioni di ambienti NATO sullo stesso Birindelli affinché si facesse garante della democraticità del nuovo soggetto politico. Della consegna materiale del denaro sarebbe stato incaricato il generale Vito Miceli, che in qualità di capo del Servizio Informazioni della Difesa aveva l’obbligo di fedeltà assoluta all’Alleanza Atlantica.

Ma al di là della veridicità di tale ricostruzione, l’intento della manovra appare evidente: allargare il bacino elettorale del MSI imprimendogli una svolta in senso moderato, filoccidentale, moderno e finalmente emancipato rispetto all’esperienza del Ventennio, in modo da farne il baluardo dell’anticomunismo soprattutto agli occhi della borghesia, spaventata da quanto accaduto negli ultimi anni e delusa dal comportamento dei tradizionali partiti di governo. Intervenendo a Tribuna elettorale, Almirante spiega il significato del nuovo progetto in questi termini: “Io sono nel post-fascismo: come tale sono stato uno dei fondatori del MSI, l’ho portato innanzi insieme ad altri e adesso lo dirigo. E lo dirigo in termini tali, con linguaggio tale, con prospettive tali che altri mi hanno dato modo di realizzare finalmente un vecchio sogno: una destra nazionale”.

Seguono affermazioni che nel recidere lo storico legame con quanto idealmente rappresentato da fascismo e Repubblica di Salò paiono voler finalmente accettare i dettami della legge Scelba: “Vi trovate di fronte ad un partito politico il quale ripudia la dittatura, ripudia il totalitarismo, ripudia il razzismo, ripudia l’antisemitismo, ripudia il metodo e l’uso della violenza”. A sua volta, Birindelli rassicura gli scettici bollando come “pura calunnia” le insinuazioni di chi intende ridurre la conclamata svolta missina a una semplice operazione propagandistica e si ostina a considerare il partito di Almirante come il crogiolo nel quale continuano ad allignare gli ambienti più torbidi, sovversivi e antidemocratici.

L’operazione ha successo: la Fiamma raggiunge il proprio massimo storico, raddoppiando i consensi rispetto alle Politiche precedenti e raccogliendo alla Camera quasi tre milioni di voti, pari all’8,7%. Allo zoccolo duro rappresentato da nostalgici e seguaci di “ordine e disciplina” si sono dunque aggiunti tanti elettori moderati, e il cui identikit non è difficile tratteggiare: appartenenti alle forze di polizia che rischiano la vita ogni giorno a fronte di una magistratura non sempre schierata al loro fianco ma anzi sovente avvertita come nemica, commercianti, professionisti, insegnanti schifati dalla perdita di prestigio subita dalla cattedra a seguito del Sessantotto, genitori che non ne possono più del clima di guerriglia permanente che preclude ai loro figli la normalità degli studi e della vita. Insomma rappresentanti a vario titolo di quella “maggioranza silenziosa” talmente esasperata da arrivare a scendere in piazza.

Senonché le successive mosse almirantiane vanno nella direzione esattamente opposta a quella che ci si sarebbe ragionevolmente attesi. Sul piano strategico, quasi a bilanciare il travaso di voti provenienti dall’area centrista il segretario missino punta al raccordo con la destra “extraparlamentare”: non solo Ordine Nuovo ma anche Avanguardia Nazionale, organizzazione di esplicita ispirazione fascista che ha peraltro rappresentato la principale alleata di Borghese nel suo velleitario tentativo di golpe (entrambe le organizzazioni finiranno sciolte per ricostituzione del Partito Fascista).

L’aspetto tattico non è da meno: appena un mese dopo le elezioni il nostro dismette pubblicamente il doppiopetto elettorale per tornare a vestire i panni dello squadrista. Nel corso di un comizio tenuto a Firenze assieme a Birindelli, dichiara: “Se il governo continuerà a venire meno alla sua funzione di Stato, noi siamo pronti a surrogare lo Stato. Queste non sono soltanto parole, e invito i nostri avversari a non considerarle tali. Faremo suonare il campanello d’allarme ovunque: nelle fabbriche, nelle campagne, nelle scuole. Ai nostri giovani diamo appuntamento per l’inizio del nuovo anno scolastico: o saremo presenti o per l’Italia saranno guai. Essi devono prepararsi allo scontro frontale con i comunisti: e voglio sottolineare che quando dico “scontro frontale” intendo anche scontro fisico”. Con il presidente del partito ad aggiungere parole altrettanto forti: “Quando si agisce, uno comanda e gli altri ubbidiscono”.

Affermazioni incredibili, sconsiderate, sconcertanti, più degne di un capomanipolo della RSI  che non di un leader democratico e che soprattutto appaiono in stridente contraddizione con quanto dallo stesso Almirante dichiarato prima delle votazioni. Allora quella della “destra nazionale” è stata solo una manovra di facciata? O forse il segretario vi si è piegato obtorto collo? Più semplice vedere il leader missino come un perenne funambolo, in bilico tra istanze moderate e pulsioni estremiste, tirato per la giacca da una parte e dall’altra eppure bisognoso dell’apporto di entrambe. La stessa formula “Amici e camerati” con cui egli suole iniziare i propri comizi, del resto, finisce con il rappresentare la sintesi di tale compromesso; perché è come se dicesse: “Fascisti e non fascisti”, ben sapendo come nel partito convivano da sempre entrambe le anime, dalla base fino ai gruppi parlamentari.

A quelle parole il telegiornale dà ampio risalto, suscitando la riprovazione di tutte le parti politiche fino alla richiesta al governo di una “vigilanza antifascista” da parte della sinistra. Mentre la Procura di Milano chiede alla Camera l’autorizzazione a procedere nei confronti del segretario missino per tentata ricostituzione del Partito Fascista, inaugurando così la lunga stagione che la vedrà protagonista nell’utilizzo della Giustizia a fini politici. Ma al di là di ciò, il dato che emerge dalla condotta almirantiana è inequivocabile: lungi dal riposizionare il partito in un’area più moderata a seguito della fiducia ricevuta da un elettorato che esprimendosi in quel senso ha inteso semplicemente chiedere il ripristino di legalità e normalità della vita civile, egli lo spinge anzi lungo una china più estrema ed ambigua, non condannando né prendendo le distanze da esse ma addirittura abbracciando le formazioni variamente neofasciste che gravitano alla sua destra. Il tunnel imboccato con quella sciagurata scelta porterà dritto al famigerato “giovedì nero” di Milano.

Per il 12 aprile ‘73 il MSI ambrosiano – guidato dal vicesegretario nazionale Franco Servello – ha organizzato una manifestazione “contro la violenza rossa”: un corteo sfilerà da piazza Cavour a piazza Tricolore, ove prenderà la parola Ciccio Franco. L’ascesa interna del senatore reggino (che suole vantarsi delle varie denunce rimediate per istigazione a delinquere e a sovvertire l’ordine dello Stato come fossero medaglie) non viene vista di buon occhio dall’ala missina più moderata, convinta che un personaggio del genere rappresenti la negazione di quella linea “del doppiopetto” riproposta l’anno precedente da Almirante e con essa dell’immagine che si vorrebbe dare di un partito che ha definitivamente accettato le regole della democrazia. Inquietante il motivo della sua stessa venuta nel capoluogo lombardo, che si scoprirà dovuto all’iniziativa di un ambiguo comitato composto tanto da estremisti milanesi quanto da sottoproletari immigrati dal Meridione, allo scopo di importarvi quel modello della guerriglia anarcoide già sperimentato con successo a Reggio.

Nelle settimane immediatamente precedenti il comizio anonimi comunicati stampa inviati alle redazioni dei giornali hanno fatto riferimento alle bombe esplose qualche mese prima sui treni che trasportavano in Calabria operai aderenti alla CGIL (il sindacato comunista aveva creduto di ovviare alla pesante situazione reggina con una manifestazione di solidarietà nei confronti della cittadinanza) concludendo: “a presto risentirci a Milano”. A un’altra rivolta di piazza di analogo segno scoppiata all’Aquila allude invece il più diffuso degli slogan impressi a vernice nera sui muri della città: “L’Aquila, Reggio, a Milano sarà peggio”.

Accanto alla componente missina capeggiata dallo stesso Servello sono presenti alcune delle organizzazioni della destra più oltranzista, che si distinguono per l’esibizione del saluto fascista e l’inneggiare al Duce: Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Lotta di Popolo, il gruppo reggino di Boia chi molla e quello stesso che ha animato l’insurrezione aquilana. Tutto ciò porta la Questura, poco prima dell’inizio della sfilata, a revocare l’autorizzazione alla manifestazione, per gravi motivi di ordine pubblico. Ciononostante il raduno non si scioglie; con le frange estremiste che si abbandonano a numerosi atti vandalici, che non si arrestano neppure dinanzi allo schieramento della Celere. Lo scontro più duro ha luogo in via Bellotti, ove contro la polizia vengono lanciate bottiglie molotov; dai manifestanti parte inoltre una bomba a mano che colpisce in pieno petto l’agente Antonio Marino, uccidendolo.

Della segreteria di Almirante questo è sicuramente il frangente più critico: l’episodio rischia di cancellare d’un colpo anni spesi nel tentativo di accreditare l’immagine di un MSI difensore dell’ordine e della legge, oltre che di minare definitivamente l’unità di un partito tutt’altro che compatto sul piano ideologico e strategico. Il leader missino detta perciò al Secolo d’Italia la linea da tenere: denunciare con la massima fermezza il delitto, ma adombrando al contempo l’ipotesi della provocazione, della macchinazione ordita da qualcuno che avrebbe inteso così screditare la destra.

Già il telegiornale della sera, tuttavia, coinvolgendo senza mezzi termini il MSI nell’omicidio fa comprendere al segretario di avere ben pochi margini di manovra. Il giorno dopo poi è un’ecatombe: testate non certo “sinistre” come il Resto del Carlino, la Nazione, il Tempo attaccano a loro volta la Fiamma. Mentre dall’interno stesso del partito si levano commenti altrettanto critici, soprattutto da parte di parlamentari eletti nel segno della Destra Nazionale, monarchici in testa; con in particolare un ex questore che nell’esprimere il proprio sdegno sottolinea – quasi a giustificarsi con chi lo ha votato – di avere accettato la candidatura “al principale scopo di difendere la polizia vilipesa dall’estremismo rosso”.

Per tutti costoro Almirante si rivolge a Birindelli, postosi da qualche tempo sulla via di Damasco rispetto alla scelta compiuta l’anno precedente. “L’omicida non è iscritto al partito”, tenta di rassicurarlo; senza tuttavia riuscire a evitare che l’ammiraglio detti alle agenzie un comunicato nel quale preannuncia le proprie dimissioni “se le responsabilità del MSI-DN saranno provate”.

Tutto questo porta il nostro a rompere definitivamente gli indugi, autorizzando Servello a denunciare alla polizia quelli che sono stati nel frattempo individuati come gli autori materiali del lancio delle bombe e a pubblicizzare l’istituzione di una taglia di 5 milioni “a chiunque fornirà indicazioni decisive per l’identificazione dei colpevoli”. Qualche ora dopo vengono arrestati due giovani, Vittorio Loi e Maurizio Murelli, che in effetti non risultano iscritti al MSI (per quanto il primo lo sia stato in passato); il che tuttavia non impedisce che le responsabilità missine emergano in tutta la loro gravità.

Una volta appreso che la denuncia è venuta proprio dai “camerati”, infatti, Loi accusa: “Ma come: prima ci usano per creare i disordini e poi ci mollano?”; dopodiché rende al magistrato una lunga e dettagliata confessione, che sarà confermata da Murelli e che per il tentativo almirantiano di minimizzare il ruolo giocato dal partito nella delittuosa vicenda rappresenterà il colpo di grazia. Dopo il divieto imposto dalla Questura, la manifestazione era stata comunque tenuta dal MSI proprio in prospettiva dei preventivati disordini; Loi – già protagonista di atti teppistici – e Murelli erano stati reclutati da un fedelissimo di Servello (il quale risultava non solo iscritto al partito, ma addirittura residente nei locali della federazione milanese) al precipuo scopo di provocare gli scontri con la polizia. Mentre a fornire le bombe era stato un altro personaggio della medesima risma: un estremista notoriamente legato alla Fiamma.

L’agghiacciante scenario (cui dal punto di vista politico non apporterà sostanziali alleggerimenti la sentenza che cinque anni più tardi manderà assolti i dirigenti missini milanesi dall’accusa di avere deliberatamente organizzato i disordini) ridà fiato a quanti vorrebbero lo scioglimento del MSI. Ma è il suo stesso elettorato a sentirsi tradito; in molti poi cominciano a chiedersi come sia possibile che un partito che ha raccolto tanti consensi sia in mano a simili irresponsabili, che paiono avere ben poco a che fare non tanto con gli obblighi, le sottigliezze, i tranelli propri della politica, quanto con la legalità stessa.

Messo all’angolo, impossibilitato a continuare a separare le responsabilità degli estremisti da quelle del partito e avvertendo il rischio concreto di essere travolto egli stesso dalla gravità della situazione, Almirante proverà infine a cavarsi d’impaccio con il riconoscere tanto la realtà dei fatti quanto i limiti del proprio potere interno: “Io non posso certamente negare, e non posso impedire, che anche nel mio partito, e fra i miei elettori, fra i miei simpatizzanti, fra coloro che si definiscono genericamente “di destra”, vi siano dei violenti o addirittura dei teppisti e dei delinquenti comuni”. La necessità di prendere dei provvedimenti da offrire all’opinione pubblica porterà all’adozione della misura più inutile, paradossale e per certi aspetti beffarda: quella di espellere dal partito i delinquenti ma solamente dopo l’attuazione del gesto criminoso, e dunque senza alcuna discriminazione preventiva.

Ma negli anni più tragici della nostra storia repubblicana la cronaca nera di segno politico è densa come non mai, e il succedersi dei fatti di sangue incalzante: un destino perverso vuole così che dai tre giorni più difficili del suo mandato – scanditi da tensioni indicibili, prese di posizione imbarazzate, autodifese improponibili – il capo della Fiamma esca nella maniera più orribile. Nella notte sul 16 aprile, a Roma, un commando di Potere Operaio inonda di benzina l’abitazione del segretario della sezione missina del popolare quartiere di Primavalle, Mario Mattei, peraltro appartenente anch’egli a tutti gli effetti alla classe operaia facendo il netturbino. Il rogo innescato dai criminali non lascia scampo a due dei sei figli, Virgilio e Stefano; di conseguenza, sui giornali i fatti di Milano lasciano il posto al nuovo delitto, il MSI da carnefice diventa vittima e Almirante può vestire i congeniali panni del martire.

Il che tuttavia non impedisce che un mese più tardi la Camera approvi, a maggioranza schiacciante, la richiesta della Procura milanese di procedere contro di lui in merito al tentativo di ricostituzione del Partito Fascista. Dopo avere dichiarato la sua intenzione di votare a favore della richiesta, il segretario missino polemizza da par suo con il presidente dell’assemblea Pertini riguardo all’improvvisa accelerazione imposta al procedimento: “Non mi turba in alcun modo il fatto che in questi ultimi giorni le procedure siano state accelerate: semmai mi avrebbe turbato che esse fossero state rallentate”. Il fascicolo resterà comunque fermo per lunghi anni, trasferito dalla Cassazione alla Procura di Roma e restituito a Milano solo successivamente alla scomparsa dell’inquisito.

Dopo che l’avvento in Cile della dittatura militare guidata da Pinochet ha provocato in Italia una ulteriore ondata di antifascismo rendendo al MSI e ai suoi seguaci la vita ancor più dura, l’anno successivo la strategia della tensione raggiunge l’apice con l’attentato di Brescia e quello al treno Italicus. Infinite quanto tormentate inchieste non faranno mai completa chiarezza su tali misfatti, pur portando alla luce un torbido intreccio fra servizi segreti, logge massoniche, malavita organizzata; alla vulgata dell’epoca farà tuttavia comodo liquidare tutti quegli atti apparentemente sovversivi – ma che col destabilizzare l’ordine pubblico finivano con il corroborare un sistema politico costitutivamente fragile – come “fascisti”, senza stare a sottilizzare troppo sulla natura del collegamento tra chi li ordiva e chi li eseguiva, e soprattutto sulle loro reali finalità.

È in particolare la strage ferroviaria a causare un maldestro episodio di cui si rende protagonista lo stesso Almirante. Dopo la sua rivendicazione da parte di Ordine Nero, intervenendo alla Camera il leader missino annuncia di avere segnalato al capo dell’Ispettorato antiterrorismo, 19 giorni prima di quello all’Italicus, la preparazione di un attentato contro il treno Palatino, attivo sulla medesima tratta Roma Tiburtina-Firenze lungo la quale è esplosa la bomba. Scopo della rivelazione è quello di far ricadere la responsabilità della strage su elementi dell’estremismo di sinistra, i quali avrebbero custodito l’esplosivo in uno scantinato dell’università della Sapienza; a trasmettere l’informazione al segretario è stato un dirigente missino, al quale è stata riferita da un bidello dell’università. Senonché quest’ultimo al cospetto degli inquirenti afferma di essersi inventato tutto per denaro, provocando così l’arresto dell’altro che lo avrebbe pagato allo scopo di creare una falsa “pista rossa”. Entrambi finiranno prosciolti da ogni accusa, con il dirigente che va comunque ad allungare la lista degli espulsi dal partito; ma l’episodio resta comunque oltremodo inquietante, autorizzando l’ipotesi della montatura di un depistaggio preventivo che – comunque la si voglia intendere – non fa certo fare ad Almirante una bella figura.

Le conseguenze dell’interpretazione dello stragismo che viene imposta all’opinione pubblica sono molteplici. Deluso dal fatto che il partito non abbia mai inteso scavare un solco tra sé e tutte quelle frange extraparlamentari violente ed eversive che gli orbitano attorno, già dopo il primo attentato l’ormai saturo Birindelli rassegna le dimissioni da presidente: se è vera la versione che lo vuole un uomo dell’anticomunismo americano, il gesto verrebbe implicitamente a rappresentare l’abbandono da parte di quegli ambienti dell’investimento sulla Fiamma. Sempre a fronte dell’ambiguità del MSI, accusato di aver accolto nelle proprie fila e di fiancheggiare esponenti del terrorismo nero, nelle piazze e in parlamento si iniziano a raccogliere firme allo scopo di mettere fuorilegge il partito di Almirante, ora più che mai additato al pubblico ludibrio come il repubblichino, il fascista, il fucilatore.

La logica dell’arco costituzionale viene corredata con un’altra locuzione discriminatoria, che costituisce una vera e propria contradictio in adiecto: quella dei “partiti democratici”. Anche in questo caso a risultare escluso dalla congrega è ovviamente il MSI: come se i suoi voti non derivassero dal popolo ma da chissà quale altra entità. Pur rimanendo nettamente per consistenza parlamentare il quarto partito italiano, nelle cronache della tv di Stato esso viene regolarmente declassato a fanalino di coda; salvo dargli il massimo risalto quando si tratta di resocontarne le malefatte – vere o presunte – e quindi di screditarlo e infangarlo.

Conseguentemente le televisive Tribune riservate al segretario missino si trasformano in altrettante gogne, con l’attuazione da parte dei giornalisti di un preciso copione che rispecchia i vari opportunismi politici. C’è chi si rifiuta di parlare con lui; chi esordisce dicendo: “purtroppo siamo ancora qui a dover fronteggiare un dibattito con lei”; chi lo mette alla berlina circa le sue rivendicate direttive “pacifiste” (“che sono la mia vita stessa, la mia coscienza”, egli si affanna a ripetere), dai militanti così poco recepite; chi accusa esplicitamente il partito da lui diretto di rappresentare una minaccia per la repubblica. Qualcuno poi ricorre al sarcasmo: “In effetti è difficile dire che la violenza viene dal MSI, visto che siete velocissimi a espellere dal partito – ma sempre dopo che è successo qualcosa – i vostri giovani facinorosi”. In particolare gli viene contestato di non avere cacciato Rauti, inquisito stavolta per la strage di Brescia; anche da tale imputazione il leader di Ordine Nuovo sarà tuttavia assolto.

Ma al di là della ruvidità delle domande – o meglio delle accuse – rivoltegli non è raro percepire dietro l’atteggiamento ostile la stima personale del cronista nei confronti dell’uomo: perché il carisma di Almirante resta contagioso per tutti, anche nei momenti più critici. Senza grosse vie d’uscita, egli sceglie di rifugiarsi nuovamente nell’alibi di non esercitare il pieno controllo su certe frange del partito: “Io sarei il mandante morale del terrorismo, della violenza, della strategia della tensione. Ci sono dei violenti anche tra noi, tra gli iscritti al MSI? C’è – lo debbo ammettere – in tanta parte dei giovani che sono vicini a noi o con noi uno stato di insoddisfazione, di ribellione contro i miei ordini e le mie direttive”.

La conseguenza più grave della condotta della dirigenza missina nei confronti di tali componenti “facinorose” della galassia rappresentata dalla Fiamma è sicuramente la demonizzazione dell’appartenenza al partito o al suo Fronte della Gioventù, con la conseguente strage impunita dei ragazzi di destra, uccisi come cani solo per la loro idea, e nella sostanziale indifferenza delle istituzioni. Mentre il decennio precedente ha visto un sostanziale fair play sul piano della convivenza politica, specie a livello giovanile, nel corso degli anni Settanta chiunque militi a destra viene inevitabilmente appellato da chi sta dall’altra parte come “fascista”, a prescindere dalla sua collocazione ideale rispetto al regime mussoliniano: e soprattutto dalla sua data di nascita.

“Uccidere un fascista non è reato”, “——–, fascista, sei il primo della lista”, “hazet 36 fascista dove sei?”, “fascisti carogne tornate nelle fogne” sono alcuni degli slogan che vanno per la maggiore; con una parte rilevante dell’opinione pubblica a sostenere i carnefici, il Soccorso rosso a proteggerli e la magistratura ad assolverli. Mentre le sedi missine sul territorio (a cominciare da quella centrale romana) debbono essere acquistate, dal momento che nessun proprietario è disposto ad affittare immobili che diverrebbero ad alto rischio, data la frequenza di attentati ed assalti.

Nel ‘75, intervenendo a Tribuna elettorale, il segretario pare voler recitare il mea culpa per la mattanza di tutti quei giovani, morti non si sa per cosa; ma in realtà la sua suona come un’abile autodifesa, oltre che un’accusa nei confronti di uno Stato ipocrita e parziale resa ancor più efficace dal ricorso alla preterizione. “Io sono angosciato da alcuni anni per questo succedersi di violenze, soprattutto quando si tratta di giovani vittime: di sinistra o di destra, non importa. Non m’importa che ai funerali delle vittime di sinistra vada il presidente della repubblica, e per i poveri ragazzi di destra assassinati non ci siano spesso neanche le condoglianze ufficiali: non ha importanza. Quello che m’importa è che mi sento, insieme a tutta la classe politica dirigente italiana, corresponsabile di questo stato di violenza”.

In ogni caso le contraddizioni proseguono, impietosamente e rovinosamente. Alle Amministrative del ‘75 la Fiamma non trova di meglio che candidare al Comune di Palermo un elemento dai trascorsi quantomai turbolenti: Pierluigi Concutelli, già arrestato per detenzione e porto abusivo di armi da guerra, militante prima del Fronte Nazionale di Borghese, quindi di Ordine Nuovo e ciononostante – o forse proprio per questo – eletto presidente provinciale del FUAN, l’organizzazione universitaria missina. Neppure un nuovo arresto rimediato l’anno precedente a seguito di una rissa con avversari politici gli preclude l’accesso alla lista del MSI; dal quale sarà tuttavia espulso di lì a poco, dopo che la Procura palermitana avrà spiccato nei suoi confronti mandato di cattura per il sequestro del banchiere Luigi Mariano.

Di quell’anno tremendo, che vede l’assassinio più brutale, assurdo e vigliacco di un ragazzo di destra, Sergio Ramelli – lui veramente un martire – restano anche l’ennesima raccolta di firme promossa dalla sinistra per sciogliere il MSI nonché un episodio che sconfina nell’aneddotica, e che la dice lunga sia del clima d’odio diffuso nel Paese nei confronti della Fiamma che dell’innato fair play che caratterizza l’uomo Almirante. In viaggio lungo l’Autosole, in compagnia della moglie il segretario missino fa sosta all’autogrill bolognese di Cantagallo, per sentirsi rispondere dal banconiere: “Lei è fascista: io non le servo niente”. Siamo nella “capitale rossa” d’Italia, per cui non c’è da stupirsi che l’intero personale della stazione di servizio si adegui all’ordine del “soviet”, rifiutandosi di espletare il servizio pubblico per cui è pagato: tutti quanti incrociano le braccia, improvvisando un inedito sciopero “ad personam”.

Impassibile il segretario missino si avvia verso l’uscita, mentre Donna Assunta gli manifesta la propria indignazione; “è normale: è la lotta politica”, la invita allora il navigato consorte a non dare peso alla cosa. Mentre i “compagni che hanno fatto scattare la lotta” rifiutandosi di servire il “fascista e fucilatore” saranno celebrati dalla sinistra alla stregua di eroi, perfino con l’incisione di un disco: “Marzabotto è ancor troppo vicina / faccia presto ad alzare le suole / nelle fogne può dir ciò che vuole / ma a Bologna non  deve parlar”. Nemmeno all’autogrill si fosse presentato quel giorno il maggiore Reder, con la sua divisione di SS.

La secca sconfitta subita dalla DC alle Regionali da parte delle sinistre determina la conclusione anticipata anche di questa legislatura. In prospettiva delle Politiche del ‘76, Almirante prova a rimuovere le macerie legate all’esperienza della Destra Nazionale promuovendo una nuova formazione che, nel segno dell’anticomunismo, possa nuovamente allargare il perimetro del partito: la “Costituente di destra per la libertà”. Vi aderiscono sia personalità antifasciste – a cominciare da un ex comandante partigiano – che prestigiosi esponenti di Forze armate e servizi segreti: in primis il generale Miceli, candidato alla Camera nonostante sia sotto inchiesta in quanto sospettato di coinvolgimento tanto nel golpe Borghese quanto nell’organizzazione eversiva Rosa dei venti, accusata di partecipazione ad attentati e stragi. Si tratta di una candidatura quantomeno azzardata, e a prescindere dall’assoluzione con cui si concluderà la vicenda giudiziaria del direttore del SID: perché è evidente come Almirante si ostini a non voler demarcare la distanza fra il partito da lui diretto e tutto ciò che risulta ambiguo, inquietante, torbido. Miceli sarà comunque eletto.

Ma il fondo del discredito viene toccato allorché un’altra manifestazione missina provoca un morto. Il 28 maggio ‘76, a Sezze Romano, il comizio dell’on. Sandro Saccucci (già ufficiale dei paracadutisti, membro di Ordine Nuovo e incarcerato per la vicenda del golpe Borghese) nasce sotto una cattiva stella: perché in paese entra una colonna di automezzi che trasportano militanti al seguito del parlamentare, occupando il palco armati di bastoni e – si scoprirà – di pistole. Più che di un comizio, dunque, si tratta di una insulsa prova di forza, se non di una vera e propria provocazione: nella sostanziale assenza di simpatizzanti locali in piazza è infatti presente un nugolo di giovani della sinistra sia parlamentare che extra, giunti allo scopo di contestare la manifestazione nel consueto segno dell’antifascismo e che appaiono numericamente preponderanti rispetto agli avversari.

Tutto indurrebbe dunque a lasciar perdere; ma nell’indifferenza della forza pubblica, Saccucci attacca comunque a parlare. Alle bordate di fischi e ai canti rossi che si levano a quel punto dalla piazza il deputato risponde estraendo una pistola e sparando, per poi darsi alla fuga assieme al resto della comitiva. Ma nel mentre le autovetture si allontanano, da queste partono altre rivoltellate che colpiscono mortalmente il militante del PCI Luigi Di Rosa.

È questa la degna conclusione di una legislatura dal punto di vista missino fallimentare. A tutto quanto abbiamo ripercorso va infatti aggiunto il posizionamento della Fiamma sul referendum del ‘74, che chiamava i cittadini ad esprimersi circa il mantenimento della legge che aveva introdotto il divorzio. Una consultazione che spaccava l’opinione pubblica e lo stesso mondo cattolico; dalla parte più ortodossa del quale era scaturita l’iniziativa abrogativa, laddove gli ambienti più avanzati si erano pronunciati a favore della nuova normativa. Consapevoli della difficoltà di spuntarla, i vari leader democristiani si erano defilati dalla campagna referendaria, nella quale aveva invece scelto di buttarsi a capofitto il segretario Fanfani.

La posizione di Almirante è dettata dalla sua situazione personale: avendo egli stesso alle spalle un divorzio, per coerenza non può che dichiararsi per il no all’abrogazione della legge. Senonché in direzione egli risulta l’unico a schierarsi da quella parte: il vertice missino sancisce così l’allineamento del partito sulle posizioni del cattolicesimo conservatore. Una decisione oltremodo improvvida, per vari motivi: il MSI sceglie di fare da stampella alla DC – e segnatamente della segreteria Fanfani – allorquando avrebbe tutto l’interesse a una sua sconfitta e non considerando che una vittoria del Sì assumerebbe comunque i colori democristiani. Dà prova di clericalismo, elemento estraneo al suo Dna e ben sapendo che il partito di riferimento della Chiesa rimarrebbe in ogni caso lo Scudo crociato. Schierandosi dalla parte opposta, esso avrebbe inoltre dato di sé un’immagine moderna e attenta ai cambiamenti in atto nella società, se non altro incuriosendo l’opinione pubblica progressista; senza contare la possibilità di lasciare ai propri elettori libertà di voto.

Fatto sta che da quella secca sconfitta inizia il declino elettorale della Fiamma, certificato dalle successive Politiche: nel ‘76 se ne vanno 650.000 voti, pari a ¼ del consenso precedente. Nonostante tutti i disastri combinati dalla dirigenza nel quadriennio, tuttavia, il MSI si attesta oltre il 6%: quindi al di sopra del suo abituale dato di riferimento (che prescinde dall’exploit del ‘72). Tale relativa tenuta va a nostro avviso ascritta al clima degli anni di piombo, all’abilità televisiva di Almirante nonché al fatto che gli innumerevoli attacchi ricevuti hanno implicitamente consegnato alla Fiamma la patente di partito antisistema per eccellenza: dato che agli occhi dell’elettore medio conta assai più dell’eterna quanto sterile diatriba fascismo/antifascismo.

Alla batosta seguono lunghi mesi di discussione interna, alimentata soprattutto dalla corrente moderata di Democrazia Nazionale, i cui esponenti accusano il segretario di avere continuato a tenere il partito su posizioni estremiste tradendo il progetto promosso quattro anni prima. Ma Almirante sa di avere dall’altra parte Rauti, le cui rivoluzionarie parole d’ordine continuano ad avere largo seguito nella gioventù missina, notoriamente assai vivace dal punto di vista intellettuale; per cui alle richieste di piegarsi finalmente alla svolta conservatrice risponde picche. Il risultato di tale irrigidimento va oltre ogni aspettativa: a lasciare il partito non sono soltanto quei dissidenti ansiosi di poter interloquire con la DC, ma anche fedelissimi del segretario e sue stesse creature.

Per Almirante il colpo è tremendo, pure sul piano personale. A Tribuna politica Jacobelli è impietoso nel fargli presente la gravità della scissione, che ha dimezzato la consistenza dei gruppi parlamentari missini; ma anche stavolta il consumato leader riesce insuperabile nel cavarsi fuori dall’imbarazzante situazione, dando una risposta che alla diplomazia unisce lo sdegno nei confronti di chi ha tradito, frutto di un senso dell’onore che appare ancora quello del ragazzo di Salò. “Io preferisco non dedicare alcuna polemica a coloro che se ne sono andati. Mi sono dimenticato i loro nomi, mi sono dimenticato le loro facce: anche le più familiari”. Per poi sottolineare come l’operazione di avvicinamento alle stanze del potere abbia riguardato i vertici, ma non la base del MSI: “Prima della scissione il nostro partito aveva 4500 sezioni, in ogni parte d’Italia; oggi ne ha 4500, non 4499. Questo mi basta”. I militanti sarebbero dunque rimasti tutti con lui.

La settima legislatura repubblicana dura appena tre anni, e dal punto di vista missino è sicuramente la più inutile. La celebrazione del compromesso storico, la tendenza al consociativismo favorita dalla svolta “eurocomunista” compiuta dal PCI – cui viene attribuita la presidenza della Camera – con la sua accettazione dell’appartenenza italiana alla NATO, i governi di “solidarietà nazionale” mettono più che mai fuori gioco il partito di Almirante.

Il giorno in cui viene rapito Moro, il leader missino rilascia una dichiarazione pienamente in linea con la tradizione militarista della sua segreteria: “Noi proponiamo: primo, che entro la giornata il ministro dell’interno dia le dimissioni e il presidente della repubblica firmi i relativi decreti di accettazione e di sostituzione del ministro dell’interno con un militare; secondo: che subito dopo il voto il parlamento non si conceda vacanze ma sia immediatamente chiamato ad approvare una legge eccezionale contro il terrorismo; terzo: che tale legge comporti il ripristino della pena di morte per i delitti particolarmente efferati e l’applicazione del codice penale militare nelle zone e nei momenti di emergenza”.

E allorché proprio allo scadere del tempo concesso dai brigatisti per giungere ad uno “scambio di prigionieri” pare finalmente muoversi qualcosa in favore della salvezza del presidente democristiano, Almirante denuncia vigorosamente quanto sta a suo avviso avvenendo “sottobanco” in seno a quel “fronte della fermezza” che vede ufficialmente allineata la quasi totalità dei partiti. “Io vorrei sapere perché, se c’è una maggioranza del 95% che dichiara, tutta, mentendo: “niente trattative con le Brigate Rosse” – perché sottobanco stanno trattando: parlano di “trattative umanitarie” ma stanno trattando – lo Stato italiano debba venir meno al rispetto delle leggi vigenti”.

La diaspora subita fa sì che la campagna per le Politiche del ‘79 abbia quale primo obiettivo il ricompattamento del partito; quando le vicende della legislatura avrebbero messo la Fiamma nella condizione ideale per sottrarre voti all’ambigua e stranita DC, traditrice del proprio elettorato anticomunista. Solo in questo senso i risultati delle votazioni possono essere considerati soddisfacenti: il MSI torna ad attestarsi sui suoi livelli tradizionali, poco al di sopra del 5%. Laddove l’avventura di Democrazia Nazionale fa segnare un altro record; alla più grande scissione politica della nostra storia repubblicana segue infatti il più clamoroso flop elettorale: 0,6%, nessun parlamentare.

Qui le interpretazioni possibili sono due. La prima, di ordine politologico, darebbe ragione ad Almirante: nel senso che nel panorama italiano dell’epoca non v’è spazio per una destra che non sia “dura e pura”, sdegnosamente diversa rispetto a tutti gli altri partiti, ineccepibile quanto si vuole dal punto di vista morale ma inesorabilmente condannata a rimanere chiusa nel suo ghetto. La seconda è più spiccia: agli occhi di un certo elettorato è proprio il carisma del leader missino a fare la differenza, quei comprimari in cerca di gloria al suo cospetto appaiono dei nani e quindi il loro tentativo era fallito in partenza.

Rinfrancato dal responso delle urne, al successivo congresso di Napoli il segretario ricorda il senso da lui dato alla fondazione del MSI e alla necessità di fare politica nell’Italia democratica con parole destinate a rimanere scolpite nel cuore dei militanti. “Quando al termine del periodo di clandestinità seguito alla conclusione della guerra civile noi potemmo finalmente rimettere piede a Roma, giunti a Piazza Venezia il nostro sguardo andò istintivamente a quel balcone. Subito dopo, però, esso passò oltre, rivolgendosi all’Altare della Patria”.

La strage alla stazione di Bologna conclude il decennio più tragico, provocando una ulteriore ondata di antifascismo. Con risultati anche paradossali: se in una scuola un’assemblea studentesca viene dedicata alla politica, e al relativo dibattito viene malauguratamente invitato pure il rappresentante missino, gli altri a quel punto se ne vanno. I primi ad alzare le natiche sono gli esponenti dei partiti della sinistra, cui si vedono costretti a far seguito gli altri colleghi “democratici”; a fare compagnia al “fascista” rimane allora il solo rappresentante radicale: il quale si rivela così l’unico veramente democratico. Nell’assistere alla commedia, gli studenti si chiedono cosa quei signori siano venuti a fare, ben sapendo che vi avrebbero trovato anche l’“antidemocratico”. In consiglio comunale poi come fanno?

Con il progressivo esaurimento del fenomeno terroristico, gli anni Ottanta vedono un profondo mutamento del clima socio-politico nazionale, uno dei cui risultati è la fine dell’ostracismo nei confronti del MSI. Il primo leader a gettare un ponte nei confronti della Fiamma è proprio quello radicale, Pannella, il quale si dà un gran daffare in tal senso: accetta dibattiti televisivi con Almirante, fa trasmettere da Radio Radicale pure le assise del partito della destra, si reca egli stesso al congresso missino dell’82, dopo avere dichiarato che “oggi i veri fascisti sono i democristiani”. Suscitando però la reazione del padrone di casa, il quale nel dargli il benvenuto lo previene, rispolverando per l’occasione il più tradizionale dei suoi cavalli di battaglia: “Siamo uomini liberi: e come tali, per evitare di sentirti dire che il fascismo non è qui, ma è fuori di questa sala, voglio dirti invece che il fascismo è qui. Il fascismo inteso come libertà, come movimento, come tradizione sociale, nell’idea di sintesi tra Stato, Nazione e lavoro”.

Ma è l’83 a segnare la definitiva sghettizzazione del MSI: e pur con motivazioni e intenti assai diversi, sono – ironia della sorte – proprio due esponenti del primo partito di appartenenza di Mussolini a sancire l’epocale svolta. Il primo è il presidente della repubblica Pertini, il quale decide di recarsi – per quanto in forma privata – al capezzale di Paolo Di Nella, militante del Fronte della Gioventù colpito alla testa nel corso di un’aggressione. La morte di Paolo suscita il cordoglio anche di parte della stampa di sinistra e dello stesso Berlinguer, che invia un telegramma di solidarietà alla famiglia.

Pertini ha un passato fortemente antifascista. È stato uno spietato capo partigiano, dal profilo più comunista che socialista: tra i più accesi sostenitori della necessità di giustiziare il Duce, è stato responsabile della morte di tanti repubblichini innocenti, passati per le armi anche a guerra conclusa: a cominciare dagli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Nel ‘60, inoltre, è stato proprio lui ad accendere il fuoco della sanguinosa rivolta genovese contro il congresso missino, con un infuocato comizio ai portuali della CGIL. La sua stessa elezione al Quirinale è avvenuta nel nome dell’arco costituzionale, e dunque – ancora 33 anni dopo la fine della guerra – dell’antifascismo.

Agli occhi di Almirante, Pertini non può perciò che rappresentare un nemico storico. Quando gli chiedono un giudizio su qualche discutibile atto del capo dello Stato (come la grazia al comandante partigiano responsabile del massacro di Porzus; o la commossa partecipazione ai funerali del presidente jugoslavo Tito, con tanto di bacio a quella stessa bandiera che sventolava sulle foibe) il segretario suole dare risposte di circostanza, aggiungendo ironicamente: “per il rispetto che ho dell’istituto”. Per questo l’omaggio presidenziale a Di Nella viene considerato come la fine dell’odio nei confronti della destra e conseguentemente del clima da guerra civile che ha continuato a insanguinare a lungo il Paese.

Le Politiche che si tengono nello stesso anno vedono un bel successo del MSI, attestatosi poco al di sotto del 7% e dopo che le prime proiezioni ne avevano annunciato un’affermazione ancor più consistente, sui livelli del ‘72. Ma le attenzioni di tutti gli osservatori vanno al duello che da qualche tempo si va consumando fra il segretario democristiano De Mita – capo della corrente di sinistra, ultimo apologeta dell’arco costituzionale e favorevole al dialogo con i comunisti, specie in funzione antisocialista – e il segretario del PSI Craxi, fautore di un profondo rivolgimento della politica del suo partito in senso moderato, ostile al compromesso storico e soprattutto fortemente anticomunista.

Il risultato elettorale non dà al braccio di ferro una soluzione netta: perché al vistoso calo della DC non corrisponde un’altrettanto convincente affermazione socialista. Senonché i leader delle correnti democristiane moderate costringono l’indebolito De Mita a concedere allo scalpitante Craxi disco verde per la formazione del suo primo governo, determinando così una situazione inedita che vede il partito di maggioranza cedere contemporaneamente al PSI sia il Quirinale che Palazzo Chigi.

Politico astuto, scaltro e non privo di coraggio, Craxi sa che il suo esecutivo non potrà contare sull’appoggio incondizionato della dirigenza democristiana, dovendo al contempo fronteggiare un’opposizione senza quartiere da parte comunista; è perciò in cerca di sostegni alternativi, per supplire a eventuali fronde che dovessero attraversare lo schieramento di pentapartito. Per questo egli compie anzitutto il gesto rivoluzionario di includere il MSI nelle consultazioni per la formazione del governo, mettendolo sullo stesso piano degli altri partiti e giungendo a offrirgli la presidenza di una commissione parlamentare. Ma è dal discorso che il presidente del consiglio incaricato tiene alla Camera che giunge lo schiaffone a De Mita, ai comunisti e anche ai socialisti di tendenza ortodossa (tra i quali lo stesso Pertini), allorché egli annuncia che per la durata del suo mandato nessuna delle forze politiche presenti in parlamento sarà ghettizzata: è la fine delle discriminazioni legate al feticcio dell’arco costituzionale.

Eppure Almirante lascia cadere pure questa occasione di incidere sull’assetto politico nazionale, mantenendo la Fiamma nel suo splendido isolamento: e lo fa proprio nel momento in cui le varie destre sono al governo in tutti i principali Paesi occidentali. Non dà il giusto rilievo a quanto mostra invece di avere pienamente compreso Craxi: e cioè il ritorno in auge dei valori tradizionalmente borghesi. L’“edonismo reaganiano”, l’individualismo, la rincorsa all’arricchimento personale, l’ostentazione, la passione per la moda e per il gioco in borsa segneranno profondamente gli anni Ottanta: sorta di nuova belle époque, per quanto illusoria ed effimera.

Di conseguenza, il segretario missino rifiuta le avances di quello socialista: “Sia a me che a Craxi piacciono le donne”, taglia corto con altrettanta ironia nel rispondere al cronista che gli ha domandato se fra di loro sia per caso scoccato un colpo di fulmine. In parlamento poi va giù duro, rigettando qualunque compromesso con il “regime partitocratico” in atto, la cui essenza coincide con la “difesa delle poltrone: e poltrone di questo genere ci fanno schifo!”, grida rivolto al capo del governo.

Assecondando tale sistema clientelare e protervo, che costringe i cittadini ad aderire ai partiti di potere per ottenerne le prebende (e sono in molti a possedere più tessere), gli parrebbe di tradire il mandato ricevuto dagli elettori; al contrario, il suo partito vuole rappresentarne l’alternativa radicale. Donde la sua proposta di profonde riforme istituzionali, fino alla costituzione di una “nuova repubblica” di tipo presidenziale e con al centro le esigenze non dei partiti ma dei cittadini. Mentre per quanto concerne le alleanze egli preferisce guardare fuori dall’Italia: in particolare a quella con il Front National francese, partito altrettanto antisistema il cui simbolo è modellato su quello del MSI e la cui politica punta a fare dell’Europa la terza forza tra Stati Uniti e Unione Sovietica.

L’84 vede Almirante protagonista delle cronache soprattutto per due fatti. Il primo è legato alle rivelazioni riguardanti l’attentato di Peteano, che il 31 maggio ‘72 aveva provocato la morte di tre carabinieri. Inconcludenti le indagini (aventi per oggetto prima elementi della malavita locale, quindi Lotta Continua), è solo la confessione che 12 anni dopo si decide a rendere uno dei due attentatori, Vincenzo Vinciguerra, a fare chiarezza sul crimine, da ascriversi a Ordine Nuovo del quale costui faceva parte. L’ideologia dalla quale è scaturito l’atto terroristico è infatti riconducibile all’ordinovismo: lo scopo era di colpire lo Stato, nelle persone dei militari, allo scopo di provocare una frattura nel rapporto di collaborazione instauratosi tra gruppi dell’estrema destra e parte degli apparati statali in una prospettiva golpistico-reazionaria, e non rivoluzionaria e antiatlantica come auspicato dal movimento. La stessa decisione di Vinciguerra di assumersene finalmente la responsabilità dopo avere a lungo fruito di coperture e depistaggi nasce dall’intento di rendere pubblica quella contiguità che aveva portato all’attuazione di certi fenomeni eversivi.

Complice nell’attentato era stato Carlo Cicuttini, all’epoca dirigente friulano del MSI, il quale aveva fatto la telefonata che aveva attirato i carabinieri nella trappola, costituita da un’autobomba. Secondo il reo confesso, Almirante avrebbe fatto pervenire a Cicuttini, successivamente riparato in Spagna, la somma necessaria a sottoporsi a un intervento alle corde vocali che ne modificasse la voce, rimasta impressa nella registrazione in possesso degli inquirenti e che, confrontata con quella di un comizio da lui tenuto, aveva consentito di identificarlo come l’autore della telefonata incriminata. Rinviato a giudizio per favoreggiamento aggravato dopo il rinvenimento di documenti attestanti il passaggio del denaro in questione, il leader missino eviterà il processo beneficiando dell’amnistia.

Condannato all’ergastolo al pari del complice, Vinciguerra formulerà sulla Fiamma – nella quale aveva inizialmente militato anch’egli – e sul suo segretario un giudizio impietoso. “Quella del “marciare divisi per colpire uniti” è una strategia molto vecchia, che il MSI ha sempre perseguito al massimo livello. Mi riferisco in modo particolare a Giorgio Almirante, che è stato veramente l’anima oscura, torbida del neofascismo italiano: come passato e come comportamenti. Un neofascismo che si risolveva principalmente in azioni di organizzazioni che guarda caso facevano sempre riferimento al MSI; così come nelle aule di giustizia tutti gli imputati sono sempre stati difesi da avvocati missini, compresi quelli eletti in parlamento, fruendo al contempo del supporto politico e giornalistico del MSI. Perché ovviamente la chioccia non abbandona i pulcini, se i pulcini hanno salvaguardato l’immagine della chioccia: nel senso che hanno escluso la possibilità che il MSI potesse in qualche modo essere coinvolto nei loro atti”.

Nello stesso anno si ha il capolavoro del nobiluomo Almirante: il gesto che stupisce e commuove l’Italia intera. La campagna elettorale per le Europee vede la scomparsa di Berlinguer: colpito da malore durante un comizio, il leader comunista porta stoicamente a termine il suo discorso, per poi entrare in coma. Nel Paese il cordoglio è enorme: allorché la salma viene esposta alle Botteghe Oscure il segretario missino non ci pensa due volte e, unendosi al popolo comunista, si mette in fila per rendere omaggio al grande collega e avversario. Un atto spontaneo, umano ma anche rischioso: perché non è prevedibile la reazione che potrà avere la folla nei suoi confronti. E invece l’accoglienza riservatagli è improntata al massimo rispetto: dai tempi di Casalecchio pare passato un secolo. Richiesto dai cronisti di spiegare il suo gesto, il leader della Fiamma dichiara: “Sono venuto umanamente a rendere omaggio alla salma di un uomo onesto che credeva nelle sue battaglie”.

L’85 vede invece un’altra scelta assai discutibile da parte missina in campo referendario. Sfidando apertamente la sinistra e in particolare la CGIL – cosa impensabile per un leader socialista – per combattere l’inflazione Craxi ha tagliato la “scala mobile”: il meccanismo di rivalutazione automatica delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, introdotto 40 anni prima proprio con l’avallo del potente sindacato della sinistra allo scopo di proteggere il potere d’acquisto dei salari. Contro quel provvedimento il PCI ha promosso un referendum abrogativo; la cui campagna vede – al di là delle indicazioni di facciata – il sostanziale disimpegno degli alleati di governo, con in particolare la DC di De Mita ad auspicare la vittoria del Sì per sbarazzarsi del pericoloso concorrente socialista. A sostenere con convinzione il No rimane così – in pratica – il solo PSI.

Il partito di Almirante sceglie di appoggiare l’iniziativa comunista, credendo così di ingraziarsi operai e impiegati. A giustificazione di tale scelta il segretario adduce una motivazione di ordine salomonico: siccome in occasione della precedente riforma fiscale (mirata a combattere il fenomeno dell’evasione mettendo nel mirino in particolare le piccole imprese) il MSI si è schierato a difesa dei lavoratori autonomi, per equità occorre adesso tutelare quelli dipendenti. Un ragionamento che pecca anzitutto di semplicismo: numerosi quanto illustri economisti hanno infatti garantito che la parte di retribuzione momentaneamente perduta è destinata a tornare nelle tasche dei salariati con gli interessi, una volta domata l’inflazione.

Da parte della Fiamma non si intende dunque privilegiare il significato politico del referendum: sicuramente il più politicizzato fra quelli tenutisi fino ad allora in Italia. Dopo avere abbattuto l’arco costituzionale, Craxi ha infranto un altro tabù: il diritto di veto del sindacato, e in particolare della CGIL, sulle iniziative governative. Nessun capo di governo democristiano avrebbe mai osato prendere una decisione del genere; in pratica un’altra sfida a quella prassi consociativa che vuole i comunisti partecipi delle decisioni più importanti pur non facendo ufficialmente parte della maggioranza. Quello diventa dunque implicitamente un referendum sulla figura di Craxi: politico spregiudicato e anticonformista che, se non può essere considerato come a tutti gli effetti di destra, sicuramente sta facendo cose che mandano in bestia la sinistra.

Né la dirigenza tiene conto dell’imbarazzo del vedere il MSI schierato assieme a PCI e Democrazia Proletaria; anche in questo caso, la possibilità di lasciare agli elettori libertà di voto non viene presa in considerazione. Il risultato è che l’elettore missino più avveduto se ne infischia delle indicazioni del partito e vota nel modo che ritiene dare più fastidio ai nemici della destra: e chissà che non sia proprio tale apporto a determinare la vittoria del No, con il 54%.

Nell’ultima intervista televisiva concessa da segretario, un anno prima di lasciarci, Almirante dichiara: “Sono fascista. Anzi la parola ‘fascista’ ce l’ho scritta in fronte: e più di così non potrei esserlo. Intendo dire che non sono mai stato obbligato a diventare fascista e a continuare ad esserlo nei tempi buoni e felici in cui essere fascista poteva rappresentare una comodità o un vantaggio. Sarebbe veramente vergognoso da parte mia non insistere una volta che il fascismo non rappresenta più un vantaggio ma uno svantaggio, qualche volta un pericolo, o comunque un rischio”. Aggiungendo: “Quando noi nascemmo, lo facemmo per restituire voce ai vinti: noi eravamo i vinti in una guerra civile. Lo erano milioni di italiani”.

Alla luce delle vicende che abbiamo ripercorso, un giudizio storico sulla figura di Almirante e sul suo operato da segretario missino resta complesso. Volendo partire dagli elementi a suo favore, ricorderemo come negli anni di piombo vi fosse a sinistra chi definì chi era passato alla lotta armata come “compagni che sbagliano”: riconoscendo implicitamente una dignità ideologica a quei criminali cui va ascritta la morte di tanti innocenti e la distruzione di altrettante famiglie. Il nostro – per fortuna – ci risparmiò l’ipocrisia di chiamare “camerati che sbagliano” gli estremisti di destra, che poi erano più o meno tutti fuorusciti dal MSI: tanto coloro che lo avevano abbandonato spontaneamente (una volta appuratane la compromissione con il regime parlamentare) quanto l’esercito degli espulsi.

Al tempo stesso occorre tuttavia rilevare un’altra anomalia propria della Fiamma: non essendovi da questa parte un’organizzazione equivalente al Soccorso rosso, fu in talune occasioni lo stesso partito della destra a supplire a tale mancanza con l’aiutare, coprire, proteggere quei “camerati” che si erano messi in guai anche grossi; un po’ come fatto dal PCI nel lungo dopoguerra con quei partigiani macchiatisi di gravi crimini, inquisiti o condannati dalla Giustizia italiana e per questo salvati dal partito con l’elezione a parlamentare, amnistiati o nel peggiore dei casi fatti riparare in Paesi del blocco comunista.

Né si può trascurare, nel ricostruire il periodo socialmente più grave della segreteria almirantiana, la labilità del confine fra protesta e delitto che lo caratterizzò, il fatto che l’estremismo rappresentasse una tendenza assai diffusa del costume giovanile dell’epoca, la facilità nonché la futilità delle aggressioni: in quegli anni si poteva morire per il giornale portato – ed esibito – in tasca, per il tipo di abbigliamento indossato, per il ritrovo frequentato. Ma anche se ti trovavi in un luogo “neutro” – come ad esempio un bar politicamente non caratterizzato – dovevi stare attento a come parlavi: perché potevano esservi elementi della fazione opposta, che ti inquadravano per poi farti la festa.

Privilegiando poi l’aspetto personale rispetto a quello politico, appare evidente come Almirante fosse il leader meno indicato a guidare una transizione del MSI verso una destra moderata, conservatrice od occidentale che dir si voglia. Ce lo ha spiegato lui stesso: a impedirglielo stavano quelle radici mai rinnegate e neppure annacquate, quelle stigmate fasciste che a distanza di più di 40 anni egli portava ancora “scritte in fronte”. La sua scelta per la Repubblica di Salò aveva segnato la sua vita per sempre: uomo tutto d’un pezzo, comprensivo e indulgente nei confronti degli altri ma non verso sé stesso, non si sarebbe mai perdonato di avere tradito gli ideali originari per una “poltrona”. Quello stesso senso dell’onore che lo aveva portato ad aderire alla già spacciata RSI lo avrebbe fatto “vergognare” di avere rinnegato il suo status di “vinto”, facendolo sentire come il peggiore dei voltagabbana.

Al tempo stesso, però, non possiamo trascurare gli obblighi che assume il capo di un partito con l’elettorato nel momento in cui questo, dinanzi a precise proposte politiche, sceglie di dargli fiducia, consentendogli così di raddoppiare i consensi rispetto al proprio abituale standard. E qui vengono fuori tutti i limiti dello stratega: perché se Almirante, nell’Italia degli anni Settanta, avesse tenuto fede alle promesse legate al progetto della Destra Nazionale, la storia di questo Paese sarebbe potuta cambiare. Così facendo il MSI avrebbe perso il suo elettorato più estremista? Può darsi: ma è altrettanto probabile che i voti in arrivo dall’altra parte avrebbero compensato il salasso. Senza contare che la mancanza di un esplicito ripudio delle frange oltranziste che facevano da ampio corollario al MSI finiva con il fare un enorme regalo alla sinistra, notoriamente portata a dividersi su tutto eppure sempre pronta a compattarsi in nome dell’antifascismo.

La Fiamma avrebbe potuto così rappresentare una valida alternativa alla DC per la vasta fetta di elettori moderati, conservatori, anticomunisti; lo Scudo crociato, a sua volta, avrebbe dovuto modificare la propria linea politica per tener testa al pericoloso concorrente costituitosi alla sua destra. Nel partito cattolico le correnti di sinistra non avrebbero avuto tanto campo libero, presentare all’opinione pubblica come inevitabile il “compromesso storico” sarebbe stato più difficile e i vari maggiorenti democristiani con ambizioni governative e quirinalizie non avrebbero dovuto necessariamente fare a gara per ingraziarsi il PCI, avendosi dall’altra parte un attore altrettanto legittimo. Il sistema politico-parlamentare italiano si sarebbe finalmente sbloccato, nell’opinione pubblica la pregiudiziale antifascista sarebbe inevitabilmente venuta meno e l’elettorato avrebbe potuto scegliere fra diverse alternative di governo, come in ogni democrazia che si rispetti.

Un’altra critica ci sentiamo di muovere al comportamento tenuto dal leader missino negli anni più feroci, in cui i militanti di destra rappresentavano il bersaglio privilegiato della violenza politica. Almirante era in prima fila ai frequenti funerali, onorava la vittima di turno, ne portava a spalla la bara: ma per porre fine a quella continua caccia all’uomo cosa fu fatto? Niente: nessun gesto distensivo, nessun atto pacificatorio, nessuna iniziativa illuminata. Anzi: si hanno diversi episodi, verificatisi soprattutto a Roma e a conclusione di situazioni già critiche, in cui una maggiore accortezza da parte della dirigenza sia del partito che della sua organizzazione giovanile avrebbe potuto sortire esiti differenti, evitando sbocchi cruenti e risparmiando così delle vittime.

Va detto che nella capitale la situazione era particolarmente incandescente: qui i ragazzi di destra erano più numerosi e meglio organizzati che altrove, per cui l’aspirazione alla supremazia era sentita e perseguita costantemente. Di conseguenza, gli scontri erano praticamente quotidiani, con tanto di quartier generale: i rossi si davano appuntamento a Piazza Risorgimento, i neri a Piazza del Popolo (il cui valore simbolico era dato dal fatto che Almirante soleva tenervi il comizio conclusivo della campagna elettorale) e di lì entrambi gli schieramenti raggiungevano via Cola di Rienzo, eletta a campo di battaglia. Anche le armi erano di facile reperibilità: la domenica, al mercato di Porta Portese, si trovavano quante pistole si volevano.

A fronte di una situazione del genere, la linea dettata dal segretario missino rimase quella del riconoscimento del valore della violenza: chi militava a destra doveva mettere in conto di “lasciar la pelle”. Con questo non vogliamo dire che egli abbia volutamente inteso alimentare la logica della vendetta per cui al morto di una parte doveva necessariamente far seguito quello dell’altra; ma è un fatto che non fu compiuto alcun passo significativo per uscire da quella tragica spirale. Almirante denunciò sì l’indifferenza delle istituzioni nei confronti di quella mattanza: ma senza assumere alcuna iniziativa concreta. Peraltro in anni in cui alla guida del PCI non era più Longo (coinvolto in quanto capo supremo dei partigiani comunisti nel massacro dei repubblichini culminato nello scempio di piazzale Loreto e proseguito ben oltre la fine della guerra, e con il quale l’avvio di una trattativa da parte del MSI almirantiano sarebbe stato alquanto problematico, per evidenti motivi) ma Berlinguer, personaggio di tutt’altra levatura e per il quale lo stesso segretario missino avrebbe avuto a manifestare stima.

Intendiamoci: nulla lascia pensare che gli estremisti delle opposte fazioni si sarebbero fermati a seguito di un invito proveniente da dei leader politici; neppure però si può escludere che un atteggiamento concordato, degli appelli congiunti potessero contribuire a determinare nel Paese un clima diverso. Del resto quando la CGIL chiamava gli operai a manifestare contro le Brigate Rosse lo scopo era quello di mostrare l’isolamento dei terroristi nei confronti proprio di quella classe in nome della quale essi sostenevano di combattere.

Preferiamo comunque pensare si sia trattato di una condotta semplicemente improvvida; per quanto avere dei martiri da sbandierare faccia sempre comodo: specialmente in politica. Consideriamo in particolare la natura del MSI di Almirante: quella di un partito antisistema e fondamentalmente impolitico, che amava mettere i voti ricevuti dagli elettori “in frigorifero”, astenersi da ogni manovra o intrallazzo parlamentare, additare sdegnosamente le degenerazioni della “partitocrazia” (poi ulteriormente squalificata a “spartitocrazia”) ma con la soddisfazione di mantenersi le mani pulite e quindi poter alla fine “guardare negli occhi” i cittadini nel chiedere loro il consenso.

E quindi il terrorismo, la diuturna faida tra le opposte fazioni, i rapimenti, la recrudescenza della malavita organizzata finivano inevitabilmente con il rappresentare, in quegli anni tremendi, il pane delle campagne elettorali di Almirante: il quale, nel chiedere l’inasprimento del codice penale sino al ripristino della pena di morte, sapeva di rivolgersi a una parte di opinione pubblica precisa e circoscritta. Dunque un cavallo di battaglia sicuro, affidabile, di forte presa su un certo elettorato ma al tempo stesso indicativo di un partito statico, ingessato, incapace di muoversi in altre direzioni; un surrogato con il quale supplire alla mancanza di una strategia, di un disegno di più ampio respiro: di un progetto politico degno di questo nome.

Per i medesimi motivi la nostra valutazione è critica anche riguardo al periodo successivo, caratterizzato dal craxismo. Se si creano condizioni tali da modificare gli equilibri politici di un Paese in senso favorevole alla parte che esso rappresenta, e nel momento in cui tutto il mondo occidentale va a destra, un partito degno di questo nome deve anche saper rinnovarsi e sfruttare a proprio vantaggio la nuova situazione determinatasi, piuttosto che rimanersene sdegnosamente in un angolo, a guardarsi allo specchio.

L’enigma Almiranteultima modifica: 2021-06-28T20:56:19+02:00da tradersimo
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