La targa apposta dall’Anpi a Giulino di Mezzegra è un falso storico

Nel 2012, nei pressi del cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia ha apposto un cartello che recita: “Qui, alle ore 16,10 del 28 aprile 1945 fu eseguita la condanna a morte di Benito Mussolini, decretata dal C.L.N.A.I.  La Resistenza italiana pose così fine al regime fascista.”.

Entrambe le affermazioni contenute nella scritta rappresentano un falso storico. Partiamo dalla seconda: in Italia il regime fascista ebbe termine il 25 luglio 1943, quando ancora il movimento partigiano neppure esisteva. Dopo che nella notte già il Gran consiglio del fascismo – massimo organo di rappresentanza del regime – aveva posto in minoranza Mussolini esautorandolo di fatto dai suoi incarichi di governo (non però di diritto, spettando tale competenza al re), Vittorio Emanuele III impose al Duce le dimissioni sostituendolo con Badoglio. La successiva esperienza della Repubblica Sociale Italiana non può essere considerata come una prosecuzione o una riedizione del suddetto regime, riferendosi soltanto alla parte del territorio nazionale occupata dai tedeschi, in tutto e per tutto soggetta alla volontà germanica e con il governo “collaborazionista” di Salò imposto dall’alleato a svolgere funzioni di mera rappresentanza. Appunto per distinguerla dal cosiddetto “Ventennio” gli storici indicano tale fase come “nazifascismo” o “fascismo repubblicano”.

Ma neppure alla Rsi “pose fine” l’attività del movimento di liberazione: lo stato-fantoccio presieduto dall’ex dittatore si dissolse automaticamente il 25 aprile 1945, allorché, al termine di lunghi mesi di trattative segrete condotte dal plenipotenziario militare del Terzo Reich per l’Italia, generale Wolff, con gli Angloamericani, e da ultimo con lo stesso Clnai, le armate tedesche si ritirarono abbandonando Milano. Inutilmente Mussolini si era portato da Gargnano nel capoluogo lombardo per trattare a sua volta la resa, coltivando l’illusione di un passaggio di poteri con il Partito socialista e confidando comunque di avere margini di manovra con l’intero Comitato di liberazione: speranzoso disegno destinato a naufragare una volta appreso che la resa sarebbe dovuta avvenire senza condizioni, essendo la condanna a morte di tutti i responsabili repubblichini già stata decretata dal Comitato stesso.

Donde la fuga, ignobile disperata e priva di una meta plausibile, che il destino volle al seguito di un’autocolonna germanica e con i tedeschi che ben sapevano che la loro salvezza sarebbe potuta passare anche attraverso l’abbandono e quindi il tradimento degli ormai ex camerati italiani. A Musso il fatale posto di blocco: peraltro largamente prevedibile, essendo tutta quella zona dell’Alto Lario infestata di partigiani, di ogni tendenza politica. Neppure in tale frangente si ebbe una reazione degna di questo nome, un’opposizione all’arresto coraggiosa e virile, un estremo ricorso alle armi sino a mettere in conto di morire lì stesso piuttosto che davanti a un plotone d’esecuzione.

“Ce ne fregammo un dì della galera / ce ne fregammo della triste sorte / per preparare questa gente forte / che se ne frega adesso di morir / il mondo sa che la camicia nera /s’indossa per combattere e morir”, declamava uno dei tanti inni guerreschi propinati per una vita eppure disattesi proprio nel momento supremo, allorché fu lo stesso Duce a non disdegnare un improbabile camuffamento indossando pastrano ed elmetto tedeschi a coprire la divisa della Milizia.

Quindi lo sballottamento dell’ex dittatore – con amante al seguito – di qua e di là; sino al tentativo dei comandanti partigiani che lo avevano in custodia di trasferirlo sulla sponda opposta del lago, nella villa-bunker di un industriale che avrebbe dovuto consegnarlo agli inglesi. Senonché al molo di Moltrasio quella notte l’attesa motobarca non si presentò.

Con questo vogliamo sottolineare l’estrema casualità della successione di fatti che portarono prima Mussolini e il suo seguito a cadere in bocca ai propri nemici, quindi lui e l’incolpevole Claretta Petacci a finire i propri giorni nel luogo e nella maniera che Dio volle. Tutto questo senza che la “Resistenza italiana” facesse granché per mettere le mani sui condannati: magari organizzandone la cattura nella stessa Milano, sapendosi della presenza del capo del governo di Salò avendo egli incontrato i rappresentanti ciellenisti in Arcivescovado.

Ma veniamo alla bugia principale: quella che vuole il capo del fascismo fucilato al cancello di Villa Belmonte nel pomeriggio del 28 aprile ‘45. Con rara ostinazione, l’Anpi perpetua la vulgata imposta fin da subito dal fronte resistenziale “garibaldino” e consacrata con una serie di articoli apparsi sull’Unità nel ‘47 a firma del presunto giustiziere: tutto questo allo scopo di ascrivere ai comunisti il merito dell’uccisione del “tiranno”, in una prospettiva evidentemente propagandistica e finalizzata soprattutto alle votazioni che l’anno successivo avrebbero deciso il destino politico dell’Italia.

Caratterizzata da una montagna di errori, incongruenze e contraddizioni, tale versione venne rigettata già dal principale studioso novecentesco del fascismo, Renzo De Felice, il quale fu il primo ad intuire il ruolo centrale che nella vicenda dovevano avere giocato i servizi segreti inglesi. Diversi furono inoltre i giornalisti-scrittori che nel secolo scorso vestirono i panni del detective per appurare cosa fosse realmente accaduto quel giorno tra Giulino e Bonzanigo, la località ove Mussolini e la Petacci erano stati alfine sistemati per volontà di uno dei capi partigiani lariani, Luigi Canali.

Su tutti Giorgio Pisanò, il quale dedicò una vita alla vicenda individuando ben presto i due inquietanti elementi che la caratterizzavano, ostacoli insormontabili all’accertamento della verità: la lunga scia di misteriose morti che aveva segnato l’immediato dopoguerra, avendo quali vittime personaggi legati alla questione, a cominciare dallo stesso Canali e dalla sua compagna; il fatto che, oltre all’opera di mistificazione condotta dal Pci attraverso la stampa, agli abitanti del luogo e a chiunque fosse a conoscenza della realtà dei fatti fosse stato imposto dagli sgherri comunisti il silenzio per 50 anni, pena la morte.

Fu infatti allo scadere del mezzo secolo che le bocche cominciarono ad aprirsi, dando a Pisanò la soddisfazione di vedere confermate le proprie intuizioni: Benito e Claretta erano stati assassinati non il pomeriggio ma la mattina del 28 aprile, a colpi di mitra, poche centinaia di metri più a valle della casa di Bonzanigo in cui avevano trascorso le ultime ore di vita. Dell’uccisione del dittatore si assunse inoltre la responsabilità l’ex comandante partigiano Bruno Lonati, sostenendo di essere stato scelto per la missione da un agente segreto inglese, che lo aveva accompagnato sul posto provvedendo lui stesso a fare fuoco sulla donna essendosi l’italiano rifiutato di farlo. La ricostruzione dell’episodio offerta da Lonati appare convincente, essendo peraltro supportata da diverse circostanze e testimonianze; per quanto le autorità britanniche si siano sempre rifiutate di avvalorarla: magari rendendo pubbliche le foto dei due cadaveri che – a detta dello stesso Lonati – l’agente inglese non aveva mancato di scattare a documentare l’espletamento del mandato ricevuto.

In pratica era come se in quelle ore frenetiche, una volta giunta a Milano – per mano della Guardia di finanza – la notizia dell’arresto di Mussolini, si fosse scatenata una curiosa gara fra tre cavalli: quello americano, intenzionato a catturare l’ex dittatore e i suoi collaboratori per processarli come criminali di guerra; quello britannico, deciso a eliminare il capo del fascismo presumibilmente per le trattative segrete da lui intessute negli ultimi mesi di guerra con agenti del governo Churchill; quello ciellenista, che segnatamente nelle sue componenti comunista, socialista e azionista mirava a giustiziare pubblicamente e “in nome del popolo italiano” gli esponenti del fascismo repubblicano  a Milano, in piazzale Loreto. A determinare l’affermazione della volontà inglese fu probabilmente la maggiore preparazione di quei servizi dinanzi a un’eventualità del genere; oltre ad una serie di circostanze favorevoli (anche troppo).

Fra l’altro la versione Lonati spiegherebbe pure il motivo per cui ministri e funzionari repubblichini furono fucilati direttamente a Dongo, oltre 24 ore dopo la loro cattura: una volta rinvenuti a Bonzanigo i corpi senza vita di Mussolini e della Petacci, da parte comunista si pensò di porre rimedio alla beffa subita giustiziando anche gli altri prigionieri sul posto, in modo da mandare a Milano un camion carico di soli cadaveri. A completare la sceneggiata fu allora decisa la finta fucilazione di Villa Belmonte, effettuata dopo che la gente era stata allontanata dal paese mediante la diffusione della notizia che di lì a poco dal lungolago sarebbe transitato lo stesso ex dittatore in ceppi. Così come l’autopsia condotta sul suo corpo sarebbe stata pesantemente condizionata dalla presenza all’obitorio di partigiani in armi: chi sapeva era evidentemente preoccupato che dalla necroscopia potessero emergere elementi in grado di smentire la vulgata da imporre.

Per tutto questo non si capisce perché, a 67 anni di distanza dai fatti, i “nostalgici” dell’Anpi abbiano voluto riproporre una versione la cui malafede – anche a non voler dar credito a quanto rivelato da Lonati – è stata smascherata già sul finire del secolo scorso. Ma pure i cartelli disposti dalle istituzioni locali nell’ambito del percorso tematico La fine della guerra andrebbero riscritti, richiamandosi anch’essi ad una tesi partigiana e artefatta.

La targa apposta dall’Anpi a Giulino di Mezzegra è un falso storicoultima modifica: 2021-07-21T21:19:53+02:00da tradersimo
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