La verità su Sant’Anna di Stazzema: il contributo di Paolo Paoletti

Una storia tutta da riscrivere  “Tutta la strage di Sant’Anna è una storia piena di lacune incolmabili, un giallo in cui si continua a negare il finale rivelatore. Anzi più che un giallo è un thriller”. Questo assunto, da Paolo Paoletti enunciato nel 2015, dovrà fare da guida al lettore nella tormentata ricerca che gli andremo a proporre, dallo stesso autore sviluppata attraverso due ponderosi volumi, tesi a confutare la “vulgata” dell’eccidio del 12 agosto 1944 costruita, nell’arco di 70 anni e più o meno in malafede, da una schiera di politici, giudici, storici, giornalisti, studiosi.

La sua indefessa ricerca volta a chiarire gli aspetti più controversi del tragico periodo segnato per il nostro Paese dalla Linea Gotica e dalla guerra civile ha anzitutto portato lo storico fiorentino, nel 1994, a reperire a Washington il fascicolo della commissione d’inchiesta statunitense relativo al massacro versiliese. Il lungo lavoro seguito a quella cruciale scoperta gli ha consentito di dare alle stampe nel 1998 il primo dei due saggi in questione, Sant’Anna di Stazzema. 1944: la strage impunita1, nel quale viene dimostrato – sei anni prima che i testimoni tedeschi lo confermassero al processo tenutosi dinanzi al Tribunale militare di La Spezia – sia che per oltre mezzo secolo la carneficina era stata attribuita al battaglione sbagliato, sia che essa non era stata disposta preventivamente dal Comando germanico bensì decisa in fieri per ordine di due ufficiali delle SS.

Il dato di fatto dal quale parte Paoletti è che colui che è unanimemente considerato come il responsabile dell’eccidio di Sant’Anna, e cioè il maggiore delle SS Walter Reder, uscì assolto dai due processi che gli furono intentati nel dopoguerra. “Eppure ancor oggi – egli osserva – nell’opinione dei più e perfino tra gli storici la volontà di semplificazione prevale sulla serietà della ricerca”; anzi, “la sola certezza che unisce gli storici italiani e tedeschi è che la strage venne programmata dal feldmaresciallo Kesserling ed eseguita dal fido maggiore Reder”. Del resto “Reder e il suo mito negativo forniscono una soluzione comoda al caso: per tutti lui, e lui solo, continua ad essere il colpevole”.

L’atto d’accusa formulato dall’autore investe anzitutto il mondo accademico italiano, e segnatamente quei cattedratici che maggiormente si sono impegnati nello studio del periodo della Linea Gotica e degli eccidi nazifascisti: nei lavori dei vari Pavone, Battini, Pezzino “della strage di Sant’Anna non si fa neppure un cenno fugace o una citazione”. Ma una grossa responsabilità nello stravolgimento dei fatti ha avuto a suo avviso anche Giovanni Cipollini, ex partigiano versiliese nonché autore nel 1996 di un volume commemorativo della vicenda patrocinato dal Comune di Stazzema, nel quale viene fatto un utilizzo della documentazione storica da Paoletti ritenuto inaccettabile.

Negli anni immediatamente successivi il rinvenimento del cosiddetto “armadio della vergogna” – nel quale sarebbero stati occultati fascicoli giudiziari riguardanti i principali eccidi compiuti sul nostro territorio nel periodo dell’occupazione tedesca – le “certezze” espresse da Cipollini, che rifiutavano di accettare le sentenze riguardanti Reder, finirono con l’influenzare e illudere il sindaco di Stazzema Gian Piero Lorenzoni, il quale, in veste di presidente del Comitato onoranze ai martiri, ebbe a rilasciare trionfalistiche interviste nelle quali fra l’altro proclamava: “Ora siamo pronti, abbiamo le prove che l’assassino fu Reder. Anche se è morto chiediamo un nuovo processo. Ci abbiamo lavorato tanto: professori e superstiti hanno spulciato gli archivi”. Peccato – commenta ironicamente Paoletti – che Cipollini “non lo avesse informato di avere operato dei tagli mirati tra le carte del fascicolo americano: tra l’altro il memorandum in cui gli inquirenti statunitensi attribuiscono in chiaro la responsabilità dell’eccidio alla 5a compagnia del II battaglione”, oltre ai riscontri documentali assunti a supporto di tale conclusione.

Così come quegli “strani silenzi” da parte della storiografia ufficiale “ci danno due impressioni contrapposte: che la strage di Sant’Anna sia ormai considerata una vicenda codificata, su cui la Storia non può aggiungere nulla; oppure che tutti evitino di parlarne in quanto tutto sommato la considerano una vicenda scomoda: basti pensare alla spinosa, mai sopita diatriba sulle “responsabilità partigiane”. Sant’Anna è anche un eccidio per certi versi tradito: non perché non ricordato ogni anniversario con le corone d’alloro, le fanfare e i discorsi ufficiali, ma proprio perché da decenni si fa vuota e vacua retorica. Come spesso succede in ogni città o villaggio italiano in cui sia avvenuta una tragedia di questo genere, essa resta affidata alla solita stele, mentre nella piazza dell’olocausto si sono accuratamente cancellati tutti quei piccoli segni della tragedia, pur sempre cari alla memoria dei paesani. Un eccidio “tradito” perché i sindaci che ogni 12 agosto chiedono “giustizia, perché Sant’Anna è una strage senza colpevoli” sono proprio quelli che non hanno promosso alcuna iniziativa volta a rintracciarli, né i morti né i vivi. Sindaci attenti solo nel tutelare le cifre artefatte dai predecessori e certi che questi numeri mai verranno messi in dubbio dai ministri e dalle autorità in visita”. A tale riguardo Paoletti si dice certo che la stima che vuole la strage avere mietuto 560 vittime sia stata abbondantemente gonfiata.

Quella di Sant’Anna appare dunque come una vicenda tutta da riscrivere: perché se da una parte istituzioni e storiografia hanno rigettato – o comunque faticato ad accettare – l’estraneità di Reder all’eccidio, dall’altra il processo tenutosi nell’immediato dopoguerra dinanzi al Tribunale militare britannico vide la condanna per  il medesimo crimine del generale Max Simon, comandante della 16a Divisione SS granatieri corazzati intitolata al “Reichsführer” – il potente gerarca nazista Himmler – composta da Waffen-SS (“SS Combattenti”) e giudicata responsabile di tutti i massacri perpetrati dai tedeschi nella zona lucchese e apuana tra l’agosto e il settembre 1944.

Mai vi fu giustizia più sommaria: “prove inconfutabili – ci spiega l’autore – rivelano che i veri responsabili della strage di Sant’Anna sono grigi criminali di guerra, i cui nomi non sono mai comparsi in alcun atto giudiziario, tedesco o italiano che sia. A nostro avviso, i mandanti sono due ufficiali, ambedue appartenenti alla 16a Divisione SS: il comandante del II battaglione, capitano Wolfgang Göllnitz, e il suo superiore, il pluridecorato tenente colonnello Karl Gesele, comandante del 35° reggimento”.

Ma la densa e appassionata ricerca archivistica ha portato Paoletti a scoprire altri punti che contrastano con la “verità” ufficiale. Anzitutto, gli ordini diramati lo stesso giorno dell’eccidio dalla 14a Armata della Wehrmacht (deputata a presidiare la Linea Gotica) non prevedevano alcuna “azione antibande” nell’area di Pietrasanta, già valutata come “bonificata” dalla presenza partigiana, bensì un’“occupazione dei punti più importanti” delle linee difensive predisposte. Inoltre, dalla consultazione delle mappe del LXXV Corpo d’armata germanico è emerso che in quella zona della Versilia erano collocate diverse “linee di sbarramento” minori, concepite a protezione della Gotica; Sant’Anna, in particolare, si trovava proprio a ridosso di due di esse. Donde l’importanza strategica di tutta l’area dominata dal monte Gabberi, che negli intendimenti dello stato maggiore tedesco avrebbe dovuto costituire l’avamposto del sistema difensivo finale volto a frenare l’avanzata alleata.

L’assenza nelle carte di un ordine di “lotta alle bande” e l’esplicito riferimento all’“occupazione di punti strategici” ha quindi spinto l’autore sia a cercare riscontri a quanto dichiarato nel settembre ‘44 dal disertore tedesco Wilhelm Haase dinanzi alla commissione d’inchiesta statunitense che a rivalutare alcune testimonianze coeve secondo la lettura che ne diedero, nel ‘45, il vicecommissario di polizia Vito Majorca e il giudice istruttore della Corte d’assise di Lucca Mario Lombardo, giungendo alla conclusione che la strage fu effettuata come rappresaglia al ferimento di un militare tedesco: “a provocare la bestiale reazione delle Waffen-SS fu un maledetto incidente occorso durante lo sfollamento forzato della popolazione”.

Dunque una scoperta straordinaria; per quanto essa non rappresentasse altro che la riproposizione, dopo oltre mezzo secolo, di quanto accertato già dalle inchieste dell’epoca, ma che purtroppo era stato sepolto nel corso degli anni sotto una valanga di ipocrisia, disonestà intellettuale, convenienze di parte. Una volta accertato il modo in cui andarono realmente le cose, a Paoletti non resta che sollevare i partigiani dislocati nelle vicinanze di Sant’Anna da ogni responsabilità: “la presenza partigiana è del tutto estranea alle origini e allo sviluppo della strage”.

“Tutta la storia del massacro di Sant’Anna ne esce così rivoltata come un calzino e risulta ancora più assurda e mostruosa di quanto si era immaginato finora: una strage di proporzioni inaudite come reazione “a caldo” ordinata da due soli ufficiali. Lo scopo originario del rastrellamento era quello di allontanare la popolazione del villaggio, incendiarne le case e occupare definitivamente un territorio ormai sgomberato dai partigiani. Ma un casuale incidente, la fucilata di un civile, trasformò quel rastrellamento fino ad allora incruento in uno dei più feroci massacri a danno della popolazione civile italiana. Un atto ritorsivo che non trova alcuna giustificazione sul piano militare, giudiziario ed umano: se i due criminali fossero stati portati davanti a un tribunale, non avrebbero potuto neppure trincerarsi dietro un ordine superiore, che pure agli occhi dei nazisti giustificava qualunque ignominia”.

L’affaire Reder, le inchieste alleate e quella italiana  Viene quindi ricostruita la vicenda giudiziaria di Reder, condannato all’ergastolo nel ‘51 dal Tribunale militare territoriale di Bologna per i massacri di Bardine e Valla di San Terenzo, Vinca e Marzabotto ma assolto per insufficienza di prove da altri capi d’imputazione fra i quali la strage di Sant’Anna. “Il complesso di elementi concreti ed accertati a carico dell’imputato – si legge nelle motivazioni della sentenza – se pur non fornisce la prova positiva della sua partecipazione ai fatti, certo non è di tal natura e inconsistenza da porre il Reder completamente al di fuori dell’episodio. Sussiste indubbiamente un principio di prova ma mancano alcuni dei collegamenti accessori alla compiutezza della prova stessa, il che impedisce possa affermarsi di aver raggiunto una prova sufficiente”.

Puntando riguardo all’episodio stazzemese all’assoluzione con formula piena, la difesa dell’ufficiale ricorse in appello, costituito in questo caso dal Tribunale supremo militare di Roma: il quale nel ‘54 si pronunciò a favore dell’accoglimento dell’istanza. “La motivazione della sentenza di primo grado – osservavano quei giudici – non registra un contrasto di elementi di prova, di cui alcuni favorevoli e altri contrari all’imputato, sibbene, dopo aver riconosciuto l’inconsistenza di tutti gli elementi di accusa, esprime un dubbio meramente soggettivo, dato che l’imputato era nella zona, ma non con le SS che operarono la strage. Essendo manifesta l’assoluta mancanza di prova a carico non può sorreggersi la formula adottata, che va, per ciò, sostituita con quella dell’assoluzione per non aver commesso il fatto”.

Paoletti produce ulteriori riscontri a favore di tale tesi, concentrandosi in particolare sulle date. Della 16a Divisione SS Reder capeggiava il battaglione esplorante, al quale nel periodo compreso tra il 19 agosto e il 1° ottobre furono affidate tutte le principali rappresaglie contro la popolazione civile, iniziando da San Terenzo e terminando a Marzabotto. Ma l’eccidio di Stazzema ebbe luogo una settimana prima dell’avvio di quella tragica serie.

A essere impegnato nei rastrellamenti finalizzati alla repressione delle bande partigiane operanti nelle Apuane meridionali, e in particolare tra i monti Ornato e Gabberi, era infatti stato, fin dai primi di agosto, un altro battaglione della “Reichsführer”, ed esattamente il II del 35o reggimento. Sarebbe stato proprio il totale fallimento di tale reparto sul piano della disciplina e della saldezza di nervi in occasione del massacro di Sant’Anna a indurre il Comando divisionale a declassarlo, ritirandolo dai ruoli operativi e relegandolo alla difesa costiera, per sostituirlo nell’espletamento delle “operazioni sporche e rischiose” con il battaglione di Reder. L’autore elenca i principali episodi che avrebbero portato Simon a retrocedere quella unità dopo Stazzema: “ufficiali superiori che trasformano un’azione di sfollamento in una strage di enormi proporzioni, sottufficiali che evitano di sparare sui civili, soldati che si rifiutano di obbedire a ordini che ritengono inaccettabili da parte di un militare con una divisa, un militare passato per le armi”. Per concludere: “Il fatto che Reder non fosse a dirigere l’operazione a Sant’Anna è la miglior prova che i tedeschi non erano partiti con l’idea di fare una strage”.

Le certosine ricerche condotte allo scopo di dare un’identità ai responsabili del II battaglione partendo dalla deposizione resa dinanzi alla commissione statunitense da Haase – e delle quali fa fede l’impressionante mole di documenti riportati in nota – hanno peraltro consentito a Paoletti di accertare anzitutto come nell’estate ‘44 quella unità fosse “così malandata da disporre di soli 170 uomini, tre ufficiali e una trentina di giovanissimi sottufficiali”. Si consideri che in quella fase della guerra un battaglione della Wehrmacht era considerato “forte” se la sua consistenza superava i 400 soldati, “mediocre” se inferiore a 300, “debole” se inferiore a 200, “esaurito” se inferiore a 100. Si trattava dunque di un’unità di terza fascia, alla quale potevano essere affidati incarichi di scarso rilievo militare come appunto lo sgombero della popolazione.

Secondo l’autore tale carenza strutturale era destinata a incidere pesantemente sul degenerare dell’operazione di Sant’Anna. A capo del battaglione non era infatti un ufficiale superiore bensì un capitano, Göllnitz; mentre al comando delle tre colonne in cui si articolò il 12 agosto la compagnia responsabile della strage, la 5a, era stato posto addirittura un sottufficiale: il maresciallo Martin Jansen. Ma neppure il 35o reggimento era retto – come di norma – da un colonnello: a guidarlo era infatti – per quanto pieno di medaglie – il tenente colonnello Gesele. Non Reder, bensì Gesele e Göllnitz avrebbero dunque dovuto essere chiamati a rispondere della strage stazzemese; ma – osserva amaramente Paoletti – “essi sono i primi criminali di Sant’Anna ad esser morti nel proprio letto, portandosi dietro la loro verità su quel massacro”.

Un duro colpo viene dunque inflitto anche alla vulgata che vuole salite a Sant’Anna quel giorno alcune centinaia di SS: nel migliore dei casi, non meno di 200. Il ridimensionamento operato dall’autore è dei più drastici, attribuendo a ciascuna delle squadre che compirono l’operazione una consistenza tra i 10 e i 12 soldati; il che lo induce a concludere che “la 5a compagnia non poteva avere una forza superiore ai 40-50 uomini. Se poi consideriamo che tra i partecipanti al massacro non tutti spararono, gli esecutori materiali si potrebbero calcolare tra i 25 e i 35”. Dati dei quali egli ritiene di trovare una conferma nei documenti ufficiali tedeschi in cui vengono quantificati gli effettivi di ciascuna unità.

Un mese dopo l’eccidio Lucca e la media valle del Serchio erano liberate, e la Linea Gotica fissata lungo l’asse che va dal Cinquale a Pesaro, transitando da Castelnuovo Garfagnana e dal Passo delle Radici; le laboriose fortificazioni predisposte nella zona di Borgo a Mozzano abbandonate dagli occupanti da un giorno a un altro. Una prima inchiesta sulla strage versiliese condotta dagli Alleati gettava pesanti responsabilità sulle formazioni partigiane operanti tra quelle montagne: lo attesta il rapporto redatto il 28 settembre ‘44 dal maggiore britannico denominato “Cromwell”, “basato su informazioni raccolte a Sant’Anna da pattuglie della 110ª batteria del 39° reggimento di artiglieria contraerea leggera e fornite dai civili che vi risiedono o vi si trovavano nelle settimane scorse” (dei quali il testo riporta i nominativi e le relative dichiarazioni), nonché su sopralluoghi effettuati a verifica di tali asserzioni. Inoltre, “la maggior parte delle testimonianze è stata confermata da due o più rapporti informativi”.

Implicitamente il documento ci ragguaglia anche circa il ribaltarsi dei rapporti di forza determinato dall’arrivo sulle Apuane delle SS, laddove i partigiani avevano avuto buon gioco nel fare il bello e il cattivo tempo con le avanguardie della Wehrmacht. La prima sfortuna dei martiri del 12 agosto fu che i “ribelli” proseguirono nelle loro provocazioni anche dopo l’insediamento della ben più agguerrita “Reichsführer”, non dando retta agli inviti alla prudenza rivolti loro dai civili e intendendo anzi sostituire la propria autorità a quella degli occupanti. Oltretutto, l’avvento della Linea Gotica era coinciso con una campagna, condotta dai tedeschi soprattutto mediante l’affissione di manifesti, in cui essi garantivano agli italiani un atteggiamento amichevole e collaborativo, richiedendo loro altrettanto, ma minacciando al contempo rappresaglie sulla popolazione qualora i “banditen” avessero compiuto attentati contro le truppe germaniche.

“L’area montuosa intorno a Sant’Anna – si legge nel rapporto Cromwell – è stata per alcuni mesi piena di partigiani che hanno molestato le truppe tedesche della zona. Per difendersi da loro i tedeschi hanno fatto evacuare gli abitanti di città e villaggi, prima di occuparli. Il 31 luglio 1944 una pattuglia di dodici soldati germanici, non giovani e probabilmente austriaci, entrò in Farnocchia e ordinò che il paese fosse subito evacuato. I partigiani presenti volevano attaccarli lì stesso e subito, ma ne furono dissuasi dai civili; lungo la strada del ritorno verso Stazzema, comunque, i militari furono attaccati dai partigiani, e otto di loro uccisi. Il giorno successivo i tedeschi tentarono di occupare Farnocchia, ma furono respinti dai partigiani e si ritirarono. Gli abitanti, per prevenire ulteriori e futuri problemi con i tedeschi, fuggirono sui monti; una gran parte di loro sfollò nell’area intorno a Sant’Anna. L’8 agosto i tedeschi occuparono Farnocchia e la incendiarono”. Località che per le vicissitudini subite comparirà più volte nel saggio, Farnocchia si trova, rispetto a Sant’Anna che guarda verso il mare, alle pendici del versante opposto del monte Gabberi, rivolto verso l’interno; ne era parroco don Innocenzo Lazzeri, riparato anch’egli a Sant’Anna e cadutovi vittima dell’eccidio.

“Il 7 agosto – prosegue la relazione britannica – Sant’Anna era piena di profughi di Farnocchia e altri paesi minacciati dai tedeschi e dalla guerra. Quel giorno una pattuglia di tedeschi entrò a Sant’Anna e vi affisse un manifesto in cui ordinava che il villaggio fosse evacuato da tutti i civili entro cinque giorni. Una volta ritiratasi la pattuglia, immediatamente i partigiani strapparono l’avviso e lo sostituirono con uno loro in cui si diceva che nessun residente avrebbe dovuto abbandonare il paese, poiché loro stessi li avrebbero difesi dai tedeschi. Dopodiché i partigiani presero posizione sulle colline, pronti come e più di prima a molestare le pattuglie germaniche.

“Il 12 agosto a Sant’Anna non era ancora stata presa alcuna iniziativa di evacuazione da parte della popolazione. Nelle prime ore del mattino una pattuglia tedesca verificò la circostanza e alle 8 un reparto composto da circa 150 soldati compì una manovra a tenaglia attraverso i boschi per circondare il paese, spingendovi anche gli sfollati che si erano sistemati nei boschi circostanti; incendiarono ogni capanna che trovarono sul loro cammino tirandone fuori gli abitanti o uccidendoli sul posto. Quando il concentramento a Sant’Anna fu completato, gli italiani furono abbattuti dal fuoco delle mitragliatrici; altri furono uccisi nelle loro case e queste incendiate con granate incendiarie e benzina (alcuni dicono che furono usati lanciafiamme). 138 corpi furono bruciati sulla piazza della chiesa gettando nelle fiamme le panche tirate fuori dalla chiesa per alimentare il rogo; alcune di queste persone erano ancora vive. Il parroco implorò i tedeschi di risparmiare otto bambini, che furono presi dallo stesso sacerdote; successivamente però furono uccisi. Lo stesso parroco fu una delle vittime. Dalle 10 le uniche persone viventi tra quelle che si trovavano a Sant’Anna, fatta eccezione per uno o due civili nascosti, erano tedesche.

“Le truppe che presero parte al massacro appartenevano a una Divisione delle SS. Si è detto che durante l’eccidio vi furono dei dissensi fra le truppe germaniche, perché più tardi furono trovati i corpi di tre soldati uccisi nel villaggio: erano stati fucilati. Subito dopo la strage un ufficiale tedesco ricevette cure mediche a Valdicastello per una ferita da arma da fuoco; si riferisce che il suo nome sia Josef Albritz. In tutto si ritiene che oltre 400 civili abbiano perso la vita in questo massacro, e tutte le abitazioni dell’area attorno al paese furono rese inabitabili”.

Il 28 settembre ‘44 “una commissione investigativa composta da ufficiali del 2° gruppo americano e da un medico della 673ª compagnia medica visitava Sant’Anna per confermare l’indagine effettuata dalla 110ª batteria del 39° reggimento britannico”. Questa la parte centrale del rapporto: “Praticamente tutte le case del villaggio sono state bruciate e tutti i civili, con la sola eccezione di quelli fuggiti, furono uccisi o carbonizzati. Pochi tra quelli scappati vivono ora a Sant’Anna. In molte delle case distrutte dal fuoco rimangono ancora resti che sono una muta prova dell’avvenuto massacro. Molte ossa sono state individuate come appartenenti a donne e bambini”.

Durata un mese, l’inchiesta della Quinta Armata si concretizzò in un “Rapporto sul crimine di guerra” nel quale si concludeva che l’eccidio era stato attuato “a mo’ di rappresaglia per le attività dei partigiani italiani da militari tedeschi identificati come appartenenti alla 5ª compagnia, II battaglione, 35° reggimento, 16ª Divisione SS. Mentre la maggior parte delle vittime era coinvolta nelle attività dei partigiani e aveva disubbidito a un ordine tedesco, l’estensione della rappresaglia e la spietata esecuzione di donne e bambini fa ascrivere questa azione tra i crimini di guerra”.

Nel rapporto inviato a Washington, l’Ufficio per i crimini di guerra segnalava i nomi di sei ufficiali del reggimento in questione; senonché i vertici statunitensi decidevano per l’archiviazione del caso di Sant’Anna, al pari di centinaia di altri analoghi. Alla fine del ‘46 poi il fascicolo veniva passato al nostro governo, “in quanto tutte le vittime sono italiane”. Ciò portò all’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Lucca, che sarebbe finita anch’essa archiviata ma della quale fa testo la lettera inviata il 26 dicembre ‘46 dal giudice istruttore Lombardo al Quartier generale alleato di Caserta e alla Commissione per i crimini di guerra. Nella quale occorre peraltro notare sia il raddoppio del numero dei soldati impegnati rispetto alla già ingente cifra indicata da Cromwell, sia la lievitazione del numero delle vittime: “circa 650”.

“Da fonti ufficiose – scrive il magistrato – ho appreso che subito dopo la liberazione di Sant’Anna di Stazzema alcuni ufficiali della 5ª Armata americana iniziarono un’indagine su questo crudele crimine che oltre alla completa distruzione del villaggio dato alle fiamme ha causato un elevatissimo numero di morti. Ho inoltre appreso che un ufficiale delle SS che partecipò al crimine fu ricoverato in un ospedale di Livorno: egli era stato ferito prima che iniziasse il massacro, e il suo ferimento fu l’unica ragione per la quale 300 SS parteciparono a questa gravissima rappresaglia. Il villaggio fu distrutto dai tedeschi poiché aveva fornito molti giovani alle file partigiane e perché era in contatto con un’importante formazione partigiana dell’area versiliese”. Paoletti rimarca come all’iniziativa giudiziaria lucchese sarebbero seguiti “cinquant’anni di equivoci”, ai quali avrebbe posto fine nel ‘96 soltanto la riapertura dell’inchiesta disposta dalla Procura militare di La Spezia. Nel frattempo tramite le autorità tedesche egli aveva tentato di contattare i militari accertati come partecipanti alla strage ancora in vita: ma invano.

 

Alle origini della tragedia  Nel passare al vaglio tutti i fattori che portarono al compimento del massacro, l’autore inizia con il delineare quella che fu la condotta germanica nei confronti del pericolo rappresentato per la Linea Gotica dall’attività partigiana. Una condotta che nel corso del ‘44 non si rivelò univoca e lineare essendo il risultato di un compromesso: ossia dell’interpretazione che delle direttive provenienti da Berlino davano sia il Feldmaresciallo Kesserling che i vari comandi subalterni dislocati dagli occupanti sul nostro territorio.

Il 23 marzo – ironia della sorte giorno dell’attentato romano di via Rasella – il Comando del LXXV Corpo d’armata richiamava la necessità di evitare massacri di innocenti: si sarebbero dovuti giustiziare soltanto i “banditi sorpresi con le armi in mano”, mentre i civili “sospetti” avrebbero dovuto essere interrogati presso gli uffici competenti. “Insomma – commenta Paoletti – ancora alla fine di marzo si riteneva che punizioni troppo dure contro la popolazione avrebbero ottenuto l’effetto opposto a quello desiderato”.

Il 1° aprile il Comando superiore della Wehrmacht emanava il manuale “Lotta alle bande”, le cui disposizioni non appaiono a loro volta eccessivamente severe nei confronti dei civili. Le truppe venivano invitate a instaurare con la cittadinanza, nei limiti del possibile, buoni rapporti; gli stessi partigiani venivano considerati come combattenti: di conseguenza, una volta catturati essi non avrebbero dovuto essere passati per le armi bensì trattati come prigionieri di guerra. Inoltre, “misure di punizione collettiva contro abitanti di interi villaggi (compreso l’incendio delle località) dovrebbero essere ordinate solo in casi eccezionali ed esclusivamente da comandanti di Divisione, delle SS e della polizia”.

Kesserling si mosse tuttavia nella direzione esattamente opposta, diramando il 7 aprile una direttiva che non avrebbe potuto essere più rigorosa. “Contro le bande si agirà con azioni pianificate. In caso di attacco aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti. Il primo comandamento è l’azione vigorosa, decisa e rapida. Chiamerò a rendere conto i comandanti deboli e indecisi, poiché mettono in pericolo la sicurezza delle truppe loro affidate e il prestigio della Wehrmacht. In caso di attacchi bisogna immediatamente circondare le località in cui sono avvenuti. In caso di attacchi particolarmente gravi tutti i civili che si trovino nelle vicinanze saranno arrestati, senza distinzione di stato e di persona. Si può prendere in considerazione anche l’incendio immediato delle case da cui si è sparato. La punizione immediata è più importante di un rapporto immediato. Tutti i comandi preposti devono usare la massima asprezza nello svolgimento dell’azione. In generale i comandi di piazza locali dovranno rendere noto che alla minima azione contro soldati tedeschi saranno prese le contromisure più dure. Ogni abitante del luogo dovrà essere ammonito in proposito: nessun criminale o fiancheggiatore può aspettarsi clemenza. Data la situazione attuale un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione”.

Viene quindi delineato il contesto storico nel quale venne a inserirsi la vicenda di Sant’Anna. “In maggio le formazioni partigiane, invece di risentire degli effetti dei rastrellamenti, si rafforzano, e le loro azioni prendono ancor più vigore. La situazione militare generale si deteriora rapidamente per i tedeschi dopo lo sfondamento alleato del sistema difensivo di Cassino. La difesa costiera e l’approntamento della linea di resistenza sugli Appennini diventano priorità assolute. La Linea Gotica è, al momento, poco più di un lungo trincerone disseminato di cannoni e nidi di mitragliatrice che parte da Pesaro e finisce a nord di Viareggio, ma non è ancora quel sistema difensivo articolato e complesso, profondo circa 20 chilometri, che volevano i suoi ideatori”.

Negli intendimenti tedeschi la Linea Gotica avrebbe dovuto infatti rappresentare l’estremo baluardo a difesa dei confini del Terzo Reich; si era deciso di edificarla sfruttando la catena appenninica e non quella alpina sia per la sua minore lunghezza (300 chilometri a fronte di un migliaio) sia per poter fruire delle strutture industriali dell’Italia settentrionale. Una volta concluse le fortificazioni essa si sarebbe risolta in una “fascia di sicurezza” contenuta nel suo tratto tirrenico tra due margini: il meridionale coincidente con il fiume Versilia, il settentrionale posizionato lungo il torrente Parmignola. In tal modo gli occupanti avrebbero raggiunto due scopi: sfruttare i bastioni naturali costituiti dalle montagne apuane e appenniniche; creare le migliori condizioni per respingere un eventuale ultimo sbarco alleato sulle nostre coste, atteso proprio in questo tratto del Mar Ligure. Ovvio che la presenza di partigiani in un’area così cruciale per le sorti della guerra sarebbe stata per la Wehrmacht la più dannosa; ma anche quella della popolazione civile, specie nelle zone collinari e montane che facevano loro da rifugio, andava tenuta sotto controllo, e se necessario eliminata, per il supporto che essa inevitabilmente rappresentava per i ribelli alla macchia.

Nel periodo intercorso tra gli ultimi conati di resistenza lungo il fronte rappresentato dall’Arno (la “Linea Heinrich”) e il pieno possesso della Gotica i tedeschi approntarono diverse “linee di sbarramento”, provvisorie e limitate, il cui scopo era quello di formare una sorta di cordone protettivo rispetto alla fortificazione principale, garantendone la regolarità e la tempestività dei lavori. L’ultima fu proprio quella denominata “Pietrasanta”, che partendo da questa località saliva tra le alture dello stazzemese per poi ridiscendere verso il Serchio sfruttando la “strettoia” costituita dal letto del fiume a valle di Borgo a Mozzano. Come osserva Paoletti, obiettivo di tale struttura era quello di bloccare un eventuale sbarco alleato già sulla strada parallela alla costa, ossia l’Aurelia, nonché sulla Pisanica, che da Marina di Pietrasanta conduce verso l’interno e quindi in direzione di Lucca.

Ma il fallimento del tentativo di allontanare i partigiani dalle Apuane meridionali fece sì che le preoccupazioni germaniche si moltiplicassero; anche per l’acquisita certezza che, “costretta o per convinzione”, la popolazione aiutava i banditen. Il che indusse il 17 giugno Kesserling a imprimere alla sua linea un ulteriore giro di vite: “La lotta contro le bande dovrà essere condotta con tutti i mezzi disponibili e la maggior asprezza possibile. Difenderò ogni comandante che nella lotta contro le bande oltrepassi nella scelta e nel rigore dei mezzi la moderazione che ci è solita. Anche in questo caso vale il vecchio principio per cui una mossa falsa nella scelta dei mezzi per imporsi è sempre meglio dell’omissione e della trascuratezza. Le bande devono essere attaccate e distrutte. Esistono località, e talvolta intere zone, in cui tutti, uomini, donne e bambini, sono in qualche modo collegati alle bande, in qualità di combattenti, assistenti, collaboratori”.

In pratica tale direttiva imponeva di metter via ogni remora di carattere morale o umanitario, considerando tutti gli abitanti di un determinato luogo (sfollati compresi) come corresponsabili della presenza di partigiani attorno alle loro case. Una posizione estrema, per molti aspetti irragionevole, dall’autore criticata con considerazioni assai pregnanti: “Il feldmaresciallo non capiva che la popolazione civile italiana, messa di fronte all’aut aut, o con noi o contro di noi, si sarebbe schierata contro l’occupante e a favore del movimento di liberazione. Anche le autorità comunali più sensibili comprendevano che se si voleva muoversi con spirito di servizio nei confronti della popolazione bisognava collaborare con gli “altri italiani” e non con le autorità militari occupanti”.

A sua volta il 3 luglio il comandante della 14ª Armata, generale Lemelsen, decretava la fucilazione di chiunque: venisse trovato in possesso di esplosivi o armi, compresi i fucili da caccia; compisse azioni ostili di qualunque genere contro la Wehrmacht; desse “appoggio alle perfide e criminali bande, sia fornendo viveri o alloggio, sia trasmettendo informazioni militari”. Quest’ultimo punto in particolare faceva di ogni abitante delle nostre vallate un potenziale collaborazionista, con esiti estremi: “Se i tedeschi si fossero accorti che i partigiani cuocevano il pane nel forno di fianco alla piazza di Farnocchia – osserva Paoletti – se ne sarebbero dovuti passare per le armi tutti gli abitanti”.

Ma lo stato maggiore germanico tentò anche un’opera di persuasione nei confronti della popolazione interessata all’evacuazione della zona “operativa” della Gotica, diffondendo il 24 luglio un appello che faceva leva sulla “slealtà” del modus operandi attuato dai banditen. “Le guerre devono essere combattute tra soldati. Il combattente delle bande è un combattente civile sleale: la sua è una guerra alle spalle e un assassinio. Il suo stile di lotta scatena la guerra dei soldati contro la popolazione civile del paese che vi si presta. Il soldato non può distinguere facilmente il combattente delle bande dai civili tra i quali costui opera; per forza di cose egli deve combattere tutta la popolazione civile che lo tollera nel suo territorio. Ne conoscete già le conseguenze”.

Ai primi di agosto il Comando tedesco procedette all’affissione di un bando il cui testo circolava sul territorio italiano già da alcuni mesi, avendo fatto il proprio debutto ad aprile, in occasione dell’attentato partigiano di Filottrano. La popolazione vi veniva invitata a tenere nei confronti delle forze armate occupanti “un comportamento assolutamente amichevole”, in modo da isolare le formazioni alla macchia privandole di ogni collaborazione e sostegno. Qualora l’attività di molestia da parte dei ribelli fosse aumentata, di ciò sarebbero stati tenuti responsabili gli stessi civili, con l’adozione delle misure più drastiche: la fucilazione di chi fosse a conoscenza della presenza in zona di banditen e non l’avesse denunciata; l’incendio di quei paesi che avessero ospitato partigiani, fossero stati teatro di attentati contro forze sia tedesche che repubblichine o anche di semplici atti di sabotaggio, accompagnato dalla fucilazione di tutti gli uomini che avessero compiuto i 18 anni e dall’internamento delle donne in campi di lavoro.

La speranza teutonica era dunque che il timore di ritorsioni sui civili frenasse l’attività dei ribelli; in caso contrario, la durezza delle rappresaglie avrebbe indotto la gente all’odio nei loro confronti, privandoli così del suo sostegno. Ma neppure le stragi più efferate avrebbero consentito di raggiungere tale obiettivo: “anzi – chiosa Paoletti – chi inizialmente si era tenuto in disparte finirà per schierarsi contro gli occupanti assassini. Nondimeno i tedeschi continueranno a combattere anche contro quelle formazioni che apparentemente non costituiscono un serio pericolo per la sicurezza delle loro linee di difesa, e lo sgombero della popolazione rappresenta la conditio sine qua non per estirpare la mala pianta partigiana”.

La direttiva hitleriana secondo la quale la “fascia di sicurezza” caratterizzante la Linea “Verde” (il nome scelto dal Führer a indicare la Gotica) avrebbe dovuto avere una profondità di 10 chilometri indusse Kesserling a “valutare la possibilità di una posizione di sbarramento avanzata nella montagna a sud-est di Massa che si estenda dalla costa fino alla linea appenninica nelle vicinanze del monte Altissimo, in modo da rendere più breve la linea di difesa rispetto al catenaccio di Carrara”. Il 27 giugno il Comando germanico ritenne di poter risolvere il problema rappresentato dall’attività dei banditen mediante l’impiego di tre battaglioni: uno dislocato a Carrara, gli altri due a presidio delle montagne.

Ben presto tuttavia ci si rese conto di come il pieno controllo della linea difensiva rischiasse di diventare una chimera: i partigiani si mostravano iperattivi, con reiterati attacchi ai cantieri della Organizzazione Todt preposti alla fortificazione di Corchia e Pania della Croce ma non risparmiando neppure pattuglie in transito a valle, come accaduto il 7 luglio a Pietrasanta. La questione si fece talmente stringente da indurre il comando della 14ª Armata a disporre un’accurata indagine sull’organizzazione delle bande nel territorio sottoposto alla sua giurisdizione. Nella disamina che ne risultò le formazioni con ai vertici ufficiali inglesi, che potevano fruire dei costanti aviolanci alleati, venivano differenziate da quelle “autonome” formate da soli italiani; se ne considerava inoltre la diversità sia degli obiettivi che dei modi di combattere.

È dunque nel corso del mese di luglio che viene definita la strategia con cui ovviare alla critica situazione determinatasi: da una parte intensificando i rastrellamenti antipartigiani, con particolare attenzione alla zona compresa tra i monti Ornato e Gabberi, considerata quella in cui il concentramento dei ribelli è più elevato; dall’altra accelerando lo sfollamento della popolazione, la cui urgenza è testimoniata dall’affissione di un manifesto in cui tutta la valle del Versilia viene definita come Bandengebiet, “territorio infestato dai banditi”. L’11 luglio si ha così il primo ordine di sgombero, riguardante Seravezza e dintorni; la maggior parte degli sfollati cerca rifugio nelle frazioni montane, la cui popolazione viene perciò a triplicare. Il giorno successivo fa registrare il primo rastrellamento contro i partigiani attestati sull’Ornato.

Tale pressing da parte germanica non induce tuttavia i ribelli locali a più miti consigli, se è vero quanto testimoniato da Giuseppe Pardini. “Il 26 luglio una pattuglia di tedeschi risalì dalla mulattiera che da Valdicastello porta a Sant’Anna; ma quando furono di fronte alla chiesa di Sant’Anna, i partigiani, che si servivano del campanile come osservatorio e avevano una mitragliatrice sul piazzale, gli cominciarono a sparare. Loro dettero fuoco a un fabbricato che serviva per seccare le castagne, detto Metato Bianco; poi fecero saltare più in basso una teleferica che portava il minerale alla centrale, e anche la teleferica di mio cognato ai Molini di Sant’Anna, che serviva per uso privato”.

La stasi determinatasi lungo la Linea Heinrich consente alla Wehrmacht di intensificare l’attività di “bonifica” nelle retrovie, e segnatamente nella zona dello stazzemese: dal 30 luglio all’8 agosto non v’è giorno che non veda reparti più o meno consistenti batterne le montagne in caccia di banditen. Neppure i reiterati ordini di sfollamento danno i risultati sperati: finalità degli occupanti sarebbe infatti il trasferimento di civili e bestiame in Emilia, a Sala Baganza; ma nella stragrande maggioranza dei casi tali ordinanze vengono eluse dalla popolazione, che individua la soluzione più immediata alla pressione teutonica nell’allontanarsi il minimo indispensabile dalle abitazioni, in genere riparando sui monti più vicini.

Il 30 luglio le Waffen-SS vanno a loro volta all’assalto dell’Ornato, presidiando a lungo Sant’Anna; il 31 portano l’ordine di sgombero a Farnocchia, subendo lungo la strada del ritorno un attentato che provoca il giorno successivo l’incendio di tre case del paese e l’uccisione dell’unica persona rimastavi. Il 2 agosto i boschi circostanti Sant’Anna vengono bombardati con i mortai; fino all’8 il tentativo di annientare le forze partigiane qui dislocate viene perseguito in ogni maniera. Paoletti fa notare come l’iniziativa stazzemese rientri in una più generale operazione di “riconquista” da parte germanica dell’intero settore gravitante sulla Gotica: fra il 3 e il 4 agosto ha infatti luogo anche l’operazione condotta dalla 135ª Brigata da Fortezza della Luftwaffe, di stanza a La Spezia, contro “circa 2000 banditi” posizionati sulle alture a nord della città.

A comandare la formazione partigiana dislocata a ridosso della Foce di San Rocchino – valico posto alle pendici orientali del Gabberi – e forte di circa 150 uomini è il seravezzino Lorenzo Bandelloni: sono loro il 4 agosto a far saltare tre ponti della strada che risale il Versilia, logisticamente cruciale per i tedeschi in quanto deputata a garantire i rifornimenti alla Gotica tra la costa e la Garfagnana. Il che porta il comando della 14ª Armata a emanare l’8 agosto un “nuovo regolamento per la lotta alle bande”, nel quale si legge: “Nonostante che le operazioni antibande condotte in quest’ultimo periodo siano state coronate da successo, la dislocazione delle bande nelle aree di retrovia rappresenta ancora un pericolo per il vettovagliamento delle truppe combattenti e la ricognizione delle linee di difesa”. Le riunioni dello stato maggiore germanico si susseguono, allo scopo di garantire la percorribilità delle strade nel territorio in questione a fronte dell’indefessa attività dei ribelli.

In tale fase a finire sotto osservazione è soprattutto monte Gabberi, vero e proprio “santuario” partigiano come testimoniato anche dal fatto che per tutto il mese di luglio e sino ai primi di agosto esso viene utilizzato come mattatoio dal Gruppo Bandelloni, con l’eliminazione dopo tortura di numerosi repubblichini versiliesi, come rivelato a Paoletti da un ex partigiano che ha preferito mantenere l’anonimato: “I fascisti venivano legati e poi fatti rotolare per i pendii. Chi sopravviveva alle cadute veniva freddato con un colpo di pistola alla testa”. Una sadica macelleria ammessa dallo stesso Bandelloni, che in una relazione inviata al capo del governo Parri ebbe a vantarsi di avere fatto “bonificare la zona da pericolosi elementi fascisti repubblicani troppo zelanti”.

In quei giorni dunque “la situazione militare è complessa, gli attori che si muovono sulla scena sono almeno tre: le Waffen-SS, che devono assumere il controllo del territorio intorno alle linee di sbarramento, i partigiani, che non sanno di essersi insediati in una zona minata, e la popolazione di Sant’Anna, chiusa tra le mosse dei due contendenti. La scintilla che ha prodotto quell’esplosione di follia si è verificata sicuramente in un ambiente saturo di gas”.

Se poi si pensa che tale “volontà di controllo del territorio” da parte germanica era quantomai relativa ed effimera, avendo già in partenza un limite geografico e temporale ben definito, quanto accaduto il 12 agosto a Sant’Anna diverrà ancor più inaccettabile e assurdo. “L’interesse strategico che riveste per i tedeschi tutta quest’area da monte Ornato al Gabberi è dimostrato dal fatto che le Waffen-SS smobiliteranno la postazione di Capezzano Pianore solo il 4 settembre, mentre le ultime retroguardie si ritireranno dal villaggio solo il 12 settembre. Se si tiene conto del fatto che dopo il 30 agosto la 14ª Armata si ritirò, conformemente agli ordini, in diverse tappe sulla Linea Verde e che l’11 settembre la gran parte delle sue forze si trovava vicino a questo sistema difensivo, bisogna riconoscere che la “linea di Pietrasanta” alla fine resse più di quanto aveva preventivato perfino lo stesso comando tedesco”.

Avendo la guerra distrutto anche la maggior parte della documentazione riguardante la strage, a farvi riferimento non restano che i dispacci giornalieri emessi dall’Ufficio notizie riservate della 14a Armata: le Tagesmeldung. È perciò su queste che l’autore si concentra, giungendo alla conclusione che sin dal giorno del massacro il Comando germanico abbia avviato un’opera di manipolazione di quanto avvenuto a Sant’Anna, all’evidente scopo di coprire la gravità del crimine commesso. A richiamare la sua attenzione sono anzitutto i numeri riportati nel bollettino del 13 agosto, che parlano di “270 banditi uccisi” e “353 civili sospettati di simpatie verso le bande catturati” nell’ambito di una “operazione contro le bande”.

Se il secondo dato può corrispondere alla realtà, il primo non regge: nei dispacci dei giorni precedenti la cifra dei partigiani insediati a ridosso di Sant’Anna era stata infatti stimata tra i 150 e i 200 elementi. Inoltre quello del 9 agosto specificava che il giorno precedente il grosso dei ribelli era fuggito verso est; evidente dunque che non potevano esserne stati uccisi 270 appena quattro giorni più tardi. Uno dei due comunicati riportava perciò notizie false: “Ma siccome sappiamo che l’informativa tedesca del 9 agosto corrisponde a verità, in quanto concorda con le fonti italiane che riferiscono le conseguenze dello scontro avvenuto l’8 agosto con la Brigata Bandelloni, possiamo dedurre che la Tagesmeldung del 13 agosto è un collage di comodo confezionato da ufficiali i quali usando la parola magica “lotta alle bande” coprivano il proprio delitto. Un ignobile massacro veniva trasformato in una “prova di zelo”. La velina del 13 agosto nasconde un crimine di guerra”.

A conferma della mendacia che da un certo momento in poi divenne la divisa del Comando germanico a coprire l’abominio dei misfatti commessi sta il contenuto della lettera inviata dallo stesso Kesserling a Mussolini il 21 agosto a giustificazione di quanto recentemente perpetrato dalla Wehrmacht sul nostro territorio. “Nel corso della lotta contro le bande si sono verificati nelle ultime settimane episodi assai dannosi alla reputazione e alla disciplina delle forze armate tedesche e che hanno oltrepassato i limiti delle misure di ritorsione. Poiché tale lotta deve essere condotta con i mezzi più rigorosi, è probabile che in tali occasioni siano state colpite anche persone innocenti. Le conseguenze hanno scosso profondamente la fiducia nelle forze armate tedesche: il che ci ha procurato nuovi nemici e ha favorito la propaganda avversaria”. “Kesserling – commenta Paoletti – con questa lettera di risposta si dimostrava piuttosto ipocrita in quanto era stato proprio lui, mesi prima, a dare mano libera ai suoi ufficiali. Inoltre un mese dopo questa risposta a Mussolini si congratulava con il maggiore Reder per l’annientamento della Brigata “Stella Rossa”, dimenticandosi che questa operazione aveva comportato anche l’uccisione di circa 600 civili”, a Marzabotto.

 

Perché proprio a Sant’Anna?  La testimonianza del parroco di La Culla Giuseppe Vangelisti, il quale nel suo memoriale descrive Sant’Anna come “luogo di quiete, di solitudine, vergine da ogni contatto e intruso politico”, porta successivamente Paoletti ad approfondire il motivo per cui proprio qui i tedeschi abbiano compiuto la più atroce delle loro carneficine. “Perché proprio a Sant’Anna, dove residenti e sfollati non avevano dimostrato di sostenere in modo particolarmente attivo il rapporto col movimento partigiano? Perché le Waffen-SS si accanirono in modo così efferato contro una popolazione tranquilla, che gli sfollati avevano eletto a proprio rifugio per il suo isolamento e per la sua fama di paese politicamente lontano dalle faziosità della guerra civile? Perché venne colpito, tra tutti i paesi intorno alla catena del Gabberi, quello che forse aveva meno aiutato le formazioni partigiane?”.

La versione, consolidatasi nel corso degli anni, secondo la quale obiettivo delle SS fosse quello di fare terra bruciata di una zona infida compiendo una strage di civili fatti passare per fiancheggiatori dei banditen non trova riscontro nei documenti che riportano gli ordini del comando della 14a Armata. In particolare, un telegramma con cui proprio il 12 agosto viene ridefinito il dispiegamento delle forze germaniche nelle retrovie del fronte dispone che il II battaglione SS “occupi i punti più importanti del settore Pietrasanta-Montramito”, senza fare riferimento alla presenza partigiana né ad azioni preventive contro le bande. La direttiva è dunque quella di occupare quel territorio che i bollettini precedenti avevano dato per “bonificato”, in quanto abbandonato dai partigiani, fin dall’8 agosto: ed è evidente che per eseguirla sarebbe bastato allontanarne abitanti e sfollati.

L’interpretazione che ne dà il Comando della 16a Divisione è che per “occupare i punti più importanti” occorra sfollare preliminarmente la popolazione, distruggere case e capanne e uccidere buoi e galline: niente di più. E infatti inizialmente il rastrellamento del 12 agosto viene inteso tanto dalle SS quanto dagli stessi santannini come finalizzato allo sgombero della zona. Del resto lo sfollamento dei civili è una misura punitiva prevista e attesa: tanto che fin dal 6 giugno il Comune di Stazzema ne ha definito il piano. Del 24 luglio è poi l’ordinanza germanica che dispone l’affissione in ogni borgata dello stazzemese dei manifesti recanti l’ordine perentorio di sgombero. Sono dunque soltanto i pochi partigiani rimasti sul Gabberi a interpretare quel dispiegamento di truppe tedesche come un rastrellamento antibande; per quanto esso non abbia avuto inizio con il consueto e preventivo impiego del mortaio.

Il fatto che rispetto al rapporto Cromwell vi sia discrepanza sulle date dell’ordine di sfollamento non inficia secondo l’autore la certezza che quell’ordine sia stato dato. “Che i tedeschi ad agosto intendessero far rispettare quell’editto lo fecero capire con l’incendio del paese disabitato di Farnocchia dell’8, ma nessuno intese la lezione: i villaggi dovevano essere resi inabitabili per garantire l’utilizzo delle linee di sbarramento. Il 31 luglio altre Waffen-SS si erano recate a Farnocchia per ordinare l’evacuazione del villaggio, come stava avvenendo in tutte le altre frazioni dello stazzemese”, finendo tuttavia con l’accettare la dilazione proposta dal parroco. “Don Lazzeri addusse argomenti così convincenti che riuscì a ottenere un rinvio: dunque il 31 luglio i tedeschi recepivano ancora le obiezioni della popolazione. Poi qualcosa cambiò, perché l’8 agosto dettero alle fiamme il villaggio, per quanto disabitato e abbandonato”.

Episodio quest’ultimo che sta a dimostrare due cose: le borgate poste in prossimità delle linee di sbarramento dovevano essere comunque incendiate, anche se al momento disabitate; la punizione inflitta a quei paesi in cui l’ordine di sfollamento era stato disatteso consisteva nell’incendio delle case e non nell’eliminazione fisica degli abitanti. Del resto, essendo proprio quel giorno “il grosso dei banditen fuggito altrove”, si poteva procedere alla “ricognizione delle linee difensive”. Finalizzata al medesimo scopo appare la direttiva del 12 agosto: quattro giorni dopo l’incendio di Farnocchia le SS si inerpicano di nuovo su per quei sentieri per indurre i santannini, con le buone o con le cattive, a fare quanto i farnocchini hanno già fatto per evitare rappresaglie. “Dunque bisogna distinguere tra l’obiettivo del rastrellamento (lo sgombero della popolazione) e quello che avvenne poi. Salendo a Sant’Anna il 12 agosto i tedeschi intendevano far rispettare quell’ordine di sgombero che risultava disatteso da parecchi giorni”.

Nel rimettere in discussione tutti quei luoghi comuni che hanno concorso a travisare il motivo della strage, l’autore si concentra quindi sull’episodio dell’incendio di Farnocchia, solitamente considerato come la rappresaglia seguita all’attentato partigiano che il 31 luglio ha fatto tra i tedeschi saliti in paese tre morti e cinque feriti (questa la quantificazione accolta dal testo, fra le tante proposte da documentazione e testimonianze). Ciò nonostante le date portino a escludere un legame sia logico che temporale tra i due episodi, avendo le SS dato fuoco al villaggio otto giorni dopo l’agguato. “Non a caso la popolazione di Farnocchia scappò immediatamente dopo l’attacco partigiano: vittime e autori della rappresaglia sapevano che questa aveva un senso se era comprensibile a tutti un rapporto di causa ed effetto”.

Difatti la vendetta germanica era giunta già la mattina del 1° agosto – preceduta da una sparatoria a distanza con i partigiani – con l’incendio di due case prospicienti la piazza e della canonica, e l’uccisione dell’unica persona trovata in paese. Bruciare la canonica assumeva un chiaro significato simbolico, dal momento che lì il giorno prima si erano svolte le trattative fra il parroco e il comandante tedesco che avevano portato alla procrastinazione dell’ordine di sgombero; ma alla comprensione germanica i partigiani del luogo avevano risposto con il piombo, tendendo la mortale imboscata alla pattuglia nemica lungo la via del ritorno.

Il rogo di Farnocchia dell’8 agosto non ha dunque alcuna relazione con l’attentato, andando semmai ricollegato alla nuova fase operativa sancita dal Comando tedesco e finalizzata al pieno controllo delle cruciali “linee di resistenza”, da realizzarsi mediante l’allontanamento forzato della popolazione e la distruzione dei villaggi posti a ridosso di tali fasce. Il significato della distruzione dell’intero paese appare perciò evidente: una volta ottenuta, la mattina dell’8 agosto, la “disinfestazione” del territorio dai partigiani, nel pomeriggio le SS attuano la seconda parte dell’ordine ricevuto, impedendo un eventuale ritorno dei farnocchini con il renderne inutilizzabili le abitazioni. Che rappresaglia sarebbe del resto – osserva Paoletti – incendiare un paese disabitato? “Se gli abitanti hanno offerto aiuto ai partigiani s’incendia il villaggio sotto i loro occhi, per dare un esempio”. Obiettivo germanico era dunque un altro: quello di fare terra bruciata.

Secondo l’autore tra il 4 e il 5 agosto le spie al servizio dei tedeschi avevano portato a termine il loro compito, riferendo della decisione del Comando partigiano di levare le tende da quelle montagne. L’assalto portato dalle SS al Gruppo Bandelloni la mattina dell’8 agosto voleva dunque rappresentare la spinta finale verso la loro ritirata; ma conoscendo la mobilità dei banditen, occorreva immediatamente dopo “bonificare” il territorio onde impedirne il ritorno, mediante lo sgombero della popolazione e la distruzione di villaggi e borgate. “Non a caso a Farnocchia vediamo le stesse malefatte che si ripeteranno quattro giorni dopo a Sant’Anna: tutti gli animali, dalle vacche alle galline, sono uccisi, e sono date alle fiamme non solo le case ma anche i capanni col tetto di paglia, ovvero i ricoveri per le bestie intorno al paese. Questo significa terra bruciata! Proprio come hanno fatto da Strettoia al Cinquale, radendo al suolo moltissime case solo per una maggiore sicurezza ed efficienza della Linea Verde”.

Dopodiché viene messo il dito nella piaga di quello che rappresenta il principale problema per la ricerca storica sul periodo della Linea Gotica: la mistificazione dei fatti da parte delle ricostruzioni resistenziali, che in molti casi tendono ad alleggerire, se non a nascondere del tutto, le responsabilità dei “patrioti” nelle rappresaglie e negli eccidi compiuti dai tedeschi, generalmente conseguenti loro attentati. Ma anche la versione “istituzionale” commette lo stesso errore, prendendo per buona tutta quella “vulgata” e anzi celebrandola: tale chiave di lettura caratterizza sia la documentazione esposta presso il Museo storico della Resistenza di Sant’Anna che i testi riportati sui cartelli dei “Sentieri di pace” che segnano tutto il territorio ricompreso nel “Parco Nazionale della Pace” stazzemese.

Le fonti su cui ci si è basati per la ricostruzione delle varie vicende sono segnatamente testimonianze di partigiani, le cui gesta vengono puntualmente celebrate in maniera acritica, e facendo spesso ricorso a espressioni edulcorate. Ad esempio, un agguato teso a una pattuglia tedesca diventa uno “scontro”, in modo da trasformare un’imboscata fatta a militari ignari in una battaglia a viso aperto contro chi sa di dover combattere. Alla stessa maniera, la cacciata dei ribelli dalle Apuane meridionali da parte delle SS viene resa con l’eufemismo del trasferimento autonomamente deciso allorché “la situazione si fa critica”.

Emblematica in tal senso la ricostruzione dei fatti di Farnocchia che leggiamo sul cartello che campeggia all’ingresso del paese: il quale finisce tuttavia con il contraddirsi. “Il 30 luglio una decina di militari tedeschi raggiunse Farnocchia, attorno alle 15, ordinando a tutti gli abitanti di abbandonare il paese entro le 17. Per intercessione del pievano […] i tedeschi concessero al paese una proroga fino al giorno seguente. La popolazione cominciò ad evacuare. […] Migliaia di persone uscirono di casa, cariche di quanto potevano portarsi in spalla e con vecchi, ammalati e bambini presero il via verso i boschi, La Culla e Valdicastello. La popolazione evitò così la reazione tedesca. Il giorno seguente infatti i militari risalirono a Farnocchia, passando da Mulina di Stazzema, dove si scontrarono con i partigiani. Nello scontro persero la vita quattro soldati tedeschi, e altri cinque furono feriti”. Oltre alla manipolazione delle date, l’incongruenza appare evidente: perché la popolazione avrebbe dovuto temere la reazione tedesca, se aveva eseguito subito – rendendo peraltro inutile l’intercessione del parroco – l’ordine di sgombero? Essa fuggendo evitò sì la rappresaglia germanica: ma a seguito dell’attentato.

Altrettanto subdola ma ancor più sfacciata nella sua faziosità la versione che del medesimo episodio offre una pubblicazione dichiaratamente partigiana. “Il 31 luglio 1944 una squadra di soldati tedeschi arrivò a Farnocchia e diede l’ordine di evacuare immediatamente il paese. Fallito il tentativo del parroco […] di prendere tempo per dare la possibilità alle famiglie di Farnocchia di portarsi dietro l’indispensabile, il paese divenne in breve deserto. Ma queste erano le condizioni ideali per un attacco a sorpresa: la seconda compagnia della X-bis Brigata Garibaldi “Gino Lombardi” […], che era in zona e che aveva seguito gli ultimi eventi, intervenne con decisione. Dei tredici soldati saliti a Farnocchia sei furono uccisi e gli altri rientrarono a valle con ferite più o meno gravi sottraendosi al peggio rotolandosi giù dalla montagna”2. La dinamica dei fatti viene così completamente stravolta: il successo della trattativa condotta dal sacerdote diventa un “fallimento”, e i farnocchini vengono anche in questo caso fatti fuggire prima e non a seguito dell’attentato. I cui autori vengono conseguentemente trasformati da irresponsabili terroristi in valorosi giustizieri, rapidi quanto “decisi”.

Alla stessa maniera riguardo a Sant’Anna si è teso a minimizzare le responsabilità dei ribelli inventandosi che da dieci giorni essi non si sarebbero più trovati in loco, e quindi non avrebbero potuto né affiggere il “contro-manifesto” cui fa riferimento il rapporto Cromwell né invitare la popolazione a rimanere in paese, garantendole la loro protezione, giungendo implicitamente a negare i morti che il Gruppo Bandelloni ebbe a patire dall’attacco sferrato dalle SS l’8 agosto al Gabberi. Ciò allo scopo di avvalorare la tesi dell’eccidio programmato dal Comando germanico da tempo, a puro scopo terroristico, nell’ambito di quella “lotta alle bande” che portava gli occupanti ad accanirsi contro civili inermi la cui unica colpa era quella di vivere in zone in cui imperversavano i banditen. Paoletti non ha dubbi sul motivo per cui la realtà sia stata così manipolata: evitare che ricadesse sui partigiani la responsabilità morale dell’eccidio. “Così nessuno ha mai preso in considerazione l’ipotesi che le Waffen-SS non fossero salite a Sant’Anna con l’intenzione di uccidere, ma solo per far sfollare la popolazione”.

“Per prima cosa – egli spiega – Sant’Anna non poteva essere considerato “territorio controllato dalle bande” più di La Culla o Capezzano. Sant’Anna non era un paese che aveva particolarmente aiutato i partigiani. Abbiamo scoperto nel racconto di Aulo Viviani [un caposquadra partigiano locale, autore di un libro di memorie] che un giorno scese a Sant’Anna per affiggere un manifestino dove “si invitavano gli uomini a una riunione insieme al comando dei partigiani, riunione che fu poi rimandata perché la delegazione degli abitanti del paese non volle prendere delle decisioni: dissero che non erano d’accordo di mettersi con i partigiani”. Se – racconta don Vangelisti – don Lazzeri, fuggito da Farnocchia, non si volle fermare a La Culla, perché La Culla “con quella presenza partigiana non gli sembrava adatta e volle andare a Sant’Anna”, è perché in questo paese si sentiva più sicuro. Insomma in tutti questi anni si è dovuto accreditare un errore di valutazione da parte dei tedeschi del reale pericolo partigiano oppure si è dovuto dire che si trattava di un “massacro programmato da Kesserling””.

Una conferma alla propria tesi Paoletti trova nella disamina delle modalità con cui fu condotta l’azione del 12 agosto, divergente sia da quelle contemplate nel manuale “Lotta antibande” diramato tre mesi prima dal Comando germanico che da quelle adottate il 22 luglio in occasione del rastrellamento avente quale obiettivo il Gruppo Bandelloni. Egli si chiede: “Perché le tre colonne che faranno il massacro provengono da nord e da nord-est, dall’interno della Versilia? Perché iniziano il rastrellamento scendendo dalla catena dei monti Ornato-Lieto-Gabberi? Secondo noi lo scopo evidente è quello di spingere la popolazione da sfollare verso occidente, verso Valdicastello. Non è un caso che il punto di partenza per la popolazione di Sant’Anna nel piano di sfollamento previsto dalla Provincia fosse il bivio tra la strada di Valdicastello e il cimitero di Pietrasanta”.

Un altro indizio a conferma di tale interpretazione l’autore individua nel grido “fuoco!”, “che risuonò tante volte la mattina di quel terribile 12 agosto”. A differenza di quanto vorrebbe la ricostruzione ufficiale della strage non si tratterebbe di un ordine di sparo bensì di un’intimazione alla gente di abbandonare le abitazioni prima che queste vengano date alle fiamme, come confermato anche da testimonianze di sopravvissuti che si trovavano a Coletti. È del resto evidente che nell’altro caso il comandante germanico si sarebbe rivolto non agli abitanti ma ai propri soldati, e impartendo l’ordine in tedesco. Lo scopo del raduno delle persone di quella borgata non era dunque di metterle al muro ma di convogliarle a valle: e infatti furono spinte verso Valdicastello. “Se non fosse stata un’operazione di sgombero della popolazione e di incendio delle case, perché i tedeschi avrebbero dovuto avvisare gli italiani che sarebbe stato dato fuoco alle abitazioni? Quando in un’operazione antibande si deve uccidere qualcuno, non gli si dice “fuoco!”: si spara e basta. A nostro avviso, se i tedeschi fossero saliti lassù con l’ordine di fare un massacro avrebbero ucciso tutti e poi incendiato le case senza dare spiegazioni di sorta”.

Una riprova di ciò Paoletti trova nell’utilizzo a Sant’Anna del lanciafiamme: uno o al massimo due, secondo le testimonianze. Fra l’altro il II battaglione non disponeva di un plotone genieri; il che fa supporre che quell’arma gli fosse stata fornita da un’altra unità. Trattandosi di uno strumento espressamente concepito per espugnare bunker o postazioni fortificate in cui gli attaccati si difendono trincerandosi dietro piccole feritoie donde tengono lontani gli attaccanti mediante il fuoco delle mitragliatrici, il suo impiego tanto in un’operazione rivolta contro partigiani alla macchia quanto in un semplice rastrellamento apparirebbe quantomeno improprio. Perché allora le SS se lo erano portato dietro? Questa la risposta dell’autore: “Se invece lo scopo originario era quello di incendiare abitazioni e stalle, di fare terra bruciata, portando via bestiame e distruggendo raccolti, animali e case, allora l’uso di uno o due lanciafiamme sarebbe stato logico”.

 

Lo sparo  Giungiamo così al cuore della ricerca: la soluzione del tragico “thriller” di Sant’Anna ottenuta semplicemente rileggendo e rivalutando i documenti e le testimonianze originari, chiaramente indicata tanto nel rapporto Cromwell quanto nell’istruttoria condotta da Lombardo. Del resto lo storico inglese John Foot ha qualificato la metodologia paolettiana come finalizzata a “prendere storie o versioni degli eventi ben radicate e cercare di distruggerle attraverso una rilettura dell’evidenza”.

“Un ufficiale delle SS era stato ferito prima dell’inizio del massacro e il suo ferimento fu l’unica ragione per la quale 300 SS parteciparono a questa gravissima rappresaglia”, scrive il magistrato lucchese; come “Josef Albritz” identifica il “ferito da arma da fuoco” il maggiore inglese. Nel rapporto consegnato alla Procura di Lucca nel dicembre ‘45, il vicecommissario Majorca scriveva: “Subito dopo il fatto fece un po’ il giro la notizia che dal primo gruppo di case alla Vaccareccia era stato sparato un colpo di fucile contro un ufficiale. La barella con l’ufficiale ferito era stata veduta giù per la strada per Valdicastello”. Donde la conclusione di Lombardo che la carneficina non fosse stata programmata bensì decisa sul momento.

Vari autori hanno confermato tale versione. Il primo, il superstite Alfredo Graziani: “Si disse che nei pressi della Vaccareccia fosse stato sparato un colpo di fucile contro i tedeschi e che un ufficiale rimase ferito. L’eccidio sarebbe stato quindi una conseguenza imprevista per gli stessi tedeschi, i quali si sarebbero altrimenti limitati alla distruzione delle abitazioni per punire gli abitanti della connivenza che avevano avuto con i partigiani”. Sulla stessa falsariga il memoriale di don Vangelisti: “Il giorno dopo l’eccidio si seppe che alle prime case della Vaccareccia all’apparizione dei tedeschi fu sparato un colpo di fucile e fu ferito l’ufficiale comandante del reparto. Per questo fu dato ordine della strage; ma poi non se ne sentì più parlare”.

Tale vox populi fu infatti ben presto dimenticata, per essere soppiantata da un’altra vulgata le cui radici l’autore individua nel processo Reder, “il vero grande equivoco di questa strage”. “Da quel lontano 1945 sulla rappresaglia decisa a caldo è calato uno strano, inquietante silenzio. Secondo la verità costruita dagli organi d’informazione e ripresa dalle autorità comunali e dall’opinione pubblica toscana e italiana c’era un solo colpevole, così sfuggente da essere scampato anche alla giustizia militare. Riproporre la tesi del ferimento del soldato tedesco come scintilla per l’esplosione della rappresaglia è un fastidioso incomodo per la teoria di moda: quella di un Reder esecutore di ordini studiati a tavolino”.

E così l’episodio della Vaccareccia è stato rimosso, minimizzato, quando non completamente stravolto; il giornalista Giorgio Giannelli è giunto perfino a sostenere la “fantasiosa teoria” che il militare fosse stato ferito dai suoi stessi commilitoni. Ma anche per questo Paoletti ha una spiegazione: “Non è strano che quella generica “voce” non sia stata ripresa negli anni successivi: come si faceva ad accusare un compaesano dopo aver verificato che quel suo atto disperato e ingenuo aveva causato la morte di alcune centinaia di persone? Se quella voce avesse continuato a circolare e ad esser riproposta sulla stampa sarebbe stato come uccidere lentamente un uomo: un’infamia che il supposto colpevole si sarebbe portato dietro tutta la vita (sempre che fosse sopravvissuto all’eccidio). Così, per carità di patria e per solidarietà paesana, qualcuno potrebbe aver pensato che era meglio per tutti metter la sordina a questa voce e far passare la strage per un massacro pianificato dalle Waffen-SS”.

Ciò nonostante le testimonianze abbiano riferito che in quella borgata i soldati non sparavano a casaccio bensì miravano “contro le finestre delle case della Vaccareccia: e se, dopo l’inizio della strage, sbagliavano bersaglio, colpendo bestie o tronchi d’albero, era per salvare qualche vita innocente”. Il che porta l’autore ad avvalorare la ricostruzione giudiziaria iniziale che voleva “un graduato germanico, alla testa del suo plotone, colpito da un italiano spaventato dalla discesa delle truppe tedesche. Ma la migliore dimostrazione che il supposto Josef Albritz non fu investito da “fuoco amico” sta proprio nel fatto che gli omicidi di massa cominciarono alla Vaccareccia, dove ebbe luogo l’incidente e, guarda caso, dopo una mezz’ora circa dal ferimento del militare”. Aggiungendo: “Se qualcuno cercasse ancora di negare il ferimento di un soldato tedesco dovrebbe provare che i testimoni oculari mentirono e che il primo ufficiale inglese che fece un rapporto sui fatti dopo aver ascoltato vari superstiti prese un abbaglio”.

Ulteriori considerazioni inducono Paoletti a escludere completamente dalla scena della Vaccareccia i partigiani. “Tutto lascia pensare che a sparare sia stato uno che abitava, o comunque si trovava alloggiato, in quella casa. Quindi chi ha imbracciato quel maledetto fucile probabilmente non era neppure uno degli uomini di Sant’Anna di vedetta quella mattina o uno dei tanti sfollati appostati nei punti strategici. Tutto lascia ritenere che sia stato il gesto di un civile spaventato: che è facile presupporre non sia riuscito a scappare, ma sia stato una delle vittime”. Era stato proprio il timore di un imminente rastrellamento – che nasceva anche dalla consapevolezza che in paese erano tanti i renitenti alla leva repubblichina – a indurre i santannini a predisporre un servizio di vigilanza funzionante giorno e notte.

In ogni caso “allo scenario accreditato da tutti gli storici, per il quale l’eccidio è il risultato di un piano terroristico programmato dai vertici militari germanici ed eseguito dal maggiore Reder, ne dobbiamo sostituire un altro, dove è il fato a segnare la sorte del villaggio di Sant’Anna e delle sue borgate”. Non solo gli storici: nemmeno le schede didattiche che troviamo oggi sui luoghi della strage si degnano di prendere in considerazione l’ipotesi dello sparo. Sul cartello dei “Sentieri di pace” della Vaccareccia, in particolare, leggiamo: “Una pattuglia di soldati della “Reichsführer-SS” giunse in questa località attorno alle 7 del 12 agosto 1944, iniziando a setacciare le abitazioni e concentrare gli abitanti in una stalla. Più o meno un’ora dopo arrivò qui anche un’altra colonna di militari tedeschi, proveniente da Monte Ornato, portando con sé i civili rastrellati nel borgo dell’Argentiera (dove le abitazioni erano state date alle fiamme). Tutte queste persone vennero ammassate in due stalle attigue. Dopo pochi minuti le mitragliatrici fecero fuoco sugli innocenti e vennero gettate all’interno diverse bombe a mano”.

Una ricostruzione che finisce involontariamente con l’avvalorare la tesi di Paoletti: perché è evidente che, se la missione delle SS fosse stata fin dall’inizio quella di massacrare tutti, non ci sarebbe stato bisogno né di rinchiudere gli abitanti della Vaccareccia nella stalla, né di portarsi appresso le persone rastrellate all’Argentiera. Transitando la strada che scende da tale borgata a breve distanza dalla Vaccareccia, l’ipotesi più verosimile è che i militari del plotone il cui comandante era stato ferito abbiano preso quell’iniziativa in attesa di ordini superiori sul da farsi; una volta sopraggiunti i commilitoni provenienti dall’Argentiera assieme ai civili che stavano scortando verso Sant’Anna si decise di assembrare lì pure questi altri prigionieri: finché l’ordine non arrivò.

Nella sua inchiesta Paoletti si è avvalso della collaborazione di un farnocchino sfollato a Sant’Anna sopravvissuto alla strage, Giuseppe Bertelli, autore a sua volta di una ricerca sui fatti del 12 agosto che lo aveva portato a conclusioni precorritrici di quelle dello storico fiorentino: l’operazione delle SS era iniziata come sgombero, la strage non era stata programmata, il numero dei morti è stato gonfiato. Bertelli si era inoltre battuto perché a Farnocchia venisse apposta una lapide a ricordo dell’incendio dell’8 agosto; ma senza successo, dal momento che tale memoria avrebbe implicitamente messo in risalto le responsabilità partigiane in quanto occorso al paese. Oltre ad accompagnare Paoletti sui vari luoghi del massacro e a supportarlo nella raccolta delle testimonianze dei superstiti, Bertelli gli ha affidato la sua ricostruzione dell’eccidio – basata su fonti sia orali che scritte – che viene riportata nel testo ad avvalorare la motivazione originariamente attribuita alla carneficina.

“I tedeschi scesi dalla Foce di Farnocchia tralasciarono di “visitare” Case di Berna, estrema borgata a est di Sant’Anna. Si fermarono invece a Sennari; là riunirono circa 25 persone e le accompagnarono lungo il sentiero che scende a Valdicastello, per circa 150 metri. Poi le lasciarono libere ordinando loro: “Andare Valdicastè, andare Valdicastè”. Quei tedeschi risalirono a Sennari dove trovarono un altro gruppetto di persone le quali, nella piazzetta del vicinato, erano state messe al muro con la mitraglia puntata; ma l’ufficiale comandante ordinò di non uccidere nessuno. Quelle persone furono incolonnate lungo lo stesso sentiero come il gruppo precedente, ma questa volta vennero accompagnate da alcuni tedeschi fino al Metato Bianco. Nella borgata di Sennari intanto i tedeschi avevano dato fuoco a diverse case e capanne, ma non uccisero nessuno e nessuno immaginò quello che sarebbe accaduto più tardi. I tedeschi, seguendo poi la strada mulattiera, passarono alla casa del Gamba e successivamente nella borgata di Fabiani. Anche lì furono incendiati alcuni fabbricati, ma non furono uccise persone.

“Proseguirono ancora lungo la mulattiera, passarono davanti la casa della Pia e arrivarono al Colle, dove riunirono 17 persone e le avviarono verso Valdicastello, come già fatto a Sennari. Vedremo poi quello che accadrà a queste persone. Nello stesso tempo quei tedeschi che erano scesi dalla Foce di Compito, arrivati a Bambini, riunirono gli abitanti nella piazzetta, incendiarono qualche capanna, ma non arrecarono danni alle persone, benché fosse la località più vicina, si potrebbe dire a contatto con gli insediamenti partigiani. Scesero poi a Moco di sopra, senza uccidere, mentre a Moco di sotto non fu possibile accertare se vi fossero state vittime. Sempre nello stesso tempo le truppe provenienti da monte Ornato, sia all’Argentiera di sotto che a Casa Moriconi e successivamente all’Argentiera di sopra, riunirono gli abitanti nelle piazzette del vicinato, incendiarono le loro case, ma non uccisero nessuno. Una trentina e più persone vennero incolonnate e avviate verso Sant’Anna. Alle ore 8,30 circa diverse borgate della frazione di Sant’Anna erano già state “visitate” dai tedeschi e la rappresaglia si era limitata, fino a quel momento, all’incendio di case e di capanne e al rastrellamento delle persone, in parte avviate verso Valdicastello e in parte incolonnate verso la Vaccareccia.

“Benché le tre squadre tedesche operassero contemporaneamente in zone diverse e molto distanti fra loro, nessuna persona era stata uccisa fino a quel momento. Quando i tedeschi provenienti da Monte Ornato giunsero alla Vaccareccia, lì fu sparato un colpo di fucile contro l’ufficiale comandante di reparto, che rimase ferito a una spalla. Da quel momento il rastrellamento si trasformò in un feroce massacro. La strage non ha tregua: in ogni borgata prima si uccidono le persone dentro le stalle, poi si bruciano le case. Alla Vaccareccia le persone rastrellate alle Argentiere, unite a quelle del posto, vengono massacrate nelle stalle e incendiate poi le case, nonostante che diverse persone fossero ferite ma ancora vive.

“Anche la squadra dei tedeschi che era passata da Sennari e da Fabiani, senza uccidere nessuno, e che al Colle aveva riunito e avviato verso Valdicastello 17 persone, evidentemente in seguito a nuovo ordine, mitragliò quelle persone alle spalle, quando avevano già percorso un centinaio di metri. E nello stesso modo si comportò anche la squadra che era scesa dai Bambini e dal Moco senza uccidere. Arrivata a Franchi riunisce in una casa tutte le persone che trova, spara alcune sventagliate di mitra, getta qualche bomba a mano nella stanza (una cucina) e incendia la casa. E l’eccidio continua con brutale disumanità nelle altre borgate, ma con una delimitazione territoriale precisa e cioè fino ai Molini, ultima casa della frazione di Sant’Anna. Evidentemente il ferimento dell’ufficiale alla Vaccareccia aveva provocato un diverso comportamento delle squadre tedesche, inasprendo la rappresaglia fino agli eccessi più ignobili”.

Alle conclusioni del giudice Lombardo e alla ricostruzione fatta da Bertelli Paoletti ha aggiunto le risultanze della propria inchiesta, basata su nuove testimonianze che hanno confermato in pieno il quadro delineato dai predecessori. L’autore fa chiarezza su tanti punti di quella giornata rimasti oscuri, ritornando anzitutto sull’impiego del lanciafiamme, entrato in gioco al termine del massacro allo scopo di incendiare tutto quanto. “Proprio la presenza di uno o due genieri è la miglior prova che quella non fu “un’operazione antipartigiana”, bensì un’azione pianificata e programmata per la distruzione del patrimonio abitativo e dei ricoveri per il bestiame, accompagnata dallo sgombero forzato della popolazione. Dopo il massacro i lanciafiamme, portati per incendiare le case e le stalle, vennero impiegati per carbonizzare i cadaveri. Come dimenticare i 138 corpi ammucchiati davanti alla chiesa di Sant’Anna e le panche e le sedie usate come legna per la pira? Quegli stessi lanciafiamme furono usati per cancellare le tracce della carneficina, come se inconsciamente i tedeschi tentassero di annientare i segni della loro colpa. Le Waffen-SS vogliono nascondere le prove dei propri crimini, come le SS alle Fosse Ardeatine”.

Paoletti si chiede quindi il motivo per cui all’arrivo dei tedeschi molti santannini si preoccupassero di mettere in salvo bestiame e masserizie, piuttosto che pensare a salvare la pelle: ne viene fuori un’attenta disamina delle aspettative che si avevano in paese. “Quella mattina molti uomini, già rifugiati nelle gallerie di monte Arsiccio e ritornati nelle case della conca di Sant’Anna, si rifugiarono nei boschi per timore di essere deportati in Germania o costretti al lavoro coatto. Ma la maggior parte dei vecchi non fuggì, le donne e i bambini si preoccuparono di mettere in salvo i beni amovibili (materassi, coperte e lenzuoli). Ecco perché tra la gente di Sant’Anna l’incendio delle case era considerata l’ipotesi peggiore tra quelle che gli abitanti e gli sfollati si potevano prospettare. Il timore più diffuso e logico era che le Waffen-SS ripetessero quanto fatto a Farnocchia: che dessero fuoco alle case. Nessuno a Sant’Anna si aspettava l’aiuto dei partigiani, tant’è vero che qualche uomo si era messo di sentinella. Né i civili né gli stessi partigiani immaginavano che quel giorno i tedeschi fossero saliti fin lassù con lo scopo di compiere una strage”.

Tanti sono gli episodi precedenti l’ordine di eseguire il massacro riportati nel volume a sostegno della tesi avanzata. A Sennari, alle 7, i primi soldati scesi dal Gabberi chiedono da bere; a una donna che domanda loro il da farsi, nel silenzio degli altri uno fa cenno con le mani di scappare senza proferire parola. A Coletti i militari fanno razzia di denaro e preziosi, derubando le donne che vi trovano; quindi se ne vanno, sparando in aria e a delle pecore. Neppure ad Argentiera, Sennari, Bambini, Colle hanno luogo incendi: “gesti di generosità dopo il primo cordiale impatto con quella popolazione che doveva essere solo allontanata. Sembra proprio che due colonne su tre abbiano chiuso un occhio tra le 7 e le 8,30, mentre dopo quell’ora la maggior parte dei soldati eseguono nuovi ordini. Ecco perché le case a Bambini e al Colle restano intatte, mentre quelle più in basso, come a Fabiani, al Pero e a Sant’Anna, sono tutte incendiate. Da generosi, i tedeschi diverranno spietati”.

Campione di umanità il graduato che a Sennari lascia la gente libera di andare dove vuole, come rievocato da Enio Mancini. “I soldati ci condussero sull’aia che dominava il borgo, ove trovammo molte persone, i nostri vicini. Ci addossarono contro il muro di una casa mentre altri iniziarono a montare, su un poggio sovrastante, degli strani attrezzi, tipo treppiedi. Una vecchina, forse per ingenuità o per sdrammatizzare il momento, disse di non preoccuparsi, che forse stavano per farci una fotografia. Quando anche la mitragliatrice fu montata e lo sgomento e la paura erano in tutti noi, arrivò sull’aia un soldato, forse un ufficiale, che dette degli ordini in tedesco: “Raus… Valdicastello”, ci ripeteva. I “soldati” col volto mascherato [i collaborazionisti italiani al seguito delle SS] tradussero: l’ordine era quello di scendere tutti in fretta verso Valdicastello”. Incredule le donne – ormai preparate al peggio – stentano ad andar via; il militare allora le invita a seguirlo, accompagnandole fino al Metato Bianco e consentendo loro di fuggire nei boschi.

Ma invece di darsela a gambe, quelle persone scelgono di rimanere in zona, allo scopo di riguadagnare le proprie abitazioni e salvare il salvabile una volta che i soldati se ne saranno andati, nascondendosi in un anfratto della boscaglia. Venendo però individuati: con loro massima costernazione, ben sapendo di avere disobbedito agli ordini ricevuti; fatti uscire e incolonnati, vengono spinti lungo il sentiero che scende verso la chiesa. Ma i soldati hanno fretta: sono ore che marciano per quelle montagne, con gli scarponi, sui disagevoli sentieri e mulattiere apuani, perdipiù esposti ai possibili agguati dei banditen, che potrebbero celarsi dietro ogni cespuglio; per cui allungano il passo, lasciando ad accompagnare i rastrellati un solo militare: il quale – evidentemente esausto anch’egli – si toglie l’elmetto.

È ancora Mancini che parla: “Era molto giovane, quasi un adolescente, e non ci faceva più tanta paura. Quando il gruppo dei soldati si fu allontanato e scomparve alla nostra vista, il giovane tedesco cominciò a impartirci degli ordini che non capivamo; ma ci faceva anche dei gesti eloquenti. Questi sì erano facilmente intelligibili: ci diceva di tornare velocemente indietro. Si salì lungo il ripido pendio e si udì una scarica di arma automatica che ci fece trasalire. Ci girammo di scatto verso di lui, temendo che ci stesse sparando addosso: e invece imbracciava il fucile verso l’alto, verso le fronde dei castagni”.

Naturale che gli scampati interpretassero la mancata esecuzione dopo l’assembramento e il caricamento delle armi automatiche come una grazia ricevuta dal Cielo: quando quella non era altro che la procedura abituale per tenere gli sfollandi sotto controllo. Sicuramente Sennari fu baciata dalla fortuna in quanto prima borgata incontrata dalle SS calate dalla montagna. Ed è appunto al ruolo giocato dalla sorte in quei momenti cruciali che l’autore dedica la sua considerazione successiva: “Dei soldati tedeschi accompagnano in due occasioni due diversi gruppi di persone verso Valdicastello. Chi prosegue si salva, chi si fermerà a Molini verrà ucciso, magari da quegli stessi soldati che nel frattempo avranno ricevuto un ordine diverso: quello di uccidere”.

Il colpo di fucile alla Vaccareccia muta radicalmente la disposizione d’animo dei militari germanici, apparsi finora generalmente calmi, pacifici quando non benevoli nei confronti della popolazione. Per quanto non dappertutto le cose vadano come a Sennari: terrorizzati alla vista delle SS coi mitra spianati, istintivamente alcuni abitanti tentano di fuggire – o comunque danno l’impressione di volerlo fare – venendo conseguentemente feriti dai soldati; i quali in ogni caso non sparano per ammazzare, astenendosi per giunta dal rincorrere i fuggiaschi. A Coletti addirittura la truppa, notato un gruppo di persone rifugiate dentro una grotta, le ignora, tirando dritto.

Dopo lo sciagurato episodio invece i medesimi militari appaiono tesi, nervosi, frettolosi. Temendo la presenza di partigiani, nell’eseguire l’ordine di morte tirano via, lasciandosi alle spalle anche feriti e incolumi; nell’attraversare i boschi paventano attacchi da parte dei banditen, per cui mitragliano ai lati del sentiero e una volta raggiunto un nuovo gruppo di case sparano contro le finestre, per premunirsi rispetto a nuove fucilate.

La reclusione della gente nelle stalle viene spiegata da Paoletti come una “esigenza di polizia militare”. “Poiché, per ragioni di sicurezza, una squadra di Waffen-SS non poteva tener sotto controllo una massa di più di sessanta persone, venne deciso di rinchiuderle provvisoriamente nei tre “contenitori” più capienti: tre stalle della Vaccareccia. Ma neppure quelle sono sufficienti: così alcuni rastrellati rimarranno fuori”. O rinchiusi dentro la stanza più grande di un’abitazione, con un frenetico via vai ad aggiungere prigionieri, chiudere la porta a chiave e ripartire: un lasso di tempo oltremodo angoscioso per i segregati e dovuto all’attesa che sulla loro sorte venga presa una decisione.

Emblematico in tal senso quanto accade a Franchi – vicino alla Vaccareccia – ove un locale che per i residenti funge sia da cucina che da camera da letto viene requisito dai tedeschi per farne una prigione: e che dal Comando sia stato comunicato il “pollice verso” si capisce allorché il sottufficiale che funge da carceriere apre stavolta la porta non per introdurvi altre persone ma per sparare in bocca al padrone di casa, mentre questi gli sta mostrando il documento di lavoratore della Todt. Da quel momento “si scatena l’inferno, le Waffen-SS si trasformano in assassini, i feriti sono solo quelli che il caso vuole siano salvati da altri corpi che cadono loro addosso”.

Basandosi anche sul fatto che due giovani fratelli di Sant’Anna, Alfio e Agostino Bibolotti, fossero stati presi per trasportare una ricetrasmittente da campo l’autore si dice certo che l’ordine di attuare il massacro sia giunto via radio: e furono probabilmente dei razzi a trasmetterlo alle varie unità sparse nella zona della chiesa e sulle alture. Mentre per quanto riguarda la responsabilità della decisione, è più che probabile che essa sia stata presa di concerto da Gesele e Göllnitz.

La dispersione delle borgate per la montagna impedisce che si possa fissare un’ora precisa per l’inizio del rastrellamento; secondo una testimonianza, “quella mattina don Lazzeri si alzò alle 6, suonò l’annuncio della messa e sostò presso il campanile: in quel momento si videro i segnali luminosi che preannunciavano l’attacco delle SS”. Una ragionevole tempistica dell’operazione non può perciò che essere approssimativa: Paoletti ne colloca l’avvio tra le 7.15 e le 7.45, i primi incendi delle case attorno alle 8, il ferimento del graduato tra le 8.15 e le 8.30 e l’inizio del massacro tra le 9 e le 9.30.

 

La strage anomala  Altri argomenti intervengono a corroborare la tesi della “strage anomala”. “Nella 16a Divisione il II battaglione è il reparto con il minor numero di uomini, e il suo comandante ne ha preso le redini da una ventina di giorni; la 5a compagnia è l’unica unità senza ufficiali. Il maresciallo che è salito a Sant’Anna al suo comando non è all’altezza del compito, e quando un suo soldato è rimasto ferito ha perso la testa: ha avvisato immediatamente il comandante di battaglione, su ordine del quale farà eseguire il massacro. Quell’intervallo di tempo tra l’atto “terroristico” e la strage, di circa 30-50 minuti, ci garantisce che si trattò di una “reazione a caldo” dei due ufficiali, non di un massacro programmato dall’alto”.

“Non ci sembra logico che il generale Simon decida di impiegare il battaglione più scalcinato della sua divisione per un’operazione così impegnativa dal punto di vista militare ed emotivo come un rastrellamento contro i banditi, ancor meno per far massacrare un intero villaggio. Se invece parte del II battaglione fosse spedita a Sant’Anna a incendiare le case, allora tutto rientrerebbe nella logica militare: in sostanza esso e il suo nuovo comandante dovrebbero fare esperienza in un’operazione di tutta tranquillità, nella quale si può impiegare una sola compagnia, anche se priva di ufficiali. Ma il sottufficiale comandante di compagnia, di fronte al ferimento del graduato, è costretto a chiedere istruzioni al battaglione, e anche il comandante non si dimostrerà all’altezza del compito: si lascerà prendere la mano dagli avvenimenti, sopravvaluterà il pericolo e insieme al suo superiore scatenerà una strage”.

Le armi impiegate quella mattina non sono quelle normalmente adoperate nelle operazioni antipartigiane: l’armamento è completamente diverso rispetto a quello utilizzato il 2 agosto nella zona di Sant’Anna e l’8 nell’assalto al Gabberi. Il 12 non vengono usati mortai pesanti e mitragliere, né si sfruttano le alture per lanciare granate verso la zona della chiesa; al loro posto, degli innocui razzi luminosi, oltre all’incongruo lanciafiamme. Le mitragliatrici non sono caricate: più testimoni riferiscono dell’inserimento dei caricatori allorché la gente è già al muro. Inoltre, a differenza dell’8 agosto non ci si è premurati di portare le barelle, al punto che il militare ferito dev’essere trasportato su un telo di fortuna. “È evidente che non avevano previsto di avere feriti: e questo è molto strano per dei programmatori come i tedeschi, che hanno pensato all’uso dei lanciafiamme ma si sono dimenticati delle barelle!”.

L’impiego di collaborazionisti in divisa tedesca si spiega meglio nel caso di un rastrellamento per far sfollare la popolazione che non per ucciderla. Il fatto che essi parlino in dialetto versiliese fa pensare che siano stati ingaggiati come guide, quindi con funzioni più di ausiliari che di truppa: e quando traducono gli ordini delle SS indicano alla gente di sfollare. “I più indossano una divisa mimetica tedesca per trarre in inganno gli italiani e per non essere riconosciuti. Se si fosse trattato di “un’operazione contro i banditi” i tedeschi avrebbero preferito truppe regolari italiane, con proprie uniformi, come a Vallucciole [il riferimento è all’eccidio del 13 aprile ‘44], non civili”. A Sant’Anna non è traccia di SS italiane.

Mentre in tutte le altre stragi seguite a operazioni antipartigiane chi aveva avuto rapporti con tedeschi o collaborazionisti veniva sistematicamente fatto fuori allo scopo di eliminare scomodi testimoni, qui almeno tre persone vengono risparmiate. Si tratta di tre giovani utilizzati come trasportatori: oltre ai fratelli Bibolotti, Alemaro Garibaldi, al quale le SS rilasciano addirittura un lasciapassare, quasi a ricompensarlo del servizio fornito. Conservato dal santannino e poi consegnato alla commissione d’inchiesta americana, il salvacondotto è rimasto agli atti solo nella traduzione inglese: “Questo per confermare che durante la notte tra l’11 e il 12 agosto Garibaldi Aleramo è stato impiegato come trasportatore di munizioni dall’unità FPN 01011B in una operazione contro i Partigiani”.

Un documento secondo l’autore straordinario, per due motivi. L’anonimo sergente che lo redasse “non si rese conto, nel momento in cui scriveva quella sigla, di apporre una firma sulla strage e consegnarla a quell’italiano”: sarebbe stata infatti proprio la decrittazione di quella “misteriosa composizione di numeri e lettere” a consentire agli americani l’attribuzione dell’eccidio. Si trattò inoltre di “un caso più unico che raro: anche se il Garibaldi aveva il vantaggio rispetto agli altri di parlare un po’ di tedesco, questo trattamento di tutto riguardo resta inspiegabile”. E dunque l’eccezionale clemenza germanica nei confronti dei tre giovani “potrebbe dimostrare che non era stata prevista a priori una loro eliminazione perché non era nemmeno prevista una strage”.

La vastità degli studi compiuti sugli eccidi nazifascisti porta quindi Paoletti a rimarcare ulteriori aspetti che fanno di quello del 12 agosto un massacro assolutamente anomalo rispetto a tutti gli altri, nei quali “perfino la ferocia più bestiale è guidata e irregimentata da una sorta di freddo e spietato raziocinio, non privo di una punta di ragionieristico puntiglio in base al quale le vittime da giustiziare sono esattamente contabilizzate, di uno spiccato gusto del rituale macabro, di un rispetto rigido e minuzioso di norme e comportamenti prestabiliti”. Quando a Sant’Anna “non si conteggiano le vittime, non c’è alcun rispetto delle norme e delle consuetudini tenute dai reparti impiegati nelle rappresaglie. Normalmente un ufficiale non avrebbe mai scelto un luogo sacro per compiere un omicidio di massa”: mentre qui il sottufficiale comandante lo fa in quanto unico spiazzo privo di possibilità di fuga.

Abbiamo militari che si abbandonano a indicibili efferatezze, accanto ad altri che, all’opposto, evitano di eseguire l’ordine di fucilazione, mettendo a rischio la propria stessa vita. “In nessun’altra strage si registrano così tanti episodi di pietà umana. Una strage anomala dove non c’è alcuna linearità di comportamenti da parte degli uomini che partecipano al massacro: e ciò fa pensare che qualche militare reagisca disubbidendo, apertamente o di nascosto, proprio perché non è preparato psicologicamente a compiere un massacro. In quegli ordini non riesce a vedere alcun nesso logico con la realtà che gli si para davanti agli occhi”. Secondo l’autore alla radice della salvezza di molti “miracolati” starebbe una semplice considerazione, scattata nella mente del soldato “che non ha accettato supinamente la follia omicida dei propri superiori” e che gli ha fatto da supporto nella decisione di risparmiare la vita dei rastrellati a lui affidati: quella che l’ordine iniziale non era di ucciderli, ma di farli sfollare a Valdicastello.

Nella sua capillare analisi dei singoli episodi di tal genere verificatisi quel giorno Paoletti traccia una distinzione tra quanti procedettero alla “grazia” trovandosi da soli (premurandosi se necessario di sparare in aria, o a delle bestie, in modo che i commilitoni sentissero) e quanti invece lo fecero davanti agli altri; le sue considerazioni sono di ordine sia giuridico che psicologico. “Chi si assume la responsabilità di far fuggire dei rastrellati o di risparmiare delle vite umane di fronte ai propri soldati non può essere che un sottufficiale, il quale non teme di essere tradito dai propri uomini. In genere la truppa – per lo più giovani reclute – risparmia vite umane di nascosto ai propri commilitoni, non fidandosi di loro. Il sottufficiale sa che il codice militare di guerra gli permette di giustificarsi di fronte a un’eventuale accusa di insubordinazione, appellandosi alla norma che garantisce il dissenso quando l’ordine è di uccidere in massa persone manifestamente innocenti e innocue. Inoltre ha dalla sua la riserva mentale che l’ordine originario era volto a distruggere cose e non a uccidere persone, e il contrordine non è giustificato dalle circostanze”.

Diverse fonti parlano di militari fucilati in quanto inadempienti agli ordini: secondo il rapporto Cromwell sarebbero stati tre; mentre un’altra voce diffusasi in paese li riduce a due, austriaci. L’autore preferisce tuttavia concentrarsi su una piastrina rinvenuta da don Vangelisti tra le ceneri delle vittime falciate sulla piazza della chiesa, poi esposta al museo di Sant’Anna: la cui sigla rimanda a un ex prigioniero di guerra italiano, reduce dal campo polacco di Hohenstein, riguardo al quale è andata perduta ogni documentazione. Com’è noto, una volta costituita la RSI i nostri militari finiti prigionieri del Reich dopo l’8 settembre furono posti di fronte a una scelta: continuare a combattere al fianco dei tedeschi, optando tra l’esercito repubblichino e le Waffen-SS, oppure rimanere nei campi di concentramento. Evidentemente quel nostro anonimo connazionale era stato tra i 23.000 che avevano scelto la divisa germanica; del resto lo stesso Simon al processo Reder affermò che “un gran numero di italiani era in forza ai reparti delle retrovie della 16a Divisione”.

Secondo l’ipotesi fatta da Paoletti, il nuovo ordine intervenuto nel corso dell’operazione sarebbe “stato sentito dal volontario come un sopruso alla sua dignità di italiano e di soldato: e sarebbe verosimile che di fronte a questo rifiuto di un ex prigioniero di guerra italiano le Waffen-SS non abbiano esitato a far fuori anche il camerata”. Per quanto la procedura più corretta sarebbe stata quella della sua denuncia al tribunale di guerra; ma come stupirsi che in un contesto del genere si sia proceduti sommariamente, nei confronti di un insubordinato e perdipiù italiano? “Possiamo perciò immaginare che, informato via radio del caso d’insubordinazione, il comandante di battaglione abbia ordinato l’esecuzione del soldato”. Al quale va tutta l’ammirazione dell’autore: “Ecco dunque un collaborazionista che in piena coscienza compì un gesto di supremo coraggio riscattando la sua dignità di italiano”.

Se il numero delle persone risparmiate risulta assai più alto in confronto alle altre stragi, diversa appare anche la tempistica nell’attuazione dell’eccidio. Negli altri casi – che riguardino paracadutisti, truppe corazzate, Waffen-SS o fanteria – “nessuno pone tempo in mezzo nell’esecuzione dell’ordine: si trae la gente fuori dalle case, la si raduna davanti a un muro e si spara. Gli spari iniziano subito, dopo la comparsa in cielo dei razzi luminosi o dopo l’ordine dell’ufficiale, perché tutti sanno in precedenza quali sono gli ordini”.

La carneficina si abbatte solo su alcune borgate di Sant’Anna, facendo registrare il maggior accanimento alla Vaccareccia e sulla piazza della chiesa. La prima località paga il fatto che lì sia avvenuto il ferimento del presunto graduato; la seconda rappresenta “l’altro simbolo della tragedia, il centro riconosciuto dalle comunità sparse nella conca. Qui si raccolgono gli abitanti di Pero e Sant’Anna: non a caso i due luoghi più vicini a quello dell’attentato”, ossia il colpo di fucile. Vi fu dunque una discriminazione tra le varie borgate; questo perché l’eccidio doveva riguardare un’area ristretta e ben delimitata, collocata nel versante occidentale del comune di Stazzema, “al centro della conca e risparmiando i bordi”.

Secondo la testimonianza di uno scampato che si trovava assieme a una trentina di persone tra Mulini e Valdicastello, anch’esse sequestrate dalle SS e con i mitra puntati addosso, la critica situazione fu risolta dall’arrivo di un ufficiale tedesco che, scendendo di corsa dal sentiero per La Culla, gridò ai soldati: “Halt! Pietrasanta!”, volendo a suo avviso significare che quell’esecuzione non poteva avere luogo trovandocisi in un altro comune rispetto a quello da castigare. Anche in questo caso tuttavia la sorte giocò un ruolo determinante, almeno stando a un altro sopravvissuto che riporta la voce secondo la quale l’ordine di sterminio avrebbe riguardato il territorio stazzemese fino ai Mulini, ma escludendo tale località: “Ma il comandante, zelante, vi aveva incluso anche quello: e così la mugnaia e la sua famiglia furono uccise senza pietà”.

Tutto ciò porta Paoletti a riaffermare la mendacità del bollettino della 14a Armata del 13 agosto, non più sulla sola base delle stesse carte tedesche ma alla luce dei fatti acclarati. A Sant’Anna il giorno prima non v’era stata alcuna “operazione contro le bande”: “Se si volevano colpire le basi che approvvigionavano i ribelli si sarebbero dovuti colpire gli insediamenti abitativi più prossimi a quelli partigiani, cioè l’Argentiera, Bambini e Sennari. Invece questi gruppi di case rimangono intatti, mentre i luoghi dell’eccidio sono Franchi, Case, Sant’Anna, sotto al Colle, Coletti di sotto e Mulini, località dove non erano mai arrivati i partigiani”. Al tempo stesso “è chiaro che quel colpo di fucile alla Vaccareccia cambiò i connotati originari dell’operazione e che i comandanti avevano tutto l’interesse a far rientrare il loro operato nella prassi consolidata della “lotta contro i banditi””. Quindi “solo nella tesi della reazione a caldo quadrano tutti i tasselli del mosaico. I tedeschi sentendo partire il colpo attribuirono la responsabilità della fucilata alla popolazione e non ai partigiani. A Sant’Anna mancava un comandante che prendesse in mano la situazione e chiarisse subito che si era trattato di un incidente isolato”.

Riassumendo, a questo punto potremmo dire che le sfortune dei martiri di Sant’Anna non si contano più. La prima è che abitassero, o fossero sfollati, in un’area dai tedeschi considerata cruciale in prospettiva del consolidamento della Linea Gotica. La seconda che nei suoi pressi si fossero insediate formazioni partigiane, dando vita ad azioni di guerriglia che resero necessaria la “bonifica” del territorio e quindi l’allontanamento della popolazione. La terza che quel disgraziato alla Vaccareccia accogliesse i militari con una schioppettata. La quarta che a capo dell’operazione fosse un inetto, un comandante senza attitudine al comando che forse per mostrare ai superiori il proprio zelo non seppe risolvere la situazione autonomamente, dando all’episodio il giusto peso e agendo di conseguenza. La quinta che l’esiziale decisione venisse presa da ufficiali che essendo SS non potevano che essere dei fanatici della dottrina nazista: e quindi dei fedeli esecutori della teoria dello sterminio di massa, privi di alcuna remora nel mandare a morte centinaia di persone per il gesto di un incosciente.

“Due uomini, in pochi minuti, con lucida determinazione e insieme con sconcertante freddezza di fanatici nazisti, decisero di ordinare un massacro senza regole e senza limiti. Un ordine assoluto al di sopra della pietà e di Dio, ma perfettamente in linea con le direttive di Kesserling e Lemelsen: dopo quel ferimento vecchi, donne e bambini diventavano immediatamente complici dei partigiani ed equiparati a loro. Quel civile che sparò quell’inutile, disperato, insensato colpo di fucile, quell’unica, isolata pallottola, non era l’avanguardia di un attacco partigiano, e le Waffen-SS ebbero tutto il tempo di valutarlo; ma nonostante ciò, passarono a una rappresaglia “a caldo”, che per numero di vittime non ha riscontri in tutta la seconda guerra mondiale. Un militare che aveva fatto lotta antibande non poteva scambiare un colpo di fucile isolato con l’inizio di un attacco partigiano, e ormai quel battaglione conosceva come avvenivano le imboscate partigiane: per cui non potevano non capire che i partigiani non avevano niente a che fare con quella fucilata. Eppure si scatenarono come iene assetate di sangue.

“La strage di Sant’Anna si configura dunque come un’efferatezza scellerata da parte di due vergognosi ufficiali che a nostro giudizio si sono dimostrati ancor più criminali di Reder: non avevano alcun ordine superiore da rispettare né l’obiettivo di sgominare una banda partigiana. Ecco perché questo crimine è peggiore di una qualsiasi “operazione contro i banditi”, alla Reder, dove dietro ordine si massacrano civili con la scusa di colpire i partigiani: perché qui Gesele e Göllnitz sapevano che si sarebbe sparato solo su civili innocenti, senza che i partigiani avessero fatto alcuna imboscata. Non è assolutamente pensabile che il sottufficiale chiamato momentaneamente a comandare la compagnia abbia preso una decisione di tale gravità senza aver consultato il suo superiore, in questo caso lo stato maggiore del battaglione. Ugualmente non è credibile che il comandante di questa unità, a sua volta, non abbia interpellato il suo superiore. In virtù di questo ragionamento di logica militare, Gesele e Göllnitz sono i due unici “mandanti” del massacro”.

Cinque risultano perciò le aggravanti che consentono all’autore di “augurarsi che Reder non resti l’unico criminale della 16a Divisione SS”. “Innanzitutto l’incidente non avviene in prossimità del fronte, bensì lontano una ventina di chilometri in linea d’aria. I due ufficiali non devono rispettare alcun ordine superiore di “lotta contro le bande” ma sono loro che coprono il loro massacro con la formula “operazione contro i banditi”, che infatti compare nel bollettino della 14a Armata e nel lasciapassare del comandante di squadra. Scelgono da soli di violare ogni legge di guerra e di umanità. I due scatenano scientemente la bestialità dei loro uomini, anche se il loro ordine risulterà incomprensibile a molti soldati: lo dimostra il fatto che molti militari lasciarono andare i civili. Non esiste una norma specifica che riguarda la rappresaglia per il ferimento di un soldato: il rapporto di 1 a 10 valeva per ogni soldato ucciso!”.

I partigiani  Decisamente interessante anche il capitolo dedicato ai partigiani. Paoletti ricorda anzitutto quanto avvenuto in occasione del primo anniversario della strage, allorché la popolazione santannina rifiutò la partecipazione alla commemorazione dei “patrioti”, accusandoli esplicitamente di essere stati la causa – diretta o indiretta è tutto da vedere – dell’eccidio. È questo un destino comune a tutto il territorio apuano: gli abitanti dei paesi martoriati dai massacri nazifascisti seguiti ad attentati partigiani non ebbero dubbi nell’individuare in coloro che sparavano ai soldati tedeschi per poi sparire nel nulla ed esporre la gente del luogo ai rischi più gravi i veri responsabili delle terribili rappresaglie.

Com’è noto, il fronte resistenziale ebbe una composizione estremamente variegata, ricomprendendo militanti di ogni tendenza politica il cui collante era rappresentato dall’antifascismo; il colore del fazzoletto che portavano al collo – rosso, verde, azzurro – segnalava l’orientamento ideologico della formazione di appartenenza. Preponderanti dal punto di vista numerico erano le Brigate Garibaldi, facenti capo al Partito comunista, e i gruppi di Giustizia e Libertà, organizzati dal Partito d’azione. Assai differenti risultavano anche i rispettivi obiettivi e strategie: mentre i “garibaldini” attribuivano alla propria lotta una finalità rivoluzionaria, puntando a instaurare in Italia un regime comunista ispirato al modello sovietico, gli altri intendevano dar vita a uno stato democratico, saldamente ancorato alle Potenze occidentali. Conseguentemente da un certo momento in poi gli Alleati subordinarono i propri rifornimenti a una discriminazione che voleva privilegiate le formazioni loro allineate, lasciando invece a bocca asciutta quelle comuniste, onde evitare che le armi fornite per combattere il nazifascismo potessero un domani essere rivolte contro di loro.

Ma la divergenza più significativa stava sul piano operativo. Laddove le componenti cielleniste filoccidentali mettevano al primo posto la tutela della popolazione, astenendosi perciò dall’aggredire i soldati e limitandosi a “punture di spillo” (quali attentati a tralicci, ponti, teleferiche ecc.), la prospettiva rivoluzionaria portava le Brigate Garibaldi a esasperare al massimo la situazione bellica, puntando in particolare a impedire che tra popolazione e occupante germanico si instaurasse un clima di pacifica convivenza. Donde i continui agguati che, se da una parte non spostavano di un millimetro gli equilibri delle forze in campo né accorciavano di un solo minuto la durata del conflitto, dall’altra esponevano i civili alle puntuali quanto efferate ritorsioni teutoniche.

Emblematico nel suo cinismo quanto scritto al CLN nel gennaio ‘44 dal comandante supremo dei partigiani comunisti Luigi Longo a giustificazione della tattica adottata dalle sue brigate. “Il criterio se il nemico con le sue rappresaglie e la sua reazione ci potrà portare colpi ancora più duri non può essere preso in considerazione. È l’argomento di cui si servono gli attendisti, ed è sbagliato, non perché, caso per caso, il loro calcolo non possa corrispondere a verità, anzi in astratto esso è sempre giusto, perché è evidente che se il nemico vuole, caso per caso, ci può sempre infliggere più perdite di quante noi ne possiamo infliggere a lui. Ma il fatto è che la convenienza o meno della lotta non si può misurare col metro del caso per caso: la lotta partigiana, la lotta dei patrioti si deve valutare sempre e solo nel quadro generale politico e militare della lotta contro il nazismo e il fascismo. Il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi fucilati, ma si devono considerare tutte le misure di sicurezza che il nemico deve prendere, tutta l’atmosfera di diffidenza e di paura che questo crea nelle file nemiche, lo spirito di lotta che queste azioni partigiane esaltano nelle masse nazionali”.

Dal canto loro i tedeschi tenevano una linea ben precisa. Se i banditen se ne restavano in disparte, nei loro rifugi e nascondigli, senza venire a molestarli, ne ignoravano la presenza, considerandoli per quelli che sostanzialmente erano: ossia renitenti alla leva di Salò o disertori. Se avvenivano attentati a strade, ferrovie, strutture, poteva passare guai più o meno seri chi abitava nelle immediate vicinanze del luogo, a seconda delle circostanze. Qualora invece si sparasse sui soldati, le direttive non lasciavano scampo, scatenando le rappresaglie più efferate. A Sant’Anna si era creata una situazione del tutto particolare; non tanto perché i ribelli dislocati nei paraggi – almeno fino al 31 luglio – avessero compiuto atti particolarmente cruenti, quanto perché la loro semplice presenza in quei boschi era di ostacolo alla sicurezza della linea difensiva che da come si erano messe le cose rappresentava per il Terzo Reich l’ultima speranza di resistenza.

Dopo avere ricostruito le vicende partigiane stazzemesi del luglio-agosto ‘44 con la consueta puntualità, l’autore si concentra sul “falso problema del volantino o dei due manifesti partigiani”. La vicenda appare meschina, per certi aspetti squallida; sicuramente essa non fa onore all’obiettività storica. Dopo che per decenni si era cercato di anticipare la fuga dei ribelli da quelle montagne onde sollevarli dall’accusa di avere in qualche modo contribuito al compiersi del massacro, nel ‘79 il premio letterario “Martiri di Sant’Anna” fu assegnato a un ex “patriota” autore di un saggio nel quale – a detta della giuria – si dimostrava la falsità del dattiloscritto affisso sulla porta di un’abitazione prospiciente la piazza della chiesa di Sant’Anna a fine luglio ‘44 (le testimonianze divergono leggermente sulla data).

Firmato dal Comando delle brigate d’assalto Garibaldi e rivolto “alla popolazione versiliese”, esso recitava: “Dopo aver fatto dell’Italia un orrendo campo di battaglia con tutti i suoi lutti e le sue miserie, i nazisti vogliono ora completare la loro nefanda opera di distruzione con l’esodo in massa di tutta la popolazione. Fino ad ora i tedeschi avevano attuato la deportazione per il lavoro forzato dei soli uomini. MA LA BELVA NAZISTA NON È MAI SAZIA! Ora vogliono perseguitare anche le donne, i vecchi e i bambini imponendo loro con bando criminale di allontanarsi dalle proprie case, dalla propria terra per seguire tra sevizie e miserie le disfatte divisioni di Hitler verso il Brennero. POPOLO DELLA VERSILIA! Non obbedite agli ordini dei barbari tedeschi: le donne, i vecchi, i bambini non abbandonino le loro case e facciano resistenza passiva. Tutti gli uomini si armino con ogni mezzo, dal fucile da caccia al forcone: gli eserciti della liberazione sono ormai a pochi chilometri, le formazioni partigiane sono pronte all’azione e risponderanno alle rappresaglie con le rappresaglie. ALLE ARMI POPOLO VERSILIESE! La tua libertà e la tua salvezza sono nelle tue mani. Morte al tedesco oppressore!”.

Un appello evidentemente folle, che diviene agghiacciante qualora si dia credito alla versione paolettiana che vuole l’eccidio attuato proprio a seguito dell’esplosione di un colpo di fucile (verosimilmente da caccia); ovvio che alla luce di quanto avvenuto esso fosse diventato estremamente scomodo per la parte che lo aveva diffuso. Ma a smentire autore del saggio e giuria pensò nell’84 lo stesso Bandelloni, mediante una testimonianza che non avrebbe potuto avere un contesto più istituzionale: la pubblicazione per il quarantennale della strage. Altre legnate per il mistificatore e i suoi incensatori giunsero successivamente, nel nuovo clima politico e storiografico affermatosi negli anni Novanta: la prima venne dall’ex garibaldino che in un’intervista riconobbe di avere battuto a macchina il volantino in questione; la seconda da Cipollini, il quale ribadì l’autenticità del documento specificando che esso “si inseriva perfettamente nel contesto maturato a livello nazionale e locale”.

La ricerca effettuata ha portato Paoletti ad accertare che in realtà i manifesti esposti dai partigiani furono due: “uno piccolo, dattiloscritto, affisso sulla porta della casa della Sofia, e uno grande, manoscritto, in stampatello, appeso al portone della chiesa”. Che la finalità della duplice iniziativa fosse la medesima è ricavabile dalla testimonianza resa da don Vangelisti alla commissione americana: “La mattina del 30 luglio, una domenica, i partigiani attaccarono un foglio alla porta della chiesa dove si diceva che i civili non dovevano evacuare dal paese”. Perché allora due appelli dello stesso tenore, affissi l’uno davanti all’altro? Assodati i disaccordi interni alla brigata locale, l’autore ipotizza che quello scritto a mano sia stato pubblicato dal gruppo che faceva capo allo stesso Bandelloni.

Per poi ritornare sull’altro, valutarne il testo come “infelice, demagogico, velleitario e retorico” e gettare sul Comando garibaldino pesanti accuse. “L’invito alla rivolta popolare non veniva dai comandanti partigiani che conoscevano la potenza delle armi tedesche, ma dai commissari politici che dimostrarono di avere una visione astratta del complesso rapporto della lotta armata e delle rappresaglie contro le popolazioni civili. Balestri, il comandante della brigata, era contrario all’affissione del volantino, ma questo venne affisso egualmente. L’aspetto più grave del suo contenuto è che i responsabili partigiani dovevano rendersi conto che le formazioni patriottiche non erano ancora “pronte all’azione”, come invece dichiaravano con tanta sicumera. Le reali capacità operative dei partigiani erano ancora legate alla tattica del “mordi e fuggi””. Quella di “rispondere alle rappresaglie con le rappresaglie” non era che una “vacua minaccia”, che implicitamente testimonia la coscienza da parte dei ribelli sia che i tedeschi compivano ritorsioni terrificanti, sia che le azioni di disturbo, ma anche la semplice presenza partigiana, vi esponevano i civili. Per cui “sfidare i tedeschi sul piano delle rappresaglie significava quanto meno esporre la popolazione a gravi rischi. Allo stesso tempo questi proclami finivano con l’illudere i civili e gli stessi partigiani, i quali non avevano ancora la forza militare per poter far seguire alle minacce le ritorsioni contro i tedeschi, ma potevano solo difendersi e infliggere perdite se attaccati sul loro campo di battaglia: le montagne”.

Viene quindi ipotizzata la sequenza dell’episodio riportato da Cromwell: “I partigiani della X bis il 29 luglio attaccano il loro manifesto scritto a macchina, poi il 7 agosto i tedeschi lo strappano e affiggono il loro, con l’ordine di sgombero, ma i partigiani di Bandelloni scendono a Sant’Anna, strappano a loro volta quello tedesco e lo sostituiscono con uno scritto a mano”. In ogni caso, “questi volantini non ebbero alcun peso sulla decisione tedesca di far sgomberare la popolazione di Sant’Anna: l’ordinanza di sfollamento interessava tutte le frazioni del comune di Stazzema! Tanto meno i manifestini potevano influire su una decisione grave come un massacro indiscriminato. L’unica vera reazione provocata dai manifestini fu quella di innescare un processo di riflessione e di critica all’interno della formazione partigiana”.

Se dunque tali appelli non avrebbero avuto alcuna influenza sull’iniziativa germanica, un’altra questione getta delle ombre sul comportamento dei ribelli. “Perché l’affissione del volantino-manifesto, che implicitamente estendeva la “garanzia” della protezione dei partigiani anche ai santannini, avveniva quasi contemporaneamente alle decisioni del comando della Brigata Garibaldi di abbandonare la zona e di trasferire il grosso della banda verso il Lucese? I partigiani sapevano benissimo che quei manifesti avrebbero acceso speranze, che sarebbero state di lì a pochi giorni deluse, se se ne fossero andati. Quell’improvvisa partenza, subito dopo l’affissione di quel proclama, non poteva non causare cocenti delusioni tra i santannini, che si sarebbero sentiti abbandonati e quindi traditi. Anche il fatto che il volantino sia stato battuto a macchina il 20 luglio [come testimoniato dal partigiano dattilografo] non toglie il fatto che sia stato affisso il 29 luglio, alla supposta antivigilia, comunque a ridosso, della partenza del grosso della brigata (1° agosto)”.

Nella sua oggettiva ricostruzione dei fatti, se da una parte l’autore esenta i partigiani del Gabberi da ogni responsabilità diretta o indiretta nella strage (“purtroppo essi non sapevano di trovarsi nell’area più delicata a ridosso delle linee di resistenza tedesche”), dall’altra rimarca alcune “leggerezze” da loro commesse, attribuendole all’inesperienza. Il primo errore fu di non comprendere che gli ordini di sfollamento riguardanti la popolazione stazzemese erano identici a quelli impartiti agli abitanti del Cinquale o dell’Altissimo: dovevano sgomberare in quanto vicini alla Linea Gotica. Improvvidi anche gli attentati ai ponti del 4 agosto, i quali dimostrando la consapevolezza in chi li compì di creare disagi al rafforzamento della Gotica rappresentano implicitamente un’accusa di avere fomentato la reazione degli occupanti. Imperdonabile poi il fatto che la X bis si fosse fatta infiltrare da più di una spia tedesca.

Per non parlare del fatto in assoluto più grave. “Anche quei partigiani che nel pomeriggio del 31 luglio, andando contro la richiesta della popolazione di Farnocchia, attaccarono soldati tedeschi (che avevano concesso una proroga nell’ordine di sfollamento) e ne uccisero tre non fecero un buon servizio agli abitanti del paese e a se stessi. Per timore della rappresaglia, che puntualmente avvenne l’indomani, Farnocchia venne abbandonata in massa, così che quella povera gente, se anche avesse voluto, non avrebbe più potuto aiutare i partigiani”.

Ma c’è un altro aspetto sul quale Paoletti si sofferma: il fatto che nella brigata garibaldina venissero accolti elementi della peggiore risma, compresi galeotti ed ergastolani evasi dal carcere di Massa in occasione del bombardamento del 17 luglio ‘44. A dire il vero le ruberie da parte dei “patrioti” erano cominciate già da prima, all’inizio di luglio, stando a quanto dichiarato da Cesira Pardini: “A Coletti erano venuti i partigiani e ci avevano portato via di tutto: olio, vino, formaggio… Uno di loro voleva a tutti i costi un cannocchiale di mio padre; ma mia sorella tira e molla non glielo fece prendere. Avevamo tanta frutta nel terreno che coltivavamo: i partigiani venivano e la prendevano. C’era tuttavia anche chi si fingeva partigiano”.

Il fatto che bastasse portare un fazzoletto rosso al collo per sentirsi autorizzati a compiere qualsiasi malefatta è rimarcato anche da don Vangelisti. “Era difficile capire se quanti si presentavano per primi, con le armi bene in vista, a prendersi la frutta, la verdura, la carne fossero o si fingessero partigiani. Ancor oggi si trovano persone rapinate di scarponi, cibo o altro da “partigiani” che non ascoltavano ragioni. Ma è difficile credere che chi prendeva qualcosa con la minaccia delle armi fosse un vero partigiano. Sta di fatto che Timoscenco, a metà agosto, insieme a un suo degno compagno di carcere, con le armi della Banda Bandelloni continuava a rapinare la povera gente, disonorando tutti i partigiani”.

Al di là dell’ingenuità che portava il sacerdote a considerare tutti i ribelli alla macchia alla stregua di galantuomini, resta la leggerezza con cui Bandelloni non solo equiparò gli ultimi arrivati agli altri, ma addirittura li valorizzò sfruttandone la natura criminale per farne una sua guardia personale di “pretoriani”, secondo la felice espressione utilizzata da Viviani. Il quale ci riporta anche un episodio esemplificativo dell’indulgenza accordata dal comandante a tali banditi (nel senso letterale del termine) anche dinanzi a episodi di violazione delle consegne: “Quando fui incaricato di scoprire come mai i tedeschi il 28 o il 29 luglio riuscirono ad attaccarci di sorpresa sul Montornato, venni a sapere che il Fabbri [uno degli ex detenuti], come del resto il suo degno compagno Timoscenco, aveva lasciato incustodito il suo posto a Capriglia per darsi allo spasso con facili donnine e per ubriacarsi”. Si pensi solo che per casi di questo genere la giustizia partigiana prevedeva la condanna a morte.

Dopo la batosta dell’8 agosto i due raggruppamenti che facevano capo alla Bandelloni si sbandarono; sul Gabberi rimasero comunque una settantina di partigiani, capeggiati dallo stesso seravezzino e sparpagliati in diversi gruppetti: accorgimento che probabilmente consentì loro di sfuggire all’osservazione tanto dei tedeschi quanto delle loro spie locali. Nel testo sono riportate alcune testimonianze di santannini che, nell’incontrare ribelli in procinto di andarsene, fecero notare loro in quali guai avessero cacciato la popolazione, rinfacciando al contempo la promessa fatta di rimanere a difenderla.

Sulla stessa falsariga il severo giudizio formulato da Graziani: “Gli eroi della Resistenza, i salvatori della Patria, i liberatori dal giogo nazifascista ebbero paura e, quatti quatti e senza far rumore, lasciarono ignara di tutto e allo scoperto la popolazione, sotto i colpi e la rabbia della rappresaglia tedesca”. Secondo tale autore la difesa del villaggio sarebbe stata militarmente possibile, piazzando mitragliatrici agli sbocchi dei quattro sentieri-mulattiere dai quali vi si accedeva, in modo da “tenere a bada e impedire ai tedeschi di raggiungere il paese”. Ma Graziani – commenta Paoletti – “dimenticava che quattro mortai sarebbero stati sufficienti per spazzar via le difese partigiane, come successe l’8 agosto”.

Pesante anche quanto riportato da Donatella Francesconi: “A Sant’Anna un contadino che perse nell’eccidio moglie e figli mi ha raccontato di aver visto quel 12 agosto un gruppo di partigiani sdraiati in un uliveto che non intervennero perché avevano ricevuto l’ordine di non farlo. E un capo partigiano – che mi ha chiesto di non essere citato – mi ha fatto capire che c’erano dei dissensi interni alle formazioni e che forse si sarebbe potuto tentare di evitare l’eccidio”. Ciononostante Paoletti conclude: “La presenza di partigiani nell’area intorno a Sant’Anna fu costante ma ininfluente sul destino della popolazione. La loro decisione di non attaccare e di non intervenire a difesa dei santannini fu saggia perché non sarebbe servita a evitare il massacro”. Anzi: un attacco effettuato nella fase in cui si stava procedendo all’incruento rastrellamento avrebbe con ogni probabilità provocato esso stesso la strage.

Dopo che i tedeschi se ne furono andati, alcuni partigiani raggiunsero i luoghi della carneficina, seppure con intenti diversi. Vi fu chi estrasse dal rogo della Vaccareccia due anziane donne miracolosamente sopravvissute tra i cadaveri; ma anche chi compì il gesto più nefando: quello di depredare i corpi delle vittime. Secondo la testimonianza di Amos Moriconi, si trattava proprio dei galeotti che facevano da guardaspalle al capobanda: “Mentre stavo seppellendo i miei cari vidi i partigiani; erano due. Uno lo conoscevo bene da tempo: era un milanese che si faceva chiamare Timoscenco. Si avvicinarono a me: notai subito che avevano le tasche piene di portafogli, oggetti d’oro e d’argento; se ne erano infilati anche dentro la camicia. Li guardai senza parlare; Timoscenco allora mi disse: “Devi consegnarci tutti i soldi e gli oggetti di valore che trovi sui morti. Siamo noi che dobbiamo prenderli in consegna”. Mi sentii salire il sangue alla testa; impugnai la piccozza e la alzai di scatto: “Vattene”, gli dissi, “vai via se non vuoi che ti spacchi il cranio”. Timoscenco esitò un momento e poi, senza replicare, si allontanò”.

Della “contabilità” che caratterizzava la spoliazione dei cadaveri da parte di questi delinquenti ci ragguaglia ancora Graziani, riferendo di un partigiano il quale, il 14 agosto, “ci mostrò un quadernetto dove scriveva tutto quello che poteva trovare sul posto, dovendolo portare al “comando partigiano” per essere poi consegnato ai vari proprietari” e specificando che in ciascuna borgata in cui si erano registrate vittime altri componenti della banda operavano “con lo stesso quadernetto e lo stesso scopo”. Da quel “comando”, però, nulla sarebbe tornato indietro, stando al sarcastico commento dello stesso superstite: “Nobile gesto di “razzia”: perché nessuno, di chi era a Sant’Anna, ha rivisto qualche cosa!”.

Nell’84 Bandelloni si sarebbe premurato di minimizzare gli atti di sciacallaggio compiuti dai suoi “ragazzi”, ma confermandone implicitamente la realtà: “Da me vennero questi ragazzi a dire quello che avevano trovato in terra (dell’oro), dissi loro di non toccare niente, e quello che fu trovato l’ho fatto riavere a chi di dovere, cioè a don Vangelisti”. Conclude Paoletti: “Sicuramente mancò nella Brigata Bandelloni il controllo dei commissari politici per cui, accanto a gesti di generosità e altruismo, ve ne furono altri deplorevoli. E anche questo contribuì ad alienare la simpatia della popolazione verso i partigiani”. Come del resto pubblicamente ammesso anche da uno di loro, il caposquadra Aldo Berti, le cui parole appaiono più esplicite rispetto a quelle utilizzate dall’autore: “Non è che la gente dei monti fosse molto generosa con noi: anzi, a dirla con franchezza, ci vedeva come il fumo negli occhi”.

Il 17 agosto sarebbe rientrato anche il gruppo che si era sganciato: “evidentemente – commenta Paoletti – ritenevano il Gabberi un nascondiglio sicuro: come quelli che si rifugiavano nel cratere di una bomba durante un attacco aereo, certi che nello stesso punto non sarebbe ricaduto un altro ordigno”. Di lì la ricomposta formazione avrebbe ripreso le spedizioni al piano per compiere azioni di disturbo; fino alla “liberazione” (ossia l’arrivo degli Alleati susseguente la ritirata germanica), il 17 settembre di Camaiore, il 19 di Pietrasanta.

 

Bandelloni e i dissensi con la Brigata “Lombardi”  Un po’ controversa appare la questione dell’abbandono della Brigata “Lombardi” da parte del Gruppo Bandelloni: argomento che lo stesso comandante seravezzino evitò di affrontare nella relazione sull’attività della banda redatta nel ‘45. Ma vediamo anzitutto la ricostruzione dei fatti offertaci dalla pubblicazione che fa la cronistoria delle vicende partigiane. “18 luglio 1944: viene costituita la X bis Brigata Garibaldi “Gino Lombardi”, cui aderiscono tutte le formazioni versiliesi. Schierata tra il monte Gabberi e il monte Ornato, la Brigata comprende tre compagnie di circa 120 uomini […]. Comandante è Ottorino Balestri, commissario politico Alvo Fontani, addetto ai rifornimenti Lorenzo Bandelloni. 27-31 luglio: un grosso rastrellamento investe la zona occupata dalla Brigata. 1° agosto: terminato il rastrellamento, la Brigata si sposta nel Lucese. 8 agosto: i Tedeschi attaccano i partigiani della “Bandelloni”, rimasti sul monte Gabberi. […] Nel Lucese viene deciso lo scioglimento della Brigata e la costituzione di tre formazioni più snelle, secondo l’adesione spontanea dei partigiani. Nascono la “Marcello Garosi” […] attestata sul monte Pedone; la “Gino Lombardi” […] dislocata sul Prana; la “Bandelloni”[…] alla Foce di San Rocchino”3. L’intitolazione della brigata a Lombardi intendeva rendere omaggio al valoroso antifascista di Querceta, precursore della lotta partigiana con la formazione dei “Cacciatori delle Apuane”, caduto ventiquattrenne sotto il fuoco tedesco a Sarzana il 24 aprile ‘44.

Pur nella sua asetticità la cronaca ci suggerisce due cose. Inizialmente, nell’aderire alla “Lombardi” quei partigiani avevano compiuto, più o meno convintamente, una precisa scelta ideologica, avendo accettato di combattere sotto l’egida della stella rossa garibaldina: il solo nome di Fontani, esponente di spicco del PCI fiorentino nonché commissario politico dei GAP, testimonia inequivocabilmente della caratterizzazione della brigata. Mentre sulla successiva scissione – qui attribuita a motivi contingenti, dettati dall’accresciuta pressione germanica – poterono influire anche fattori di ordine pratico e forse ideale, se è vero che il nome della primitiva formazione fu mantenuto da quella attestata sul Prana (comandata dallo stesso Balestri) a sottolinearne la continuità dell’orientamento politico.

Nel tentativo di fare chiarezza, e mancando la testimonianza in merito dello stesso Bandelloni, Paoletti si affida alle altre fonti partigiane, rilevando che al momento in cui il Comando di brigata decise lo spostamento della formazione nel Lucese tra i militanti “si accese un dibattito molto aspro, addirittura lacerante, tant’è che Bandelloni, “Villa” [Loris Palma] e altri si rifiutarono di seguire la brigata e ne crearono un’altra. La proposta avanzata dal commissario politico non ammetteva compromessi: occorreva obbedire agli ordini, perché le direttive seguivano gli interessi generali della brigata e non quelli particolari e contingenti. Ma il Bandelloni e i suoi – tutta gente meno o per niente politicizzata – si chiedeva se era più importante seguire disciplinatamente le istruzioni dei politici o essere coerenti con lo spirito della Resistenza e con la lettera del manifestino. Molti dicevano: come si può abbandonare al proprio destino chi ci ha sfamato fino ad oggi? Ma il contrasto era sostanzialmente di natura politica: tra comunisti e non comunisti”. Una lettura avvalorata dalla testimonianza del presidente comunista del CLN camaiorese di Casoli, Leonardo Di Giorgio, al quale il commissario politico della “Lombardi” intimò: “Sono rimasti sul Gabberi Bandelloni e Villa. Siccome sono dei monarchici, specialmente il Villa, ti proibisco, in nome del partito, di occuparti di loro”.

Ma allora com’era stato possibile che dei monarchici, dei partigiani “azzurri” avessero aderito a una brigata esplicitamente comunista, per poi “ravvedersi” solo in un secondo momento? Per comprendere tale passaggio occorre fare un passo indietro e tornare al momento in cui, dinanzi al fallimento dei reiterati “bandi Graziani” emanati dalla RSI e all’esplosione del fenomeno delle bande partigiane – favorito anche dall’avvento della bella stagione – gli angloamericani avevano preso coscienza del pericolo rappresentato da tali gruppi anarcoidi, irrequieti e faziosi, nei quali puntualmente il PCI, bruciando sul tempo le altre componenti del CLN, aveva insediato un commissario politico, allo scopo di fare proselitismo. Non dimentichiamo che la dittatura aveva represso la circolazione di ogni idea che non fosse quella fascista; di conseguenza la grande maggioranza di quei renitenti alla leva era completamente a digiuno di questioni ideologiche, avendo quale principale obiettivo quello di evitare sia il plotone d’esecuzione repubblichino che di andare a combattere (e a morire) per Mussolini e Hitler.

Contestualmente, l’avvicinamento della Quinta Armata ai contrafforti appenninici – e quindi alla Linea Gotica – determinò una dinamica bellica del tutto nuova: venendo l’avanzata alleata rallentata sia dall’asperità del territorio che dalla profondità delle linee difensive approntate dai tedeschi, si rendeva necessario per i conquistatori avviare una collaborazione con questi ribelli alla macchia che avevano preso possesso di tali luoghi impervi, che conoscevano a menadito e che quindi avrebbero potuto rappresentare per gli stessi Alleati un valido supporto per scardinare le linee nemiche. Donde la decisione angloamericana di irreggimentare tali gruppi autonomi e indipendenti in formazioni militarmente inquadrate e nelle quali vigessero conseguentemente un ordine, una disciplina e una gerarchia; volontà di cui si fece portavoce il CLN, imponendo alle disordinate bande sparse per le montagne l’accorpamento in “brigate”. Particolarmente attivi si rivelarono in tale fase gli inglesi, paracadutando in prossimità di quei luoghi in cui la presenza partigiana era più rilevante sia ufficiali deputati a prendere in mano la situazione che radiotelegrafisti in grado di garantire quei collegamenti necessari a concordare tanto le azioni da compiere quanto le modalità dei rifornimenti aerei.

Si può quindi supporre che, allorché il CLN versiliese ingiunse ai vari gruppi attestati sulle Apuane meridionali di costituirsi in brigata, i capi di quei circa 360 uomini di cui parlano le cronache resistenziali si siano riuniti, abbiano discusso, forse votato, e che l’esito del confronto sia stato favorevole alla parte comunista: donde l’appellativo di “Garibaldi” assegnato alla formazione unitaria. A quel punto chi non era d’accordo dové abbozzare; ma riservandosi di riprendere la propria autonomia alla prima occasione, seguito dalla “truppa” che più che a un ideale restava fedele al proprio comandante, che all’inizio aveva accolto e armato quei giovani trasformandoli da sbandati in combattenti. In ogni caso i rifornimenti alleati ai gruppi poi confluiti nella “Lombardi” non vennero mai a mancare, con una serie di aviolanci iniziati già il 18 febbraio ‘44 e intensificatisi tra giugno e luglio.

Dobbiamo comunque rilevare che, se non era comunista, certamente Bandelloni applicò la giustizia sommaria tipica delle brigate garibaldine – spesso dettata da vendette personali e odio di classe – se è vero che per tutto il mese di luglio e ancora ai primi di agosto furono trucidati con quella crudeltà sul Gabberi parecchi repubblichini: altro che “addetto ai rifornimenti” della “Lombardi”! A dire il vero il seravezzino non andava tanto per il sottile nemmeno con i sottoposti che ne mettevano in discussione le decisioni; a cominciare da Viviani, contrario a rimanere sul Gabberi ritenendo che sganciandosi dal resto della brigata si sarebbero compromesse tanto la popolazione dei paesi limitrofi – dal momento che ad essa ci si sarebbe dovuti inevitabilmente rivolgere per procurarsi i mezzi di sostentamento – quanto le stesse possibilità di difesa: “Questa era anche l’opinione del CLN, e lo sostenni con forza: ma non vi fu nulla da fare”.

Il caposquadra ebbe a passare per questo un brutto quarto d’ora. “Me la fecero pagare: tant’è che il 7 agosto mi sentii svegliare dagli assertori della tesi che bisognava restare e mi trovai con dei fucili puntati addosso. Erano sette o otto: Fabbri e compagnia bella. Lorenzo Bandelloni, servendosi del Fabbri, mi voleva far fucilare; mi obbligarono a caricarmi sulle spalle uno zaino pieno di munizioni e mi portarono alla casetta della Mandria, vicino Farnocchia. Fortunatamente quando giunsi a Farnocchia arrivarono i tedeschi”, il pomeriggio dell’8 agosto. La stessa fortuna non ebbe un altro partigiano, Giuseppe Tellini, ucciso da Balestri sempre sul Gabberi il 2 agosto, pare per un atto di insubordinazione; il comandante uscì comunque assolto dal processo intentatogli dallo stesso tribunale partigiano.

Proseguendo nel suo tentativo di spiegare la decisione di Bandelloni di non seguire le direttive della “Lombardi” (e del CLN), Paoletti riporta quanto dichiarato dal comandante partigiano nell’84 a proposito della reazione avuta allorché gli fu fatto leggere il testo del manifesto del Comando garibaldino da affiggere a Sant’Anna. Stando alle sue parole il seravezzino si sarebbe rifiutato di approvare l’appello, considerandolo come “una provocazione: lo si sapeva che non si sarebbe riusciti a contenere l’offensiva tedesca, venivano in forze quelli”. Sobillare la popolazione a quel modo significava perciò condannarla a essere massacrata.

Ma secondo Paoletti si tratterebbe di una posizione assunta a posteriori, opportunisticamente: una dichiarazione di comodo rilasciata per il quarantennale dell’eccidio. L’autore argomenta doviziosamente tale contestazione, rimarcando anzitutto il fatto che nella lunghissima relazione vergata dallo stesso Bandelloni nel ‘45 l’eccidio di Sant’Anna non fosse neppure menzionato: vuoto che potrebbe essere sintomatico di una cattiva coscienza. È inoltre una contraddizione tra quanto detto dal comandante partigiano (“i tedeschi disponevano di mezzi e uomini nettamente superiori ai nostri: non si potevano sfidare”) e quanto fatto, “rimanendo con i suoi uomini nella zona da cui i tedeschi li vogliono assolutamente sloggiare. Come se volesse proteggere quegli sfollati e quella popolazione che lui stesso aveva dichiarato di non poter difendere. In pratica il 4 agosto Bandelloni lascia fare le stesse cose (distruzione di tre ponti e mantenimento del suo comando a San Rocchino) che aveva rimproverato agli altri il 29 luglio, contestando il volantino. Se dunque l’eccidio di Sant’Anna fosse stato una reazione tedesca alla persistente presenza partigiana nell’area delle loro linee di resistenza, allora gli uomini di Bandelloni sarebbero i veri responsabili di questa “provocazione” contro la Wehrmacht”.

Del resto – fa notare l’autore – “anche nella settimana tra il 24 e il 31 luglio, quando la Brigata “Lombardi” era tutta nell’area del Gabberi, essa aveva dovuto sempre sganciarsi di fronte agli attacchi delle forze assalitrici. L’errore di fondo del Bandelloni fu quello di sopravvalutare le proprie forze e di sottovalutare quelle del nemico: se anche avessero dispiegato al meglio i propri uomini non avrebbero mai potuto far fronte ad un massiccio attacco tedesco e proteggere allo stesso tempo la popolazione. Continuando questa discussione accademica si potrebbe sostenere che neppure l’intera Brigata “Lombardi” al completo avrebbe potuto fermare forze tedesche decise a distruggere quella formazione garibaldina o ad assicurarsi il controllo della fascia di sicurezza. La riprova è rappresentata da quanto fecero il battaglione di Reder e le altre unità della 16a Divisione Waffen-SS nei tre giorni a monte Sole contro la ben più potente e organizzata Brigata “Stella Rossa”. Purtroppo Bandelloni cominciò ad accorgersi del suo macroscopico errore solo l’8 agosto, quando “prese la batosta” sul Gabberi. Ma neppure nei giorni seguenti abbandonò la zona: per fortuna i tedeschi, che ormai avevano fatto rientrare le spie, non se ne accorsero”.

Oltre a non eseguire l’ordine del Comando di brigata di trasferirsi nel Lucese, il capo dei partigiani del Gabberi decise dunque di proseguire nelle provocazioni agli occupanti anche allorché la situazione si fu fatta incandescente; eppure Paoletti non lo pone sul banco degli imputati morali della strage. Anzi: “Le carte tedesche dimostrano che Bandelloni ebbe al contrario un merito: con la sconfitta subita l’8 agosto convinse le Waffen-SS che i partigiani erano stati per il momento debellati e che per evitare che potessero ritornare su quelle posizioni bastava allontanare la popolazione e distruggere le case. Per questo il pomeriggio dell’8 agosto incendiarono Farnocchia e il 12 partirono per fare la stessa cosa a Sant’Anna. Ma poi a Vaccareccia avvenne l’imprevisto”.

In pratica, con “la sconfitta della Brigata Bandelloni le Waffen-SS non hanno più motivo di uccidere chi “sostiene” i partigiani e si limitano a impedire l’eventuale ritorno dei “banditi” nella zona. Prove indirette possiamo trovare nel fatto che i tedeschi continuano a tener sotto controllo la fascia di sicurezza delle loro linee di difesa. Dopo l’episodio della Vaccareccia uccidono chiunque incontrino sul monte Ornato (13 agosto) e sul monte Gabberi. Il 13 agosto i tedeschi danno il permesso a don Vangelisti e ai suoi volontari di dar sepoltura alle vittime di Sant’Anna ma puniscono con la morte tre persone che inconsapevolmente si sono avvicinate alle loro linee di resistenza. Benché l’età delle tre vittime (tra i 46 e i 55 anni) garantisca loro che non si tratta di partigiani, tuttavia li passano per le armi. A nostro avviso, l’unica spiegazione plausibile per questi omicidi è questa: i tre si vengono a trovare “nel posto sbagliato al momento sbagliato””.

Altri particolari riportati nel saggio finiscono tuttavia per mettere in discussione l’indulgenza manifestata nei confronti del Gruppo Bandelloni partendo dal presupposto che esso non seguì il resto della brigata scegliendo di rimanere su quelle montagne “per ragioni politiche e sentimentali”. Testimonianze partigiane farebbero supporre che intento originario della “Lombardi” fosse proprio quello di difendere la gente di Sant’Anna da eventuali attacchi germanici; successivamente però dissensi di natura sia ideologica che tattica portarono alla frattura: “c’era chi credeva nella potenza delle armi partigiane e chi, al contrario, temeva che quella presenza mettesse in pericolo la popolazione”. Per cui che a presidiare il villaggio fosse rimasto proprio il comandante più convinto del fatto che i tedeschi “non si potevano sfidare” (e riferendosi all’intera brigata, non alla sua sola banda, per giunta dimezzata) appare come un’evidente contraddizione. Del resto è lo stesso Paoletti a osservare che “alla fine furono gli uomini di Bandelloni a mettere più a repentaglio la popolazione dell’intera X bis”. Per cui il giudizio da lui espresso sul comandante seravezzino appare contrastato: assolutorio per quanto riguarda le responsabilità nell’eccidio, di condanna per tutto il resto.

La speculazione sul numero dei morti  Nell’appendice che conclude l’articolato ed esaustivo saggio Paoletti affronta un argomento oltremodo riprovevole: la speculazione avvenuta sul numero delle vittime. In proposito egli ha ascoltato diversi testimoni oculari, a cominciare da due componenti il gruppo di volontari che il giorno successivo l’eccidio partì da La Culla assieme a don Vangelisti per dare una sepoltura ai morti di Sant’Anna: tutti costoro gli hanno riferito che i cadaveri non si potevano contare, essendo ridotti a un ammasso informe di ossa carbonizzate e carne putrescente.

Il primo elenco ufficiale delle vittime fu redatto il 16 ottobre ‘44 dalla Quinta Armata, distinto in due parti: gli “abitanti di Sant’Anna” deceduti nel massacro vi risultano 140, gli “sfollati” 86. Dunque un totale di 226 persone, allorché la Tagesmeldung germanica del 12 agosto aveva parlato di 270, per quanto spacciandoli per banditen; ma vi erano state altre uccisioni al Molino Rosso di Valdicastello, a Capezzano e a Mulina. Basandosi sui teschi rinvenuti, don Vangelisti stimò che sulla piazza della chiesa giacessero i resti di 132 persone, cui andavano aggiunte altre 6 trucidate dietro il campanile: fa notare Paoletti che coincidendo tale cifra sia con quella riportata nel rapporto Cromwell che – con una minima differenza – con quella dagli americani riferita ai santannini è più che probabile che la loro fonte sia stata lo stesso sacerdote. Il quale, nell’opuscolo ricavato dal suo memoriale, ripubblicato più volte negli anni (con lievi differenze sul numero dei morti), ebbe a stimare il totale degli assassinati in circa 430: dato che anche in questo caso viene sostanzialmente a coincidere con quello approssimativamente calcolato dal maggiore britannico.

A sua volta Graziani, alla luce di una capillare indagine condotta in tutte le borgate in cui si era ucciso, nel ‘45 stilò un elenco comprendente 333 vittime. Una cifra leggermente superiore a quella registrata all’anagrafe del Comune di Stazzema, secondo la quale i morti del 12 agosto furono 324; ciononostante, nel ‘47 la stessa amministrazione comunale decise di raddoppiarne il numero, facendoli diventare 650. Ma dovettero esservi delle critiche, con lo stesso don Vangelisti a far notare l’infondatezza di una simile quantificazione; fatto sta che un anno più tardi il sindaco Bruno Antonucci invertì due delle cifre precedentemente utilizzate, fissando il computo a 560.

Attenendosi scrupolosamente alle carte, Paoletti riporta i numeri cui fece riferimento Piero Stellacci, il magistrato che nel ‘51 sostenne l’accusa al processo Reder. “Alla Vaccareccia all’esterno delle stalle furono trovati 11 cadaveri. Alle Case e ai Franchi ne furono uccisi circa 40 in una casa mentre 35 in un’altra; all’esterno furono trovati circa 20 morti. Al Colle i morti furono 17. Sulla piazza di Sant’Anna poterono essere contati 132 teschi. A Coletti i morti furono 22”. Senonché – fa notare l’autore – “invece di sommare queste cifre il pubblico ministero prendeva atto delle dichiarazioni di Antonucci che faceva ascendere il numero dei morti a “circa 560”, di cui “204 non identificati e non registrati””.

Antonucci avrebbe dunque avuto una responsabilità non indifferente nella manipolazione delle cifre. “Il sindaco nel ‘51 non dice chi aveva contato i “circa 560 morti” e quando era stato fatto il conteggio; porta alla corte i suoi numeri, ma inavvertitamente si contraddice: come si fa ad essere approssimativi sul totale e così precisi nel numero dei poveri resti delle persone carbonizzate? Come si fa a stabilire che quelle ceneri o quelle ossa corrispondono a 204 cadaveri? Come si fa a credere che il conto dei carbonizzati, impossibile nel ‘44, fosse diventato possibile a quattro anni dalla sepoltura nelle fosse comuni? Le giustificazioni tardive non sono affatto convincenti: possibile che su 560 morti gli sfollati non toscani fossero più di 200? Un altro particolare ci dice come siano state gonfiate dal sindaco le cifre dei morti: il numero dei corpi rinvenuti sulla piazzetta è sempre stato calcolato, fin dall’inizio, in 138; ma nel ‘47 Antonucci scriveva di “diverse centinaia di morti” sulla piazza. Con questo semplice espediente dette avvio scientemente alla leggenda”.

Anche di tale capitolo si è occupato nelle sue ricerche Bertelli, il cui computo viene ad avvalorare tanto quello fatto da Graziani quanto quello risultante agli atti del Comune: dettagliando anch’egli la distribuzione dei morti per ciascuna borgata, il farnocchino ne conta 325. Ammettendo che sia per l’indistinguibilità dei cadaveri di cui si è detto che per qualsivoglia altro motivo ve ne possano essere stati anche 20-25 in più, “il divario rispetto alla cifra ufficiale resta comunque veramente alto”. Conseguentemente Bertelli si chiede se sia giusto colmare tale differenza ricorrendo a sfollati presuntivamente trucidati il 12 agosto, giungendo a questa conclusione: “È stato detto che il paese era pieno di sfollati, che tanti di questi sono rimasti sconosciuti e che pertanto non è stato possibile fare la denuncia di morte al Comune di Stazzema, perché non si conoscevano i loro nomi. Questo potrebbe anche essere possibile; ma per un numero molto limitato di casi, non certo per 210-215 persone. A Sant’Anna non sono i nomi di queste persone che mancano, ma i loro cadaveri: in quali località del paese sarebbero state uccise? Perché ad ogni località corrisponde un numero di morti esatto o comunque molto approssimato, con una eventuale differenza di poche unità”.

Rilevate poi le discrepanze presenti nell’elenco delle vittime offerto da don Vangelisti, nonché alcune ripetizioni (riguardanti ad esempio donne inclusevi sia col cognome da nubili che con quello da sposate), Bertelli chiese al sacerdote le ragioni della differenza tra la stima da lui fatta e quella risultante all’anagrafe, ammontante a oltre 100 persone. “Don Vangelisti mi confessò che l’elenco pubblicato nel suo opuscolo gli era stato dato da gente di Sant’Anna. Aggiunse che per quanto nella sua deposizione al processo Reder egli avesse dichiarato che il numero delle vittime si aggirava sulle 400 unità, in realtà riteneva fossero ancora meno”.

Il “vacuo e vergognoso balletto di cifre” è proseguito nei decenni successivi, in difetto o in eccesso a seconda della serietà dello studioso di turno; c’è stato anche chi per superare la soglia dei 430 morti ne ha riportati alcuni due volte, cambiando loro il cognome, o ha inserito nomi di persone decedute in altre date e località: a cominciare dai 53 rastrellati di Valdicastello trucidati a Bardine il 19 agosto, a seguito dell’attentato partigiano avvenutovi due giorni prima. Bisogna anche dire che le discordanze sul numero delle vittime rappresentano una costante degli eccidi nazifascisti, e specie di quelli più gravi; spesso sono proprio lapidi e monumenti a fare confusione, assommando persone morte nel medesimo contesto bellico ma in circostanze diverse. E talvolta neppure una certosina comparazione tra i dati presenti all’anagrafe e le singole tombe riesce a risolvere la questione: figurarsi per stragi di enormi proporzioni come quella di Sant’Anna, per le quali non possono esservi che ossari collettivi.

Ma nel nostro caso il problema non è legato tanto a tale tipo di difficoltà; Paoletti produce anzi un ulteriore elemento che non depone a favore della buona fede dell’amministrazione comunale che nel ‘48 provvide all’edificazione del sacrario. “Con la costruzione dell’ossario sul Col di Cava si riconsiderarono anche i numeri. In una lettera del Comitato pro-martiri di Sant’Anna riguardante l’inaugurazione del monumento si parlava di 564 vittime: cifra che stranamente veniva arrotondata per difetto a 560. Sarebbe semplicemente vergognoso se il Comune avesse defalcato quattro martiri solo per un puro arrotondamento numerico, per una semplificazione mnemonica; ma se invece si fosse fatto l’arrotondamento perché non si poteva giurare che a quattro gruppetti di ossa corrispondevano quattro persone, allora ci sembra legittimo dubitare di tutto questo calcolo. Questi poveri resti, che nel ‘44 don Vangelisti riuscì a contare solo attraverso i teschi, come potevano essere calcolati dopo quattro anni di fossa comune?”.

E così dal ‘48 “storici e giornalisti, politici e poeti, salvo rare eccezioni si sono allineati alla cifra ufficiale di 560 morti: quasi quel numero, e non il ricordo e il rispetto verso le vere vittime, fosse un’eredità da conservare gelosamente”. E per legittimare la quale si perpetuavano leggende infondate: ancora nel ‘77 un altro sindaco di Stazzema specificava al Ministero della difesa che l’elenco derivante dai 324 atti di morte risultanti all’anagrafe comunale “non è da ritenersi completo in quanto la maggior parte delle vittime, diverse centinaia di persone, furono riunite nella piazza della chiesa, lì mitragliate e bruciate con i lanciafiamme”.

Tra tutti gli elenchi consultati Paoletti assegna la palma del più serio a quello stilato nel ‘95 da Renato Bonuccelli, che conteggia 371 morti. Avendo un occhio di riguardo per la primigenia lista americana, effettuati ulteriori riscontri anagrafici che lo hanno indotto a espungere dal computo di Bonuccelli alcuni nomi e considerando a parte le 13 vittime del Molino Rosso, le 8 di Capezzano e le 6 di Mulina, egli propone per la sola Sant’Anna un elenco di 362 martiri.

Ma ammonendo: “A nostro avviso il miglior elenco delle vittime lo ha fatto il popolo di Sant’Anna: quello che ha aggiunto all’elenco delle vittime del pittore Beconi sulla parete di destra della chiesa altri nomi scritti a mano dai fedeli. Il vero elenco è quello scritto nei cuori dei parenti, quello che è ricorso per anni nei ricordi e nelle preghiere di coloro che si sono riuniti, lontani dalle cerimonie, accanto all’ossario”.

 

Una ricostruzione choc  La seconda fatica paolettiana dedicata all’eccidio del 12 agosto ‘44 vede la luce nel 2015 ed è intitolata S. Anna di Stazzema. Una strage “aggiustata”4. Per comprenderne la ratio sarà necessario partire dalla condanna all’ergastolo emessa nel 2005 in contumacia dal Tribunale militare di La Spezia nei confronti di dieci tra ufficiali e sottufficiali tedeschi, riconosciuti colpevoli di avere perpetrato il massacro versiliese; sentenza divenuta definitiva due anni più tardi, ma mai eseguita essendosi la Germania rifiutata di concedere l’estradizione avendo la Giustizia tedesca riconosciuto agli ormai vegliardi imputati l’insufficienza di prove. Del resto mai un processo era giunto così in ritardo rispetto ai reati contestati, sconfinando nel ridicolo: quasi a far pagare agli accusati non tanto i crimini commessi, quanto il fatto di essere ancora in vita. Basti pensare che i presunti responsabili dell’eccidio, ossia Gesele e Göllnitz, erano deceduti da tempo, al pari del loro grande accusatore Haase; così come del fantomatico maresciallo Jansen si erano completamente perse le tracce.

Per quanto riguarda invece le motivazioni dell’eccidio, la conclusione dei giudici militari era che “non si possono nutrire dubbi sull’esistenza di un piano preciso, volto ad un massacro indiscriminato: l’azione delle SS era proprio finalizzata al massacro della popolazione e alla distruzione di un intero paese. Suo unico scopo era proprio quello di fare terra bruciata intorno ai partigiani”. Posizione che rispecchiava quella sostenuta dal pubblico ministero nella requisitoria: “Ciò che è avvenuto a Sant’Anna di Stazzema non è altro che il risultato di una deliberata scelta strategico-operativa degli alti comandi germanici in Italia e del modo nel quale doveva essere condotta la lotta antipartigiana”.

Dunque un esito processuale che vanificava tutto l’impegno “revisionista” sviluppato nel suo libro da Paoletti, dando al contrario piena soddisfazione alla “vulgata” e cristallizzandone pedissequamente i capisaldi. Comprensibilmente deluso da tutto ciò lo storico fiorentino decideva allora di riprendere in mano l’argomento per ulteriormente sviscerarlo, comparando certosinamente quanto emerso in dibattimento con nuove testimonianze di sopravvissuti (che libri e giornali non hanno mai smesso di pubblicare negli anni), andando anche a sentire personalmente queste persone in modo da approfondire il particolare di volta in volta messo a fuoco, per correggere le tante inesattezze nelle quali era caduto e dare vita a un nuovo, mastodontico volume (750 pagine, formato maxi). Encomiabile per l’impegno profuso, l’onestà dell’autocritica rispetto al lavoro precedente e l’acume da consumato detective manifestato a più riprese dall’autore nello smontare le soluzioni date da giudici, istituzioni e storiografia agli innumerevoli punti oscuri della vicenda, il saggio ha tuttavia il limite dell’eccessiva complessità strutturale, che finisce col penalizzare la linearità dell’esposizione di fatti e tesi rendendo spesso ripetitivo e talvolta dispersivo il testo. L’impressione è dunque che, nel comprensibile tentativo di avvalorare al massimo un teorema destinato a risultare devastante per i preponderanti apologeti della “vulgata”, all’esposizione sia mancato un lavoro di sintesi, tale da organizzare i vari argomenti affrontati in modo da facilitarne lettura e comprensione.

A rivoluzionare l’esito della prima ricerca paolettiana interviene anzitutto la quantificazione del contingente di SS inviato quel giorno dal Comando della 16a Divisione a Sant’Anna. Come abbiamo visto, nel tomo precedente l’autore era giunto alla conclusione che l’incarico dello sgombero della popolazione fosse stato affidato alla sbrindellata 5a compagnia del II battaglione, forte più o meno di una quarantina di uomini. In realtà quel giorno furono mobilitate anche la 6a, la 7a e l’8a compagnia del medesimo corpo; a spartirsi le varie borgate non furono dunque delle semplici “colonne”, ciascuna delle quali composta da una dozzina di soldati, bensì delle unità complete: alla luce di ciò, la versione che voleva impegnati nell’operazione non meno di 200 militari non appare più così peregrina. Paoletti si assume inoltre la briga di delineare l’itinerario compiuto da ciascuna compagnia nello scendere dalla montagna, giungendo alla conclusione che la 5a sia passata dalla Focetta, l’8a dalla Foce di Compito, la 7a dalla Foce di Farnocchia, mentre alla 6a sarebbe spettato di sbarrare le vie di fuga verso valle, posizionandosi sopra Valdicastello.

Ma fondamentale risulta il particolare dall’autore anticipato fin dalla cartina che precede il testo. A supportare le tre unità germaniche “montane” sarebbero state “aliquote fasciste” composte da un centinaio di appartenenti alla 36a Brigata nera “Mussolini” di Lucca: quelli al seguito della 5a compagnia, “armati con una mitragliatrice leggera”; dell’8a, “provenienti da Ruosina”; della 7a, “dotati di una mitragliatrice”. A questo punto bisogna rimuovere anche quello che nel primo libro costituiva l’episodio chiave della ricostruzione offerta: ossia il colpo di fucile esploso da un civile contro i soldati alla Vaccareccia. Non solo feriti, ma anche dei morti tra le file di chi marciava su Sant’Anna vi furono: ma in tutt’altre circostanze.

Sul crinale del monte Gabberi – là dove più folti erano gli insediamenti partigiani – lungo il percorso dell’8a compagnia vi sarebbero state da parte dei ribelli una o più imboscate che avrebbero fatto tra i tedeschi due feriti, tra i brigatisti una mezza dozzina di morti e almeno tre feriti; questo perché gli italiani, conoscendo il terreno e dovendo perciò fare da battistrada, erano giocoforza maggiormente esposti agli agguati. Sarebbero stati tali attacchi a provocare la vendetta che da monte a valle avrebbe trasformato in un mattatoio la Vaccareccia, i Franchi, le Case, i Cigli, la zona della chiesa, Coletti di sotto, la strada per i Molini, i Molini, Capezzano.

A effettuare il grosso della strage non sarebbero state tuttavia le SS, alle quali l’autore è propenso ad attribuire il solo – per quanto gravissimo – eccidio consumato sulla piazza. A compiere i massacri per le borgate e dietro la chiesa sarebbero stati i brigatisti, divenuti spietati carnefici dopo l’uccisione dei loro camerati e perciò decisi a trucidare chiunque si trovasse a Sant’Anna, a cominciare da diversi esponenti repubblichini – o comunque persone di provata fede fascista – residenti nelle borgate e perciò ritenuti conniventi dei partigiani al pari degli altri civili. Le uccisioni sarebbero state effettuate dagli italiani non solo autonomamente, ma contro la volontà degli stessi tedeschi, rimasti fedeli all’originario mandato che fino all’arrivo via radio del nuovo ordine prevedeva il semplice sgombero e divenuti perciò in quella fase di attesa gli strenui difensori, quando non i salvatori, della popolazione: al punto di indurre i brigatisti ad ammazzare di nascosto a loro.

Ma le scioccanti rivelazioni della seconda puntata dell’orrido “thriller” tratteggiato da Paoletti non sono ancora finite. Come già assodato in precedenza, allorché i militari se ne furono andati sui corpi delle vittime furono lesti ad avventarsi i cosiddetti “partigiani sciacalli”, i quali una volta effettuata la scellerata ruberia ne avrebbero occultato le tracce seguendo due differenti metodologie, a seconda delle circostanze: sulla piazza di Sant’Anna avrebbero gettato i cadaveri su un rogo da loro stessi acceso e alimentato con gli arredi della chiesa, mentre nelle borgate avrebbero dato fuoco direttamente alle case. Anche in questo caso, dunque, quel (o quei due) lanciafiamme di cui si sarebbero avvalse le SS e riguardo al quale l’autore si era tanto speso non c’entrerebbe niente.

In questa sintesi delle conclusioni della nuova indagine paolettiana noi abbiamo omesso di utilizzare il termine sorprendentemente utilizzato nel testo a indicare i partigiani autori dell’agguato sul crinale dal quale sarebbe scaturito l’eccidio, e che non compariva nel primo saggio: “gappisti”. Com’è noto, i componenti dei comunisti “Gruppi di azione patriottica” agivano prevalentemente in città, laddove quelli comunemente indicati come “partigiani” operavano sulle montagne attaccando pattuglie tedesche in transito lungo le strade gravitanti sulla Linea Gotica o compiendo attentati a strutture afferenti la struttura difensiva germanica. Ma sarà lo sviluppo stesso della narrazione a chiarirci il significato da dare al vocabolo.

L’autore avverte fin da subito la necessità di scusarsi con il lettore per il fatto di avere completamente stravolto lo scenario delineato in precedenza, giustificandosi: “Anche noi siamo stati vittime della vulgata”. Dopodiché ricorda come nel ‘98 egli avesse riportato le testimonianze rese nel ‘44 dinanzi alla commissione d’inchiesta americana da due fratelli di Forte dei Marmi sfollati a Sant’Anna, Alfredo e Marino Curzi. Alla domanda se fossero a conoscenza del motivo per cui i tedeschi avevano compiuto l’eccidio, Alfredo – che aveva collaborato con i ribelli della zona ma senza entrare a far parte di alcuna formazione – aveva risposto: “Sembra che i partigiani avessero ucciso dei tedeschi. In uno scontro questi persero uomini e dovettero ritirarsi; allora per vendetta commisero quest’atrocità”. Marino – che avendo fatto parte per un periodo del Gruppo Bandelloni era stato in grado di dettagliare tutte le località tra le quali si muoveva la banda – aveva dato una risposta analoga: “Penso che fu perché i tedeschi persero molti uomini nei combattimenti con i partigiani vicino a Sant’Anna”.

Avendo poi nel primo scritto la ricostruzione della strage e delle sue motivazioni preso tutt’altra piega – al punto di fare di Paoletti il più convinto assertore dell’estraneità partigiana ai fatti del 12 agosto – tale “pista” era stata abbandonata. Per rispuntare adesso, ma con una novità: il cognome dei due fortemarmini viene adesso riportato come “Kurz”. “Il nome era stato italianizzato in Curzi – viene specificato in nota – e tale è rimasto per gli inquirenti che non sono mai andati a cercarli”, con riferimento all’indagine condotta nel ‘45 dalla Procura di Lucca; omissione destinata a propiziare l’eliminazione di due voci che sarebbero risultate estremamente scomode alla costruzione della “vulgata”. Dopodiché si completa il mea culpa: “Condizionati dall’impegno di dimostrare che fino ad allora si era imputata la strage al battaglione tedesco sbagliato, ma anche dal dogma della strage nazista programmata, non cogliemmo la portata di quelle due testimonianze”.

A questo punto comprendiamo il motivo di tanta, ulteriore fatica: evidentemente le nuove acquisizioni documentali hanno indotto lo scrupoloso ricercatore a tornare sui propri passi, rimettendo in discussione anche quelle conclusioni tanto laboriosamente conquistate e argomentate e di conseguenza rivalutando elementi in precedenza scartati o comunque sottovalutati. Dunque una situazione analoga a quella in cui la magistratura, alla luce dell’emergere di nuove risultanze investigative, dispone la riapertura di un’inchiesta.

Paoletti viene dunque al nocciolo della questione. “Per 70 anni la storiografia ha discettato se i feriti tedeschi erano stati uno o due, se andavano considerati vittime di fuoco amico o nemico, mentre sul tavolo della storia fin dal settembre 1944 c’era da risolvere un contrasto ben più gravoso: a chi appartenevano quei cadaveri in abiti militari tedeschi bruciati sulla piazza? Furono tre, come diceva la relazione inglese, o due, come avevano detto a tutti i partigiani sciacalli? Era più opportuno credere agli ufficiali britannici o a individui sconosciuti che attizzavano il fuoco? E perché questi cadaveri vestiti come i militari tedeschi cominciarono a materializzarsi sulla piazza a metà pomeriggio del 12 agosto? Bastava incrociare le varie testimonianze di chi aveva visto con i propri occhi per capire che i cadaveri bruciati furono il doppio rispetto a quelli stimati dagli ufficiali inglesi, il triplo di quelli della vulgata. La questione fondamentale non era però il numero, ma la nazionalità. In realtà la questione era facilmente risolvibile: dal momento che il 12 agosto i tedeschi e i partigiani non avevano avuto morti, quei due, tre o sei cadaveri non potevano che essere di italiani, cioè di fascisti! Ecco che l’unica strada per non fare i conti con la verità e la storia era quella di negare i morti, anzi di non parlarne affatto”.

In tal modo cambierebbe completamente anche il significato da dare alla morte di quel soldato italiano nella prima versione attribuita al fuoco germanico, per punirlo della sua insubordinazione essendosi rifiutato di sparare su dei civili inermi. “Con la scoperta di sei morti e tre feriti fascisti non era inevitabile che fossero stati i brigatisti neri a compiere i massacri? A queste prove fattuali e testimoniali se ne aggiunse nel 1997 un’altra altrettanto concreta e palpabile: un visitatore del Museo della Resistenza scoprì che un oggetto esposto in una bacheca era in realtà un piastrino di riconoscimento di un ex internato italiano in Germania. Da allora si sa che sotto almeno una di quelle divise tedesche viste bruciare sul rogo c’era un fascista. Se l’unico modo per uscire da un campo d’internamento tedesco era quello di aderire alla RSI, quel ritrovamento comprovava la battaglia tra nazifascisti e partigiani gappisti e l’uccisione di quel volontario”.

Occorrerà allora precisare che nel primo saggio l’argomento delle “responsabilità fasciste” era stato appena sfiorato, con conclusioni che assegnavano ai camerati italiani un ruolo del tutto marginale, di mero supporto alle SS. “Se nella vicenda di Sant’Anna il ruolo dei fascisti appare decisamente secondario – scriveva allora Paoletti – è comunque accertato che i tedeschi non ebbero molte difficoltà a trovare informatori e guide tra di loro, e per meglio camuffarsi questi civili italiani indossarono la tuta mimetica delle Waffen-SS o semplicemente si coprirono il volto con fazzoletti o grossi occhiali. Tra questi fascisti occorrerà distinguere i delatori dai collaborazionisti, attivi con la propria divisa o con quella di altri”.

Al contrario, adesso l’autore non manifesta dubbi nell’individuare la matrice brigatista del massacro, riportando a galla particolari negletti e testimonianze abbandonate. “Le accuse di responsabilità fasciste furono fatte subito dai due superstiti della strage sotto al Colle, Ettore Salvatori e sua nipote Maria Luisa Ghilardini, rese pubbliche su La Nazione del Popolo nel 1945. A chi alludeva Massimo Pellegrini quando descrivendo il suo arrivo sulla piazza dichiarava: “vidi un cumulo e sopra tedeschi, o altri”? Se non erano tedeschi, chi potevano essere? Avio Pieri, Angiolo Berretti, Giuseppe Pardini e Massimo Pellegrini erano tutti personaggi scomodi perché avevano capito le responsabilità dei fascisti, conoscevano i voltagabbana e sapevano la verità: dovevano essere emarginati”.

Quindi le omertà, riguardanti anzitutto esponenti repubblichini locali. “Per 70 anni è stato fatto un silenzio totale sul fatto che il capo frazione Italo Farnocchi e il segretario del Fascio di Sant’Anna Rinaldo Bertelli non solo non dettero seguito all’ordinanza tedesca di sgombero del 26 luglio, ma condivisero con i partigiani la sorveglianza notturna dei passi. Non si è mai detto che molti fascisti rimasti in casa ad aspettare l’arrivo delle truppe nazifasciste furono eliminati al pari degli altri civili: perché i sopravvissuti della borgata dove viveva Bertelli hanno sempre taciuto sul suo omicidio eclatante? Perché Florinda Bertelli tacque al processo che suo marito Daniele Mancini era stato ucciso da un “soldato tedesco” al quale si era rivolto con “Anche te sei qui con loro?!”? Perché se ne era dimenticata o perché l’uccisione di un uomo di 69 anni da parte di chi comprendeva il dialetto versiliese faceva pensare subito a esecuzioni da parte fascista? Se ai Franchi e a Capezzano furono uccisi due operai della Todt, non era evidente che non potevano essere stati i tedeschi a uccidere quegli italiani? Per i brigatisti quegli italiani erano due imboscati, per i tedeschi due preziosi volontari”.

 

Il complotto istituzionale per “aggiustare” la strage  Personaggi già citati nel saggio precedente, ma le cui testimonianze in proposito non erano state allora adeguatamente valutate, “avevano compreso che la strage nelle borgate era stata compiuta dagli italiani. L’ex capo distaccamento garibaldino, il comunista Aulo Viviani, aveva scritto dopo la guerra, una volta uscito dal PCI: “Delle stragi fatte a Sant’Anna, a Marzabotto e in molte altre parti d’Italia non diamo la colpa solo ai tedeschi: in primo luogo la colpa è dei fascisti, che erano sempre presenti. La responsabilità dei fascisti a Sant’Anna è stata confermata anche da parte di coloro che il giorno successivo alla strage hanno trovato scritto sopra una tavola, in perfetto italiano: QUESTA È LA FINE DEI PARTIGIANI”. Il superstite Giuseppe Pardini, un antifascista, scrisse in un memoriale di aver visto insieme ad altri che “i cadaveri dietro al campanile avevano sul petto un cartello con la scritta: ‘Questo è quello che si aspetta ad ogni partigiano’”. Perché nessuno in questi 70 anni ha detto che i fascisti avevano firmato la strage e indicato i partigiani come causa dell’eccidio? Perché per mantenere in vita la vulgata e salvare i fascisti, i partigiani e gli sciacalli era indispensabile continuare ad attribuire la responsabilità di ogni crimine ai tedeschi”.

Il ricorso alla formula domanda-risposta rappresenterà la costante della seconda opera, dando modo all’autore di demolire tutti i pilastri sui quali poggia la “vulgata”. “Perché nessuno ha ripreso la notizia apparsa sul libro dell’ANCI del 1979 che “un ufficiale tedesco aveva la cuffia alle orecchie alla Vaccareccia”? Perché si è sempre taciuto che nel 1972 Milena Bernabò aveva detto che i rastrellati rimasero chiusi per “un’ora estenuante” nelle stalle della Vaccareccia? Perché sarebbe diventato chiaro che in quell’intervallo di tempo tra la prima chiamata radio e la risposta i tedeschi rimasero fermi in attesa di ordini, mentre i fascisti scendevano nelle borgate e si facevano giustizia! Gli italiani non dovevano aspettare istruzioni da Utimperghe [il comandante della Brigata nera lucchese] e avevano morti e feriti da vendicare. Ecco perché gli storici, in genere “aggiustatori professionali della vulgata”, hanno fatto cominciare la strage alla Vaccareccia! Anche le imboscate gappiste non sono una novità, visto che nel 1998 avevamo pubblicato le deposizioni dei fratelli Kurz che avevano parlato di una “battaglia con alcuni morti tra i tedeschi”. La sentenza dei giudici militari del 2005 confermò che “qualche” cadavere in abiti militari tedeschi fu bruciato sulla piazza. A nostro giudizio, quei morti andavano collegati alla battaglia e non potevano che essere stati portati sulla piazza a partire dal primo pomeriggio del 12 agosto”.

Ma com’è stato possibile nascondere tutto questo all’opinione pubblica, e così a lungo? Secondo Paoletti, l’opera di depistaggio sarebbe iniziata già all’indomani dell’eccidio: “La manipolazione della verità operata in questi 70 anni deriva da una sciagurata scelta politica iniziale: il CLN non ascoltò le voci sane che venivano dalla Resistenza pulita, le lamentele rese pubbliche al termine dell’inchiesta dei giornalisti de La Nazione del Popolo nel 1945, che volevano fossero puniti severamente i fascisti al pari degli sciacalli”. Il fatto che nell’agosto di quell’anno venissero pubblicati tre articoli che denunciavano i misfatti repubblichini, e in ottobre altrettanti che riportavano dell’arresto e della confessione di uno dei responsabili della depredazione dei corpi delle vittime, sta a significare che inizialmente “l’organo di stampa del Comitato di liberazione nazionale non era sfavorevole alla denuncia degli sciacalli; ma poi all’interno della direzione del CLN regionale vinse l’ala dura: mettere il bavaglio alle informazioni riguardanti la strage di Sant’Anna, inviare a Lucca la cronaca fiorentina così da far calare il silenzio sulla strage versiliese.

“Se il CLN avesse ammesso lo sciacallaggio di alcuni delinquenti accolti in due bande della brigata garibaldina, tutta l’Italia avrebbe chiesto perché non erano stati fermati dai “veri” partigiani. Gli sciacalli si sarebbero difesi dicendo che il bottino dello sciacallaggio era stato consegnato al comandante Bandelloni, questi avrebbe vantato il merito di aver fatto bruciare i cadaveri in abiti militari tedeschi perché aveva capito che erano la prova delle imboscate gappiste. Poi lo scandalo avrebbe coinvolto i politici che avevano protetto fascisti e sciacalli e coloro che dal 1944 al 1947 avevano censurato le cronache lucchesi e versiliesi”. Donde la necessità di un fraudolento passaggio del testimone con la “partitocrazia” dell’era democratica e repubblicana, finalizzato alla consacrazione della “menzogna di Stato”.

“Tutti gli organismi dello Stato (con particolare determinazione dopo il 1970) si impegnarono in un’operazione di negazione della verità e di rimozione dei delitti compiuti sia dai partigiani sciacalli che dai fascisti. Le reiterate menzogne hanno fatto sì che col tempo scomparissero nelle nebbie le responsabilità dei fascisti assassini e le turpitudini commesse dai partigiani sciacalli. Questi due soggetti, antagonisti fino al giorno della strage, sono stati egualmente risparmiati dalla giustizia (e sin qui dalla storia) perché ambedue a conoscenza di verità scomode che avrebbero screditato la Resistenza e i suoi alti valori. I fascisti potevano testimoniare di essere stati attaccati dai gappisti e fare i nomi dei propri morti e feriti, mentre i partigiani sciacalli avrebbero potuto dire di aver eseguito un ordine del comandante patriota Lorenzo Bandelloni e confermare di aver distrutto le prove delle imboscate, cioè quei cadaveri in divisa militare germanica. Infine il CLN voleva impedire che la strage passasse come un episodio della guerra civile”.

Complici nell’opera di mistificazione concepita e perpetuata allo scopo di manipolare la realtà dei fatti per sostituirla con una “verità” di comodo sarebbero stati tanto apparati dello Stato (Ministero della difesa, Regione Toscana, Tribunale militare di La Spezia, Comune di Stazzema) quanto organismi di varia natura (CLN, ANPI, Associazione “Martiri di Sant’Anna”, Comitato onoranze): “le istituzioni, con il controllo dei mezzi di comunicazione e un “bombardamento” settantennale, hanno imposto la loro memoria condivisa”. Di conseguenza, “da decenni le autorità italo-tedesche sono loro stesse vittime del complotto istituzionale ordito dai loro predecessori”; parimenti, “da decenni migliaia di giovani, dalle scuole elementari fino alle medie superiori, vengono portati in visita al luogo della strage per essere indottrinate con le menzogne più incredibili. Così il Museo della Resistenza è stato trasformato in Fabbrica Multimediale del Consenso: cartoni animati con nazisti in divisa nera armati di lanciafiamme per i fanciulli e libri selezionati per gli adulti”. Avendo Paoletti alle spalle un passato di insegnante liceale, ci piace pensare che la scintilla del suo interesse per Sant’Anna – vicenda cui avrebbe dedicato gran parte del suo nuovo impegno di ricercatore storico – sia nata proprio in occasione di una visita con i suoi alunni ai luoghi del martirio.

Posto dunque che allo scopo di eliminare dalla scena gappisti e partigiani sciacalli in modo da salvare la reputazione della resistenza “si sono attribuiti ai nazisti la premeditazione della strage (che fu dei gappisti), la distruzione dei cadaveri e l’incendio delle case dove i civili erano stati depredati dagli “sbandati””, quali sarebbero state le tappe di tale “complotto”? Secondo l’autore da parte delle istituzioni repubblicane vi sarebbe stato un assiduo impegno a “nascondere tutti i misfatti commessi da partigiani e politici tra il 1944 e il 1947” mediante l’assunzione di molteplici iniziative aventi per l’opinione pubblica la sostanziale funzione di specchietti per le allodole.

“Il primo passo fu l’invenzione della Medaglia d’oro al valor militare “alla Resistenza versiliese”, ma che fu appuntata sul gonfalone del Comune di Stazzema. Una stortura legislativa (questa onorificenza era stata originariamente concepita solo per i militari o le bandiere) che aveva l’unico scopo di mettere quella pesante onorificenza sul coperchio di quel vaso di Pandora che dal 1944 è la strage di Sant’Anna”. Ma quella fu anche l’occasione per infliggere un clamoroso sfregio alla Storia: mentre infatti fino al 1970 si era sempre parlato di “strage nazifascista”, con l’attribuzione di quella medaglia il Ministero della difesa “compì un colpo di Stato storiografico abolendo il termine “fascista” dalla motivazione”, sancendo che il Comune di Stazzema era stato “vittima degli orrori dell’occupazione nazista” e attribuendo così la carneficina ai soli tedeschi. Ciò quando “i fatti dicono che l’eccidio di Sant’Anna è la strage nazifascista per eccellenza: i fascisti cominciarono e finirono uccidendo civili, il classico criminale nazista dette per radio l’ordine di massacrare la folla sulla piazza”.

Se con quella onorificenza “si è inteso distruggere la verità storica per imporre un’altra verità di comodo”, con l’istituzione nel 1996 del Museo della Resistenza “si è voluto distruggere il ricordo dei partigiani che avevano abbandonato la popolazione al proprio destino e che poi non impedirono agli sciacalli di gettarsi come avvoltoi sui cadaveri delle vittime”. A finire sul banco degli imputati è così la Regione Toscana, rea di avere allestito il museo “a cinquanta metri dal luogo dove i santannini avevano visto all’opera i partigiani sciacalli” a coronamento di un disegno che l’aveva già indotta ad attribuire a Sant’Anna il titolo di Centro regionale della Resistenza. Ciò quando a Sant’Anna “non c’è da celebrare alcuna Resistenza”, essendo stata quell’invenzione “solo un modo per esorcizzare i vecchi contrasti tra popolazione e partigiani, per far dimenticare che lì nel primo anniversario della strage ci vollero i carabinieri per evitare uno scontro fisico tra santannini e partigiani”.

Peraltro in quel museo “non c’è niente che ricordi i valori etici e morali della Resistenza. Non si sapeva anche all’epoca della scelta di quel luogo che l’unità delle forze della Resistenza, cercata con la formazione della X bis Brigata garibaldina, era miseramente fallita l’8 agosto per dissidi interni? Non era noto anche allora che la popolazione di Sant’Anna vedeva i partigiani come il fumo negli occhi, che non aveva seguito il consiglio garibaldino di fare resistenza attiva con le armi? Non si sapeva che i partigiani erano scappati abbandonando la popolazione? Forse nessuno aveva detto ai presidenti della Regione Toscana che nel Museo della Resistenza c’era un “piastrino di riconoscimento” di un volontario fascista trovato nel punto dove gli sciacalli avevano fatto un rogo dei cadaveri? Cosa c’era da celebrare nel luogo dove i partigiani sciacalli avevano bruciato le vittime della vendetta provocata dai gappisti?”.

Anno dopo anno la realtà dei fatti è stata stravolta mediante una subdola convergenza degli storici sulle posizioni volute dalla politica: e il processo spezzino non è stato altro che il sigillo finale a un lungo, capillare lavoro volto a trasformare un cumulo di menzogne in una serie di verità dogmatiche. “Guardando retrospettivamente la storiografia di questi decenni risaltano le false accuse più che cinquantennali contro Reder, l’autentico volantino garibaldino per 60 anni dichiarato un falso storico, i tagli operati sulle deposizioni dei testimoni scomodi. Questo intento di cancellare la memoria dei tristi avvenimenti seguiti alla strage alla lunga ha avuto successo: oggi molti superstiti hanno rimosso quei fatti visti con i loro stessi occhi. Anche perché nessun superstite aveva capito che quei cadaveri bruciati sulla piazza erano stati il movente delle vendette fasciste consumate nelle borgate di Sant’Anna, lungo i sentieri e a Capezzano.

“Per non chiedere scusa ai superstiti, la partitocrazia ha imposto la menzogna di Stato e ha coperto chi aveva sbagliato. L’immunità giudiziaria è stata volutamente estesa anche agli assassini fascisti. Il diritto di tutti i morti e dei superstiti è sempre stato unicamente quello di appurare la verità e di vedere puniti i colpevoli. A Sant’Anna si è occultata la verità e non si sono voluti punire gli assassini, gli sciacalli, i rapinatori e gli incendiari. Non si è fatto niente quand’era possibile farlo. A 60 anni dai fatti si sono condannati all’ergastolo dieci ex Waffen-SS che, per stessa ammissione della corte, potevano appartenere a una delle “squadre o plotoni che avevano ricevuto ordini che non prevedevano alcuna uccisione ma soltanto rastrellamenti e arresti”. Se per 70 anni ci si è concentrati nell’accusare i tedeschi è perché si dovevano salvare tutti i criminali italiani: i più facili da individuare e arrestare”.

 

Le responsabilità “gappiste”  Secondo Paoletti il vizio di fondo della Procura militare di La Spezia, e conseguentemente del processo, è stato quello di assumere quale consulente il prof. Paolo Pezzino, sposandone acriticamente le posizioni storiografiche. Nell’arco del saggio le critiche al cattedratico ricorrono a più riprese; la tesi sostenuta è sostanzialmente che, dovendo quel procedimento giudiziario rispettare una determinata impostazione, vi sia stata con l’accusa una convergenza di intenti a discapito della verità storica. Di conseguenza, la ricostruzione della vicenda di Sant’Anna offerta all’aula da Pezzino ha mostrato “tutti i limiti delle sue argomentazioni, quantomeno prive di logica”; in particolare, la sua affermazione secondo la quale il 12 agosto “tutti furono sterminati” è giunta a “negare i dati condivisi, poiché gli sfollati furono in numero nettamente superiore alle vittime”. Inoltre, per spiegare il mancato incendio delle borgate poste a monte di Sant’Anna il docente pescarese ha sostenuto che i tedeschi tirarono di lungo perché temevano attacchi partigiani dai boschi circostanti: così, dopo averle definite “belve assetate di sangue”, egli ha trasformato le Waffen-SS in un corpo di soldati pavidi e vigliacchi. Pezzino avrebbe inoltre commesso un errore imperdonabile per uno storico: quella di avere riconosciuto che “a Marzabotto il lavoro sporco, l’uccisione dei civili fu fatto dalla 35a Brigata” ma escludendo a priori che a Sant’Anna potesse essere successa la stessa cosa, ad opera della lucchese 36a, e nonostante innumerevoli indizi deponessero in tal senso.

In particolare, nel corso della requisitoria il pubblico ministero ha fatto proprio questo passaggio del suo consulente: “Non meno di 2.000 persone, grossomodo il 20% della cifra complessiva delle stragi naziste, furono assassinate in un periodo brevissimo di tempo, tra la fine di luglio e quella di settembre del 1944 in un’area relativamente ristretta: una parte della provincia di Pisa, la Versilia, le Alpi Apuane e la Lunigiana, l’area dell’Appennino dominata dal monte Sole fino a Bologna. Una tale concentrazione delle maggiori e più efferate carneficine non è per nulla casuale, e il filo che lega i vari episodi è l’unità che li ha perpetrati: la 16a SS Panzergrenadier Division”.

Un’impostazione questa dall’autore valutata come “vecchia e sbagliata: secondo l’accademico e il magistrato la “Reichsführer” è costantemente impegnata a terrorizzare le popolazioni dell’Appennino, per cui le stragi non sono una reazione a fatti di sangue compiuti dai partigiani in quell’area ad alta sensibilità che è la linea di resistenza principale, il complesso difensivo della Gotica. Tutto si fa dipendere dall’iperattivismo degli alti comandi germanici impegnati non a preparare le difese per frenare l’avanzata alleata ma a fare terra bruciata intorno ai partigiani. Siccome la 16a Divisione SS era stata ritirata dal fronte per le alte perdite subite contro gli americani, se dopo appena due settimane di messa a riposo fu di nuovo resa operativa, secondo Pezzino lo fu perché questa divisione d’élite era stata incaricata di tessere il filo di sangue delle stragi antipartigiane”.

Per Paoletti si tratterebbe dunque di una chiave di lettura artefatta, precostituita, la cui principale fallacia consiste nel non tener conto della costante dinamica che vedeva le stragi nazifasciste fare seguito ad attentati e provocazioni dei partigiani. “Secondo noi invece – egli osserva – dopo la caduta di Roma i tedeschi erano perennemente costretti a giocare di rimessa. Se gli Alleati avessero attaccato sulla costa tirrenica, era lì che avrebbero dovuto mettere in atto la loro ritirata aggressiva; se invece lì le azioni partigiane avessero messo a nudo i loro punti deboli (le comunicazioni) e le loro criticità di fondo (la violenza alienava loro le simpatie della popolazione), era lì che sarebbero stati chiamati a rispondere. La guerra dei nazisti era contro gli Alleati, non contro i civili! Il limite della teoria del consulente Pezzino è che questa esclude per principio il ruolo dei partigiani e dei fascisti. Invece le stragi di civili non sono dovute alle direttive tedesche ma ai fatti commessi da quei due protagonisti che non figurano nella sua teoria: i partigiani e i fascisti”.

Nonostante Bandelloni nella sua relazione sull’attività della banda avesse ignorato del tutto l’eccidio di Sant’Anna, facendo così pensare a qualcosa di indicibile o comunque compromettente, nel precedente scritto l’autore aveva manifestato comprensione, quando non indulgenza, nei confronti sia del comandante seravezzino che più in generale delle formazioni partigiane operanti nelle Apuane meridionali. Adesso però il suo atteggiamento nei confronti dei ribelli muta radicalmente: secondo la nuova ricostruzione degli antefatti del massacro la loro condotta sarebbe stata infatti determinante nello scatenarlo. Di conseguenza, quel medesimo argomento in precedenza trattato – in fondo – con una certa sufficienza viene adesso sottoposto al vaglio più critico, approfondendo anche i moventi dell’agire dei “patrioti”.

In una notevole pagina storiografica, che mette in luce tutta la sua preparazione in materia, Paoletti rimarca anzitutto quella “smania partigiana di essere protagonisti a tutti i costi” che il 9 giugno ‘44 portò la formazione garibaldina “Mulargia” a scendere dalle montagne apuane per occupare il paese di Forno, proclamarvi una “repubblica libera” ed esporne così gli abitanti all’inevitabile ritorsione nazifascista. Una mossa che dopo la rappresaglia i ribelli avrebbero tentato di giustificare parlando di messaggi radio ricevuti in cui si dava per prossimo uno sbarco alleato sul litorale versiliese. Figurarsi – si fa notare – se “gli spocchiosi Alleati avrebbero rivelato i loro piani strategici alle radio partigiane”: per cui occorreva inventarsene un’altra. “Quando ci si rese conto di aver fatto un errore pagato soprattutto dalla popolazione e che la prima menzogna era fallita, la propaganda partigiana ripiegò su un’altra giustificazione: Forno era la base ideale per scendere su Massa e acquisire il controllo della via Aurelia, fondamentale via di comunicazione costiera”.

Ma gli angloamericani non avevano chiesto ai ribelli neppure di scendere dalle montagne; per cui “la scelta di occupare Forno era stata solo una mera mossa propagandistica ad uso interno del movimento partigiano”. Nei tre giorni di occupazione fu istituito un comando unico, affidato a Marcello Garosi; dopodiché l’improvvida iniziativa fu pagata a caro prezzo, soprattutto dai civili: “infatti i partigiani si ritirarono lasciando sul terreno appena una decina di uomini, tra cui il comandante Garosi, mentre 56 cittadini furono fucilati per rappresaglia presso il torrente Frigido e un centinaio di persone deportate in Germania”. Secondo l’autore, “l’errore tattico di fare passi più lunghi della gamba derivava dall’errore strategico garibaldino di costituire formazioni partigiane sempre più grosse”.

Veniamo quindi alla costituzione, il 18 luglio, della nostra Brigata “Lombardi”, dall’autore adesso valutata come “una fusione a freddo di alcune piccole bande versiliesi con anime politiche opposte”. Di conseguenza, la disomogeneità della nuova formazione si rivelò fin da subito, “con commissari politici comunisti che venivano rifiutati dai comandanti delle unità monarchiche e non solo”. A bilanciare tale preponderanza bolscevica fu nominato comandante Balestri, da Paoletti ritenuto come “politicamente indefinibile”. Ciononostante “dieci giorni dopo la sua costituzione la brigata si spaccò: il grosso si spostò nel Lucese, “per appoggiare l’avanzata alleata”; ma il monarchico Palma e l’indipendente Bandelloni restarono rispettivamente sul crinale di Sant’Anna e sul Gabberi, a San Rocchino. Dopo dieci giorni il grosso della brigata ritornava alla spicciolata sui monti intorno a Sant’Anna”.

La tattica adottata dai comunisti era la più utilitaristica e spregiudicata: accogliere quanta più gente possibile, senza alcuna discrezione e quindi ritrovandosi spesso tra le proprie fila “elementi incontrollabili e di diversa provenienza”. Il motivo era tutt’altro che ideale, e men che meno “patriottico”: “più uomini c’erano, più armi e più soldi arrivavano”. Un esempio? Proprio la “Stella Rossa” di monte Sole, che “a febbraio contava una trentina di uomini, in aprile un centinaio e a settembre circa 800”. “Si può facilmente immaginare cosa avesse comportato l’arrivo in montagna di tutte quelle bocche da sfamare e quelle braccia da armare: in un modo o nell’altro, erano sempre i contadini a dover provvedere al sostentamento alimentare dei partigiani”.

Scopo dell’argomentare paolettiano è dimostrare non solo la presenza in forze dei ribelli nei dintorni di Sant’Anna in occasione della strage, ma anche la natura “gappista” di una parte di essi. Comprendiamo così anche il significato dall’autore attribuito al vocabolo, riferito più a un modus operandi che a un particolare contesto ambientale e quindi a quei partigiani comunisti ben consapevoli di scatenare con le loro provocazioni le rappresaglie più efferate in modo da suscitare l’odio della popolazione nei confronti del nazifascismo. “L’8 agosto viene deciso lo scioglimento della Brigata “Lombardi” e la costituzione di tre formazioni più snelle, secondo l’adesione spontanea dei partigiani. Il 10 agosto sul Gabberi ci sono gli uomini di Bandelloni e la formazione garibaldina “Garosi”. All’alba del 12 i partigiani posizionati sul crinale di Sant’Anna, pur occupando posizioni dominanti, fuggono alla vista delle colonne tedesche che arrancano su per i sentieri.

“In quella massa eterogenea di partigiani si trova qualcuno deciso a tendere un’imboscata a quella pattuglia rimasta isolata sul crinale. Ma quando le truppe tedesche hanno già raggiunto le borgate della fascia alta (Sennari, Franchi, Vaccareccia) i gappisti di montagna attaccano i mortai tedeschi e aspettano i rinforzi per tendere loro un’altra imboscata. I morti o feriti fascisti dimostrano che la strage di Sant’Anna trova origine nell’azione di questo gruppo di gappisti che approfittarono della crisi di crescita delle formazioni garibaldine per riappropriarsi della loro libertà d’azione: una lotta armata che non guardava alle conseguenze cui sarebbero andati incontro i contadini che li avevano sfamati”.

Dopodiché l’attenzione si concentra su un’altra brigata garibaldina, la carrarese “Muccini”, attiva in Lunigiana e per certe caratteristiche assimilabile alla “Lombardi”: riuniva dieci formazioni sei delle quali di orientamento comunista, ma si era data un comandante “moderato”. Nonostante fosse entrata a far parte della Divisione “Lunense” che l’8 agosto aveva inquadrato tutte le formazioni lunigiane e garfagnine fu immediatamente squassata da violenti contrasti politici interni, acuiti dall’assenza di un coordinamento unitario. “Anche in questo caso la brigata si sgretolò di lì a due settimane, dopo il rastrellamento del 24-26 agosto sul monte Sagro, quindi nel corso della strage di Vinca. Sarà un caso, ma in questo breve lasso di tempo di vita della “Muccini” si verificarono le stragi di Bardine e Valla di San Terenzo del 19 agosto e quella di Vinca del 24 agosto”.

Fu in particolare una componente della “Muccini”, la Banda Ulivi, a causare i due eccidi di San Terenzo; si trattava di una formazione “composta da molti gappisti che avevano operato in città, dove non si erano mai preoccupati molto delle eventuali rappresaglie naziste”. Abbandonata per qualche giorno l’abituale base rappresentata dalla cava apuana del Ravaccione, e appostatisi su una collina nei pressi di Bardine armati delle micidiali mitragliatrici MG 42 (di fabbricazione tedesca e sottratte il mese precedente nel corso di un assalto alla caserma della Guardia nazionale repubblicana di Carrara), avendo visto giungere in paese un camion carico di SS i banditen guadagnarono rapidamente il punto di sparo ideale in modo da non lasciare scampo ai militari una volta che fossero tornati indietro.

Essendo quella spedizione finalizzata al prelevamento di bestiame, alcuni soldati seguivano l’autocarro a piedi: nessuno di loro sopravvisse alla tempesta di fuoco che li investì. Quelli che si trovavano a bordo si rifugiarono allora dentro una casa lì nei pressi, asserragliandovisi; intanto a dare man forte agli aggressori intervenivano partigiani appartenenti ad altre due formazioni, richiamati dagli spari. Posto sotto assedio l’improvvisato bunker, gli attaccanti non lesinarono colpi di mitra né granate a mano. Una volta esaurite le munizioni, ai militari superstiti non restò che arrendersi, venendo fuori uno dietro l’altro, con le mani in alto; ciononostante furono tutti giustiziati, con colpi mirati alla testa.

“Come era prevedibile – commenta Paoletti – gli storici hanno minimizzato il significato di questa esecuzione di feriti e prigionieri di guerra e sorvolato sull’imbarbarimento della guerra, mettendo in risalto solo la rappresaglia indiscriminata nazista che costò la vita ad un numero elevatissimo di ostaggi e civili rastrellati sul momento. Anche questo gesto di sfida fu pagato dalla popolazione: 176 furono le vittime innocenti, materialmente vittime della 16a Divisione SS, ma anche di quell’infelice assalto compiuto a 200 metri da un abitato, conclusosi come sempre con l’abbandono sul posto dei corpi dei soldati passati per le armi. Anche se la popolazione era immediatamente fuggita, la scelta partigiana di non occultare i cadaveri era stata fatta perché i loro camerati li potessero vedere. L’esibizione dei trofei a favore della popolazione e la provocazione nei confronti dei camerati degli uccisi erano il marchio di fabbrica dei gappisti!”.

Analogie con Sant’Anna l’autore trova anche negli antefatti che portarono alla strage di Vinca. “Il 18 agosto era stato ucciso un ufficiale d’amministrazione dello stato maggiore speciale del generale Gosewisch, addetto alla costruzione di fortificazioni lungo la strada Monzone-Vinca; questa uccisione metteva a nudo la criticità della viabilità in quel settore strategico della Linea Gotica. Lo stesso effetto si poteva raggiungere anche facendo saltare un ponte o provocando una caduta di massi o una frana; ma a certi giovani saliti in montagna sembrava di non essere veri partigiani se non compivano un’imboscata bagnata di sangue nemico. Così, i comandi tedeschi decisero di risolvere alla radice il problema della sicurezza sulle strade rastrellando un’area molto vasta che andava dal monte Maggiore al monte Uccelliera, fino al monte Sagro. La mattina del 24 agosto la 1a compagnia del battaglione Reder entrò a Vinca e anche in questo caso la strage fu indiscriminata: le vittime della giornata furono 174, in maggioranza vecchi, donne e bambini. Queste stragi apuane sono dunque innescate da elementi garibaldini che compiono micro imboscate a ridosso di centri abitati”. Per concludere: “In tutti e tre i casi di Sant’Anna, Bardine e Vinca ci sono azioni di sangue pregresse o in corso d’opera da parte di partigiani gappisti. Queste imboscate sono la miscela esplosiva delle più sanguinose stragi di civili in Italia”.

Al processo tenuto nel ‘47 dal Tribunale militare britannico contro il generale Simon, il superstite Adolfo Mancini dichiarò: “La mattina del 12 agosto un soldato tedesco arrivò a casa mia e ordinò a tutta la mia famiglia di uscire e unirsi a un’altra famiglia, profuga di Pistoia; io fui incaricato di portare una cassetta con le munizioni. Successivamente le famiglie profughe e coloro che si trovavano nella piazza della chiesa, soprattutto donne e bambini, furono invitati a scappare: il che consentì anche a me di abbandonare quella cassetta e di mettermi in salvo”. Dunque l’ennesima conferma che anche l’avanguardia germanica giunta a valle stava facendo lo stesso delle altre colonne impegnate nelle borgate più a monte: ossia sgomberare la popolazione. “Poi – ipotizza Paoletti – vennero uccisi dei fascisti, e i gappisti li portarono sulla piazza per esporli come trofei. Però questo è stato ignorato da tutti gli storici, nessuno escluso, perché avrebbe distrutto la vulgata”.

Una volta che SS e brigatisti se ne furono andati, Mancini ritornò nella piazza, ove vide un grosso cumulo di cadaveri tra i quali riconobbe tutti i quattordici membri della sua famiglia. Secondo l’autore sarebbe bastata questa sola testimonianza “a demolire la favola secondo cui i tedeschi avevano dato fuoco ai cadaveri e usato i lanciafiamme. Inoltre siccome Mancini non notò cadaveri in abiti militari tedeschi, significa che i nazisti non avevano fucilato due loro camerati. Di conseguenza quelle salme erano state portate sulla piazza in un secondo momento. Solo i partigiani potevano averlo fatto: e siccome il II battaglione tedesco non aveva avuto vittime, quei cadaveri erano necessariamente fascisti. La “bomba” Mancini è stata disinnescata ignorandolo completamente. Inutile dire che il suo nome non compare in nessun libro”.

Quello dell’assenza dei partigiani dalla zona dell’eccidio il 12 agosto non è dunque altro che un “bluff” alimentato negli anni da storici, politici, giudici militari. Le testimonianze parlano chiaro: “La verità è che tre bande, quella monarchica di Loris Palma e Renzo Mencaraglia, gli uomini di Bandelloni e i comunisti del “Lalle” [Aldo Berti] erano intorno alla Foce di Compito sul versante di Sant’Anna. Buona parte della brigata era rientrata in zona già il 10 agosto; la formazione comunista “Garosi” era tornata dal Lucese. Didala Ghilarducci, appartenente a questo distaccamento, al Comando del commissario politico comunista Sergio Breschi dichiarò: “La nostra formazione tra il 10 e l’11 agosto si sistemò sul Gabberi, in un bosco sul versante che dava verso il mare”. Questo ritorno dal Lucese è confermato dal responsabile della polizia partigiana Nicola Badalacchi, che lo dava per quasi completato l’11 agosto. Quindi la mattina del 12 i partigiani comunisti allontanatisi dalla Foce di Compito si erano ritirati sul Gabberi: quelli che vi ritornarono erano però diventati gappisti decisi a provocare una rappresaglia!

“Come mai nessuno ha preso in considerazione la lettera al direttore di Versilia Oggi inviata da Mario Nardini, portatore di munizioni che aveva scritto: “Il giorno 11 agosto ci presero alle 4 del mattino; alle 11 arrivammo in cima al Gabberi. Ci fecero fermare fino alle 15, poi ad un tratto due raffiche di mitra. Qualche attimo dopo portarono tre feriti: due tedeschi e un italiano”. Siccome l’8 agosto il II battaglione aveva avuto cinque feriti, non si può neppure accusare Nardini di essersi confuso con l’operazione di tre giorni prima. Nel 2005 i giudici di La Spezia ammettevano che “le testimonianze autorizzano a ipotizzare che soltanto qualche sparuto partigiano potesse essere rimasto nei pressi di Sant’Anna”. Se il pletorico nucleo di polizia giudiziaria della Procura militare spezzina o il PM avessero pensato di ascoltare qualche ex partigiano, si sarebbero accorti che in zona c’erano intere bande. Di fronte a queste testimonianze come fanno i vari Cipollini, Rovatti, Vezzoni, Pezzino, Fulvetti ecc. a dire che “i partigiani non c’erano”?”. Chi da 70 anni ripete questa balla “lo fa per allontanare il sospetto che si possa collegare la strage ai resistenti e dimentica che i testimoni di Sennari e Le Case avevano sempre dichiarato di aver sentito il rumore degli spari provenire dall’alto: cioè dal crinale!”. Dunque “tutti i santannini sapevano che i partigiani si erano sistemati sul crinale: ma questa parola non compare mai in nessun libro sulla strage, e neppure nella sentenza spezzina”.

La demolizione della vulgata che vuole i partigiani assenti da Sant’Anna il 12 agosto passa anzitutto attraverso la certezza del ferimento di due componenti l’8a compagnia. Escluso definitivamente dalla scena il Josef Albritz del rapporto Cromwell (“probabilmente un ufficiale tedesco che non ebbe niente a che fare con la strage”), si tratta del sottotenente Erdmann Herbst e del soldato Horst Eggert. Quest’ultimo dichiarò dinanzi alla corte spezzina: “Ho ricevuto un colpo di striscio alla testa ancor prima che la mia unità entrasse nel paese; inoltre sono stato ferito da una scheggia a un dito della mano destra. Poi ci hanno sparato addosso da tutte le parti; anche il comandante della nostra compagnia è stato ferito”. Ossia Herbst: Paoletti denuncia il fatto che nonostante tale inequivocabile testimonianza, peraltro avvalorata da quanto dichiarato dal radiotelegrafista Adolf Beckert, “i giudici abbiano preso per veritiera la voce dell’autoferimento di Herbst”. Ciò sempre in ossequio a quella “verità ufficiale opposta a quella dei testi e delle carte creata dallo Stato italiano”.

“Se negli anni 1944-1970 si fossero letti i documenti e ascoltati i testimoni oculari che avevano visto le vittime della battaglia, la strage sarebbe stata immediatamente archiviata come una delle tante rappresaglie nazifasciste causate dalle imboscate partigiane. Così non è andata per la strage di Sant’Anna, perché questa aveva avuto una coda obbrobriosa: lo sciacallaggio sulle vittime civili da parte di un gruppo di partigiani e l’incendio delle case dove erano stati depredati i corpi. Da qui la necessità di nascondere la verità e di inventare l’operazione nazista antipartigiana a fini terroristici. Il dato sorprendente è che nel 1944 si parlò subito di una “battaglia tra partigiani e tedeschi con alcuni morti tra i nazisti”. Nell’agosto 1944 lo Psycological Warfare Branch, il servizio segreto congiunto alleato addetto alla raccolta e alla diffusione delle informazioni riservate, scrisse: “A Sant’Anna come rappresaglia per l’uccisione di alcuni soldati tedeschi 20 persone sono state rinchiuse in una casa e uccise: tra queste donne e bambini”. Prima ancora che deponessero i fratelli Kurz alla Commissione d’inchiesta americana, la verità era che fu “rappresaglia per l’uccisione di alcuni soldati tedeschi””.

Giungiamo così al cuore della nuova ricerca paolettiana. “Per 70 anni si è detto in coro che il crepitio degli spari udito mentre le Waffen-SS scendevano giù nelle borgate era il fuoco preventivo delle stesse che arrivavano “sparando all’impazzata”: mentre invece era l’effetto sonoro di quella “battaglia tra partigiani e tedeschi che costò a questi ultimi alcuni morti””, come dichiarato a suo tempo dai fratelli Curzi. Le numerose testimonianze, che riferiscono anche di un progressivo intensificarsi degli spari, confermano tale quadro, consentendo all’autore di ipotizzare una articolata ricostruzione sia del modo in cui le SS avevano organizzato la loro calata su Sant’Anna che della “battaglia” vera e propria.

Le tre compagnie valicarono il crinale a orari diversi: probabilmente la prima a farlo fu la 7a, giungendo a Sennari molto prima che le altre raggiungessero la Vaccareccia; quindi l’8a e infine la 5a. Ciò viene implicitamente a smentire il supposto lancio di razzi da parte di ciascuna unità allo scopo di coordinare la tempistica dell’operazione: “ogni compagnia era un’entità autonoma che seguiva un proprio itinerario e non aveva bisogno di coordinarsi con le altre. L’attacco partigiano non cominciò subito, ma dopo una mezz’ora abbondante dall’arrivo delle prime pattuglie tedesche nelle borgate delle Argentiere; lo scontro a fuoco iniziato alla Foce di Compito aumentò d’intensità con l’intervento di soccorso degli uomini di Herbst, a loro volta attaccati dai partigiani con altre bombe a mano. La nostra ipotesi è che a seguito del primo attacco guide fasciste, brigatisti neri e Waffen-SS risalirono verso il crinale rimanendo vittime di una seconda e più grave imboscata; o addirittura ce ne fu una terza. I fascisti, che conoscevano il terreno e dovevano stare in testa alla colonna, furono quelli che ebbero i morti, senza mai riuscire a raggiungere i gappisti. Non esiste invece alcun margine di dubbio su chi lanciò quelle bombe e soprattutto sul fatto che prima ci furono i feriti italiani e tedeschi e poi i morti fascisti. Solo dopo che scorse il sangue nazifascista iniziò la strage!”.

L’autore deduce che i morti repubblichini siano stati almeno sei aggiungendo ai tre cadaveri in abiti militari citati nel rapporto Cromwell altrettanti, la cui differenziazione rispetto ai precedenti viene evinta dalle testimonianze. A suo giudizio i giudici spezzini avrebbero commesso l’imperdonabile leggerezza di dare credito alla diceria diffusa dai partigiani sciacalli secondo la quale le vittime in divisa sarebbero state soltanto due. Una negligenza aggravata dal fatto che non sono stati sentiti due testimoni oculari ancora in vita, che avevano confermato allo stesso Paoletti la veridicità sul punto della relazione britannica.

Il dato di partenza è che il rogo del 12 agosto avesse cancellato le tracce delle prime tre vittime militari: due testimoni giunti sulla piazza della chiesa nelle prime ore del mattino successivo non le videro. Particolare valore acquista perciò la testimonianza di Avio Pieri: il quale, tornato a Sant’Anna nella stessa mattinata del 13, ma presumibilmente a un’ora più tarda, vide “sul lato destro della catasta di cadaveri due con la divisa dell’esercito tedesco, gli stivali, l’elmetto e il fucile Mauser”. Mentre il sesto sarebbe spuntato ancora successivamente, se è vero quanto riportato nel suo memoriale da don Vangelisti, giunto sul luogo dell’eccidio all’imbrunire del 13: “I cadaveri erano tutti ammassati al centro della piazza, quasi ancora con la carne friggente perché tutti arrostiti e in avanzata putrefazione. Tra quei morti intorno alla croce di marmo vi era anche un soldato tedesco riconoscibile dalla tuta mimetica, passata dal fuoco ma con i colori ancora visibili, e si trovò pure un moschetto cal. 90 italiano”, confondendo il calibro con il modello; che verosimilmente era il Carcano 91, in dotazione alle nostre truppe.

Paoletti si dice inoltre certo dell’esistenza tra le file brigatiste di feriti. Si parte dalla comparazione delle testimonianze che riferiscono ai due tedeschi ferite, portantine e orari diversi rispetto a quelli degli altri soldati colpiti. Cesira Pardini dichiarò che i barellieri che vide passare da Coletti verso le 9 intenti a trasportare a valle un ferito erano italiani: “non sarebbe naturale che soccorritori e ferito fossero fascisti?”. Già nel 2006 Giuseppe Vezzoni aveva compreso che tale testimonianza non poteva riferirsi a un ferito tedesco: “ma senza portare la sua giusta osservazione alle estreme conseguenze logiche”, ossia “osando scrivere la parola “fascista””. Per questo suo “ritrarsi nel comodo alveo della vulgata” egli avrebbe “ricevuto il plauso del prof. Pezzino: “Le incongruenze rilevate da Vezzoni, pur reali, non possono comunque spingere a mettere in discussione questo dato di fatto, perché i bollettini delle perdite sono precisi””. Donde l’ennesima critica al cattedratico, per il quale “siccome le carte tedesche stabilivano che i loro feriti erano stati due, non ce potevano essere stati tre: altrimenti sarebbe emerso conseguenzialmente che il terzo era fascista!”.

L’esistenza di un secondo ferito repubblichino viene dall’autore ricavata dalla testimonianza di Carlo Biagi: “Là sopra le ultime case di Valdicastello, proprio sopra la mulattiera per Sant’Anna, verso mezzogiorno ero in una grotta seminascosta dagli olivi. Da quel punto vennero giù diversi uomini vestiti con tute mimetiche, tedeschi; alcuni avevano il volto coperto da un fazzoletto. Erano stravolti, con la bava alla bocca, e portavano su una barella un commilitone ferito a una gamba”. Quella di un terzo, da quanto dichiarato – prima a La Nazione e poi a lui personalmente – da Landa Pelletti: “Mio padre e mio fratello, che erano andati a macinare il grano al mulino che si trovava sul sentiero verso Valdicastello, furono fermati da due tedeschi che portavano a valle su una barella un loro commilitone ferito, per essere aiutati a trasportarlo fino a Valdicastello”. Dal confronto di tutti gli elementi in suo possesso Paoletti conclude che quest’ultimo fosse stato il primo italiano a essere colpito dai partigiani.

“Le prove delle imboscate gappiste sono incancellabili nonostante che gli sciacalli avessero bruciato le salme e il CLN avesse imposto il silenzio sui mass media: a un mese dai fatti gli investigatori anglo-americani avevano accertato tre cadaveri. Nessuno li ha smentiti: solo ignorati”. Ma sono proprio le caratteristiche assunte dalla strage a confermare la fondatezza delle due inchieste più antiche: “senza l’uccisione di qualche “soldato” non si spiegherebbero l’improvvisa, parossistica furia omicida degli assassini e soprattutto le efferatezze a sangue freddo contro civili”. Ciononostante “per 70 anni si è discusso su uno o due feriti tedeschi, su due vittime di fuoco amico o nemico e non si è mai aperto il dibattito se avevano ragione gli inglesi a parlare di tre cadaveri “tedeschi” bruciati sulla piazza o i partigiani sciacalli che parlavano di due. Sei tribunali ne hanno discettato: uno a La Spezia, due a Roma, due a Stoccarda e uno a Strasburgo. Si è trattato di una distrazione collettiva, durata sette decenni? Oppure c’è stata una sapiente regia che ha orientato il dibattito storiografico e politico? Noi pensiamo che le istituzioni, il mondo accademico e i mass media abbiano messo la sordina alla relazione inglese”.

Le responsabilità repubblichine  Altro cardine del gigantesco depistaggio messo in atto è l’esclusione dalla scena di Sant’Anna dei repubblichini. Lo scrupoloso Paoletti si chiede anzitutto se corresponsabile dell’eccidio sia stata la 36a Brigata nera o un altro corpo del medesimo schieramento, lamentando come anche in questo caso “settant’anni di mancata ricerca sul versante fascista consentono di fare solo delle ipotesi”. Avendo il dibattimento spezzino accertato la presenza a Lucca in quei giorni del IX battaglione delle SS italiane, ed essendo stati due suoi componenti di Pietrasanta riconosciuti nella truppa che scortava i rastrellati da Valdicastello al capoluogo, la corte concludeva che proprio a quella unità i tedeschi avessero affidato il trasferimento dei prigionieri: il che fa del IX battaglione l’altro principale indiziato della strage.

L’autore riporta questa dichiarazione rilasciatagli dal partigiano Fortunato Menichetti: “Io i brigatisti neri li avevo già visti all’opera sul monte Ornato il 30 luglio. I tedeschi li avevano mandati in testa e io sentii che da quelle mimetiche tedesche uscivano parole in italiano: “Arrendetevi, banditi traditori”. Siccome non mi sembrò un accento toscano pensai agli uomini della Decima Mas: ma quelli non potevano conoscere i sentieri per salire alla Casetta Bianca”. Altro elemento di cui tenere conto è la “straordinaria capacità di iniziativa” mostrata dalla “Mussolini” in quelle settimane: il 3 agosto, in particolare, dopo il ferimento di un suo ufficiale da parte dei ribelli nei pressi di S. Lorenzo a Vaccoli i brigatisti avevano messo a ferro e fuoco il paese.

A questi Paoletti aggiunge un altro indizio, che se interpretato nella maniera più consona al suo ragionamento risulterebbe agghiacciante: “È certo che il capo della Provincia di Lucca e della 36a Brigata nera Utimperghe agì subito dopo la strage di Sant’Anna perché il 12 agosto firmò il decreto di nomina del sottotenente Francesco Casamassima a commissario prefettizio di Pietrasanta e Camaiore”. Operando Casamassima proprio nel distaccamento camaiorese della brigata, si vuole forse suggerire che un possibile boia di Sant’Anna sia stato ricompensato a tambur battente della carneficina effettuata con quell’avanzamento di carriera?

Ma proseguiamo nella lettura. “Dal momento che le testimonianze hanno accertato la presenza di almeno due mitragliatrici a Sant’Anna, queste non potevano che venire da una brigata nera: la 36a aveva un distaccamento a Camaiore e quindi è verosimile pensare a truppe provenienti anche da lì. Ma quel distaccamento non contava più di 15-20 uomini, mentre i fascisti a Sant’Anna furono molti di più; è inoltre difficile che esso potesse disporre di due mitragliatrici: per cui bisogna pensare che queste provenissero da Lucca. D’altra parte Lidia Maremmani, una signorina introdotta negli ambienti nazifascisti, interrogata nel 1946 “ricordava che gli elementi tedeschi e fascisti che operarono il rastrellamento, e quindi l’eccidio di Sant’Anna, provenivano da Lucca””.

Difficile al tempo stesso supporre che un battaglione – di qualsivoglia corpo e nazionalità – impegnato in una guerra non disponesse di due mitragliatrici. Ma ecco intervenire a favore della prima ipotesi un altro elemento: il fatto che la piastrina delle SS italiane fosse uguale a quella che portavano le SS tedesche, e quindi diversa da quella rinvenuta tra i cadaveri sulla piazza della chiesa. Il che porta Paletti ad addossare alla 36a la responsabilità del massacro, lasciando al IX battaglione il mero compito di fare da scorta ai rastrellati, come sentenziato dai giudici spezzini.

Una soluzione che farebbe dunque del comandante del distaccamento camaiorese della brigata, il tenente Ernesto Cirillo, un criminale di guerra dei più efferati. Del resto secondo Giuseppe Pardini – autore del volume La RSI e la guerra in provincia di Lucca – quel presidio si sarebbe distinto per atti di particolare ferocia, assegnando implicitamente a Cirillo “le caratteristiche per aspirare ad essere il serial killer che reagiva alle suppliche sparando con la pistola alla testa di chi si rivolgeva a lui avendolo riconosciuto come comandante”. In ogni caso – conclude Paoletti ribadendo le proprie convinzioni – se oggi non possiamo dire di più su questo criminale ignorato da tutti è perché si sono dati in pasto all’opinione pubblica dieci capri espiatori, a nostro giudizio del tutto estranei all’emanazione degli ordini e all’esecuzione della strage”.

Qualunque sia stata l’unità di appartenenza dei carnefici italiani, ci sarebbero due circostanze inoppugnabili. La prima consiste nel fatto che essi portavano la medesima divisa da SS dei tedeschi ma, a differenza loro, alcuni di essi agivano con il volto coperto, evidentemente per non essere riconosciuti dai santannini (le testimonianze parlano di uomini “mascherati” o “bendati”, quando non “incappucciati”); altri invece mostravano le proprie sembianze: secondo l’autore perché non erano della zona. La seconda che, sapendo che gli ordini ricevuti dalle SS non prevedevano l’eliminazione della popolazione, si facevano consegnare le persone sgomberate per farle fuori. “Due costanti del massacro fascista o brigatista sono che: gli italiani discutono con i tedeschi; prendono i civili che vogliono eliminare e li portano, se possibile, lontano dagli occhi dei soldati. Ai Cigli, sotto al Colle, si ha la prova che neppure i tedeschi dell’8a compagnia, che avevano avuto due feriti, si vendicarono: anche qui gli assassini furono tutti fascisti”.

Lo stesso copione si ripeté a La Culla, come riportato da don Vangelisti nel suo memoriale, ove viene descritta una mattinata quantomai movimentata e drammatica. “La prima squadra che entrò in chiesa, dove si erano rifugiati gli abitanti della borgata al rumore degli spari, era composta da soldati germanici: parlavano tedesco tra loro e si rivolsero al prete in un incerto italiano (“qui partisanen?”). Alla risposta negativa se ne andarono”. Altre SS giunte successivamente chiesero al sacerdote se la frazione facesse parte del comune di Stazzema; arguendone egli che l’operazione fosse circoscritta a quel solo comune, mentendo rispose La Culla trovarsi in quello di Camaiore: cosicché pure questi soldati se ne andarono. Senonché “molto più tardi, verso mezzogiorno, arrivarono nella borgata altri militari; questa terza squadra sparò senza motivo a delle ragazze, ferendone una”.

Secondo Paoletti si tratta dell’“ennesima dimostrazione che l’ultima squadra era sempre quella che sparava ed era composta da italiani di ritorno dal fallito inseguimento di gappisti. In questo caso gli sparatori erano accompagnati da razziatori: altri fascisti che si erano accontentati di portare via un cavallo”. Inoltre, “poiché furono i fascisti i massacratori, furono loro anche i “giustizieri” che davano il colpo di grazia: alla Vaccareccia come ai Cigli, ai Franchi come a Coletti di sotto”. Fu in particolare a Sennari che “si vide la differenza tra tedeschi e fascisti: erano vestiti in modo identico, ma i primi riunirono per sfollare, i secondi misero i civili contro un muro e la mitragliatrice davanti”.

Inizialmente tuttavia anche i brigatisti avevano assecondato il comportamento dei camerati tedeschi, i quali, “tranquilli, aiutavano i civili a sfollare o li invitavano a scappare, dicendo che al peggio avrebbero bruciato qualche casa”. Cosa fu allora a trasformare quell’azione palesemente incruenta in un massacro? “Quando i fascisti seppero dei loro morti, divennero vendicativi e i tedeschi per salvare i civili dovettero fingere di ucciderli”; in questo degenerare dell’operazione, “l’assenza del comandante di battaglione si fece sentire”. Emblematico quanto accaduto alla Vaccareccia, ove “si nota un improvviso cambio di decisione: dopo un iniziale conteggio degli ostaggi si passa alla strage indiscriminata. Ciò ci porta a credere che i nazisti avessero deciso una rappresaglia selettiva; ma i fascisti ne approfittarono per compiere la loro vendetta”.

Dopodiché l’autore si spinge a ipotizzare un cambio di nazionalità anche per le sventagliate di mitraglia sparate sulla piazza, che giunsero a colpire le canne dell’organo della chiesa; il che farebbe attribuire agli italiani pure i 132 morti contati da don Vangelisti. “Si è sempre dato per scontato che le mitragliatrici che spararono sulla piazza fossero state naziste. In teoria avrebbero potuto appartenere alla 5a compagnia; ma l’ipotesi più aderente ai fatti e alle testimonianze è che fossero tutte fasciste, di ritorno dalle stragi ai Cigli e alla Vaccareccia”. Allo stesso tempo però egli mostra di ritenere credibili le dichiarazioni di Haase: per cui questa dell’eccidio tutto brigatista rimane una mera ipotesi. La quale, se veritiera, sortirebbe peraltro un esito paradossale: le sole vittime mietute dai tedeschi relativamente all’operazione del 12 agosto diverrebbero a quel punto i 53 rastrellati di Valdicastello che le SS avevano portato via per avviare ai lavori forzati e che, causa il sopraggiunto agguato di Bardine, finirono invece trucidati in quella località.

Parimenti, “tutti accusano i nazisti di aver ucciso gli uomini trovati dietro al campanile: invece gli assassini furono sempre i fascisti”, come lascia intuire già l’episodio riguardante i portamunizioni riferito da Enio Mancini. “Ad Agostino Bibolotti tolsero la radio dalle spalle e insieme agli altri tre che erano con lui li fecero sistemare contro il muro, sul lato nord della chiesa. Per loro era la fine, così almeno credevano; invece un graduato ordinò al soldato di sospendere la fucilazione perché questi uomini dovevano ancora servire per portare a valle i pesanti carichi e solo laggiù avrebbero completato l’opera”.

“Secondo noi – commenta Paoletti – dopo l’episodio sul lato nord della chiesa i fascisti capirono che l’unico modo per uccidere i portamunizioni sarebbe stato quello di portarli fuori dalla vista dei tedeschi, per cui ordinarono loro di andare dietro al campanile. Ancora una volta gli unici che avevano un movente per ucciderli erano i fascisti: tappare la bocca a chi si era reso conto che l’eccidio alla Vaccareccia era stato commesso da italiani vestiti da tedeschi e forse poteva essersi accorto che due degli addetti alle mitragliatrici sistemate sulla piazza erano gli stessi visti alla Vaccareccia. Dunque quei cadaveri trovati dietro al campanile erano frutto delle esecuzioni fatte dai fascisti contro la volontà dei tedeschi e a loro insaputa. Ai tre che erano con i Bibolotti ne aggiunsero altri e probabilmente li eliminarono mentre il rumore delle mitragliatrici copriva i colpi secchi delle pistole fasciste. Giuseppe Pardini ci offre la prova che furono i fascisti ad uccidere: “I cadaveri sul petto avevano un cartello con la scritta: ‘Questo è quello che si aspetta ad ogni partigiano’”. Anche i fascisti cercano di ingannare i santannini”.

Basandosi sulle testimonianze l’autore calcola che tra i portamunizioni si siano registrate 21 vittime, eliminate “per aver visto troppo”. Per identificarne gli assassini egli si affida alla regola del cui prodest, la quale suggerisce che solo gli italiani avrebbero potuto avere interesse a farli fuori in quanto “scomodi testimoni oculari delle loro stragi alla Vaccareccia, sulla piazza e ai Cigli”. Altri particolari ricorrenti nei racconti di molti sopravvissuti sono che solo persone della zona avrebbero potuto condurre le SS per luoghi del tutto fuori mano rispetto ai sentieri principali, e che quegli uomini vestiti esattamente come i tedeschi si esprimevano in italiano o in versiliese.

“Altro punto fondamentale: gli sgomberati di Sennari come i superstiti del mitragliamento ai Cigli e a Coletti di sotto si erano resi conto che dietro alle mitragliatrici c’erano italiani, alcuni mascherati e altri a viso scoperto. Già ad agosto del ‘44 si potevano raccogliere i nomi dei fascisti che avevano guidato le colonne e ci si poteva chiedere chi potesse disporre di mitragliatrici. Alemaro Garibaldi e Giuseppe Ricci, due noti fascisti, avevano ammesso nel ‘45 di aver portato le munizioni per una squadra dotata di una mitragliatrice. Se nel ‘45 i carabinieri li avessero interrogati come imputati di strage invece che di collaborazionismo avrebbero potuto chiedere loro a chi appartenevano quelle armi automatiche. E soprattutto avrebbero potuto chiedere perché i fascisti si erano portati dietro due mitragliatrici”.

Quindi un episodio rivelatore, ancora relativo a Menichetti, il quale la mattina del 13 agosto si era trovato anch’egli sulla piazza di Sant’Anna, scrivendo a tale proposito: “Sul retro della chiesa, giù in basso, trovammo una donna uccisa, con il corpo lacerato da colpi di baionetta, che potrebbero essere stati inferti dai camerati italiani delle brigate nere”. Richiesto da Paoletti di spiegargli il motivo per cui avesse pensato proprio ai brigatisti e non ad altri, l’ex partigiano gli ha risposto: “Perché i brigatisti neri erano i più feroci tra i fascisti, e quelle porcherie le potevano fare solo loro””. Si ha inoltre notizia di ragazzette prese a schiaffi e a pugni, di due giovani sorelle trucidate senza l’impiego di armi da fuoco: potevano essere gli stessi tedeschi che salvavano i ragazzini – si chiede retoricamente l’autore – a commettere simili nefandezze? No: “chi voleva far soffrire la vittima era qualcuno che si voleva vendicare: e i fascisti avevano avuto dei morti. Forse le ragazze furono massacrate di botte per non farsi sentire dai tedeschi”.

Su tali misfatti repubblichini nessuno ha mai indagato: perché? “A tutto lo schieramento politico italiano, dall’estrema destra all’estrema sinistra, faceva comodo gettare ogni colpa unicamente sui nazisti”. Di conseguenza, i vari inquirenti che si sono avvicendati negli anni “hanno solo fatto finta di indagare nel mondo fascista, e “per salvare la memoria delle stragi nazifasciste” hanno ascoltato solo i testimoni oculari antinazisti, ignorando quelli che ricordavano uomini mascherati dietro le mitragliatrici. Così nel 2004 il PM della Procura militare spezzina si diceva “intenzionato” a indagare in futuro nei confronti di quei fascisti che “avevano partecipato” all’eccidio; ma poi non lo ha fatto. E ora che i responsabili italiani delle stragi sono tutti morti, l’ex presidente della Repubblica Scalfaro ha coniato una frase che ammazza la Storia e salva i criminali nostrali: “La storia è già stata scritta e non la si può cambiare”. Sembra che le istituzioni abbiano sempre voluto arrivare al punto di poter dire: “ormai è troppo tardi per sapere la verità e punire tutti i colpevoli. Accontentiamoci di quella parte di giustizia che è stata fatta”. Ma se ai pochi condannati un tribunale civile tedesco ha riconosciuto l’insufficienza delle prove, che giustizia è?”.

A dire il vero qualcuno che ha tentato di infrangere il “muro di omertà” innalzato a copertura dei crimini brigatisti c’è stato: al processo di La Spezia il testimone Angiolo Berretti, una volta congedato dal pubblico ministero, riprese spontaneamente la parola per introdurre un argomento che il magistrato nelle sue domande non gli aveva posto, e riguardante il giovane segretario del Fascio di Sant’Anna Rinaldo Bertelli, residente alle Case. Ricordato come a seguito delle sue rassicurazioni (“Voialtri se vengono qui i tedeschi o i fascisti non abbiate paura. Anche gli uomini che sono qui nella borgata che rimangano pure, che dove sono io non c’è pericolo”) alle Case fossero rimasti quasi tutti, Berretti veniva all’episodio della sua uccisione. “Quando i tedeschi sono ridiscesi dalla borgata dei Franchi, lui è andato loro incontro con un pacco di fogli e li ha offerti a quello in testa. Questo tedesco se li è messi qua sopra la mano, ha cominciato a sfogliarli, ne ha letti un po’, poi li ha presi e li ha tirati via. Si è levato il fucile dalla spalla e lo ha mitragliato”.

“Queste parole sono state ignorate da tutti – ci spiega Paoletti – perché ponevano un paio di domande ineludibili: perché in un’operazione contro le bande non si trova una vittima partigiana ma vengono sterminati i fascisti? Perché questo dato di assoluto rilievo è stato taciuto per 60 anni ed è tuttora ignorato dagli organi inquirenti? La risposta è semplice: perché cancellava la premeditazione, pilastro della strage programmata, e faceva emergere la guerra civile”. Eloquente la reazione che si ebbe in aula a quella imprevista dichiarazione che evidentemente veniva a scompaginare il copione già predisposto: nel silenzio del pubblico ministero, l’avvocato di parte civile disse di non dover porre domande, consentendo così al presidente di licenziare l’importuno teste.

Avendo l’eccidio mietuto altre vittime repubblichine, l’autore esclude che ad ammazzarle siano stati i tedeschi, puntando invece il dito sui brigatisti che avrebbero in tal modo fatto pagare loro la collusione con i partigiani. “L’uccisione di Bertelli fu causata da motivazioni prettamente politiche. I fascisti duri e puri avevano da rimproverare molti errori a quel piccolo gerarca di montagna: non solo si era nascosto con i suoi in una borgata nel bosco concedendo la piazza della chiesa alle quotidiane visite dei partigiani che socializzavano con le ragazze del paese, ma per mesi aveva chiuso entrambi gli occhi sulle esecuzioni di esponenti fascisti da parte dei partigiani. I brigatisti neri e i fascisti saliti a Sant’Anna sapevano che i partigiani di Bandelloni e non solo scendevano da quel monte sopra alla casa del Bertelli per rapire esponenti fascisti del litorale. Poi li portavano sul Gabberi, eletto a luogo di esecuzione di fascisti che giravano senza scorta; per fare ciò i garibaldini passavano sotto il naso del segretario del Fascio di Sant’Anna. Era evidente che quel Bertelli nel migliore dei casi “tirava a campare” o aveva fatto un tacito accordo con i partigiani: ai brigatisti neri egli appariva come un codardo e un complice del nemico!”.

A scontrarsi a Sant’Anna furono dunque “due mentalità: i fascisti venuti dalla piana sapevano di combattere una guerra civile, mentre il segretario del Fascio aspettava il passaggio del fronte pronto a rivendicare con i vincitori i propri meriti di non aver visto e sentito nulla per mesi e mesi. Agli occhi dei brigatisti neri Bertelli era diventato, più che acquiescente con i partigiani, un vero traditore. Quindi erano imputabili alla sua politica compromissoria le imboscate gappiste e le uccisioni dei camerati di quella mattina. Quei fascisti morti in prossimità del crinale lo condannarono a morte. Se i fascisti si vendicarono sui civili che potevano avere avuto l’unico torto di aver sfamato i partigiani, non era logico che il primo ad essere punito fosse quel funzionario senza nerbo e corresponsabile di quei morti?”.

Proseguendo nella sua accurata analisi dei fatti Paoletti avanza ragionevoli ipotesi investigative che inquirenti e giudici spezzini si sono guardati bene soltanto dallo sfiorare. “Nell’omicidio di Bertelli si ritrovano due caratteristiche apparse in precedenza, ai Franchi. Anche qui chi spara, tace. Oltre a quest’indizio ce n’è un altro: ai Franchi l’uomo ucciso dentro casa era andato incontro al “tedesco” mostrandogli il suo lasciapassare di operaio della Todt ma il soldato alzò la pistola e senza dire una parola gli sparò in bocca. Le modalità di questo assassinio ai Franchi sono leggermente diverse da quelle alle Case in quanto il militare col fucile prende gli attestati che gli porge Bertelli, li esamina e poi lo uccide. Nessuno dei due sparatori dà alcuna validità a quei documenti, e anche questo porta a pensare alla rabbia del brigatista nero di fronte a questi “vigliacchi” che esibiscono esenzioni e documenti per sottrarsi alla lotta contro i partigiani”.

Ma anche “altri particolari escludono i nazisti. Un soldato tedesco, dopo aver sentito i rumori di una battaglia, non sarebbe entrato in una borgata con il fucile in spalla, mentre il fascista poteva sapere che lì abitava il segretario del Fascio con i fascisti del paese e che non c’erano da aspettarsi pericoli. Un soldato tedesco che non sapeva l’italiano non si sarebbe messo a sfogliare le carte: al massimo avrebbe guardato se in cima c’era il simbolo del fascio littorio. L’unico militare che poteva mettersi a “leggere un po’ i fogli” era un italiano. Pertanto crediamo che se un semplice soldato tedesco avesse notato il fascio littorio sui fogli offertigli da un uomo con o senza la camicia nera, non gli avrebbe sparato: sapeva che c’erano ordini tassativi di non toccare i fascisti!

“Infine chi, tra un soldato tedesco che aveva avuto due camerati feriti e un volontario italiano che aveva perso sei o sette amici era portato a non accettare pezze giustificative? In quel contesto generale di guerra civile e dopo aver subito perdite per le imboscate, un fascista trovava moventi sufficienti per vendicarsi sugli attendisti e sui civili. Secondo noi non ci sono dubbi che il segretario del Fascio fu ucciso da italiani: se fosse stato una vittima delle Waffen-SS, si sarebbe subito fatta notare la ferocia dei nazisti che avevano sparato su tutti i civili, compresi i fascisti. E invece tutti, ma proprio tutti, hanno taciuto per 60 anni e dopo che Berretti aveva riferito l’episodio in aula hanno continuato a far finta di niente. È questo assordante silenzio delle istituzioni e degli addetti ai lavori la migliore prova che i brigatisti neri furono gli assassini dei fascisti santannini e dei civili e che, per proteggerli, gli antifascisti hanno continuato a mantenere un vero e proprio mutismo sulla carica ricoperta da Bertelli e sull’identità del suo assassino”.

Ma Berretti aveva testimoniato alla Corte anche di un’altra esecuzione avvenuta alle Case, quella di Daniele Mancini, mitragliato da “un uomo” al quale aveva detto, evidentemente sorpreso della sua presenza: “Anche te sei qui con loro?!”. “Premesso che “uomo” – spiega Paoletti – è uno dei termini alternativi usati dai santannini in sostituzione dell’impronunciabile “fascista”, l’episodio è di assoluta trasparenza: un soldato uccise un conoscente solo perché lo aveva riconosciuto. Che senso aveva consumare un reato molto grave come l’omicidio volontario in presenza di altri testimoni, per evitare una futura accusa di collaborazionismo? Così facendo si moltiplicavano e non si azzeravano le possibilità di essere denunciati e condannati a guerra finita”. Più plausibile appare perciò un’altra spiegazione: “Quel gesto inconsulto di sparare a sangue freddo su un essere umano non si spiega solo con un clima da guerra civile ma come una vendetta. Quel quid che fece compiere all’”uomo” questo atto criminale poteva essere stato solo la rabbia di chi aveva visto morire un camerata e non voleva aspettare un tribunale per avere giustizia! Agli occhi dell’omicida il Mancini non era solo un complice dei partigiani, ma anche un testimone pericoloso in quanto dopo la strage ai Franchi avrebbe potuto accusarlo di concorso in omicidio. Se quel giorno si poteva uccidere un vecchio solo perché ti aveva riconosciuto, non ci possono essere dubbi: a ucciderlo era stato un altro fascista, non certo un soldato tedesco”. Che sfortuna – verrebbe da dire – per il povero Mancini imbattersi in un conoscente di chissà quale parte della Lucchesia, che proprio in quanto non versiliese non aveva problemi a mostrare a Sant’Anna il proprio volto.

Il rogo dei cadaveri, i partigiani sciacalli e Bandelloni  L’altro capitolo dolente della strage è dunque rappresentato dall’orrore nell’orrore: il rogo dei cadaveri sulla piazza della chiesa. Si parte ancora una volta dalle dichiarazioni di Marino Curzi alla commissione americana: “Verso le due del pomeriggio sulla piazza vidi molti corpi carbonizzati. Cercai di trovare tra di loro mia sorella, ma non riuscii a trovarla; allora mi diressi verso un altro gruppo, che non era stato bruciato dalle fiamme”. Ma anche un altro testimone, Adolfo Mancini, vide due cumuli di cadaveri sulla piazza: che era del tutto illogico pensare fossero stati fatti dai tedeschi. Piuttosto – argomenta Paoletti – “questo passaggio descriveva il modo di operare dei partigiani sciacalli: “ripulivano” i corpi sulla piazza e poi una volta impossessatisi del denaro e degli oggetti di valore li gettavano sul rogo che veniva continuamente alimentato”. Ecco dunque spiegata la presenza di due distinti mucchi di vittime.

Anche su questo la sentenza di La Spezia non ha voluto fare luce, limitandosi a riprendere la vulgata e pure con l’impiego di un’ironia del tutto fuori luogo: “La strage nazista ha trovato il suo culmine nell’immane carneficina del piazzale della chiesa, seguita, come se non ne avessero fatte ancora abbastanza, da quell’infame rogo alimentato persino con gli arredi della chiesa”. La malafede traspare secondo l’autore anche dai termini in cui i giudici riportano la deposizione del principale testimone: “Marino Curzi vide due-trecento morti carbonizzati sulla piazza”. “È incredibile – egli commenta – che la più grossa menzogna sugli avvenimenti seguiti alla strage sia stata così codificata in una sentenza e che questa solare falsità si perpetui ancora nel tempo”. A questo punto comprendiamo perché il governo tedesco si sia rifiutato di assecondare una “giustizia” tanto sommaria e negligente, non concedendole i condannati.

Ovviamente la storiografia “ufficiale” successiva non aspettava altro per riprendere a suonare la grancassa della vulgata: qui Paoletti si scatena, bacchettando diversi storici e cronisti. Anzitutto Carlo Gentile, altro accademico a distinguersi come pervicace accusatore degli occupanti: “Anche qui il cumulo dei cadaveri fu coperto di materiale infiammabile e incendiato dai tedeschi. Per ottenere un bel fuoco furono accatastati sui morti mobili presi dalle case, le panche dalla chiesa e paglia”. “Eppure Gentile – rimarca Paoletti – conosceva il nostro libro con la deposizione di Kurz/Curzi; ma, come i giudici, ignorava i due cumuli e la sentenza dove si riferiva che Remolo Bertelli aveva parlato di “episodi di sciacallaggio””. Una ulteriore bordata si becca poi Cipollini, “recidivo manipolatore di documenti” nonché subdolo artefice di “un sistema più sicuro”, consistente nel “riportare la testimonianza del Kurz tagliando però la domanda e la risposta “scomoda””.

Quindi il rammarico per il fatto che la documentata ricerca edita nel ‘98 sia stata negletta dagli stessi inquirenti spezzini. “Se nel 2004 qualche consulente o magistrato avesse letto il nostro libro pubblicato prima che cominciassero le indagini della Procura di La Spezia avrebbe immediatamente capito che i tedeschi non potevano aver fatto due mucchi di cadaveri o che ne avessero bruciato uno solo. E poi, perché gli sciacalli avrebbero dovuto bruciare dei corpi già carbonizzati? Qui sta il punto: da 70 anni tutti scrivono di “cadaveri carbonizzati” senza sapere o bluffando sul significato di “carbonizzato”: nessuno ha visto corpi completamente neri ma tutti usano quest’aggettivo! Lo scopo di questa macroscopica bugia era proprio quello di esorcizzare le “imprese” dei partigiani sciacalli. Anche questa unanime attribuzione dei crimini partigiani ai nazisti non fa parte del complotto delle istituzioni centrali e periferiche per allontanare dalla strage l’immagine dei partigiani piegati sui cadaveri per spogliarli e cancellare col fuoco le tracce del crimine?”. Questo nonostante nel 2003 i carabinieri della stazione di Pietrasanta avessero trasmesso ai colleghi impegnati nell’istruttoria spezzina i verbali relativi agli interrogatori dei due “sciacalli” a suo tempo catturati, i pugliesi Amedeo Celozzi e Rocco Maselli.

“In questi 70 anni tutti si sono rifiutati di usare il buon senso comune. Perché i tedeschi fecero uso di portatori di munizioni e di una ricetrasmittente e non di far trasportare i più pesanti lanciafiamme? Perché la metà delle case risparmiate dai fascisti e quelle che nel pomeriggio del 12 agosto non bruciavano più il 14 ardevano ancora? Nell’ottobre 1945 Celozzi e Maselli avevano confessato il “metodo di lavoro” degli sciacalli: trasportavano i cadaveri dentro le case rimaste intatte, li depredavano e poi incendiavano la casa per far crollare il soffitto e far scomparire le tracce dello sciacallaggio. Nel 2003 riemersero i verbali d’interrogatorio degli sciacalli e nel 2005 era già stato tutto dimenticato? Riassumendo, i tedeschi non potevano aver dato fuoco ai cadaveri perché subito dopo la strage abbandonarono la piazza: e il fatto che Adolfo Mancini e Marino Kurz avessero visto due mucchi di cadaveri, uno bruciato e uno no, dimostra che questo non poteva essere opera dei tedeschi! Ciò premesso, dal momento che qualcuno tentò di incendiare anche la chiesa sarebbe azzardato pensare all’ennesimo depistaggio dei partigiani sciacalli?”.

Viene quindi nuovamente tirato in ballo il già “fantasioso” Giannelli – stavolta investito dall’autore del titolo di “giornalista di punta della vulgata” – per avere involontariamente dimostrato che i cadaveri sulla piazza erano stati depredati da questi scellerati. Costui, in una didascalia a una serie di foto pubblicate in un suo libro, scriveva: “Queste foto furono ritrovate nei pressi delle vittime uccise sulla piazzetta della chiesa. Le lanciarono le stesse vittime negli attimi precedenti al loro massacro, forse nella speranza di farsi riconoscere”. Un’ipotesi oltremodo assurda, che offre a Paoletti l’occasione per un’altra tirata d’orecchi ma sfruttando al tempo stesso la maldestra pubblicazione a vantaggio della propria tesi. “Per cancellare il ricordo dei partigiani sciacalli e negare la loro opera criminale Giannelli sfiorava il grottesco. Queste astruse congetture potevano arrivare solo da persone che avevano in testa preconcetti sbagliati. Quelle foto sparse sul terreno intorno al falò sono la prova più evidente che nell’ansia di essere scoperti sul fatto i partigiani estraevano frettolosamente dai portafogli il denaro, gettavano via le foto e buttavano nel fuoco il portafoglio. Se fossero stati i nazisti a dar fuoco ai cadaveri sulla piazzetta, le banconote e le foto racchiuse nei portafogli sarebbero bruciate insieme ai cadaveri e i partigiani non sarebbero mai diventati sciacalli. Quelle foto non erano “messaggi lanciati verso i superstiti” ma gli scarti dell’opera di sciacallaggio”.

Un’immagine tremenda; ma alla quale segue un’altra che non è da meno. Scrive ancora Giuseppe Pardini nel suo memoriale, riferendosi ai corpi degli adulti ammucchiati nella piazza: “Erano tutti ricoperti da piccoli bambini che sembravano uccelletti arrostiti”. “Siccome è presumibile che le madri furono colpite mentre tenevano in braccio o abbracciavano i bambini più piccoli – si chiede l’autore – chi, se non gli sciacalli, poteva aver sciolto quell’abbraccio? Si può immaginare che gli sciacalli furono costretti a farlo per poter perquisire le donne. Così una volta compiuta la perquisizione corporale sulle donne, che potevano aver nascosto il denaro sotto le vesti, buttarono le madri sul rogo e poi vi gettarono sopra i loro bimbi che erano stati messi in terra accanto a loro”.

Essendo evidente che se i tedeschi avessero dato fuoco ai cadaveri delle loro vittime non vi sarebbe stato nulla da rubare tra quei poveri corpi carbonizzati, solo la menzogna avrebbe potuto salvare quei criminali dall’accusa di avere commesso un simile scempio: rivolgerla alle SS era dunque l’unico espediente per far scomparire dalla scena i partigiani sciacalli. Paoletti produce ben undici prove che escludono che siano stati i tedeschi a dare fuoco a cadaveri e arredi sacri; di conseguenza, pure l’accusa di blasfemia rivolta loro da più parti va riferita agli sciacalli.

Ad avvalorare la vulgata è stato anche in questo caso Pezzino, con l’esecrare un “comportamento, oltre che crudele, blasfemo, che ben evidenzia il carattere pagano e anticristiano di quella divisione di SS”. Sulla sua scia si è mosso il legale rappresentante il Comune di Stazzema nel procedimento spezzino: “L’uso sistematico di lanciafiamme per bruciare non tanto le case quanto i corpi delle vittime della strage rientra nel criminale disegno di non lasciare tracce certe delle infami azioni compiute dalle SS con indicibile ferocia”. A rincarare la dose è quindi intervenuto il saggista Marco Piccolino: “L’elemento della dissacrazione è forte. I massacratori violarono la chiesa distruggendo gli arredi sacri, utilizzandoli poi per alimentare il fuoco delle pire umane accese con i lanciafiamme”.

E invece gli autori del sacrilegio erano stati ben altri: tredici galeotti fuggiti dal carcere di Massa, accolti a braccia aperte nella “Lombardi”. “Ahinoi – commenta Paoletti – chi aveva violato il sentimento religioso e la sacralità della chiesa erano stati i partigiani sciacalli che avevano tentato di incendiare la chiesa e avevano usato le panche e le tovaglie per attizzare il fuoco dei cadaveri. “Il carattere pagano e anticristiano” questa volta andava attribuito a siciliani, pugliesi, abruzzesi e a un fiorentino, inquadrati fino a pochi giorni prima in una brigata garibaldina”. Sono proprio tali individui a costituire “la macchia nera che ha sfregiato la Resistenza versiliese e che condiziona ancor oggi la verità”. Del resto, “distruggendo le prove delle imboscate gappiste essi si garantirono un potere ricattatorio nei confronti dei politici”. L’autore ne fa nomi e cognomi, giungendo a ricostruire la vita che alcuni di essi ebbero a rifarsi “con i soldi altrui”: ossia gli averi sottratti ai martiri di Sant’Anna.

“Nel 1944 Lando Fabbri investì la sua quota nella spartizione del bottino per creare una banda di rapinatori tutta sua: così l’anno successivo era già diventato famoso come il capo della “banda dell’autostrada”. Catturato, fu condannato a morte; ma poi ebbe la pena commutata in ergastolo e infine ulteriormente ridotta. Dopo la loro scarcerazione Maselli e Celozzi rientrarono in Puglia: Maselli si reinserì nella vita sociale, si sposò ed ebbe una numerosa prole, naturalmente senza raccontare a nessuno dei suoi trascorsi giudiziari; anche Celozzi investì i soldi per condurre una vita onesta”. Stesso destino per il pezzo da novanta, il “milanese” Timoscenco, all’anagrafe Bruno Speziale da Brembate.

Identico nome di battaglia si era dato Paolo Marino, già stretto collaboratore del commissario politico della brigata e in seguito protagonista di una curiosa vicenda criminosa. “Timoscenco 2, il braccio destro di Breschi, tentò senza convinzione una rapina, così che si accordò con la mancata vittima; questi lo invitò a dormire a casa sua, ma la mattina dopo lo denunziò. La Nazione del Popolo ci fece un articolo di colore; ma a causa della mancata distribuzione della cronaca di Lucca in Versilia nessuno seppe dei suoi precedenti giudiziari. Anche la sua è una happy end story: dopo pochi mesi dalla scarcerazione si fidanzò e si sposò, avendo trovato lavoro al Comune di Viareggio”.

Paoletti ricorda quindi come, nel manifesto affisso dai santannini per il primo anniversario della strage, testimoni oculari avessero scritto: “Quando i barbari furono andati via dal paese, entrarono i partigiani e spogliarono i morti delle loro ricchezze”. Eppure “il ricordo degli sciacalli è stato così ben rimosso che oggi l’espressione “partigiani sciacalli” è considerata un ossimoro”. A due autori spetta il merito di avere rotto tale silenzio: Giorgio Pisanò e Giampaolo Pansa. Degno di nota quanto avvenuto nel 2007 alla presentazione del libro di Pansa Sconosciuto 1945, pesante atto d’accusa contro le nefandezze compiute dai partigiani comunisti: nel corso del dibattito un superstite di Sant’Anna confermò la spoliazione dei cadaveri di donne e anziani operata dai “patrioti”.

Nel ‘99 Angiolo Berti, medaglia d’oro della resistenza, scrisse sul Tirreno con riferimento alle testimonianze di santannini che avevano denunciato gli atti di sciacallaggio commessi dai partigiani: “La Resistenza è sacra: ma sono gli uomini che uno a uno dovrebbero ancor oggi essere valutati”. Dunque un invito a riconoscere l’importanza etica e storica del movimento di liberazione ma senza negare gli errori singolarmente commessi dai suoi appartenenti. Amaro il commento dell’autore: “Purtroppo la società italiana non ha recepito questo insegnamento”. Le cose non sono cambiate neppure con l’avvento di Internet: nonostante nel 2005 anche il Giornale abbia denunciato quanto avvenuto a Sant’Anna dopo la strage, “oggi nessun motore di ricerca dà alcun risultato per il termine “partigiani sciacalli”. Ciò significa che neppure il web è riuscito a sconfiggere la menzogna di Stato”. Bisogna tuttavia dire che adesso, grazie proprio al lavoro di Paoletti, qualcosa in proposito dalla rete viene fuori.

Alla luce delle nuove risultanze acquisite vengono maggiormente circostanziate anche le accuse a Bandelloni, responsabile in primis di avere accolto nella propria formazione quei banditi “non considerando che mettere insieme i delinquenti comuni con i ‘veri’ partigiani non poteva che produrre l’effetto delle mele marce messe accanto a quelle sane. Il rifiuto di accogliere nella banda i delinquenti comuni non doveva servire solo a impedire di ‘inquinarla’ ma – sembra paradossale – a garantire la sicurezza sul territorio e quindi ottenere il riconoscimento dei contadini. Per mostrare concretamente alla popolazione che i partigiani erano il braccio armato del governo provvisorio proclamato a Firenze nel giugno, per garantire a sé un vero controllo del territorio e la riconoscenza del popolo, Bandelloni avrebbe dovuto disarmare e cacciare i delinquenti che si presentavano, con l’avvertimento che alla prima rapina o al primo sopruso che avessero fatto in zona sarebbe arrivata la severa giustizia partigiana”.

In definitiva il comandante seravezzino non avrebbe “fatto rispettare le regole della Resistenza: in altre bande bastava un furto ai danni dei contadini per essere fucilati. Solo dopo che i suoi ragazzi avevano rapinato e fatto sciacallaggio egli confessava a don Vangelisti: “Secondo il nostro regolamento avrei dovuto farli uccidere tutti”. Il Fabbri e Timoscenco erano incorsi nell’abbandono del posto di guardia: una mancanza che in qualunque formazione partigiana avrebbe comportato l’immediata fucilazione, con il 100% dei voti. Inoltre Bandelloni non capì che mettere armi in mano a farabutti e assassini era come invitarli a delinquere, perché da quel giorno si sentirono legittimati ad usarle? Quella gente senza valori etici e morali non poteva che usare le armi per commettere reati a loro congeniali. Poi non fu difficile per loro coinvolgere nel malaffare anche i partigiani ‘veri’ e il capo banda”.

Che gli ex carcerati avessero dimostrato fin dall’inizio di non considerarsi per niente redenti dal fazzoletto messo al collo è provato dalla testimonianza di Luciano Lazzeri. “Quella marmaglia diceva di essere partigiani e invece cominciavano a saccheggiare, ad ammazzare le galline, a vuotare i cassoni di farina. Ricordo un episodio particolarmente significativo: questi delinquenti presero un paiolo e ci fecero della polenta cruda. Era tutta grumi: un po’ la mangiarono, un po’ se la tirarono addosso l’un con l’altro”. Insomma “un insulto ai contadini che avevano sudato per procurarsi quella farina”.

“Anche in questo caso – è il commento di Paoletti – fu la popolazione a pagare per questi errori dei comandanti partigiani. Ancor prima di mettersi a depredare i cadaveri, quei delinquenti avevano commesso tanti di quei crimini che un qualsiasi tribunale partigiano li avrebbe fucilati più di una volta”. Come si evince anche dalla citata testimonianza del caposquadra Viviani, Bandelloni fece la precisa scelta di “servirsi di loro per i suoi “lavori sporchi”, per liberarsi degli avversari politici o per regolare i conti con i compagni di brigata”. Ciononostante, finora nessuno lo ha mai accusato “di aver allevato partigiani sciacalli”.

70 anni di omertà, reticenze, omissioni, menzogne  Ma “aggiustare” la strage ha significato anche ignorare l’uccisione di molti repubblichini di Sant’Anna che quel giorno aspettarono le SS in casa, rinunciando a scappare: se la loro eliminazione fosse stata opera dei tedeschi – si domanda Paoletti – perché non se ne è mai parlato? Purtroppo l’omertà non ha risparmiato neppure i congiunti delle vittime, anch’essi impegnati a nascondere che ai Franchi fosse cominciata la vendetta brigatista contro i fascisti “molli”: a cominciare da Enrico Pieri, che al processo spezzino è giunto a dimenticare di dire che suo padre era stato un ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale.

Si tratta secondo Paoletti di una testimonianza palesemente “aggiustata”. Nell’abitazione dei Pieri era ospitata la famiglia Pierotti, sfollata da Pietrasanta; all’annuncio dell’arrivo delle SS i due capifamiglia si consultarono rapidamente sul da farsi, decidendo di non darsi alla fuga. Il padre di Enrico, Natale, oltre a essere stato capitano della MVSN era fratello dell’ex segretario del Fascio locale; a sua volta, Aldo Pierotti aveva la tessera di operaio della Todt. I due avevano evidentemente ritenuto di non avere nulla da temere: un calcolo teoricamente giusto, possedendo entrambi attestati e documenti che a cose normali avrebbero dovuto porli al riparo da una rappresaglia come da un rastrellamento. Senonché al processo Enrico “nascose alla corte il vero motivo dell’anomala decisione dei due nuclei familiari: e così il PM, i giudici e gli avvocati difensori dei tedeschi non appresero che lì vennero sterminate due famiglie di sentimenti fascisti o comunque che non avevano niente da temere dai nazifascisti. Enrico Pieri testimoniava in aula senza dire se suo padre preparò i documenti da mostrare alle truppe o se fece a tempo a qualificarsi prima di essere ucciso: doveva tacere per non mettere il tarlo del dubbio nella testa dei giudici. Sicuramente egli era consapevole che se avesse detto tutta la verità avrebbe messo i giudici di fronte a un fatto che avrebbe distrutto la premeditazione nazista e fatto nascere il sospetto di un regolamento di conti tra fascisti”.

Chi non è omertoso è reticente, sempre al medesimo scopo di evitare che si venga a sapere che molti fascisti santannini furono assassinati insieme alle loro famiglie per collusione coi “banditi”. Paoletti opera una revisione anche riguardo alla valutazione di testimonianze e ricostruzioni in precedenza servitegli ad avvalorare le proprie tesi: personaggi il cui contributo all’accertamento della verità egli aveva giudicato positivamente, o al limite citato in maniera neutra, vengono adesso, nella nuova chiave di lettura della strage, sottoposti al vaglio più critico. A cominciare da Alfredo Graziani e Renato Bonuccelli: sfollati alle Case, i due hanno sempre negato di sapere che il loro vicino di casa fosse il segretario del Fascio. “Difficile credere loro – commenta l’autore – secondo noi avevano capito che ammettendo di averlo saputo avrebbero demolito la premeditazione e la strage nazista programmata”.

Diversi sono i superstiti che hanno scelto di ripiegare su una verità di comodo, fin dalla loro prima deposizione: tipico il caso di Agostino Bibolotti. “Sebbene i tedeschi gli avessero salvato la vita strappandolo per due volte ai fascisti, volle vendicarsi della deportazione in Germania attribuendo ai nazisti quanto avevano fatto i fascisti alla Vaccareccia e i partigiani sciacalli sulla piazza. Nelle sue sette deposizioni ufficiali e in tutte le interviste rilasciate egli aveva spesso cambiato versione per salvare i fascisti, sebbene il suo scopo principale fosse stato quello di nascondere lo scandalo dei partigiani sciacalli”. Paoletti racconta di come nel ‘97 avesse avuto modo di incontrarlo, chiedendogli se l’ufficiale germanico avesse utilizzato la ricetrasmittente sulla piazza, sentendosi rispondere: “Non ricordo se i tedeschi usarono o meno la radio”.

Giunto comunque alla conclusione che l’avessero usata, nel primo saggio aveva scritto che l’ordine di massacrare la gente radunata sulla piazza era arrivato via radio. Qualche anno più tardi egli avrebbe appreso dell’esistenza di un testimone oculare del dialogo tra l’ufficiale alla radio e i comandi superiori, nonché di quello avuto dallo stesso con don Lazzeri: manco a dirlo lo stesso Bibolotti, che in un’intervista ammetteva di avere sentito l’ufficiale tedesco parlare alla ricetrasmittente con Valdicastello. “Dal momento che la memoria non migliora con l’età – il commento ironico – è evidente che con me Agostino mentì sapendo di mentire, per difendere la strage nazista programmata, per non ammettere che l’ordine di sparare sulla folla era arrivato con la radio”. Egli ha inoltre “continuato fino alla fine a sostenere l’uso dei lanciafiamme, per proteggere i partigiani sciacalli”. Questa in particolare la dichiarazione di Bibolotti messa sotto accusa, contenuta nella medesima intervista: “Quando arrivai sulla piazza c’era un ammasso di carne umana che prendeva fuoco”. Donde il sarcasmo dell’autore: “Senza arrossire per la contraddizione, Agostino sosteneva che i tedeschi avevano fatto un rogo dei cadaveri… prima ancora di averli mitragliati”.

Ma la cosa più paradossale è che sui “fascisti assassini” tacciano istituzioni, politici, storici, “gli antifascisti in generale: perché? Perché i loro più accaniti difensori sono proprio i più schierati a sinistra?”. Tutti i rappresentanti di istituzioni o enti tradizionalmente organici alla sinistra (dal sindaco di Stazzema al presidente della Regione Toscana, dagli esponenti dell’Associazione Martiri di Sant’Anna a quelli dell’ANPI) si sono sempre guardati bene dal chiedere l’incriminazione dei carnefici italiani. “Senza parlare degli storici o degli studiosi di sinistra che, infischiandosi delle testimonianze dei superstiti, hanno regolarmente tolto e continuano a togliere ai fascisti le stragi nelle borgate per attribuirle ai nazisti. Come nell’altro secolo, anche in questo si continuano a proteggere i fascisti, ignorandoli”.

Nel limbo finisce il solo Vezzosi, “l’unico versiliese a parlare di “eccidio nazifascista”: ma per lui è solo un modo di dire, poiché sostiene da sempre “la strage nazista programmata senza moventi””. Ma a precipitare nella stima paolettiana è soprattutto Enio Mancini, che da testimone più che attendibile di quanto avvenuto quella mattina a Sennari diviene anch’egli un mistificatore che nel suo libro avrebbe spudoratamente “mentito sapendo di mentire”, accusato in particolare di “non avere messo in risalto il ruolo salvifico dell’ufficiale tedesco che, come alla Vaccareccia, aveva impedito ai fascisti di sparare”. Le tre sorelle Pardini, che nella strage persero la madre, hanno concordemente sostenuto che i carnefici fossero “italiani mascherati”, i quali si avvalevano sia di una mitragliatrice che di un moschetto; ciononostante, Mancini nel suo scritto li riduce a meri “traduttori” al servizio dei tedeschi, sempre allo scopo di “salvare i fascisti per attribuire la strage ai nazisti”.

Neppure la storiografia tedesca ha brillato, dal momento che “gli unici a non cadere nella trappola dell’eccidio nazista sono stati Ugo Jona e Roger Absalom”. Un comportamento anche in questo caso speculare a quello governativo: sconcertante che la Germania, per farsi perdonare, abbia sempre “elargito denaro e onorificenze a chi attribuisce ogni nefandezza ai soldati tedeschi”, quando l’espiazione sarebbe dovuta avvenire “facendo verità storica”. E così tanto lo stesso Mancini quanto Enrico Pieri sono stati colmati di riconoscimenti dalle istituzioni di quel Paese; fino all’attribuzione del Premio per la pace “per l’impegno profuso nel far luce sui terribili delitti che altrimenti sarebbero forse rimasti irrisolti”. In pratica – secondo l’autore – una vera e propria “carriera” da superstiti-testimoni-divulgatori, con interviste e notorietà assicurate a ogni ricorrenza e commemorazione.

Secondo Paoletti dietro lo stravolgimento della realtà dei fatti starebbe fin dall’inizio una “tacita intesa tra fascisti e antifascisti: un do ut des politico-giudiziario per gettare ogni colpa sui nazisti e far dimenticare le imboscate gappiste, i morti fascisti, la vendetta dei brigatisti neri e i partigiani sciacalli. Gli antifascisti avevano bisogno di tempo per far dimenticare l’evidente fuga dei partigiani al momento dell’arrivo dei tedeschi e la vergognosa discesa delle jene umane per depredare le vittime: ma prima ancora avevano bisogno del silenzio dei fascisti. Le istituzioni hanno potuto raggiungere la rimozione dei crimini dei partigiani sciacalli e raccontare la strage nel modo a loro più congeniale solo perché i loro ex nemici fascisti hanno mantenuto la bocca chiusa”. Non solo: “nel dopoguerra si è messa la museruola a chi tirava in ballo i fascisti”.

Lo studio documentale per provare la tesi sostenuta è stato assiduo, il piglio investigativo incalzante: lo dimostrano le considerazioni sviluppate su un verbale redatto dai carabinieri nel ‘45, relativo all’interrogatorio del portamunizioni Giuseppe Ricci, il quale asserì “di essere stato preso forzatamente e costretto a portare una cassetta di munizioni fino a Sant’Anna, dove assistette alla fucilazione di quella popolazione e all’incendio dei cadaveri e delle case”. Senonché Adolfo Mancini dichiarò di avere riconosciuto nel mucchio dei cadaveri i suoi familiari verso le 14: ossia dopo che le SS se ne erano andate. A quell’ora dunque i corpi non erano ancora stati bruciati; ma pure i portamunizioni avevano lasciato Sant’Anna, portati via dai militari: quattordici di essi, per essere trucidati a valle, al Ponterosso.

Paoletti ne deduce che i tre sopravvissuti (oltre al Ricci, Alemaro Garibaldi e Rino Spagnoli) fossero stati risparmiati in quanto “fascisti”: e quindi non reclutati in loco dai tedeschi e costretti a quell’incombenza, bensì loro volontari collaboratori. Con i carabinieri, tuttavia, sia Ricci che Garibaldi adottarono la medesima strategia di “farsi passare per vittime di una coercizione nazista”; ma ciò fu reso possibile anche dall’atteggiamento di chi li interrogava, il quale omise di domandare loro il motivo per cui al termine dell’operazione non fossero stati ammazzati assieme agli altri. Secondo l’autore, “quel verbale serviva ai due fascisti per comunicare alle istituzioni che accettavano il compromesso di fare una dichiarazione di comodo in cambio della loro immunità giudiziaria”. Spagnoli poi andò anche oltre, “superando gli stessi antifascisti nella propaganda antinazista” con il dichiarare che “i tedeschi bruciavano vivi i civili”. Insomma “mentivano tutti perché sapevano che i partigiani sciacalli avevano imperversato per giorni e avevano capito che accusando i tedeschi dell’incendio dei cadaveri scagionavano i partigiani sciacalli”.

Dal canto loro le istituzioni non mancarono di “onorare subito il patto mai sottoscritto: l’anno successivo tutti i fascisti vennero assolti nonostante il Garibaldi e il Ricci fossero stati riconosciuti dai due superstiti della strage sotto al Colle che li avevano denunciati. Ecco il do ut des tra assassini fascisti e istituzioni antifasciste: fascisti e partigiani avevano lo stesso interesse a fare cadere ogni colpa sui tedeschi. La strage tutta nazista permetteva ai fascisti di passare alla peggio per guide (Cipollini) o addirittura come vittime del sopruso nazista: esattamente quello che tutte le istituzioni volevano sentire. I partigiani, forti del silenzio o dell’aiuto fascista, potevano riscrivere la storia e far scomparire gli scomodi sciacalli”.

Eppure i tedeschi avevano sentito fin da subito il bisogno di precisare di non essere loro i responsabili della strage, accusandone “gli italiani”. “Per don Vangelisti – precisa Paoletti – si riferivano ai partigiani, per noi a gappisti e fascisti”. Nel suo diario il sacerdote aveva scritto: “Parlando dell’eccidio, la padrona di una casa a basso dove alloggiavano alcune SS si sentì dire da un ufficiale: “Sant’Anna non colpa nostra, colpa di italiani””. “Tutti – commenta l’autore – hanno interpretato la frase come: i partigiani ci hanno sparato e quindi noi tedeschi ci siamo vendicati. Ma è possibile anche un’altra interpretazione: i partigiani ci hanno sparato e i fascisti hanno fatto una strage per vendicare i loro morti”.

Diversi militari tedeschi hanno dichiarato di avere salvato civili da “soldati”, innumerevoli superstiti hanno confermato tali circostanze: eppure la “vulgata” è andata nella direzione opposta. Nella sentenza spezzina si è giunti a stravolgere il senso della deposizione del comandante di un plotone della 7a compagnia, Alfred Concina, il quale aveva dichiarato di non avere preso parte all’eccidio avvenuto sulla piazzetta della chiesa, limitandosi a sparare in aria. Il sottinteso è che se un comandante di plotone sceglie di non uccidere, ben difficilmente possono averlo fatto i suoi sottoposti: e quindi i carnefici vanno cercati altrove.

Tanti sono i luoghi comuni da sfatare: a cominciare da quello, sposato anche dal Paoletti 1, che attribuisce la salvezza dei molti civili a gesti isolati di soldati tedeschi “buoni”. Secondo le nuove conclusioni dello storico fiorentino si sarebbe invece trattato di “una scelta consapevole e concordata di squadre tedesche che volevano contrastare la vendetta fascista”. Sullo stesso piano l’interpretazione data alle urla con cui le SS accompagnarono le esecuzioni avvenute a Coletti di sotto: quei militari erano drogati, imbottiti di psicofarmaci. Si tratta di un’altra “invenzione della vulgata: anche perché l’operazione del 12 agosto 1944 non poteva essere paragonata agli assalti alla baionetta della Grande guerra”. Piuttosto, atteniamoci alle parole di chi c’era: le quali ci dicono che un uomo “bendato” diede a “tre soldati mascherati” il segnale d’inizio del massacro di quelle famiglie. “L’unica spiegazione a quel comportamento dei soldati tedeschi è che questi protestavano animatamente per l’uccisione di quei civili che, secondo i loro ordini, dovevano essere portati a Valdicastello!”.

Perché – si chiede infine Paoletti – il CLN romano rivendicò l’attentato di via Rasella, che comportò la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, e successivamente il presidente della repubblica insignì il capo dei gappisti della medaglia d’argento al valor militare, mentre nel caso di Sant’Anna i politici hanno sempre negato la loro presenza? Perché a Sant’Anna oltre ai gappisti ci furono i partigiani sciacalli, che erano indifendibili.

“Dopo 70 anni di studi italiani e tedeschi in un’unica direzione e mille depistaggi italiani si può giungere ad una amara conclusione: occorre resettare e ripartire da zero. La verità di parte tedesca fu detta subito dal disertore tedesco Haase: il responsabile dell’eccidio di massa sulla piazza fu Gesele. Grazie alla politica del CLN, un pentapartito antifascista, non sappiamo niente sui massacratori fascisti. Basta la presenza di mitragliatrici leggere manovrate da italiani per ipotizzare che appartenessero alle brigate nere. Siccome i fascisti arrivati nella conca di Sant’Anna furono circa un centinaio, questi dovevano avere avuto un consistente quantitativo di tute mimetiche e divise. Se i brigatisti erano stati dotati di vestiario tedesco è molto verosimile che avessero avuto anche i moschetti Carcano mod. 91. Guarda caso don Vangelisti aveva notato accanto al cadavere di un “soldato tedesco in mimetica” proprio un moschetto di tale tipologia”.

La Resistenza inventata  L’immane lavoro svolto da Paoletti ci induce ad alcune considerazioni. Che la verità su Sant’Anna verrebbe a distruggere, o quantomeno a compromettere gravemente, quella creazione fantastica che risponde al nome di “Resistenza” ci pare fuori da ogni discussione. Nel secondo dei libri esaminati abbiamo trovato un’affermazione che ci è parsa particolarmente significativa: “L’intento di cancellare la memoria dei tristi avvenimenti seguiti alla strage ha avuto successo: oggi molti superstiti hanno rimosso quei fatti visti con i loro stessi occhi”.

Immaginiamo come l’autore nella sua infinita inchiesta abbia imparato a leggere dietro silenzi, sguardi, ammiccamenti. Immaginiamo quante persone gli abbiano detto: “Guardi che le cose non sono andate come le raccontano. Però non scriva il mio nome: perché io e la mia famiglia qua ci dobbiamo vivere”. Questione di coraggio? Non necessariamente: spesso i più disposti a parlare sono semplicemente coloro che con il sistema politico e clientelare locale non hanno sottoscritto accordi ricevendone particolari favori o prebende.

Anche noi coltiviamo la medesima sua passione di ricercare e denunciare le verità più scomode, neglette, impronunciabili: da questo punto di vista, quel tragico periodo della nostra storia è un pozzo senza fine. Abbiamo così scoperto che la bocca non va tenuta chiusa soltanto sul fatto che tutte le stragi nazifasciste hanno fatto seguito ad attentati partigiani, che i parenti delle vittime a quei “patrioti” non l’hanno mai perdonata e che i contadini apuani solevano designare quanti portavano loro via tutto con l’epiteto di “ladrigiani”.

Nelle nostre ricerche ci siamo imbattuti in tanti altri tabù: ad esempio la vicenda di un maresciallo dei carabinieri (quello di Monzone: il camaiorese Giovanni Parducci) rapito, portato in montagna e assassinato dai garibaldini di Regnano solo perché faceva il suo dovere di andare a cercare a casa i renitenti alla leva, che è stata completamente rimossa da ogni memoria e archivio istituzionale, a cominciare dalla stessa Arma. Dopo l’esecuzione i carnefici continuarono per un bel po’ a recarsi dalla moglie, facendole credere che il marito fosse ancora vivo e spogliandola di ogni avere, fino alla macchina da cucire. O quella di don Luigi Grandetti, parroco della Pieve di Offiano, morto a seguito dell’aggressione subita nel dopoguerra da parte di ex componenti la medesima formazione.

Un altro punto assolutamente da sottacere è quello relativo all’aspetto “buono” dell’occupazione tedesca. Già il qualificare indiscriminatamente tutti quanti i militari della Wehrmacht come “nazisti” risponde a nostro avviso a un preciso scopo: quello di privare ogni singolo soldato della sua individualità, sensibilità e umanità, in modo da renderlo spregevole solo per la divisa indossata; quando invece molti di loro – specie quelli operanti nei paesi – tendevano a solidarizzare con la popolazione, sino a inserirsi pienamente nel contesto locale. Una costante che abbiamo riscontrato nei racconti che abbiamo ascoltato è che quanti di essi avevano famiglia solevano mostrare ai paesani le foto dei propri bambini, come a voler dire loro: siamo stati mandati qua a fare la guerra, ma siamo esseri umani anche noi. C’era chi sapeva che certi giovani erano partigiani, ma quando li vedeva in giro fingeva di non vederli; chi andava al fiume a fare il bagno assieme ai ragazzi del paese, accettandone scherzi di ogni genere; chi amoreggiava con le loro sorelle. Così come molti ci hanno detto che quando arrivarono gli americani della “Buffalo” ebbero a rimpiangere l’occupazione tedesca: perché i cosiddetti “liberatori” non avevano niente della correttezza, del rispetto, della serietà degli “invasori”.

A Vinca, a sussidio del cantiere della Todt di cui ci ha parlato Paoletti, esisteva un presidio dal cui magazzino uscivano in continuazione viveri a beneficio degli abitanti del paese: al punto di fare del responsabile un vero e proprio beniamino della popolazione. Esattamente due giorni prima di calare su Forno, i garibaldini della “Mulargia” piombarono su tale accantonamento uccidendo quel soldato tedesco e due militi del corpo di guardia italiano; di conseguenza il cantiere fu chiuso, facendo perdere a quanti vi lavoravano come operai quell’unica fonte di sostentamento. Il fatto che la gente non avesse raccolto l’invito rivoltole da una staffetta appositamente salita in paese di portare a termine la razzia del deposito iniziata dagli stessi partigiani fece sì che Vinca venisse al momento graziata dalla Kommandantur; ma allorché fu ucciso in un agguato il sovrintendente ai lavori di fortificazione della strada, le sarebbe stato messo in conto pure l’antefatto di due mesi prima, pagato con la terrificante strage che anche in questo caso vide in prima fila i brigatisti neri.

Lo stesso dicasi per il meno noto ma altrettanto significativo eccidio di Regnano, perpetrato a seguito del rapimento e dell’uccisione del gioviale sergente comandante la Einheit – il presidio della Sussistenza germanica – di Montefiore, benvoluto da tutti per la sua umanità che lo portava a essere di volta in volta infermiere se qualcuno si faceva male, animatore della vita paesana con la sua chitarra, insegnante di dama con i ragazzi, avvocato difensore di quanti erano a rischio deportazione allorché in paese arrivavano SS e Decima Mas. In questo caso i cultori della Resistenza inventata sono giunti perfino a mettere in dubbio la veridicità del Liber chronicus parrocchiale, che attenendosi a quanto accaduto addebita ai partigiani la responsabilità morale della strage consumata a seguito del vile assassinio. Questo perché i “patrioti” debbono essere affidati alla Storia, e custoditi dalla cultura popolare di questo Paese, come individui tutti buoni, onesti, prodi, talvolta eroici.

Paoletti ha citato più volte la vicenda dell’attentato di via Rasella, che anche a noi pare emblematica: all’inopportunità da lui rimarcata delle onorificenze tributate dallo Stato italiano al suo principale esecutore ci sentiremmo di aggiungere la brillante carriera politica di colui che nel dopoguerra ebbe ad assumersene la responsabilità. Ancora nel 2007, la Corte di cassazione ha sancito trattarsi di un “legittimo atto di guerra”, condannando il quotidiano che aveva accusato i gappisti non solo di avere provocato l’eccidio delle Fosse Ardeatine, ma anche di avere causato la morte di civili italiani dilaniati dall’esplosione.

Ai GAP appartenevano anche i responsabili dell’agguato di Bardine. Nel dopoguerra il Comune di Carrara si sentì in dovere di omaggiare il loro capo di una cava di marmo, per poi dedicargli una piazza e un monumento: con il paradossale risultato che da una parte delle Apuane si piangono le 169 vittime della rappresaglia, dall’altra si celebra colui che la provocò. A un altro gappista rimasto ferito nell’attentato, poi, è stata concessa addirittura la medaglia d’oro al valor militare.

Al contrario, non abbiamo riconoscimenti, titolazioni, monumenti funebri e neppure una semplice targa per Antonio Terenzi, il partigiano immolatosi a Gragnola per salvare la vita a quaranta compaesani rastrellati dai nazifascisti, concentrati nella piazza e dinanzi ai quali erano già state spianate le mitragliatrici. Neanche una petizione promossa dai gragnolini per ricordare con una scritta sul luogo del martirio colui che seppe emulare Salvo D’Acquisto e Padre Kolbe ha avuto successo: forse perché Terenzi non era garibaldino ma di Giustizia e Libertà, e non avendo sparato a nessuno non ha provocato alcuna strage?

Abbiamo avuto due presidenti della repubblica pesantemente compromessi – per quanto a diverso titolo – nelle epurazioni che caratterizzarono la fine della guerra e il dopoguerra: il socialista Pertini e il democristiano Scalfaro, entrambi elevati al Colle con il sostegno del Partito comunista. Ministri, parlamentari, amministratori locali che hanno costruito la loro carriera sull’antifascismo non si contano: a volerne stilare un elenco, verrebbe probabilmente fuori un libro della medesima mole di quelli di Paoletti. Fra l’altro molti di loro erano stati in precedenza ferventi fascisti: ma anche su questo deve ovviamente calare l’oblio.

Esiste a tutt’oggi una associazione elevata a guerra ancora in corso a “ente morale”, quella dei partigiani d’Italia, che interviene in continuazione nel dibattito politico, fa eleggere parlamentari e sindaci, appoggia governi e amministrazioni di una parte e osteggia quelli dell’altra, mette il becco nella intitolazione di strade e scuole, benedice certe iniziative e ne censura altre, promuove storici, scrittori, studiosi a essa allineati e affossa sistematicamente quelli che osano metterne in discussione i dogmi: tutto questo, senza aver ricevuto alcun mandato da chicchessia. Quando ormai tutti gli ex “patrioti” sono passati a miglior vita, essa si ostina a perpetuare il clima, le contrapposizioni, gli odi legati alla guerra civile, in una sorta di dopoguerra infinito: le iscrizioni all’ANPI sono infatti sempre aperte.

Qual è – ci chiediamo – il legame di tali “nostalgici” con i centri sociali? Perché questi ultimi vanno puntualmente a contestare chi offre alla ricerca storica una verità diversa da quella ufficialmente riconosciuta, sino ad assumere atteggiamenti squadristici? In che rapporto stanno tali estremisti che vivono ai margini della società violandone spesso le regole con la memoria della resistenza? Da chi sono manovrati? E perché lo stesso Pansa è stato così duramente osteggiato dall’intero mondo accademico, nonostante la sua autorevolezza e soprattutto la fondatezza delle tesi esposte e l’inoppugnabilità dei fatti narrati?

Evidentemente l’Italia, patria d’elezione di mafie logge consorterie di ogni genere, non è un Paese normale nemmeno da questo punto di vista. A esser sinceri, a leggere la vibrante denuncia paolettiana ci siamo perfino stupiti dell’ingenuità che talvolta vi traspare nel non considerare la natura di fondo della nostra repubblica, nata non “dalla Resistenza” bensì da un broglio elettorale (perché il 2 giugno ‘46 aveva vinto la monarchia) e proseguita tra i peggiori scandali, collusioni e nefandezze, capaci di suscitare il momentaneo sdegno dell’opinione pubblica ma rimasti sostanzialmente impuniti nella stragrande maggioranza dei casi, e al cospetto dei quali l’“aggiustamento” della vicenda stazzemese appare come un capitolo tutto sommato minore.

È dunque da tale concezione tutt’altro che nobile, anzi interessata e meschina della res publica che nasce anche quell’investimento politico sull’antifascismo avviato sin dalla fine della guerra e finalizzato a capitalizzare tutto quanto avvenuto in quel funesto periodo, a costo di stravolgere la realtà dei fatti e prendere a calci la Storia. La qual cosa non è avvenuta in Germania: sia perché lì non si erano avute né la guerra civile né la Linea Gotica, sia perché il popolo tedesco si è rivelato più serio nell’assumersi ciascuno le proprie responsabilità, mettendo una pietra sul nazismo e la guerra e guardando avanti, per il bene della nazione tutta.

Nella rossa Toscana le cose sono andate da questo punto di vista ancor peggio che altrove: la continuità tra i sindaci imposti dal CLN – quasi sempre comunisti – e quelli democraticamente eletti dalla cittadinanza, proseguita ininterrottamente da un secolo all’altro, ha fatto sì che qui la resistenza diventasse più che mai favola bella, oggetto di culto e strumento di potere. È in tale quadro fazioso e distorto che si inserisce la vicenda di Sant’Anna: la più importante di tutte, data la rilevanza del massacro perpetratovi. Insomma un simbolo, sacro e intoccabile alla vulgata antifascista; difficile dunque pensare che Museo della Resistenza e cartelli dei “Sentieri di pace” possano un giorno cambiare registro, accantonando la partigianeria e raccontando quanto realmente accaduto quel maledetto giorno.

Forse Paoletti non ha voluto citarsi: ma in Toscana un caso analogo a quello di Sant’Anna lo abbiamo. Si tratta della strage di San Miniato: ed è stato proprio lo studioso fiorentino, in un memorabile j’accuse, a dimostrarci che anche all’ombra della rocca ghibellina si sono registrati sessant’anni di menzogne, volti ad addebitare ai tedeschi, nazisti brutti sporchi e cattivi, un massacro dovuto a una granata americana. L’unicità della novella dell’eccidio del 12 agosto sta tuttavia in un altro elemento: per cancellare in un sol colpo tanto l’aggressione avvenuta sul Gabberi quanto gli atti di sciacallaggio seguiti all’eccidio, in modo da salvare la reputazione resistenziale, si è dovuto passare la spugna anche sulle atroci responsabilità repubblichine, in una inedita conventio ad delendum.

Ma su quanti altri misfatti di quel terribile frangente storico si sono avuti 50, 60, 70 anni di menzogne? Infiniti: Marzabotto, San Terenzo, Forno, Civitella, il “triangolo rosso”, Porzûs… A Porzûs scherani gappisti al servizio di Tito trucidarono sul finire della guerra diciassette partigiani anticomunisti; così come sul Lago di Como a fare una brutta fine furono quanti – compresi ex garibaldini – sapevano troppo dell’“oro di Dongo” e sul modo in cui erano stati effettivamente ammazzati Mussolini e Claretta Petacci.

Ma un delitto del tutto assimilabile a questi lo abbiamo avuto anche a Lucca: si tratta della morte di Manrico Ducceschi, il leggendario comandante “Pippo” di Giustizia e Libertà, fatta passare per un suicidio quando molti elementi avrebbero deposto per l’omicidio. Il fatto avvenne dopo che Ducceschi, nel clima politicamente infuocato del 1948, ebbe dichiarato la propria intenzione di denunciare fatti e circostanze che avrebbero fatto risaltare la criminosità dell’operato di certi gruppi partigiani: alla luce di quanto ricostruito da Paoletti con riferimento alla manipolazione della verità storica le cui fondamenta sono state gettate proprio negli anni del dopoguerra, istintivamente il pensiero ci va a quanto perpetrato a Sant’Anna.

Un’ultima considerazione vogliamo dedicare al processo-farsa celebrato a La Spezia: perché lo si è fatto? Se scopo precipuo della Giustizia dovrebbe essere sempre quello di accertare “la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità”, che senso ha avuto tenere un procedimento le cui finalità andavano fin dalla sua concezione esattamente all’opposto? Probabilmente anche in questo caso la risposta sta in quel “complotto politico-istituzionale” tanto accuratamente descrittoci da Paoletti: la vicenda – per tanti aspetti poco chiara – dell’“armadio della vergogna” ha dato modo a chi di dovere di sfruttare al meglio la circostanza portando, attraverso assurdi procedimenti contro ottanta-novantenni, nuova acqua al mulino della “vulgata”.

1) Milano, Mursia.

2) G. Baldini, La distruzione di Farnocchia, in “ResistenzaToscana.it”, 15 IV 2004.

3) AA. VV., I partigiani sulle Apuane, in “Memorie paesane” (memoriepaesane.blogspot.com), 6 VIII 2020.

4) Firenze, Agemina.

La verità su Sant’Anna di Stazzema: il contributo di Paolo Paolettiultima modifica: 2021-12-21T20:07:45+01:00da tradersimo
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