Il dibattito storiografico sul delitto Gentile

L’assassinio di Giovanni Gentile, avvenuto a Firenze il 15 aprile 1944 per mano dei Gruppi di azione patriottica e rivendicato fin da subito dal Partito comunista, ha sempre suscitato l’interesse della storiografia dal momento che l’uccisione del filosofo, presidente dell’Accademia d’Italia ma soprattutto esponente di punta del fascismo repubblicano “moderato”, poteva prestarsi a diverse interpretazioni. Peculiarità di tale bibliografia è inoltre che nel tentativo di chiarire i molteplici risvolti dell’attentato si siano cimentati non solo storici di professione, ma studiosi dalle varie matrici culturali, a conferma dell’atipicità di un delitto che non aveva avuto quale vittima un esponente politico o militare della Repubblica sociale fra i tanti, bensì il più prestigioso degli intellettuali italiani. Con l’accumularsi degli studi, sull’omicidio si sono così sedimentati sospetti e illazioni tali da dar vita a un vero e proprio “caso Gentile”, giungendosi a identificarne i mandanti quando negli Alleati, quando nell’ala dura del fascismo fiorentino, quando nei vertici nazionali del Partito comunista.

I dubbi di Francovich  Il primo a farsi interprete di tale orientamento “dietrologico” fu, nel 1961, Carlo Francovich, già maggiorente del Partito d’azione a Firenze negli anni della guerra, con l’articolo Un caso ancora controverso. Chi uccise Giovanni Gentile? La tesi sostenuta è che, operando in città la famigerata banda Carità e con la piena approvazione del fiorentino segretario del Partito fascista repubblicano Pavolini, il ruolo che Gentile si stava ritagliando di oppositore della parte estrema del fascismo e dei suoi eccessi lo avrebbe reso inviso agli oltranzisti che, dato l’ascendente da lui esercitato su Mussolini – il quale l’aveva voluto a capo della restaurata Accademia – avrebbero potuto avere interesse alla sua eliminazione.

Tali sospetti nascono anzitutto dall’analisi delle indagini condotte sul delitto, dallo storico giuliano valutate come sbrigative e inadeguate. La prima testimonianza a essere raccolta fu quella dell’autista della 1100 utilizzata dal senatore, il quale dichiarò: “Dopo avere accompagnato il prof. Gentile al palazzo Capponi, dove egli si recò a visitare un figlio infermo, verso le 13.30 mi diressi alla Villa Montalto; il professore sedeva nell’interno della macchina, e precisamente sul lato sinistro. Percorsa la via del Salviatino, quando giunsi al cancello della villa, che era come di solito chiuso, girai la macchina ponendola con il cofano in direzione dell’ingresso. Appena ebbi fermata la macchina notai due individui, che avevano ciascuno a mano una bicicletta, spostarsi dal lato sinistro di chi guarda il cancello e avvicinarsi. Uno di essi fattosi più presso allo sportello ha chiesto, rivolto al professore: “Siete voi il professore?”. Il prof. Gentile rispose affermativamente con la testa e si fece per abbassare il vetro dello sportello, per meglio ascoltare che cosa dicesse quell’individuo, ma immediatamente entrambi i ciclisti, pur tenendo sempre con una mano la bicicletta, estrassero con l’altra ciascuno una pistola automatica e fecero fuoco sul professore. Io intesi il rumore di due soli colpi, ma non escludo che essi possano essere stati di più. Appena scaricate le pistole i due individui salirono in bicicletta e si allontanarono rapidamente in direzione della città”.

A confermare la veridicità della deposizione intervennero sia l’esito della perizia medico-legale che le dichiarazioni di tre persone residenti all’angolo tra via del Salviatino e via del Cantone. I quattro attentatori venivano descritti come giovani, vestiti in maniera piuttosto elegante e con quello che la comparazione delle testimonianze porta a identificare nel capo del commando Bruno Fanciullacci anche con cappello e occhiali da sole. Uno di questi testimoni precisò che nell’allontanarsi in bicicletta verso l’adiacente viale Righi essi non tenevano un’andatura particolarmente veloce: verosimilmente allo scopo di non dare nell’occhio. Sappiamo inoltre che del gruppo di fuoco faceva parte anche un quinto componente, con il compito di bloccare eventuali persone o automezzi che fossero sopraggiunti dalla parte opposta, ossia scendendo da Maiano: evidentemente costui al momento in cui udì gli spari dové fuggire per conto suo, senza essere notato da nessuno.

Un’altra testimonianza importante è quella resa da un giovane che alle 13.30 si trovava davanti al bar posto all’inizio di viale Righi. Questi udì dei colpi; ma la vicinanza di una sede dell’organizzazione Todt, dalla quale spesso si udivano provenire spari, lo indusse a non darvi peso. Poco dopo egli vide quattro giovani in bicicletta provenire dal Salviatino e imboccare il viale; quello con il cappello precedeva gli altri. Nel momento in cui i ciclisti gli passarono davanti, il battistrada mise la mano destra nella tasca della giacca, osservando ciò che facevano quanti si trovavano davanti al bar: evidentemente in quel frangente Fanciullacci aveva non solo il compito di far sì che l’allontanamento dal luogo del delitto avvenisse in maniera tranquilla, tale da non richiamare l’attenzione, ma anche di fare ricorso alla pistola qualora ve ne fosse stato bisogno.

L’attento esame dei verbali rivela effettivamente un fondo di verità nei rilievi mossi da Francovich: sicuramente le indagini furono tutt’altro che tempestive. L’autista fu sentito il giorno successivo l’assassinio, ma alcuni dei testimoni comparvero dinanzi al consigliere istruttore Agostini soltanto il 24 maggio. In particolare uno di questi (uno dei residenti all’incrocio con via del Cantone) dichiarò che, uscito di casa e raggiunto il cancello della villa nel momento in cui la macchina ripartiva per portare il ferito all’ospedale, si imbatté in un “milite” – nome con cui si designavano gli appartenenti alla Guardia nazionale repubblicana – solito frequentare un’abitazione posta nei pressi e nella quale costui evidentemente si trovava anche in quella circostanza, avendo dunque potuto udire gli spari, il quale gli chiese cosa fosse successo, aggiungendo di avere visto degli individui allontanarsi in bicicletta ma di non avere dato peso alla cosa. “Mi sembrò strano – commentava il teste – che avendo udito gli spari e visto quelle persone che si allontanavano egli non avesse tentato di rincorrerle”. E infatti ci si sarebbe aspettati di trovare nel fascicolo anche il verbale dell’interrogatorio di tale milite, la cui identificazione apparirebbe peraltro come tutt’altro che difficile: il quale tuttavia manca.

Tale negligenza investigativa potrebbe tuttavia avere una spiegazione meno “complottistica” e più pragmatica. Firenze stava vivendo un drammatico momento di transizione, in cui anche gli organismi istituzionali guardavano già al domani: ossia al passaggio del fronte e alla fine dell’occupazione tedesca. L’adesione popolare alla RSI era stata minima, come provato da tanti elementi: i suoi reiterati bandi d’arruolamento non avevano avuto successo, lo sciopero del 3 marzo ‘44 aveva bloccato quasi tutti gli stabilimenti cittadini, la stessa Chiesa fiorentina era ormai passata con l’antifascismo. Come stupirsi allora di una certa “svogliatezza” da parte di chi condusse l’inchiesta? Non c’era bisogno della sfera di cristallo per capire che tra non molto la “repubblichina” nazifascista sarebbe crollata assieme alla resistenza germanica, e che la parte che aveva ucciso Gentile sarebbe stata tra i vincitori.

A conferma della propria tesi Francovich faceva poi risaltare l’ambiguità della reazione delle autorità dinanzi al delitto. Se infatti da una parte la gerarchia fascista pensò di sfruttarlo in funzione propagandistica e antipartigiana, tributando alla vittima solenni funerali in Santa Croce con orazione dello stesso Pavolini, dall’altra l’informazione di regime assunse un profilo che, specie se rapportato alla personalità della vittima, appare sottotono.

Nonostante l’attentato fosse avvenuto attorno alle 13.30 di quel sabato, il quotidiano fiorentino della sera, “Il Nuovo Giornale”, lo ignorò del tutto. Ma anche la radio tacque; tanto che Giovanni Spadolini – giovane esponente del fascismo repubblicano moderato, nonché grande ammiratore del filosofo dell’attualismo – avrebbe ricordato: “Con ansia attendemmo, al mattino della domenica, che la radio desse l’annunzio dell’assassinio di Gentile, con quella solennità che s’impone in tali circostanze. Invece, alle 8, alle 13 e alle 14, silenzio assoluto. Notiziole, bricioline di cronaca”. La notizia fu trasmessa soltanto la sera, dopo i notiziari militari; nel frattempo gli italiani avevano potuto apprenderla dalla radio francese e da quella della Svizzera italiana, che le aveva dedicato l’apertura del notiziario.

Il giorno dopo “La Nazione” la riportò ma senza particolare risalto, limitandosi a deplorare il delitto e dedicando alla biografia della vittima una mezza colonna. Vale la pena a questo punto ricordare le vicissitudini patite dal quotidiano fiorentino dopo l’avvento della Repubblica sociale, il cui governo aveva nominato direttore Ridolfo Mazzucconi. Dopo appena un mese tuttavia si era avuto il cambio della guardia con Mirko Giobbe, il quale aveva improntato il giornale a una linea moderata e dialogante che aveva finito con lo scontentare chi lo aveva insediato. Cosicché alla direzione giusto il 14 aprile era stato posto nuovamente Mazzucconi: il cui editoriale del 16 si occupava di Radio Londra. Mentre il giorno successivo “Il Nuovo Giornale” – che dato l’orario di uscita era l’unico quotidiano cittadino a essere in edicola al lunedì – sulla morte di Gentile non andava oltre un intervento del provveditore agli studi. Dal canto suo la radio soltanto la sera offriva un breve resoconto delle onoranze funebri.

Indicativa anche la linea tenuta dalla “Nuova Antologia”, organo ufficiale dell’Accademia d’Italia e della quale Gentile aveva assunto la direzione, pubblicandovi un appello all’affratellamento di tutti gli italiani sotto l’egida del Fascio repubblicano. Il numero uscito il 1° maggio si limitò a pubblicare la foto del filosofo, rimandandone la commemorazione al momento in cui sarebbe stato “superato lo sgomento e il dolore”; dopodiché pure a dirigere la prestigiosa rivista fiorentina fu chiamato Mazzucconi. Il quale, nel numero del 1° giugno, replicò quanto fatto alla “Nazione”, astenendosi dal celebrare l’illustre scomparso; mentre chi lo faceva per lui scriveva che “Gentile era morto al suo posto di combattimento, vittima di un infame attentato”.

Cosicché alla fine l’unica rivista cittadina a tributare al presidente dell’Accademia una commemorazione adeguata fu “Italia e Civiltà”, della quale egli stesso era stato collaboratore. Settimanale dalla breve durata, culturalmente caratterizzato da un’impronta nazionalista e futurista, dal punto di vista politico esso proponeva una correzione di rotta rispetto all’orientamento assunto dal fascismo di Salò, censurando in particolare quanto andava compiendo la preponderante frangia estremista. In ricordo dello scomparso vi apparvero ben sette articoli, in uno dei quali si leggeva: “Gentile è morto assassinato perché voleva ricondurre alla Patria tutti gli intellettuali dispersi, incerti, pavidi”.

La sentenza  A rilanciare il dibattito sull’assassinio intervenne nel 1985 il filologo nonché militante comunista Luciano Canfora, con il fortunato La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile. Ampliando non poco l’orizzonte rispetto ai sospetti sollevati da Francovich, il saggio presenta Gentile come il “martire comodissimo” di un omicidio dalle “molte e diverse matrici”, consumato nell’ambito di un’aspra guerra civile. La prima di tali matrici sarebbe quella alleata: ricordata la campagna condotta da Radio Londra contro l’illustre accademico messosi al servizio del nazifascismo, Canfora ipotizza il coinvolgimento nella vicenda dei servizi segreti britannici, i quali si sarebbero attivati affinché dell’eliminazione del filosofo si facesse carico il PCI; donde la propaganda antigentiliana orchestrata da quest’ultimo, e articolatasi in diverse tappe.

Nella lettera di accettazione della presidenza dell’Accademia il senatore siciliano aveva motivato la propria scelta come finalizzata ad “avviare la Repubblica verso la pacificazione degli animi”. Tale programma aveva successivamente trovato la propria esplicazione nell’articolo Ricostruire, pubblicato dal “Corriere della Sera” il 28 dicembre ‘43, in cui Gentile auspicava la rinascita dell’Italia dopo quello che veniva definito come “l’obbrobrio dell’8 settembre” e la costituzione della Repubblica di Salò, lanciando un appello per la “concordia degli animi” e la “cessazione delle lotte”.

È a questo punto che interviene il cattedratico Marchesi: latinista, già fervente fascista al punto di essere nominato egli stesso accademico d’Italia, quindi comunista e soprattutto abilissimo doppiogiochista, fino all’espatrio clandestino in Svizzera. Poco dopo, il 24 febbraio ‘44, il quotidiano socialista di Lugano “Libera Stampa” ne pubblicava la risposta a Gentile, intitolata Rinascita fascista e concordia d’animi, nella cui introduzione la redazione del giornale qualificava quello gentiliano come un “appello per una impossibile unione degli Italiani sotto l’insegna del neofascismo”. “Il merito di aver portato la legge e la norma pubblica – si leggeva nella parte conclusiva dell’articolo – al livello dello scannamento più facile e più selvaggio spetta al fascismo ed al nazismo. E di questo voi, eccellenza Gentile, siete pienamente persuaso. Con chi debbono accordarsi, ora, i cittadini d’Italia? Coi tribunali speciali della repubblica fascista o coi comandi delle SS germaniche? Sono complici degli assassini nazisti e fascisti; quanti oggi invitano alla tregua vogliono disarmare i patrioti e rifocillare gli assassini nazisti perché indisturbati consumino i loro crimini. Quanti oggi invitano alla concordia, invitano ad una tregua che dia temporaneo riposo alla guerra dell’uomo contro l’uomo. No: è bene che la guerra continui, se è destino che sia combattuta. Rimettere la spada nel fodero, solo perché la mano è stanca e la rovina è grande, è rifocillare l’assassino. La spada non va riposta, va spezzata. Domani se ne fabbricherà un’altra? Non sappiamo. Tra oggi e domani c’è di mezzo una notte ed una aurora”.

L’intervento fu riproposto il mese successivo dal più importante foglio clandestino del PCI nell’Italia occupata, “La Nostra Lotta”, ma modificato nella parte finale: “Quanti oggi invitano alla concordia, sono complici degli assassini nazisti e fascisti; quanti invitano oggi alla tregua vogliono disarmare i Patrioti e rifocillare gli assassini nazisti e fascisti perché indisturbati consumino i loro crimini. La spada non va riposta finché l’ultimo nazista non abbia ripassato le Alpi, finché l’ultimo traditore fascista non sia sterminato. Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!”. Essendosi Marchesi sempre astenuto dal mettere in rilievo la manipolazione di cui era stato oggetto il suo scritto, nel ‘68 un altro comunista, Girolamo Li Causi, si assunse la responsabilità dell’aggiunta degli ultimi due periodi (non tuttavia di quello precedente, rimasto perciò anonimo). Secondo Canfora sarebbe stata proprio tale “sentenza” ad armare la mano dei gappisti fiorentini nei confronti del filosofo.

“Cose che forse ancora non si possono dire”  Ma nonostante il successo de La sentenza, le ambiguità riguardanti il delitto Gentile non erano affatto risolte. Nel 1989, intervenendo a una trasmissione radiofonica, l’ex senatore comunista Cesare Luporini (altro cattedratico, già collaboratore della celebre rivista di cultura fascista “Primato” e che a Gentile doveva l’assunzione alla Scuola Normale di Pisa) affermò di non essere “per niente d’accordo” con la tesi di Canfora, aggiungendo, con un tono che denotava una certa commozione: “Io ho ragioni che non posso dire qui, perché parte toccano cose che forse ancora non si possono dire, ma molto precise, per poter sostenere che Marchesi non c’entra nulla. Cioè la polemica di Marchesi verso Gentile è un conto, ma non ha nulla a che fare con l’esecuzione: di questo io sono sicuro. Per il resto per me è un punto molto doloroso, e che mi emoziona anche adesso, perché io avevo un rapporto molto stretto con Gentile e anche dei debiti di gratitudine. Avevo anche fatto un tentativo, ingenuo e ritardatario devo dire, perché lui si distaccasse, andando a trovarlo a Villa Montalto; questo alcuni mesi prima [dell’attentato], in autunno, poco prima che venisse nominato presidente dell’Accademia d’Italia. Gli descrissi la situazione, molto seria: già c’erano morti, genti uccise, l’occupazione dei tedeschi, eccetera. Devo dire che lui si irritò molto, e disse: “Ah, domani parto, vado da Mussolini, su a Salò”. E io gli dissi: “Senatore, non serve a niente: ormai in queste cose è tutta una catena. Io sono venuto a quasi supplicarla di mettersi da parte, di tirarsi fuori”. Pochi giorni dopo lessi sul giornale che era stato nominato presidente dell’Accademia, con sede a Firenze: cioè quando si faceva quel discorso lui lo sapeva già, si era già impegnato. Non dico che io avrei raggiunto nulla. Aveva avuto ospite, lì nella villa, il ministro Biggini, che evidentemente l’aveva portato su questa strada: nella quale lui, intendiamoci, riconosceva sé stesso, il suo destino. Perché io avrei dei motivi da dire – ma non posso raccontare tutto – precedenti, che in qualche modo lo sapeva: non proprio questa specifica fine, ma lo sapeva, di quello che… Una volta, alla Normale, gli sentii dire ad Armando Carlini: “Noi ci siamo dentro fin qui”, e si portò la mano al sommo della fronte, “e dobbiamo pagare fino in fondo””.

Altrettanto toccante e significativa la seconda parte della testimonianza, dedicata a quanto avvenuto dopo l’omicidio. “Non avendo alcuna intenzione di andare ai funerali, andai a vedere la salma a Careggi; erano molti mesi che non lo vedevo comunque, dopo quell’episodio. Senonché, essendoci stati degli arresti, il Comitato di liberazione nazionale mi chiese una cosa che per me non era molto piacevole, e cioè di andare su a casa Gentile in concomitanza con i funerali e di far presente alla famiglia che avvenivano questi arresti: insomma che era una cosa che non faceva onore nemmeno alla memoria, in modo che [gli arrestati] venissero liberati. Fu una missione assai difficile e penosa: non avendo potuto vedere la moglie mi rivolsi a uno dei fratelli; non avendo egli accettato di mettersi da parte dovetti parlargli in pubblico. Mi fu data una certa risposta negativa, e quindi me ne venni via, passando attraverso la Milizia che si radunava”. Sollecitato a chiarire quali fossero quelle “cose che forse ancora non si possono dire”, Luporini non volle mai compiere il passo, portandosi il segreto nella tomba.

De Felice e Montanelli  Del dibattuto argomento ebbe a occuparsi anche Renzo De Felice, nel libro-intervista Rosso e Nero, uscito nel 1995. Il sommo storico del fascismo inseriva l’esecuzione di Gentile all’interno del contesto che aveva visto il presidente dell’Accademia impegnato ad assumere il ruolo di mediatore e pacificatore, nel tentativo di ricomporre la critica situazione determinatasi a Firenze: iniziativa inevitabilmente destinata a risultare sgradita all’ala fascista più radicale. L’auspicare un diretto intervento di Mussolini a sconfessare l’operato di Pavolini e della banda Carità – fa notare De Felice – non costituiva un mero progetto ideale vagheggiato dal filosofo ma trovava anzi dei concreti riscontri all’interno del fascismo fiorentino, caratterizzando in particolare l’orientamento assunto dal Movimento dei giovani italiani repubblicani. Costituito dopo l’8 settembre da intellettuali e studenti toscani, esso intendeva riprendere il progetto di un gruppo precedente – la Giovane armata – il quale nel momento in cui si erano evidenziati i limiti della conduzione mussoliniana della guerra aveva auspicato una rigenerazione del fascismo dall’interno.

Il MGIR sosteneva la necessità di mantenere fede all’alleanza con la Germania, puntando al contempo a un ricambio generazionale del fascismo che, rinnovandone i quadri, ne ripristinasse lo spirito originario. Una parte consistente del Movimento agiva in clandestinità, allo scopo di favorire la diserzione dei giovani dall’esercito della RSI e giungere a un colpo di stato che eliminasse i gerarchi, ma mantenendo al suo posto Mussolini. L’obiettivo era l’instaurazione di una repubblica che, ponendosi in contrasto con l’alleato germanico, lo inducesse a rivelare la sua vera natura di invasore, in modo da convincere gli italiani a unirsi in un’unica forza antitedesca in lotta per la salvezza della patria in pericolo, ponendo così fine alla contrapposizione tra resistenti antifascisti e fascisti filonazisti. All’interno del MGIR convivevano tuttavia anime diverse, al punto di dividerlo in due tronconi dalle differenti finalità: il primo, filofascista, spostatosi al Nord e attivo tra Milano, Venezia e Verona, mantenne rapporti con l’establishment nazifascista, individuando nella X Mas del principe Borghese lo strumento privilegiato per portare a compimento il colpo di stato; l’altro, esplicitamente antifascista, operò fra Toscana e Lombardia, prodigandosi nel tentativo di stringere rapporti con alcune formazioni partigiane.

Secondo il ragionamento di De Felice, il medesimo obiettivo di un superamento dello scontro frontale imposto dalla guerra civile ormai in atto si sarebbe implicitamente posto Gentile, puntando piuttosto al dialogo con l’antifascismo. Ma avendo lo stesso PCI tutt’altro progetto riguardo sia la gestione del momento bellico che l’Italia del dopoguerra, contro la figura del filosofo finirono con il ritrovarsi parimenti schierati tanto l’estremismo comunista quanto quello fascista: appunto il “rosso” e il “nero”.

Alla tesi sostenuta dallo storico reatino mosse dei rilievi Indro Montanelli, in un articolo sul “Corriere della Sera”: De Felice, dove sono le prove?. Con il suo consueto disincanto, il più popolare tra i divulgatori non accademici del fascismo identificava i moventi dell’uccisione di Gentile come “semplici e meschini”, riconducendoli “alla voglia di protagonismo di alcuni baldi giovanotti che volevano, con un’operazione quasi priva di rischi (la vittima, come presidente di un fantasma qual era ormai l’Accademia d’Italia, non aveva guardie del corpo), soltanto acquisire dei meriti su cui costruire, in un Paese in cui l’industria più redditizia è sempre stata, dal Risorgimento in poi, il reducismo, una carriera politica”.

La testimonianza di Bilenchi  Alla montagna di illazioni e sospetti accumulatisi negli anni diede una bella spallata nel 2001 lo storico marxista Sergio Bertelli – già comunista ma poi uscito dal PCI a seguito dei fatti d’Ungheria – all’interno del volume PCI. La storia dimenticata. L’autore vi riportava le confidenze fattegli da un anziano amico che con il Partito comunista aveva avuto un rapporto altrettanto travagliato, lo scrittore e giornalista Romano Bilenchi, che nel periodo dell’occupazione tedesca era stato caporedattore dell’organo clandestino del CLN toscano “La Nazione del Popolo”. Secondo tali rivelazioni, a dettare le linee guida del PCI a Firenze e segnatamente a determinare gli attentati dei Gruppi di azione patriottica sarebbe stato un comitato del quale facevano parte, oltre allo stesso Bilenchi, il segretario comunista fiorentino Giuseppe Rossi, Ranuccio Bianchi Bandinelli e Mario Fabiani.

Specie se raffrontata a tutta la precedente dietrologia, la ricostruzione offerta appare estremamente semplice, perfino semplicistica: senza ricevere ordini o ispirazione da chicchessia, la decisione di eliminare Gentile sarebbe stata presa da questi quattro, non senza una discussione; nel riportare la quale Bertelli si premura di celare i nomi dei protagonisti dietro delle sigle, peraltro facilmente decifrabili. “Un giorno – gli avrebbe raccontato Bilenchi – G R mi dice: “Questi intellettuali rompono troppo i coglioni. Bisogna dargli una lezione: va fatto fuori uno. Che ne dici di Soffici?”. “Soffici? Ma che sei impazzito? È un letterato stupido: rischiare quattro persone per Soffici non è possibile”, e litigai per tre giorni. Il quarto giorno, al solito appuntamento, mi dice R: “Ti ringrazio, tu ci hai fatto un servizio eccezionale: c’è un articolo di Soffici sul “Corriere della Sera” che è una tale bischerata, che quello è davvero un bambino. Vieni a casa di R B B domani mattina”. Ci trovo lui, R B B e M F. Gentile aveva fatto l’ultimo discorso minaccioso: “Che ne dite di ammazzare Gentile invece di Soffici?”. Tutti dissero di sì. Io ribattei: “Io non lo farei, perché se lo fate deve essere fatto a nome del PCI. Non possiamo coinvolgere il CLN, perché al Partito d’azione sono tutti gentiliani; quindi, se succede, avremo una violenta rivolta e saremo sconfessati. Perdipiù allo stesso gruppo del fascismo di sinistra, dal quale vengo io e che ha per capostipite Ugo Spirito, non farebbe buon effetto per il loro filocomunismo. Sono divisi da noi solo per la faccenda della Russia”. “Allora si vota”. Si votò e venne fuori a maggioranza di farlo fuori” (peraltro anche Spirito, al pari degli azionisti in questione, era stato allievo di Gentile).

Se veritiera, tale versione farebbe risaltare il ruolo giocato nella vicenda dal fato, precisandone peraltro anche la tempistica. Soffici si sarebbe inconsapevolmente salvato mediante l’articolo Fede nella vittoria, pubblicato dal “Corriere” l’11 marzo ‘44; laddove Gentile si sarebbe condannato a morte per la premessa di carattere politico al discorso tenuto in Accademia per il bicentenario della morte di Vico il 19 marzo, nella quale si pronunciava a favore del proseguimento della guerra al fianco della Germania, giustificando l’occupazione tedesca e contrapponendo alla figura del re, colpevole di avere consegnato l’Italia al nemico, quelle di Mussolini e Hitler. “La risurrezione di Mussolini – egli ebbe ad affermare – era necessaria come ogni evento che rientri nella logica della storia. Logico l’intervento della Germania, che i traditori avevano disconosciuta, poiché quos Deus perdere vult, dementat: ma la sua fede e forza e audacia furono sempre riconosciute e tenute presenti dall’Italia di Mussolini. Così questa fu subito ritrovata attraverso Mussolini e aiutata a rialzarsi dal condottiero della grande Germania che quest’Italia aspettava al suo fianco dove era il suo posto per il suo onore e per il suo destino, accomunata nella battaglia formidabile per la salvezza dell’Europa e della civiltà occidentale al suo popolo animoso, tenace, invincibile”.

Il racconto può far sorgere qualche dubbio, soprattutto in relazione al fatto che al momento dell’uscita del libro di Bertelli i componenti del “soviet” fiorentino erano tutti morti: Rossi nel ‘48, Fabiani nel ‘74, Bianchi Bandinelli nel ‘75 e lo stesso Bilenchi nell’89. Ma anche quando quest’ultimo, nell’81, riferì la vicenda a Bertelli gli altri erano già passati a miglior vita; per cui i sospetti sull’attendibilità della testimonianza sono leciti: nel senso che essa potrebbe essere stata in qualche modo “aggiustata”. Bilenchi vi fa sicuramente una bella figura: quella del politico moderato, ragionevole e lungimirante, mostrandosi in grado di prevedere tutte le lacerazioni provocate dal delitto Gentile prima nel CLN toscano e poi, per lunghi decenni, nella sinistra italiana. Rossi un po’ meno, dando l’idea di fare un nome a caso per poi ricredersi il giorno in cui, altrettanto fortuitamente, gli è capitato di leggere un articolo del prescelto “bambino”.

Due studi critici nei confronti del delitto  Il mutamento del clima politico nazionale determinatosi sul finire del Novecento ha portato la storiografia a rimettere in discussione giudizi e luoghi comuni riguardanti periodo dell’occupazione tedesca e guerra civile, compreso il delitto Gentile. Nel 2004 usciva così il primo libro fortemente critico nei confronti dell’attentato, a firma di un altro illustre studioso del fascismo, Francesco Perfetti: Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico. L’esecuzione di Gentile vi viene presentata come “una pagina nera nella storia della resistenza, un episodio talmente imbarazzante per la sinistra da spingerla a cercarne mandanti ed esecutori in direzioni fantasiose: fascisti estremisti, servizi segreti alleati, massoneria e via dicendo”. Secondo Perfetti, allo scopo di scagionare i comunisti o di limitarne le responsabilità si sarebbe messa in piedi una vulgata storiografica tale da far rientrare l’assassinio del filosofo nella serie infinita dei “misteri d’Italia”. Al contrario, il saggio intende dimostrare come la genesi dell’omicidio sia da ricercare nell’ambito di una precisa strategia politica elaborata dai vertici del PCI allo scopo di affermare il primato comunista all’interno del CLN  e segnatamente di metterne in difficoltà la componente azionista, costituita da intellettuali già allievi del filosofo. In tale ottica, obiettivo di Togliatti sarebbe stato non solo quello di consolidare la leadership comunista nella lotta di liberazione, ma anche di porre le basi dell’egemonia politica e culturale del PCI nell’Italia postbellica.

Il volume ha inoltre il merito di dare rilievo alle questioni di ordine morale poste dall’omicidio, che quanti si erano in precedenza confrontati con l’argomento si erano guardati bene dall’affrontare nonostante la loro perdurante attualità. È lecito assassinare un intellettuale per le sue idee? È legittimo l’utilizzo del terrorismo come arma politica, e quali sono i limiti che lo separano dalla delinquenza comune? Esiste una differenza tra l’antifascismo inteso come valore ideale e la resistenza quale venne effettivamente condotta, giungendo a eccessi di questo genere che prescindevano da ogni considerazione di natura etica?

Sulla stessa linea il saggio uscito nel 2005 a firma di Paolo Paoletti: Il delitto Gentile. Esecutori e mandanti. Novità, mistificazioni e luoghi comuni. Si tratta a nostro avviso dello scritto più esaustivo in materia, per cui gli dedicheremo un’attenzione maggiore rispetto agli altri. All’argomento l’autore si è accostato con il consueto piglio del ricercatore storico di razza, dando luogo a un’inchiesta a 360 gradi che lo ha visto raccogliere testimonianze di gappisti e partigiani, ispezionare nastroteche, spulciare negli archivi sia italiani che inglesi allo scopo di emendare la vicenda da tutte quelle illazioni e congetture avanzate più o meno gratuitamente negli anni. Le conclusioni sono – come sempre negli studi paolettiani – quelle più semplici ed evidenti, ma che proprio per la loro naturalezza vengono regolarmente sacrificate alla dietrologia.

“Il “caso Gentile” – spiega lo studioso fiorentino – non è l’affaire Moro né un “giallo” ambientato nella Firenze del 1944 bensì un delitto politico dove il mandante non si è mai nascosto e anzi ha sempre rivendicato con orgoglio il proprio intervento. Si è sempre voluto dimenticare che non solo i fascisti ma anche i comunisti avevano un ottimo movente: Gentile era l’intellettuale che dava lustro e credito a un regime “putrescente”. Inoltre era un bersaglio facilissimo; anzi colpendo lui il PCI otteneva almeno altri otto buoni obiettivi. Chi non aveva così tanti e pressanti moventi erano proprio gli Alleati o i fascisti”.

A finire nel mirino è perciò soprattutto Canfora, esponente di punta della storiografia complottista. Paoletti fa notare come Luigi Gaiani, già organizzatore dei GAP fiorentini in qualità di comandante militare provinciale, avesse dichiarato a proposito della tesi avanzata ne La sentenza: “L’ordine di uccidere Gentile non venne né dagli Alleati né dalla Direzione comunista”, intendendo riferirsi ai vertici nazionali del partito. La giusta chiave di lettura dell’omicidio andrà dunque ricercata nel contesto storico nel quale venne a inserirsi l’attentato, e segnatamente nella particolare temperie bellica fiorentina.

Ricordate le remore avute da Gentile nell’accettare la presidenza dell’Accademia offertagli da Mussolini nel novembre ‘43, e di come egli si fosse convinto solo a seguito delle pressioni del ministro dell’Educazione nazionale Biggini, l’autore delinea la situazione della città deputata a ospitare la restaurata istituzione culturale. “Il dato politico e militare più importante di quei primi mesi del 1944 è che Firenze conosceva le violenze delle polizie e delle squadracce fasciste, il terrorismo gappista, le rappresaglie e le controrappresaglie, per cui si può parlare di uno stato non più latente di guerra civile. A Firenze gli attentati gappisti contro le figure dell’apparato fascista repubblicano erano cominciate appena una ventina di giorni dopo la nomina di Gentile a presidente dell’Accademia e fu in questa marea montante di assassini e rappresaglie che maturò l’idea di eliminare un filosofo “che dava lustro al regime repubblichino””.

Il racconto di uno dei killer  Il comandante operativo dei GAP fiorentini Cesare Massai affidò l’uccisione di Gentile al “gruppo A”, che faceva capo a Fanciullacci. Solitamente ogni commando si componeva di quattro elementi, i due sicari più due di copertura; ma la particolare ubicazione del luogo scelto per l’attentato, posto a ridosso di un incrocio, impose l’aggiunta di un quinto componente. “Due degli uomini di copertura dovevano controllare le tre strade che confluiscono nello slargo, distante una trentina di metri dal cancello; il terzo compagno doveva coprire le spalle ai due sparatori, evitando che arrivassero pericoli dall’alto di via del Salviatino. Per questo Fanciullacci si appostò alla prima curva a gomito della strada che sale alle cave di Maiano: era il compito più difficile ed esigeva prontezza di riflessi e decisioni immediate. Chi scendeva in macchina o in bicicletta doveva esser lasciato libero di transitare; ma se passava qualcuno a piedi nell’orario prossimo al rientro dell’auto di Gentile bisognava decidere: non intervenire o fermarlo, magari con la scusa che era in corso un’azione di polizia. Insomma Fanciullacci si assumeva il rischio e la responsabilità maggiore”.

Morto Fanciullacci tre mesi dopo l’assassinio, il PCI si premurò di celare l’identità degli altri attentatori onde sottrarli a possibili incriminazioni, proseguendo in tale protezione anche dopo l’amnistia Togliatti. Con il risultato che l’esatta composizione del commando è rimasta sconosciuta per lunghi anni, traendo in inganno anche illustri studiosi: a cominciare da Bertelli, che in proposito riceveva da Bilenchi informazioni sbagliate. Solo successivamente si sono avute rivelazioni tali da consentire a Paoletti di delineare con precisione organico e assetto del gruppo di fuoco, che vide il suo capo assumere in corso d’opera un ruolo diverso rispetto a quello preventivato: “Fanciullacci e Giuseppe Martini furono gli sparatori, Luciano Suisola e Marcello Serni i due “pali” al “ponticino” sul torrente Affrico, mentre Antonio Ignesti in un secondo momento prese il posto di Fanciullacci alla curva”.

Alla scoperta della responsabilità di Martini l’autore è giunto al termine di una paziente inchiesta personale: il suo nome non era mai stato accostato al delitto Gentile, e inoltre era stato dato anch’egli per morto. O meglio: la vulgata comunista ne aveva scambiato l’identità con quella di Ignesti, anch’egli deceduto nel ‘44. In realtà l’uomo si trovava da lungo tempo ricoverato in ospedale; una volta individuatolo, solo dopo una serie di incontri Paoletti è riuscito a cavargli il racconto di quanto accaduto 52 anni prima, dichiarandogli la propria intenzione di utilizzarlo per una pubblicazione; consenso accordatogli da Martini ma a patto che non fosse fatto il suo nome per intero e che sui due minuti della sparatoria e della fuga si seguisse la versione ufficiale. Inutile dire che la testimonianza acquisisce un’importanza storica fondamentale: sia perché evidenzia la meticolosità dell’organizzazione comunista, descrivendo il modus operandi seguito dai gappisti una volta che il vertice politico aveva ordinato un attentato; sia perché sottolinea implicitamente l’importanza nella decisione di un movente sinora piuttosto sottovalutato dalla storiografia.

Inizialmente si era infatti valutata la possibilità di colpire l’auto di Gentile allorché, al mattino, essa transitava sotto la curva sud dello stadio Berta, a simboleggiare la vendetta partigiana per la fucilazione di cinque renitenti alla leva, avvenuta al Campo di Marte il 22 marzo ‘44. Il gruppo avrebbe disposto sia degli uomini che delle armi necessari a mettere in atto l’agguato, che prevedeva prima l’arresto della macchina sparando coi mitra alle ruote, quindi l’esecuzione del filosofo da parte dei due killer che le si sarebbero avvicinati in bicicletta. Gaiani tuttavia non approvò il piano, valutandolo come eccessivamente rischioso; anche perché gli appostamenti effettuati dal gappista incaricato di studiare gli spostamenti di Gentile, Aldo Fagioli, avevano accertato che la vettura passava da quel punto troppo velocemente.

Maggiori garanzie avrebbe invece offerto la scelta quale teatro dell’attentato del Salviatino, come spiegato in uno scritto dallo stesso Fagioli. “L’azione si presentava per la verità abbastanza facile. La zona del Salviatino e la villa dove abitava il Gentile erano in una periferia molto isolata, né vi erano nelle vicinanze caserme di fascisti. Gentile rientrava con regolarità alla villa su un’auto guidata da un autista. Salvo imprevisti, il pericolo maggiore era costituito dalla strada che scende dalla collina, soventemente percorsa da auto di soldati tedeschi che ritornavano da gite a Settignano, a Fiesole e ai Bosconi per le cave di Maiano”. Il che avrebbe comportato che “un gappista si ponesse a monte di questa strada, con una cassettina piena di bombe a mano, pronto a fermare eventuali auto in arrivo”.

Non intendendo rinunciare al significato simbolico del delitto, gli esecutori proposero allora un’altra modalità, che prevedeva il trasporto del corpo della vittima, dopo la sua uccisione al cancello della villa, fin sotto la curva Ferrovia, per mezzo della macchina stessa. Ma anche a tale variante il dirigente pose il veto: essa avrebbe comportato tutta una serie di rischi e incognite che non era il caso di affrontare. “La gestione dell’operazione da parte di Gaiani – commenta Paoletti – fu molto prudente, anche se si perdeva il significato simbolico e vendicativo di quell’assassinio. Per questo si ripiegò sull’eliminazione senza rischi: non sotto lo stadio, non all’uscita dall’Accademia, non nel centro storico, perché tutti vedessero le capacità operative del GAP, ma in periferia. Di sabato, con il bersaglio chiuso in macchina”. Dopodiché viene riportato quanto dichiarato da Martini, ma senza alcuna censura.

“L’esecuzione di Gentile non fu decisa dal gruppo A di cui facevo parte: a noi arrivò solo l’ordine di eseguire l’azione. Secondo me il fatto che nella mia cellula si sia discusso di eliminare Gentile insieme a Massai e Fontani [il commissario politico dei GAP fiorentini] non significa automaticamente che l’idea sia partita da loro due. La mia impressione fu che l’ordine di giustiziare Gentile venisse da più in alto e che Fontani e Massai ci avessero portato quell’ordine che in realtà avevano ricevuto da altri ma, siccome per sicurezza nostra e degli altri era meglio sapere il meno possibile, non facemmo mai domande. D’altra parte io, Ignesti, Serni e Suisola eravamo troppo giovani per conoscere l’importanza politica di Gentile: per noi era uno che doveva essere eliminato e tanto ci bastava. Fanciullacci aveva qualche anno più di noi, sapeva chi era Gentile – perché ci disse che in carcere aveva letto un suo libro – ma cambiava poco. Ricordo che una volta passeggiando per strada io suggerii a Massai di eliminare Gentile allo stadio, oppure di ucciderlo davanti a casa, di impadronirci della sua macchina e di abbandonarla col cadavere dentro davanti allo stadio, nel punto in cui erano stati fucilati i cinque renitenti alla leva: doveva esser chiaro a tutti il nesso tra i due episodi. Massai mi disse che l’idea era buona ma così l’azione presentava troppi rischi, e quando lo rividi mi disse che non se ne sarebbe fatto di nulla.

“Fu deciso di eliminare Gentile quando tornava a casa per l’ora di pranzo, verso le 13, in un’ora morta, con il traffico inesistente. Gli si sarebbe sparato in due, a colpo sicuro, davanti al cancello della sua villa, quando l’auto era ferma; questo avrebbe agevolato molto l’esecuzione. Così Fanciullacci decise che era arrivato il momento di utilizzare quell’azione come palestra per me e Ignesti, che avevamo alle spalle solo un’esecuzione: io ero stato mandato a uccidere uno vicino Siena, e credo che anche Antonio avesse fatto fuori un fascista. La prima volta fu dura sparare a sangue freddo su uno sconosciuto; ma quando Bruno mi disse che toccava a me eliminare Gentile, mi sentii pronto. D’altra parte non c’erano molte alternative: Suisola e Serni erano troppo giovani e senza precedenti alle spalle. Per cui il piano fu così definito: Fanciullacci, come al solito, si era assunto il compito più difficile, quello di coordinare l’azione, stando di copertura in cima al tratto di salita iniziale di via del Salviatino, da dove poteva controllare tutta la scena nella piazza sottostante e avrebbe impedito la discesa a qualunque uomo in divisa che da Fiesole o dalle cave di Maiano avesse voluto scendere verso Firenze. Suisola e Serni – appartenente a un altro distaccamento e chiamato per l’occasione in quanto dalla piazza partivano cinque strade e non bastavano gli uomini del nostro gruppo – dovevano stare di copertura, sistemandosi di fronte all’ingresso della villa, sul ponticino, avendo alle spalle l’imbocco del viale Righi. Io e Ignesti avremmo dovuto far fuoco.

“Suisola e Serni si erano messi a sedere sul muricciolo del torrente Affrico; la bicicletta mia e quella di Ignesti erano appoggiate vicino a noi. Da lì potevamo controllare le due strade da cui poteva arrivare la macchina di Gentile: il viale Righi e via Lungo l’Affrico. Ci saremmo mossi non appena la macchina rallentava per fermarsi davanti al cancello, lontano da noi circa dieci metri. Mentre aspettavamo, Ignesti mi disse che era stato riconosciuto da un passante; ma secondo me è più probabile che non abbia retto alla tensione, dopo mezz’ora che si aspettava. Paura o meno, mi disse che non voleva mettere in pericolo l’azione e che era meglio se si toglieva di lì. Io gli risposi che si facesse dare il cambio da Bruno; così prese la bicicletta e iniziò a fare la salita del Salviatino per andare da lui. Poco dopo vidi arrivare Bruno; per fortuna la macchina di Gentile non arrivò mentre i miei compagni si scambiavano i posti, sebbene fosse già in ritardo di 20 minuti sull’orario che ci avevano detto. Pochi minuti dopo l’arrivo di Bruno vedemmo sopraggiungere dal viale Righi la macchina di Gentile. Lasciammo la nostra postazione, prendemmo le biciclette e ci avvicinammo verso la fiancata sinistra dell’auto, che si era fermata in attesa che si aprisse il cancello. Non ricordo se Bruno disse all’uomo seduto dietro: “Il popolo italiano ha decretato la sua condanna a morte”. Sicuramente gli chiese se era il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa parte, non attraverso i due finestrini posteriori. All’inizio ci allontanammo insieme con le nostre biciclette, poi ci separammo. Io infilai il viale Righi e mi andai a nascondere”.

La perfetta corrispondenza tra la ricostruzione di Martini e quanto appurato all’epoca dagli inquirenti (in primis la testimonianza dell’autista di Gentile e le risultanze della perizia medico-legale) viene secondo Paoletti a “mettere fine a decenni di illazioni e affermazioni gratuite”. Ossia: che i killer fossero stati tre o quattro, che si fossero avvicinati da entrambi i lati dell’auto, che ne avessero aperto gli sportelli, che portassero dei libri sotto il braccio in modo da sembrare degli studenti, che uno di loro nel premere il grilletto avesse proferito una qualche frase celebrativa, del tipo: “Non uccido l’uomo ma le sue idee”.

Riguardo le indagini condotte sull’attentato, tra le carte della Segreteria particolare del Duce Paoletti ha scovato un appunto riconducibile al responsabile del Servizio di sicurezza tedesco a Firenze, l’altoatesino Alberti, contenente una proposta al governo di Salò inerente la corresponsione della taglia di un milione di lire istituita sugli assassini di Gentile. Il documento comprova sia il fatto che le autorità repubblichine avevano chiesto e ottenuto la collaborazione alle indagini dei servizi segreti germanici, sia che l’inchiesta condotta da questi ultimi aveva avuto un qualche successo, non tanto per la conclusione che a compiere il delitto fossero stati cinque uomini appartenenti a un “gruppo terroristico di comunisti”, quanto perché tra quanti furono identificati come membri di quel commando figurava il nome di Fanciullacci, del quale era stato scoperto anche il ruolo di killer avutovi. Arrestati il 13 luglio in piazza Santa Croce – luogo di ritrovo dei gappisti – i cinque presunti responsabili del delitto del Salviatino finirono tutti giustiziati, per mano repubblichina o tedesca. Anche tale vicenda confermerebbe quindi che “l’assassinio di Gentile non fu ispirato da infiltrati fascisti nei GAP”.

Se dunque alla fine di maggio le indagini condotte dalla magistratura erano già concluse, la svolta investigativa dovuta ai servizi segreti tedeschi giungeva allorché il nazifascismo a Firenze era ormai in fase di smobilitazione. La palla tornava così al consigliere istruttore, rimasto il medesimo anche dopo la liberazione: ma nonostante anche “La Nazione” avesse dato notizia della “brillante operazione della polizia tedesca” di metà luglio, Agostini decideva per l’archiviazione del procedimento, formalizzata il 18 dicembre ‘44 “per essere ignoti coloro che hanno commesso il reato”. Per cui secondo Paoletti “quel che meraviglia non è tanto la lentezza dell’istruttoria della polizia fascista quanto la velocità con cui nel dopoguerra sia stato archiviato il caso Gentile!”.

Della vicenda giudiziaria l’autore offre una lettura assai acuta. La certezza che Fanciullacci avesse preso parte al delitto avrebbe consentito di risalire alla composizione del gruppo di fuoco: “ma Agostini, temendo forse di finire lui stesso nelle liste della “defascistizzazione”, preferì non riprendere le indagini sui GAP e archiviò il caso”, con la motivazione che esse “avevano dato esito infruttuoso”. In realtà era fin troppo evidente dove si sarebbe dovuto indagare, e cioè tra i GAP: “ma il clima politico era cambiato e nessuno osò investigare”. Se dunque “dopo la liberazione di Firenze non fu fatto niente per arrivare all’identificazione dei responsabili materiali e dei mandanti politici”, ciò è dovuto al fatto che “Agostini aveva perfettamente compreso che era cambiato il clima politico e che tutti gli antifascisti, non solo i comunisti, avevano interesse a mettere la parola fine su tanti delitti politici che avevano insanguinato Firenze. Se con l’eliminazione di Gentile si era evitato il processo pubblico all’intellighenzia fascista che si era riciclata in antifascista, con l’incriminazione dei supposti colpevoli si sarebbero aperti scenari politici altrettanto inquietanti”.

La prima rivendicazione dell’attentato da parte comunista giunse per bocca di Giulio Montelatici, rappresentante del PCI nel CLN toscano e perciò incaricato di mettere il Comitato stesso dinanzi al fatto compiuto e di strapparne il consenso: tentativo che però fallì. L’andamento della riunione ciellenista tenutasi lo stesso 15 aprile (in un appartamento ubicato nei pressi di S. Maria Novella) è stato rievocato da un suo componente, il democristiano Vittore Branca; la notizia dell’uccisione aveva fatto il giro della città, e anche all’esterno dell’edificio in cui si trovavano i delegati si avvertiva una certa agitazione. “I comunisti proposero che il CLN si assumesse la responsabilità dell’azione. Su questo ci spaccammo. I socialisti erano sulle stesse posizioni dei comunisti. Azionisti e liberali dissero che nessuno poteva essere ucciso per le proprie idee. Noi democristiani sostenemmo che il Comitato non doveva esprimersi su un’azione che non aveva deciso, né organizzato”. La discussione si concluse con la condanna dell’omicidio; inopinatamente neppure Montelatici votò a favore, ma si astenne.

Fa notare Paoletti come i comunisti avessero replicato a Firenze il comportamento tenuto il mese precedente a Roma, in occasione dell’attentato di via Rasella: senza chiedere preventivamente il consenso del CLN ma informandolo solo successivamente. Nella capitale tale strategia aveva funzionato, dal momento che il Comitato aveva accettato di assumersi la responsabilità della strage compiuta; mentre riguardo all’assassinio di Gentile non solo non vi fu approvazione, ma la reazione delle altre componenti fu tale da indurre lo stesso rappresentante comunista all’astensione.

I verbali relativi sia a questa che alla successiva riunione dal CTLN dedicata al delitto non sono più reperibili presso l’Istituto storico della resistenza, per cui a delineare le variegate posizioni personali emerse all’interno dello schieramento antifascista non restano che le pubblicazioni apparse successivamente. A chiarire l’atteggiamento dei socialisti può essere utile quanto vergato nel suo diario da Nenni: “Questo chierico, che ha tradito prostituendo la cultura ai piedi dei gerarchi, meritava disprezzo. Dubito che meritasse la morte. E sorprende che l’azione del filosofo dell’attualismo, manifestatasi in una sfera poco accessibile alla massa, abbia acceso passioni andate fino al sangue. Vedo perciò nel suo assassinio come il superamento di ogni limite nello scatenamento delle passioni faziose”.

Il 20 aprile fu Togliatti in persona a rivendicare ufficialmente l’attentato, dalle colonne dell’“Unità”. Due giorni più tardi i comunisti fiorentini diffusero un volantino, firmandolo CTLN a volerne significare l’approvazione del delitto da parte dell’intero Comitato: falso che suscitò la riprovazione di vari esponenti azionisti. Mentre il 23 fu ancora Togliatti, sull’organo del partito, a prendere posizione sulla fine della “canaglia” Gentile, “condannato a morte dai patrioti italiani e giustiziato come traditore della patria”. Secondo Paoletti, sia l’attivismo del segretario comunista che la durezza del suo intervento si spiegherebbero proprio con la mancata approvazione dell’omicidio da parte di azionisti, liberali e democristiani: all’isolamento del PCI determinatosi all’interno del Comitato di liberazione toscano Togliatti avrebbe ovviato coprendo con l’autorità del proprio nome l’operato dei gappisti.

“Per la sua rilevanza politica – chiosa l’autore – l’assassinio di Gentile ha diviso e divide ancor oggi la sinistra. Gentile era l’uomo che aveva maggiormente contribuito a portare mattoni e calcina per costruire l’edificio culturale del fascismo, ma anche gli avversari politici gli avevano riconosciuto di essere il più grande o comunque uno dei più grandi filosofi italiani del ‘900. Era dunque giusto assassinarlo per le sue idee politiche? Secondo i comunisti fiorentini e italiani venne “giustiziato”, secondo la maggior parte degli azionisti fiorentini si trattò di un errore politico”.

Leggende, luoghi comuni, elucubrazioni intellettuali, mistificazioni e falsi indizi  La parte centrale del saggio è dedicata alle varie “piste” alternative proposte negli anni: a partire da quella repubblichina, che circolò fin da subito in città alimentata soprattutto da esponenti del Partito liberale. Scrisse Spadolini che al termine dei funerali “bastava avvicinarsi a qualche circolo o capannello dei soliti borghesi per sentire subito i soliti denigratori che speculavano o congetturavano sulla morte di Gentile, attribuendola magari a qualche fascista “estremista””. Tali voci dovettero arrivare fino a Mussolini, se è vero che egli dispose un’inchiesta interna sull’omicidio; la quale tuttavia si concluse con la conferma che esso era stato compiuto dai gappisti.

Ciononostante, l’ipotesi della matrice “nera” dell’assassinio ha avuto lunga vita, riscuotendo il credito dello stesso Canfora: il quale ha riportato la testimonianza di un membro liberale del CTLN cui, subito dopo l’attentato, un giovane componente della banda Carità si sarebbe affrettato a confidare che l’uccisione del filosofo era stata decisa in una riunione segreta con Pavolini. Ne La sentenza non si tiene tuttavia conto di chi fosse tale “gola profonda”: un avanzo di galera autore di soprusi e violenze di vario genere, che dopo la liberazione di Firenze risultò protetto dalle autorità militari alleate e che non ebbe mai a pagare per le proprie malefatte in virtù dell’amnistia. Il che porta Paoletti a supporre che costui “abbia millantato il proprio credito presso gli americani per ottenere un occhio di riguardo dopo la guerra”, secondo “un sistema collaudato da parte dei fascisti di vendere per clamorose rivelazioni delle enormi menzogne”.

Ma al di là di ciò, molti risultano gli elementi che portano a escludere un coinvolgimento nel delitto sia di Carità che di Pavolini: non ultima, l’istituzione da parte della RSI della taglia per la cattura dei responsabili. Alla stregua di un detective, l’autore passa quindi al vaglio i possibili moventi di una ipotetica “pista nera”: Gentile sarebbe stato eliminato per evitare che rivolgesse a Mussolini ulteriori lamentele circa gli eccessi degli oltranzisti? Per punirlo del fatto che continuava a spendersi in favore di antifascisti ed ebrei? Si tratta di ipotesi insostenibili, “perché gli esecutori materiali furono sicuramente i gappisti e tra questi e i mandanti fascisti all’epoca non ci poteva essere né contiguità né infiltramento. I comunisti fiorentini e il segretario del PCI hanno rivendicato più volte l’attentato. Perché bisognerebbe mettere in dubbio i mandanti e gli esecutori, che hanno sempre rivendicato l’ideazione e l’attuazione dell’esecuzione, per accreditare le confessioni interessate di un giovane fascista in preda ai fumi dell’alcool?”.

Alla stessa maniera cadono tutte le altre tesi proposte, poggianti su illazioni e artifizi di vario genere e tuttavia capaci di trovare sempre dei sostenitori, ma delle quali l’autore dimostra l’infondatezza: quella di un mandante (o meglio di un ordine) alleato, quella più articolata dei “mandanti multipli” (servizi segreti alleati, comunisti, massoni e fascisti estremisti), quella che vorrebbe il filosofo eliminato in quanto in procinto di rompere con il fascismo, quella che ascriverebbe la decisione dell’omicidio al vertice nazionale del PCI. Quale interesse avrebbero avuto gli inglesi a fare fuori Gentile? E come avrebbero fatto a trasmettere l’ordine ai gappisti fiorentini, non essendovi con loro alcun genere di collegamento né essendo mai esistita la “fantomatica radio alleata” che secondo alcuni avrebbe provveduto a quella trasmissione? Senza contare che sono le stesse carte dei servizi segreti britannici a escluderne un coinvolgimento nell’affaire Gentile.

Si tratta dunque di “ipotesi più o meno fantasiose”, destinate peraltro a scontrarsi “con la realtà delle cose del 1944” e dietro le quali non è difficile vedere la spasmodica ricerca di un avallo, una pezza d’appoggio esterna e autorevole a giustificazione di un delitto che, anche nell’ottica della guerra civile, non poteva che apparire ai più come sbagliato e inopportuno. Non dimentichiamo a tale proposito l’incoerente astensione comunista in CTLN, quasi a dire: prendiamo atto che nessuno di voi è d’accordo, ma non possiamo condannare l’attentato pure noi che l’abbiamo fatto.

Senonché anche uno storico dell’autorevolezza e dell’equilibrio di Perfetti ha voluto individuare in Togliatti il “mandante morale” dell’assassinio. L’analisi dell’allievo di De Felice parte dal Discorso agli italiani tenuto da Gentile il 24 giugno ‘43 in Campidoglio: un appello all’unità nazionale, nel momento più drammatico della guerra, rivolto in particolare ai comunisti e al quale Togliatti rispose due giorni più tardi parlando da Mosca tramite l’emittente del PCI Radio Milano Libertà. “Quello che vogliamo – egli disse – è la pace e la libertà, e con esse la nostra salvezza. Se il signor Gentile non lo capisce, peggio per lui. La santa rivolta della nazione contro i suoi tiranni ci libererà finalmente anche da questo filosofo venduto ai nemici della patria”. Secondo Perfetti l’eliminazione di Gentile sarebbe “rientrata perfettamente nella strategia di Togliatti in prima persona, e dei comunisti più in generale, per la conquista del potere”: e a realizzare la volontà del leader sarebbe stato Fontani, progettando il delitto “per conto della direzione del PCI”.

A una simile ipotesi Paoletti obietta anzitutto il tempo intercorso tra i due eventi, nel corso del quale il senatore non era rimasto con le mani in mano; quando a Firenze fu decisa la sua uccisione “Gentile aveva accumulato “peccati” ben più gravi: come presidente dell’Accademia d’Italia aveva fatto un discorso politico incentrato sull’alleanza italo-tedesca”. Quello di Togliatti era stato un semplice commento, non un’istigazione: perché altrimenti non sarebbero trascorsi dieci mesi senza che i gappisti fiorentini si degnassero di raccoglierla. Così come altrettanto improponibile appare la tesi – anch’essa non priva di seguaci – secondo la quale il segretario comunista avrebbe dato l’ordine di ammazzare Gentile una volta sbarcato a Napoli, il 27 marzo ‘44: a parte la difficoltà per l’ipotetico messaggero di attraversare il fronte a Cassino e di portarlo in così breve tempo a Firenze, resta il fatto che a quella data la decisione nel capoluogo toscano era già stata presa. Mentre per quanto riguarda Fontani è stato lo stesso commissario politico dei GAP a scrivere di essere intervenuto nella fase operativa del delitto, non in quella ideativa; del resto per lui “la direzione del PCI” era rappresentata da Rossi, non da Togliatti.

Piuttosto che ricercare un mandante morale dell’omicidio occorrerà allora concentrarsi su quello materiale: ossia lo stesso Rossi, che tuttavia il 26 giugno ‘43 si trovava in carcere, “per cui siamo certi che non poté ascoltare l’intervento radiofonico di Togliatti”, riuscendo difficile immaginare che il nazifascismo diffondesse nelle prigioni l’emittente del PCI. E quindi il delitto non poté maturare che a Firenze: “non perché la dirigenza comunista fiorentina nel ‘43 avesse ascoltato Radio Milano Libertà o nel ‘44 avesse letto gli articoli di Marchesi o Marchesi-Li Causi, ma perché arrivò autonomamente e dopo una lunga riflessione a quella decisione”. Inoltre, “l’assassinio di Gentile fu deciso dai comunisti fiorentini nella piena consapevolezza che esso avrebbe rappresentato un momento di rottura con le altre componenti del CTLN. Anzi appare quasi come uno degli obiettivi da raggiungere: il PCI fiorentino voleva superare questa “remora”, perché la considerava un freno all’affermazione della propria supremazia. Il PCI si muoveva come se fosse stato l’unica forza antifascista in città. Sono loro a proclamare che avrebbero vendicato i renitenti alla leva con “dieci fascisti per ogni giovane fucilato””.

A Perfetti l’autore rimprovera inoltre l’“elucubrazione intellettuale” di spiegare l’eliminazione di Gentile con la sua “irrecuperabilità politica”: essendo la maggior parte dei suoi ex allievi concentrata nel Partito d’azione, il PCI non avrebbe potuto attuare nei suoi confronti quel piano strategico che lo avrebbe portato ad accogliere tra le proprie fila anche i cosiddetti “fascisti rossi”. Ma il delitto non fu ordinato o suggerito né da Togliatti né dai vertici comunisti, ammesso che questi fossero già impegnati a disegnare la strategia del partito nel dopoguerra e quindi a preoccuparsi fin da adesso del “recupero” degli ex fascisti; esso fu “deciso e concepito a Firenze: e non crediamo che nell’aprile 1944 i comunisti fiorentini si ponessero questi problemi”. Principale artefice ne fu “l’operaio Rossi, che viveva in clandestinità in territorio occupato e aveva ben altri pensieri contingenti. Rossi non era Togliatti e guidava la barca comunista pensando all’oggi, non alla strategia di un domani ancora lontano. Vedeva i tedeschi attestati a Cassino e doveva lasciare Firenze ogni volta che proclamava uno sciopero provinciale o ordinava un omicidio eccellente”.

Sicuramente con quella iniziativa “il PCI fiorentino mostrò indifferenza per un’eventuale spaccatura nel CTLN, per possibili rappresaglie fasciste e cercò l’inasprimento della lotta politica”. Non solo: la particolarità dell’assassinio di Gentile trova una sua ratio allorché si consideri l’intento comunista di stupire e impressionare. Si tratta del resto di un aspetto già ben individuato da De Felice, il quale ha scritto: “Sotto il profilo militare il terrorismo era privo di utilità. Nella strategia comunista aveva però una duplice funzione: provocando la reazione dei fascisti e dei tedeschi, e quindi l’indignazione e l’odio popolare verso di essi, scoraggiava i tentativi di pacificazione; creava attorno ai gappisti, che ne erano i maggiori protagonisti e l’applicavano soprattutto contro obiettivi molto noti e simbolici che ne moltiplicavano gli echi, un alone di forza e di onnipresenza alla quale nessuno poteva sottrarsi che esaltava agli occhi della gente l’attivismo, l’efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti rispetto alla “passività” degli altri partiti”.

Se dunque scopo principale dei GAP era quello di occupare la scena mediatica e politica con il minimo sforzo e il minor rischio possibile, un attentato che avesse avuto quale vittima un personaggio della notorietà di Gentile era sicuramente il più appetibile. Fa notare a tale proposito Paoletti: “Su una cinquantina di azioni in circa otto mesi di attività i GAP fiorentini compirono una trentina di aggressioni a mano armata, uccidendo o ferendo singoli militari italiani o tedeschi; a fronte di questa condotta sanguinaria non compirono mai attentati contro fabbriche o impianti militari ma solo contro edifici civili. Solo cinque volte interruppero i binari del tram o gli scambi ferroviari. La loro caratteristica principale fu dunque quella di eliminare esponenti militari tedeschi e italiani, spie e collaborazionisti. Ma solo quando i bersagli erano soli o isolati”. Ovviamente la scelta di una tattica del genere poteva suscitare anche reazioni non propriamente ammirate ed entusiastiche; così, allorché Fanciullacci dopo l’omicidio andò a rifugiarsi a casa del pittore Rosai, questi ebbe a dirgli: “Bella impresa uccidere un povero vecchio”.

Spiegato come l’ingente disponibilità finanziaria di cui disponevano i GAP fiorentini derivasse da un colpo messo a segno nell’ufficio postale di Santa Maria Novella (il quale aveva consentito di retribuire ciascun gappista con uno stipendio mensile di 1200 lire, oltre a un premio individuale di 2000 lire finalizzato all’acquisto degli strumenti di lavoro costituiti da bicicletta, orologio e vestito), Paoletti fornisce una ricostruzione del modo in cui Rossi maturò la decisione di ammazzare Gentile degna di un Maigret. Ricordato come alla scuola leninista di Mosca l’operaio fiorentino avesse “insegnato a valutare e soppesare le decisioni politiche, anteponendo a tutto gli interessi del partito”, viene sottolineata la sua tattica di mettere il CTLN dinanzi al fatto compiuto e cercare di acquisirne il consenso, sulla scia di quanto fatto dai compagni romani con l’attentato di via Rasella e puntando a riaffermare autonomia politica e iniziativa militare del PCI.

“Rossi valutò i rischi ma poi decise di non farsi condizionare dalle reazioni negative degli altri partiti antifascisti”; la sua non fu una decisione estemporanea “bensì una scelta maturata nell’arco di più di tre settimane, finché non si convinse che tutte le finalità che si prefiggeva il PCI si identificavano nell’eliminazione di Gentile”. Per cui “il racconto di Bilenchi è convincente: fin dai primi di marzo Rossi comincia a pensare a un intellettuale, Bilenchi si oppone a questa scelta in tre incontri con lui, l’11 marzo Soffici si salva la vita con quell’articolo; seguono altre riunioni con tutti coloro che possono dare consigli utili”. La proclamazione dello sciopero generale segna l’allontanamento del segretario comunista da Firenze; nel frattempo si hanno il discorso di Gentile in Accademia e la fucilazione dei cinque giovani allo stadio. Con il rientro in città del capo, verso la fine del mese riprendono le discussioni interne al soviet gigliato.

La testimonianza di Fagioli ci dice che, subito dopo l’eccidio del Campo di Marte, la direzione militare comunista pensò a una vendetta contro dei militari, individuando tra gli ufficiali operanti a Firenze due possibili obiettivi. Una volta concluso il suo ulteriore giro di colloqui Rossi confermò tuttavia la sua preferenza iniziale per un intellettuale, sentenziando la morte di Gentile. “Si può dire che tra i tanti temi che Rossi dovette affrontare alla fine del mese di marzo ci fu anche quello dell’intellettuale da eliminare. Alla fine egli prese la decisione da solo, informando i responsabili militari della sua sentenza di morte. La sentenza venne dopo un travaglio durato più di un mese, finché Rossi non decise per tutti”. Ai primi di aprile il gruppo A riceveva l’ordine di cominciare a studiare l’attentato a Gentile.

Ecco dunque spiegato l’intervallo di tempo intercorso tra la decisione e l’esecuzione. “L’11 marzo Rossi legge l’articolo di Soffici ma non può trovare l’alternativa a causa delle indagini della polizia a seguito degli scioperi. Si allontana per un paio di settimane, cosicché la decisione finale di colpire Gentile viene presa tra la fine di marzo e i primi di aprile; sicuramente dopo che il “Nuovo Giornale” ha pubblicato la premessa politica al discorso per il bicentenario della morte di Vico (20 marzo), dopo la fucilazione dei renitenti del 22, dopo il volantino comunista del 24 che termina con “i cinque giovani patrioti chiedono vendetta”. Ma la promessa comunista del 24 è: “per ogni giovane patriota muoiano 10 fascisti!”. Dopo quella data Rossi torna a Firenze e trova più semplice e pratico eliminarne uno solo, ma di grosso spessore politico e culturale, che cinquanta in divisa. I nuovi accadimenti impongono una decisione e questa viene presa con il ritorno di Rossi alla guida del partito”.

A segnare la sorte del filosofo sarebbero dunque stati i due “fatti decisivi” verificatisi in marzo: il discorso da lui tenuto in Accademia e l’eccidio del Campo di Marte, “uno shock per l’intera città e un episodio di fronte al quale il PCI non può non rispondere”. Ma forse anche una “coincidenza”: l’arrivo a Firenze alla metà del mese di Gaiani, “che nella sua Bologna aveva già fatto eliminare un intellettuale” e che potrebbe avere corroborato Rossi nella sua idea di colpire gli “intellettuali rompicoglioni”. Il motivo per cui la prima idea del segretario fosse stata quella di eliminare Soffici “rimane un mistero”; così come il fatto che, “mentre il partito è impegnato a preparare gli scioperi del 3-8 marzo, egli si preoccupi degli “intellettuali” fascisti”. Dietro la decisione di colpire Gentile sta quindi una “policausalità”, tenendo anche conto del fatto che nel volantino di rivendicazione del 22 aprile si fa riferimento all’appello pacificatore contenuto nel suo articolo apparso sul “Corriere della Sera” il 28 dicembre: segno che “i comunisti fiorentini avevano memoria lunga e avevano messo nel conto anche quell’articolo”.

Vengono quindi esplicitati i molteplici “buoni obiettivi” dell’attentato accennati all’inizio. Ammazzando Gentile “si otteneva un ritorno mediatico nazionale e internazionale. Si manteneva la promessa fatta dal partito di vendicare i giovani fucilati al Campo di Marte e si cancellava l’inattuabile impegno preso dalla propaganda comunista: dieci fascisti per ogni renitente. Si eliminava il simbolo della pacificazione e della riconciliazione nazionale. Si chiudeva una volta per tutte la questione aperta con gli intellettuali fascisti fiorentini e si lanciava un messaggio a tutti gli intellettuali italiani. Si cercava la frattura con il Partito d’azione e si metteva il CTLN di fronte al fatto compiuto. Si imponeva nel CTLN la propria strategia di lotta, senza tatticismi o compromessi. Si innalzava il livello dello scontro fisico: perché tutti gli italiani vedessero il fascismo con un solo volto, quello sanguinario del Campo di Marte, occorreva togliere di mezzo il simbolo del fascismo della riconciliazione nazionale. Si sperava di ottenere una eclatante rappresaglia, che sollevasse l’indignazione della cittadinanza, per cui la vendetta da parte dei fascisti si sarebbe ritorta contro di loro”. Era infatti presumibile che l’omicidio provocasse una ritorsione; incerto poteva essere soltanto il numero delle vittime. Per cui “solo su quest’ultimo punto Rossi sbagliò: non aveva tenuto conto della risposta della famiglia Gentile”.

Nel tentativo di giustificare l’uccisione del filosofo, Fontani ha scritto che si trattava di “una persona abietta, da schiacciare come un verme”: secondo Paoletti si tratterebbe di una consapevole bugia finalizzata a coprire l’anomalia di fondo di quel delitto. “Tutte le azioni terroristiche dei gappisti fiorentini furono compiute contro militari repubblicani o germanici, fascisti o tedeschi in divisa: l’unico assassinio di un civile è quello di Gentile”. Ma soprattutto: perché non si fece fuori Mario Carità, lo spietato torturatore di Villa Triste che anche al Campo di Marte aveva voluto dar prova della sua efferatezza, intervenendo a dare il colpo di grazia a uno dei condannati? È questa la domanda che sorge spontanea in chiunque si accosti al delitto Gentile: anche perché, contrariamente a quanto registratosi per l’uccisione del presidente dell’Accademia, quella del capo dell’Ufficio politico investigativo avrebbe garantito a chi l’avesse compiuta un effetto propagandistico eccezionale. Paoletti non vi si sottrae, fornendo anzi una risposta assai esaustiva.

“Carità era odiato dagli antifascisti, dalla massa dei fiorentini che aspettavano la fine della guerra, dai fascisti moderati, quindi anche da Gentile: insomma era il simbolo della più bieca malvagità fascista. A Firenze era l’emblema del male e la sua eliminazione non avrebbe avuto un impatto nazionale come quella di Gentile, ma avrebbe prodotto un enorme sollievo sulla massa dei cittadini, contrariamente alle molte perplessità create dalla scelta di colpire un intellettuale. L’assassinio di Carità avrebbe creato un maggiore consenso popolare intorno al PCI, avrebbe esaltato l’organizzazione militare e l’audacia dei GAP, avrebbe portato nuove leve di giovani ardimentosi quanto una vittoria in campo aperto contro la Wehrmacht, avrebbe trovato il consenso di tutto il CTLN. Colpire Carità era l’obiettivo di tutte le organizzazioni clandestine, dagli azionisti ai comunisti; e se in sei mesi di soprusi, sevizie e torture il centurione non ha mai subito un attentato, c’è una sola spiegazione: egli aveva una scorta armata e ben collaudata. La cruda realtà è che i GAP non volevano rischiare troppi uomini per eliminarlo. I gappisti non attentarono alla vita di Carità non per timore di una rappresaglia proporzionata all’importanza del personaggio, non per non ripetere le Fosse Ardeatine a Firenze ma perché ritennero troppo pericoloso attaccarlo. Era più facile far fuori un filosofo senza scorta che un torturatore con la scorta: ammazzare Gentile era un gioco da ragazzi, scegliere Carità costituiva un rischio troppo alto”. Lo stesso vale per il capo della provincia Manganiello, altro bersaglio naturale impartendo egli gli ordini per i rastrellamenti antipartigiani cui si adeguavano tanto i repubblichini quanto i tedeschi, ma egualmente ben protetto.

Allargando poi il discorso a individuare la motivazione del delitto maggiormente suffragata dagli intellettuali comunisti, giungiamo alla conclusione che in Gentile i gappisti avessero inteso colpire “uno dei simboli del tradimento della cultura italiana durante tutto il ventennio della dittatura”: in tale prospettiva la decisione di sopprimere il senatore siciliano non sarebbe da ricollegare tanto a un particolare episodio degli ultimi mesi quanto all’intera sua esperienza politica. “A chi aveva scelto quel bersaglio non interessava tanto che quell’attentato avvicinasse alla causa meno persone di quante ne allontanava. Gli apolitici potevano accettare più facilmente l’eliminazione di un fascista, che nella sua montura rappresentava sempre la struttura dello stato dittatoriale, piuttosto che quella del vecchio filosofo fedele alla patria che, dopo il tradimento del re, ritrovava lo Stato solo nella RSI. Per la massa Gentile restava un vecchio ucciso per le sue idee politiche. Solo per gli intellettuali comunisti egli era un simbolo del regime fascista, che corrompeva le coscienze dei giovani e quindi andava eliminato”. Ma anche tale visione non regge; le testimonianze dei diretti interessati parlano chiaro: a decretare la sentenza di morte di Gentile fu l’“infiammato discorso polemico” da lui pronunciato in Accademia, e a corroborarla l’eccidio del Campo di Marte.

Ciononostante, la mistificazione inaugurata da Togliatti secondo la quale l’assassinio sarebbe stato giustificato dal fatto essere stato Gentile un “corruttore delle giovani coscienze” ha preso sempre più campo sino a diventare un luogo comune. Perché allora – si chiede Paoletti – molti intellettuali suoi frequentatori, amici o discepoli si schierarono nelle file antifasciste? Perché molti suoi allievi e studenti militavano nei partiti di sinistra? “Non neghiamo – egli osserva – che fino alla fine Gentile sia rimasto schierato dalla parte sbagliata: ma i fatti e la vita di chi osteggiava la scelta di campo del filosofo dimostrano che non fu lui a portare i giovani a combattere per quella causa. Oltretutto, fino alla vigilia della sua uccisione egli si mantenne estraneo al dibattito politico: ma questo particolare non ha alcun peso per i sostenitori della sua esecuzione”.

Costoro tendono infatti a presentare la figura di Gentile come quella di un “militante” strenuamente impegnato a livello politico e di conseguenza l’Accademia da lui presieduta come un’istituzione pienamente organica al regime repubblichino e quindi al nazifascismo. Le cose stanno invece in tutt’altra maniera: fin da quando il governo di Salò gli aveva proposto la presidenza fiorentina il filosofo ne aveva subordinato l’accettazione all’autorizzazione a “servirsi anche di collaboratori non fascisti purché sinceramente e lealmente italiani”. Fino al 19 marzo ‘44, per sette mesi egli si era astenuto dal parlare in pubblico: secondo Paoletti proprio allo scopo di evitare che quanto avesse detto potesse subire una strumentalizzazione politica. Ma anche nei suoi scritti egli aveva accuratamente evitato di assumere posizioni politiche; così come nel discorso tenuto in Campidoglio il 24 giugno ‘43 non figuravano il termine “Germania” né i relativi aggettivi.

Nell’assumere la presidenza dell’Accademia l’ormai anziano Gentile aveva rassicurato i familiari che quell’incarico non ne avrebbe precluso la volontà di “mettersi in disparte”; mantenne la promessa, evitando di occuparsi non solo di Hitler e del nazismo ma anche di Mussolini e del fascismo. “Per sette mesi scrisse solo ed esclusivamente di Italia, di Patria, di Stato e di Italiani: è questo il vocabolario di un filosofo, o di un politico del 1944? La sua attività “politica” fu quella di non rispondere alle accuse dei fascisti e degli antifascisti, lanciate contro di lui e apparse su quotidiani e riviste, legali o clandestine. Quando Marchesi pubblicò l’articolo che Li Causi chiudeva con “la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: morte!”, Gentile non replicò: tacque. Quando altre accuse arrivarono da destra, egli si limitò a lamentarsene privatamente con Mussolini, senza replicare sulla stampa. Si può definire tutto ciò una “militanza politica”?”.

Solo la cerimonia per l’inaugurazione dell’Accademia “fu studiata e pensata per intervenire politicamente”, con tanto di “premessa politica” all’intervento su Vico. Solo il 19 marzo ‘44 il senatore tornò a fare riferimento a Mussolini e Hitler, compiendo un’“inversione” rispetto all’atteggiamento tenuto in precedenza. Paoletti ritiene di averne individuato il motivo: “Non fu una scelta, perché Gentile fu costretto a esporsi politicamente per salvare suo figlio, internato in un campo di prigionia tedesco. Sapeva di andare contro quel silenzio politico che si era imposto, sapeva di rischiare la vita: ma non si tirò indietro”. Per cui in definitiva “la vera “militanza politica” del filosofo fu quella di violare le leggi razziali, di favorire sottobanco gli antifascisti vittime degli abusi di Carità e lamentarsi con il capo della Provincia per i rastrellamenti nazisti”.

L’autore si concentra quindi sull’articolo di Marchesi, contestandone l’interpretazione datane da Canfora dal momento che, a ben vedere, dalla sua lettura non si evince alcuna condanna a morte; ciò che risalta in quella vicenda è piuttosto la “manipolazione e strumentazione da parte di Li Causi e di chi lui rappresentava, il PCI”. Ma a contrastare quella tesi – non priva di sostenitori anche illustri – stanno molteplici considerazioni: la “sentenza” emanata a febbraio sarebbe stata eseguita soltanto due mesi più tardi, vedendo nel frattempo i gappisti fiorentini impegnati in parecchi altri attentati nonostante quello contro un intellettuale si presentasse come meno rischioso rispetto a quelli compiuti a danno di militari; non l’avrebbe considerata Rossi, con l’individuare quale obiettivo Soffici, né si tiene conto del fatto che due testimoni come Bilenchi e Gaiani hanno raccontato che la scelta di eliminare Gentile venne dopo che fu scartato il primo nome fatto dal segretario; a Firenze non era sfuggito a nessuno il fatto che Gentile avesse approfittato di una celebrazione di carattere culturale – la ricorrenza vichiana – per tenere un intervento dai forti connotati politici.

Neppure sfuggì a Radio Londra, che in una trasmissione giunse a definire Gentile “arlecchino filosofico drappeggiato di croci uncinate”: un’altra “sentenza”, secondo la poliedrica teoria dello stesso Canfora, al quale Paoletti rimprovera le “infinite correzioni di rotta” apportate alla tesi originaria allo scopo di “ridimensionare la responsabilità comunista” nell’attentato. Nelle successive edizioni del suo libro nonché nei vari interventi giornalistici in materia derivatigli dall’autorevolezza riconosciutagli grazie alla Sentenza, infatti, il filologo barese ha più volte cambiato versione, sino a contraddirsi, giungendo a prospettare una sorta di onnipotenza da parte dell’intelligence britannica che le avrebbe consentito di manovrare tanto i repubblichini quanto i gappisti. “A quando – si chiede ironicamente l’autore – i nomi dei supposti infiltrati fascisti o le carte dello Special Operations Executive?”.

“In verità la prassi dei servizi segreti non è mai stata quella di servirsi della propaganda radiofonica per ordinare gli omicidi; se gli inglesi avessero voluto servirsi della Resistenza, e dei comunisti in particolare, per eliminare il filosofo lo avrebbero fatto in silenzio, attraverso i loro canali. Perché se c’è una cosa che non amano i servizi segreti di tutto il mondo è il clamore. Le “operazioni sporche” in particolare si fanno in segreto e nel silenzio. E gli anglo-americani avevano una branca addetta proprio a questo: raccogliere e fornire notizie”. Né è vero che dopo il delitto la medesima Radio Londra manifestasse particolare compiacimento per l’eliminazione di Gentile: “considerando che si commentava la scomparsa di un avversario, il comportamento dei mass media inglesi fu del tutto normale”.

A sostegno del proprio teorema Canfora ha sottolineato il fatto che le autorità repubblichine non avessero messo a disposizione di Gentile una scorta, tanto più necessaria dal momento che la residenza del senatore era posta tra la periferia e la campagna, e quindi i suoi spostamenti oltremodo a rischio. Ricordato come tanti “bersagli eccellenti” della RSI rimasti vittime di attentati in quello stesso periodo si muovessero tutti senza protezione (a cominciare dai federali di Ferrara, Milano, Bologna, Forlì; a Firenze, il comandante del distretto militare), l’autore riporta quanto scritto dal figlio di Gentile, Benedetto: “La fiducia serena in cui mio Padre viveva era tale che nessuno di noi si preoccupò mai di chiedere che si provvedesse in qualche modo alla sua sicurezza”. Per cui la mancanza della scorta non può essere considerata come un indizio dell’abbandono del filosofo da parte del regime, e ancor meno della complicità repubblichina nel suo omicidio; semplicemente “la vigilanza alla macchina di Gentile non ci fu perché né il presidente dell’Accademia né i suoi familiari l’avevano mai chiesta. Anzi par di capire che, se gliel’avessero offerta, forse l’avrebbero rifiutata”.

Ad alimentare tanto l’ipotesi complottista quanto la tesi secondo la quale Gentile fosse ormai in rotta di collisione col nazifascismo interviene poi un episodio che per la sua oscurità può prestarsi a ogni interpretazione. Nella notte sul 10 aprile ‘44 – lunedì di Pasqua – per ordine del Comando germanico fu effettuata una vasta operazione antipartigiana finalizzata a “ripulire” parte dell’Appennino Tosco-Romagnolo a partire da Monte Morello; al rastrellamento presero parte soldati sia tedeschi che italiani. A Cercina in particolare furono fucilate sette persone: sei contadini più il segretario di Gentile, suo collaboratore alla Sansoni nonché amico di famiglia, Bruno Fanelli, che vi era sfollato. La strage appare del tutto gratuita: quei poveretti potrebbero essere stati immediatamente passati per le armi solo in quanto sospettati di avere aiutato i banditen?

Come si evince dal rapporto redatto in merito dalla polizia politica fiorentina, nei giorni seguenti il filosofo si interessò assiduamente alla sorte del suo collaboratore, ritenendo che fosse stato arrestato e interpellando perciò le varie autorità cittadine – dal console tedesco al questore – onde ottenerne la scarcerazione. Appreso soltanto la mattina del 15 – dunque poche ore prima di essere a sua volta assassinato – del ritrovamento del cadavere, Gentile telefonò al questore per informarlo (in una inversione di ruoli che la dice lunga sulla particolarità del momento che si stava vivendo a Firenze) “che era inutile ogni interessamento perché il cadavere del Fanelli era stato trovato poco lungi dalla sua abitazione”.

Alla medesima congettura dietrologica si è richiamato chi ha voluto vedere nelle commemorazioni ufficiali di Gentile, e nelle sue stesse esequie, un certo tono minore da parte delle autorità. “Al contrario, molti furono i segni tangibili di omaggio ufficiale alla memoria del filosofo siciliano. Il 3 maggio il Consiglio dei ministri stabiliva di tumulare Gentile nella chiesa di Santa Croce tra i grandi del Risorgimento e di dare l’avvio alla pubblicazione di tutte le sue opere”; così come “i funerali furono celebrati con solennità e con un grande concorso di pubblico”.

Lo stesso dicasi per la mancata rappresaglia e il rilascio dei tre docenti arrestati come “istigatori morali” dell’omicidio: uno dei quali peraltro, Bianchi Bandinelli, lo era veramente. Se non vi fu ulteriore spargimento di sangue il merito non va ascritto né a Carità né a Mussolini – come è stato ipotizzato – ma solo ai familiari della vittima, la volontà dei quali fu espressa dallo stesso Benedetto recatosi tempestivamente in prefettura allorché in città si erano diffuse voci di imminenti e pesanti ritorsioni allo scopo di “deplorare la tragica inutilità di un metodo dal quale non poteva seguire che il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie”. Per cui “dobbiamo ritenere che furono i Gentile a frenare la furia vendicativa: quindi Mussolini e i gerarchi si limitarono a uniformarsi ai desideri della famiglia”.

Leggende care alla prosopopea comunista sono poi che Fanciullacci abbia accompagnato gli spari con una frase roboante e che gli abitanti del rione abbiano applaudito gli attentatori dalle finestre. Forte sia della testimonianza di Martini che di quelle raccolte all’epoca dagli inquirenti, Paoletti si dice certo che il capo gappista non abbia aggiunto niente alla domanda rivolta al “professore”, facendo notare come, stante l’allontanamento del commando da viale Righi, nessuno in quella zona avrebbe potuto sapere chi avesse sparato, dove e contro chi. Ma l’obiezione maggiore sta nel semplice buon senso: cosa ci sarebbe stato da applaudire nell’uccisione a sangue freddo di un uomo di 69 anni, per giunta inerme? “Solo certi comunisti sono rimasti legati alla vulgata creata dal partito a fini propagandistici”.

Allo scopo di sminuire l’isolamento patito dal PCI all’interno del CTLN a seguito dell’attentato è stato inoltre detto che la sua condanna da parte degli azionisti fiorentini era dovuta non tanto a motivi di ordine politico quanto alla vicinanza con Gentile di alcuni di essi, e segnatamente Ragghianti e Codignola. Ma l’attenta disamina condotta dall’autore dimostra che, “al di là delle apparenze e dei facili sospetti, il dissenso azionista verso il terrorismo urbano aveva radici lontane, non per i consolidati rapporti amichevoli tra i Codignola-Ragghianti e la famiglia Gentile, bensì per una diversa visione della lotta armata, per la firma apocrifa del CTLN messa abusivamente in calce al manifesto che dimostrava quanto poco unitario fosse il comportamento del PCI”.

Paoletti ha quindi tentato di chiarire un altro punto importante, strettamente collegato al precedente, ossia l’atteggiamento tenuto al riguardo dal Partito d’azione a livello nazionale: perché è evidente che un comportamento differente rispetto a quello evidenziatosi a livello regionale verrebbe a inficiare il valore politico della posizione assunta dagli azionisti fiorentini. Anche in questo caso la versione secondo la quale l’intero CLNAI avrebbe approvato l’assassinio, differenziandosi quindi dalla sua rappresentanza toscana, non trova alcun riscontro oggettivo, non avendo sortito le ricerche condotte dall’autore nei relativi archivi il reperimento di documenti o prese di posizione ufficiali in merito. Pur essendosi registrate anche voci azioniste favorevoli al delitto non resta dunque che affidarsi a quanto affermato nel ‘58 da Parri, dichiaratosi sulla questione “d’accordo con Codignola”: non si vede perciò il motivo per cui il capo del Partito d’azione nonché maggiorente del CLNAI avrebbe dovuto approvare l’omicidio al momento in cui fu commesso per poi mutare radicalmente opinione in seguito.

L’esagerazione nei riconoscimenti tributati alla figura di Fanciullacci dall’agiografia resistenziale comunista e conseguentemente dalle istituzioni sino all’attribuzione della medaglia d’oro al valor militare dà poi modo all’autore di sviluppare considerazioni assai pregnanti circa la strategia propagandistica del PCI e certe discriminazioni operate a danno di altri “compagni” egualmente meritevoli ma sul nome dei quali è stato invece fatto calare l’oblio. Il sottinteso è che l’assassinio di Gentile rappresenti in qualche modo una macchia nella carriera “mitica” di Fanciullacci, al di là delle sue imprese partigiane e delle modalità della sua morte. A tale proposito risulta indicativo il fatto che nella scheda dedicatagli nello stesso Dizionario della Resistenza si sia omesso di riportarlo: “Ci sembra legittimo pensare – commenta ironicamente Paoletti – che gli autori abbiano ritenuto che il movimento resistenziale poteva fare a meno di questo episodio, di cui non c’era molto di cui andare orgogliosi”.

Ma anche ammettendo che l’aver ammazzato Gentile costituisca un merito, perché far sparire dalla scena l’altro sicario, in modo da celebrarne uno soltanto? Perché “il mito non ha bisogno di comprimari”, ci spiega l’autore, spingendosi a supporre che il nome di Martini sia stato occultato dal PCI non solo per sottrarlo alle attenzioni della magistratura ma anche perché avrebbe potuto fare ombra alla leggenda di Fanciullacci. Rispetto al quale Martini “era ancora più freddo e spietato: faceva paura ai suoi stessi compagni, e alla fine ne aveva “fatti fuori” più di Bruno”; ma per la propaganda comunista era l’altro a dover essere consacrato quale “gappista per eccellenza”. “Fanciullacci, il giovane operaio che a 18 anni aveva conosciuto le patrie galere e a 24 era diventato un comandante gappista spietato e imprendibile, nell’aprile 1944 era già un mito tra i gappisti. Dopo l’eliminazione di Gentile – l’episodio meno esaltante della sua carriera – diventava un simbolo per tutti i garibaldini. A maggio venne ferito e aiutato a scappare dall’ospedale, ma non “cambiò aria”, come gli aveva consigliato il partito; riprendeva l’attività e veniva nuovamente catturato a seguito delle confessioni di un gappista. Venne torturato e per non parlare si suicidò”, gettandosi da una finestra di Villa Triste.

La motivazione della medaglia d’oro dà tuttavia a quel balzo nel vuoto una spiegazione un po’ diversa: “Venuto a conoscenza che le SS nazifasciste erano in possesso di documenti compromettenti la vita dei suoi compagni, tentava con somma audacia di saltare da una finestra per avvertirli del pericolo che incombeva su loro, ma nel compiere l’atto veniva raggiunto da una raffica di mitra che gli stroncava la vita”. Ma neppure tale versione è del tutto veritiera: Fanciullacci non morì sul colpo bensì tre giorni dopo, e a provocarne la morte non furono pallottole ma la frattura della base cranica riportata nella caduta. Ciò a dimostrazione di come la figura del killer di Gentile continui a rimanere una delle più discusse della resistenza: sul suo nome non litigano soltanto politica e storiografia, ma anche le sue varie biografie.

Ma mettiamo pure da parte il suo delitto più celebre e accettiamo anche la versione della sua morte più nobilitante: scopriremo comunque altre discriminazioni più o meno ingiustificate, da ascrivere stavolta all’amministrazione fiorentina, la quale ha voluto dedicare al capo del gruppo A il largo sul quale si affaccia Villa Triste. Lo stesso palazzo di via Bolognese vide l’uccisione dopo tortura di un altro comandante gappista insignito di medaglia d’oro per il valore delle sue imprese, Elio Chianesi: il quale non ha tuttavia beneficiato della medesima glorificazione cittadina. Ancora un altro partigiano comunista “ha fatto le spese del mito di Fanciullacci”: Augusto Guerrini, suicida in carcere per non rivelare i nomi dei compagni. “Lo fece nel buio della cella – sottolinea l’autore – non spettacolarmente come fu costretto a fare Fanciullacci”.

Tutto ciò insinua in Paoletti un “triplice dubbio: intitolando lo slargo a una medaglia d’oro il Comune di Firenze rimaneva vittima del mito Fanciullacci, voleva sollevare nuove polemiche – scontatissime – con la famiglia Gentile e con l’opposizione oppure dimostrare la propria ignoranza sulla storia della resistenza fiorentina? Cosa aveva fatto preferire Fanciullacci a Guerrini per meritare di ricordare con il proprio nome il luogo delle torture di Villa Triste? Solo il fascino del mito. Una cosa è certa: il sindaco di Firenze ha perso una buona occasione per ricordare un martire dimenticato dai compagni e dalla città, forse perché non aveva ammazzato nessuno”.

I personaggi dell’affaire Gentile  Paoletti traccia quindi un profilo di tutti i protagonisti della vicenda, partendo da Gaiani. Bolognese, costui subì una prima carcerazione a 18 anni, a seguito della sua adesione a Giustizia e Libertà. Nei tre anni di prigione maturò la scelta comunista, divenendo in seguito un dirigente della federazione clandestina felsinea; nuovamente scoperto, fu condannato a 18 anni di detenzione, non scontandoli tutti grazie alla caduta del regime. Dopo la costituzione della RSI egli fu l’organizzatore dei GAP bolognesi, ordinando fra gli altri l’attentato che il 16 febbraio ‘44 ebbe quale vittima l’archeologo Pericle Ducati, componente del Tribunale straordinario cui spettava giudicare i renitenti alla leva di Salò: due gappisti in bicicletta raggiunsero il docente all’ingresso dell’università, ferendolo mortalmente. Essendo stato identificato dalla polizia, di lì a poco Gaiani fu costretto a lasciare Bologna per trasferirsi a Firenze, assumendovi la guida dei GAP.

La circostanza che in entrambe le città si scelga quale obiettivo una persona che è al tempo stesso un civile e un intellettuale, e che non vi si registrino altre vittime con tali caratteristiche, porta l’autore a chiedersi se il trait d’union fra i due delitti non possa essere rappresentato proprio dalla figura del bolognese: “può essere una mera coincidenza: ma dove passa Gaiani si fanno fuori due intellettuali”. Evidentemente per lui “la Repubblica di Salò non era più rappresentata solamente dalle istituzioni militari fasciste e della Wehrmacht, ma anche da quelle culturali. Per Gaiani non c’erano più nicchie da rispettare, persone escluse dalla vendetta popolare: le pallottole dovevano colpire tutti coloro che erano stati “condannati dal tribunale del popolo””.

Viene quindi approfondito il discorso circa il ruolo che il nuovo comandante militare provinciale potrebbe avere giocato nella scelta del filosofo quale prossimo bersaglio. Tra Gaiani e Rossi era un’antica consuetudine: sin dal ‘36 il fiorentino era stato inviato dalla direzione del PCI a Bologna, a istruire i dirigenti locali; i due si sarebbero poi ritrovati in carcere. Non vi sarebbe perciò da stupirsi se il segretario, una volta deciso di “dare una lezione” agli intellettuali allineati con la RSI, gli avesse chiesto un parere: anche perché proprio a Gaiani sarebbe spettato di trasmettere l’ordine alla struttura operativa.

Si possono quindi fare due ipotesi, entrambe plausibili: che Rossi, il quale ancor prima che Gaiani arrivasse a Firenze aveva espresso l’intenzione di “fare fuori un intellettuale”, gli abbia chiesto un parere, ricevendone verosimilmente risposta affermativa, dato il precedente bolognese; che sia stato proprio il responsabile militare a suggerire al capo politico il nome di Gentile, che peraltro conosceva di fama avendolo letto, come ammesso da lui stesso. Il ristretto quadro decisionale prospettato dalla testimonianza di Bilenchi potrebbe perciò anche essere allargato: Gaiani aveva tutte le caratteristiche per essere anch’egli uno dei “votanti” per l’eliminazione del filosofo. E il fatto che nelle ricostruzioni della vicenda offerte negli anni egli abbia alternato “piccole verità a grosse bugie, come ogni persona che deve togliersi dagli impicci” autorizza a pensare che pure lui, vista la sua successiva carriera politica – fu a capo di federazioni provinciali, quindi senatore – abbia pensato bene di ridimensionare il ruolo avuto nello scabroso assassinio.

Chi era invece Giuseppe Rossi? Classe 1904, operaio edile e minatore, nel ‘32 lo troviamo a Mosca, insegnante alla scuola leninista: qui si dové formare il suo bagaglio ideologico-culturale, oltre agli studi da autodidatta e alla speciale palestra rappresentata anche per lui dall’“università del carcere”. Rientrato in Italia, a 30 anni era già un esponente di primo piano del PCI, come attestato anche dalle missioni di cui fu incaricato nelle varie federazioni provinciali. Nel ‘37 cadde anch’egli nella rete dell’OVRA: condannato a 14 anni, in galera ritrovò Gaiani e Fabiani, già suo allievo a Mosca. Recluso prima a Roma, quindi a Fossano e infine alle Murate, da galeotto tenne un profilo basso, non lasciando trasparire nulla circa il suo ruolo dirigenziale. Riacquistata la libertà grazie alla caduta del regime, dopo l’8 settembre Rossi entrò in clandestinità: passando la prudenza innanzi a tutto, le riunioni di partito furono ridotte al minimo. Ma anche nella critica situazione determinata dall’occupazione tedesca egli seppe trovare il modo di tenere i contatti necessari: fu lui, in particolare, a organizzare a livello provinciale lo sciopero generale indetto in tutta l’Italia occupata per la prima settimana del marzo ‘44, avvalendosi di un gruppo di agitatori inviati per le fabbriche a convincere i lavoratori della necessità dell’aleatorio passo.

Nulla fu lasciato al caso: nell’imminenza dell’inizio delle agitazioni un nucleo gappista fu mandato a devastare la sede dell’Unione fascista dei lavoratori dell’industria, distruggendo in particolare gli schedari in cui erano registrati tutti i lavoratori della provincia allo scopo di tutelare gli scioperanti rispetto a eventuali punizioni (non ultima la deportazione in Germania, vista la continua richiesta tedesca di manodopera). La dimostrazione si rivelò un successo: gli operai incrociarono le braccia da Firenze a Empoli, da Prato a Montelupo. Sotto l’impulso di Rossi al termine della guerra la federazione comunista fiorentina sarà la prima a riorganizzarsi, celebrando già nell’ottobre ‘45 il congresso che lo vedrà riconfermato segretario. Deputato alla Costituente e poi senatore, il principale responsabile del delitto Gentile morirà prematuramente, a 44 anni.

Secondo Gaiani, Rossi era “severo ma comprensivo: un bravo costruttore di tanti compagni”. Sapendo di avere dietro di sé il partito, a Firenze comandava in maniera autoritaria, non perché fosse un despota ma semplicemente in ottemperanza alla prassi leninista del “centralismo democratico”. Con i compagni aveva un rapporto consultivo; ma alla fine decideva per tutti, da responsabile politico e militare che valutava le competenze di ciascuno e ne stabiliva il ruolo, giudicava il lavoro svolto redarguendo anche aspramente quanti non avevano fatto il loro. Le testimonianze confermano il costume comunista dell’epoca: “Nel partito non c’era democrazia: non si decideva per alzata di mano, a maggioranza. Chiunque fosse, il segretario decideva da solo, assumendosene la responsabilità politica”. “Con Rossi non si poteva avere alcuna confidenza: i suoi ordini erano secchi, laconici, perentori”. “Rossi mostrava un’interessante, duplice personalità: in fondo era una pasta d’uomo, buono e ingenuo; ma quando prendeva un atteggiamento ufficiale, “di partito”, rivelava un duro “stalinismo”, entro il cui schema si era forgiato nell’ambiente di Mosca”. Ma era anche un abile motivatore: allorché aveva deciso una certa azione, con tutti coloro che avrebbero dovuto parteciparvi sapeva trovare le parole più adatte a renderla giusta e condivisa agli occhi di ciascuno. Insomma un vero capo.

Viene quindi il turno del testimone chiave, Bilenchi. Di famiglia borghese e spinto dalle ambizioni letterarie a trasferirsi giovanissimo dal natio Colle Val d’Elsa a Firenze, inizialmente egli aveva nutrito simpatie per il fascismo di sinistra, sino a pubblicare le proprie prose sul periodico di riferimento di tale corrente, “L’Universale”. In seguito collaborò a varie e prestigiose riviste: “Il Selvaggio” di Maccari, “Primato” di Bottai, l’organo ufficiale del fascismo fiorentino “Il Bargello”. Per un breve periodo fu anche a Torino, caporedattore alla “Stampa” diretta da Malaparte; tornato a Firenze, grazie alla raccomandazione di Galeazzo Ciano entrò alla “Nazione”. Il suo progressivo distacco dal regime lo portò infine ad aderire al PCI e a impegnarsi nella guerra di liberazione, sino a capeggiare la redazione de “La Nazione del Popolo”; nel ‘44 tuttavia, per ordine del partito, tornò a lavorare alla “Nazione”. Contrariamente a Rossi e a Gaiani, nel dopoguerra Bilenchi non nutrì ambizioni politiche ma anzi ruppe con il PCI, schierandosi negli anni della guerra fredda su posizioni pacifiste e dedicandosi prevalentemente alla pubblicistica e alla narrativa.

Paoletti ce lo presenta come colui che, “fra tutti i compagni comunisti, è stato quello che ha scritto di più, dopo Orazio Barbieri: con la differenza che Barbieri è sempre rimasto volutamente reticente sui misteri del partito, mentre dai racconti di Bilenchi si possono ricavare utili informazioni”. Obiettivo dell’autore è quello di reperire negli scritti del colligiano indizi capaci di comprovare la veridicità di quanto da lui dichiarato a proposito del delitto Gentile, e in particolare della sua vicinanza con Rossi, uno dei quali egli ritiene di individuare in questa dichiarazione: “Nel 1944 scrivevo articoli e manifestini che consegnavo sempre a Rossi. Avevo il consenso di tutti ed ero contento: venivo ormai messo al corrente delle iniziative importanti”.

Spulciando nell’epistolario bilenchiano Paoletti ha inoltre individuato un episodio più controverso: una lettera del ‘56 in cui Federico Gentile, figlio del filosofo e amministratore delegato della Sansoni, si dichiara dispiaciuto del fatto che lo scrittore abbia rifiutato l’invito a dirigere una collana letteraria della casa editrice, causa una divergenza in merito a una pubblicazione. Perché Bilenchi – si domanda lo storico-detective – all’epoca ancora iscritto al PCI non rivelò a Federico quello che sapeva sull’omicidio del padre? Per fedeltà al partito, tuttora impegnato a tutelare esecutori e mandanti, o per timore di essere lui stesso incriminato quale mandante morale, avendo partecipato alle riunioni in cui si era deciso l’assassinio? “Sicuramente nel 1956 il delitto Gentile era troppo recente perché un testimone potesse parlare”.

Ma i tempi non erano maturi neppure nell’81, anno della prima confessione con Bertelli, se è vero che Bilenchi dopo qualche mese ritrattò. Ha scritto in proposito Bertelli: “Quando rividi Bilenchi per la seconda volta lo trovai letteralmente terrorizzato. Mentre al termine del colloquio precedente mi aveva giurato che quella era la verità e di essere disposto a confermarla davanti a un notaio, ora disse di non ricordarsi nulla. Ne ricavai l’impressione che avesse ricevuto forti pressioni dirette”.

E se – si chiede l’autore – il manipolatore fosse stato Bertelli, data anche la sua rottura con il partito? Questa la risposta: “Perché Bertelli avrebbe dovuto gettare tutto quel fango sul PCI? Solo per il livore che spesso accompagna gli ex comunisti? Noi crediamo che egli non abbia inventato niente, e può darsi che la delusione per la rivolta in Ungheria non facesse venir meno la fedeltà di Bilenchi al partito: per cui anche la sola ammissione di essere a conoscenza dei fatti che portarono all’assassinio di Gentile avrebbe messo in pericolo tutti gli altri amici, cui era legatissimo. Nel 1956 solo Rossi era scomparso, mentre Fabiani era presidente della Provincia di Firenze e Bianchi Bandinelli insegnava all’università. Bilenchi si rendeva conto che dopo dodici anni la ferita per la famiglia Gentile era ancora aperta e, se li avesse messi a parte di quel segreto, non avrebbero potuto tacere. Così, per rispetto verso gli amici e il partito, forse approfittò di quel veto sul programma per tirarsi indietro”.

Lo stesso Paoletti ha incontrato più volte Bilenchi, quasi ottuagenario, ricavandone l’impressione che nel rievocare il proprio passato lo scrittore non avesse quale obiettivo quello di richiamare l’attenzione su di sé: “Gli piaceva parlare delle cose lontane come piace a tutte le persone anziane riandare ai giorni della gioventù. Nella sua franchezza Bilenchi aveva quella capacità di far capire che il suo effluvio di parole veniva dal piacere di raccontare i suoi ricordi”. E anche il fatto che egli sia stato l’unico a descrivere una riunione politica clandestina del PCI, facendo nomi e cognomi dei partecipanti (o meglio le loro sigle), costituisce un indiscutibile titolo di merito.

“Come ogni deposizione anche la sua è valida per quello che il testimone ha visto o sentito, e pur essendo parziale tuttavia resta fondamentale, perché Bilenchi era il comunista più affidabile ed è stato il primo ad aprire alcuni spiragli sulla dirigenza comunista fiorentina”. Al tempo stesso però l’autore non si nasconde i punti deboli della ricostruzione bilenchiana: “Il limite della confessione di Bilenchi – come quello di ogni singolo testimone della vicenda – è che questi può raccontare solo ciò che ha visto e ciò a cui ha partecipato. Quando nomina i componenti del gruppo di fuoco che uccise Gentile commette errori: non solo perché erano passati quaranta anni ma anche perché non li aveva conosciuti tutti. Dopo tanto tempo non ricordava più l’intervallo intercorso tra un fatto e l’altro: la decisione non fu certo presa il 12 marzo come sembrerebbe dalla sua testimonianza; per cui essa va letta senza pretendere un rigore cronologico. Bilenchi voleva dirci che prima cercò di dissuadere Rossi dall’eliminare Soffici e che poi si schierò anche contro l’uccisione di Gentile”.

Argute appaiono le conclusioni cui giunge lo storico fiorentino. “Noi crediamo che ci possa essere stata la riunione a quattro di cui parlò Bilenchi. Crediamo però che ce ne siano state altre oltre a quella a cui egli partecipò. E che in una di queste fosse all’ordine del giorno la risposta da dare alle fucilazioni del Campo di Marte e la questione se Gentile fosse il bersaglio giusto per sistemare gli intellettuali fascisti; crediamo meno che il cosiddetto Comitato clandestino fosse composto da un numero pari di membri (e se la votazione finiva in parità?) e ancor meno che ci sia stata una votazione. La decisione spettava a uno solo: Rossi. Quindi, secondo noi, bisogna intendere la votazione come uno strumento usato da Bilenchi per sottolineare il suo dissenso sulla decisione presa da Rossi”.

Decisamente meno indulgente il capitolo dedicato a Bianchi Bandinelli. Senese, di famiglia aristocratica e di orientamento liberale, fu uno dei più illustri archeologi italiani del tempo, insegnando prima a Pisa poi a Firenze. Nel ‘38 fu scelto come guida per la visita compiuta nel nostro Paese da Hitler, tenendo anche una serie di conferenze in Germania. Contrario alle leggi razziali, l’anno successivo rifiutò la direzione della Scuola archeologica italiana di Atene, dalla quale era stato rimosso il direttore ebreo; declinò inoltre l’offerta governativa di andare a insegnare a Berlino. Distaccatosi definitivamente dal regime nel periodo bellico, simpatizzò inizialmente per il Partito d’azione, aderendo dopo l’armistizio al CTLN e dimettendosi dall’università; per poi abbracciare il marxismo iscrivendosi nel settembre ‘44 al PCI, tanto da meritare l’appellativo di “Conte rosso”. Nel dopoguerra avrebbe rifiutato sia la candidatura a sindaco di Firenze che quella a senatore, rimanendo tuttavia nel partito anche dopo i fatti d’Ungheria – che videro la fuoruscita di parecchi intellettuali – e presiedendo l’Istituto Gramsci.

“La figura che meno ci aspetteremmo di trovare tra i quattro cospiratori comunisti – inizia Paoletti la propria requisitoria – è proprio quella di Bianchi Bandinelli. Lui che per alcuni giorni aveva avuto l’opportunità di eliminare in un colpo solo Mussolini e Hitler, quando fece loro da guida artistica nelle loro visite, e vi rinunciò, si ridusse sei anni dopo a decretare la morte di un amico? Lui che non ebbe il coraggio di far fuori i due dittatori, lo trovò per far ammazzare il vecchio Gentile, solo perché il patriarca stava politicamente dalla parte opposta?”.

Antica era infatti l’amicizia tra Bandinelli e Gentile, dal quale l’archeologo aveva probabilmente ricevuto anche protezione nella carriera universitaria: le critiche rivoltegli dall’autore passano proprio attraverso le lettere che testimoniano della vicinanza tra il senese e la famiglia del filosofo. Dopo la nomina a presidente dell’Accademia, Gentile volle ribadire a Bandinelli i propri sentimenti, ricevendo però questa dura risposta: “C’è purtroppo qualcosa che io pongo al di sopra delle amicizie, e se occorresse al di sopra degli stessi affetti familiari, che ci divide: ed è il diverso modo di intendere e di vivere questa ormai necessaria tragedia del nostro paese”.

Alla luce di ciò, e soprattutto in considerazione del ruolo giocato da Bandinelli nel delitto, ci si sarebbe aspettati da parte sua tutt’altro atteggiamento nei confronti dei familiari della vittima; e invece, una volta riacquistata la libertà proprio per loro intercessione, egli ebbe a rivolgere a due dei figli parole che denotano una “buona dose di ipocrisia”. A Benedetto scrisse: “Ora vengo a sapere che anche tu hai spesa una parola in favore mio e dei miei colleghi. Te ne sono particolarmente grato perché mi dimostra, come per parte mia ne sono sempre stato sicuro, che l’amicizia può sopravvivere anche se i dolorosi eventi della storia disperdono gli uomini per strade opposte”. Commenta Paoletti: “Come dire: morto tuo padre, che era l’ostacolo, la nostra amicizia può sopravvivere”.

E all’altro, finalmente tornato a casa dopo la lunga detenzione patita in Germania: “Caro Federico, nella tragedia acerbissima che si è abbattuta sulla vostra famiglia (e che posso ben valutare conoscendo quanto uniti tutti voi foste sempre a Vostro padre e quanto Egli vi dava di se stesso) unica notizia di qualche consolazione fu quella del tuo ritorno”. Si tratta secondo Paoletti di “condoglianze piuttosto formali. La “tragedia acerbissima” non è avvenuta per un incidente stradale o perché il pover’uomo è rimasto colpito da un fulmine, ma perché è stato assassinato da sette colpi di pistola sparati a bruciapelo. Il “Conte rosso” e futuro compagno del PCI sorvola bellamente su questo “particolare”: e ciò porta a pensare più a lacrime di coccodrillo o di circostanza che a un sincero dolore per quella perdita, viste soprattutto le parole usate nella lettera rivolta a Giovanni Gentile. Certo è che non spende una parola o un aggettivo sul fatto di sangue o sulla guerra civile in atto. Non lo fa, perché non può”.

Seguono altre considerazioni di carattere investigativo, rivolte a chi con varie argomentazioni ha messo in discussione la partecipazione dell’archeologo al consiglio che decretò l’omicidio. “Sicuramente nell’aprile ‘44 Bianchi Bandinelli non ricopriva responsabilità militari o politiche, ma crediamo all’autenticità di quello che ha raccontato Bilenchi: che anche lui fosse presente a una riunione in cui si parlò di eliminare Gentile”. Non solo: da un’altra testimonianza si evincerebbe che il senese avesse preso parte anche a un secondo consulto in cui si sarebbe discusso dell’opportunità dell’attentato, che egli avrebbe definito in quell’occasione come “un atto terribile ma necessario”.

“Da quando si allontanò dall’università – prosegue l’autore – Bianchi Bandinelli visse la maggior parte della clandestinità a Firenze. Se il 17 aprile si fece trovare nel suo letto e si fece “prendere come un ghiozzo” nella sua casa fiorentina, era evidente che egli non conosceva la data esatta dell’assassinio di Gentile. Se l’avesse saputa, la preoccupazione di salvare i libri rimasti in casa sua non l’avrebbe indotto a rischiare l’arresto. Ma la testimonianza di Bilenchi è precisa: R B B era presente quando fu affrontato l’argomento e “votò” a favore dell’eliminazione. Evidentemente in quell’occasione non poteva essere resa nota la data dell’esecuzione. Comunque neppure dopo Bianchi Bandinelli venne informato del giorno scelto per l’attentato; più probabilmente i compagni fiorentini pensarono che lui si fosse già allontanato da Firenze”.

All’obiezione alla ricostruzione di Bilenchi – mossa in particolare da Canfora – che l’archeologo si fosse iscritto al PCI solo diversi mesi dopo l’assassinio di Gentile, Paoletti replica supponendo che Rossi avesse scelto comunque di consultarlo in quanto “intellettuale simpatizzante”. Anche il tono entusiastico con cui Bandinelli nel manoscritto autobiografico rievoca l’incontro con il PCI fiorentino e la frequentazione con il suo segretario depone a favore di una simile interpretazione: “Per la prima volta trovai in questi contatti una concretezza politica e una ideologia, fino ad allora nota solo attraverso le deformazioni avversarie, borghesi, che mi soddisfaceva. Imparai a conoscere nel compagno Rossi un esempio indimenticabile della nuova umanità sorta dal lavoro e formata dal marxismo-leninismo”.

Infine un’illazione, all’autore suggerita dalle medesime carte. Nell’entrare in clandestinità Bandinelli adottò lo pseudonimo di Douro, da pronunciarsi alla greca e quindi “duro”, specificando nel manoscritto: “Douro è l’opposto di Gentile”. Come può meravigliare che chi fin dal nome scelto per il suo nuovo posizionamento ideologico aveva inteso sottolineare la propria avversione a Gentile, e al contempo era rimasto così affascinato da Rossi, avesse approvato la proposta del compagno di eliminare colui nel quale aveva identificato il proprio “opposto”?

Del quadrumvirato che avrebbe decretato la morte di Gentile Fabiani rappresenta, nel discorso paolettiano, l’elemento meno rilevante: ma non certo per la sua storia personale. Empolese, giovanissimo segretario della sezione comunista clandestina della città, Fabiani ebbe l’ardire di organizzare, fra il ‘30 e il ‘31, delle manifestazioni celebrative del 1° maggio e della Rivoluzione d’ottobre che – in considerazione dell’imperante regime dittatoriale – fecero registrare un notevole successo, rinnovando la tradizione antifascista cittadina che aveva avuto il suo culmine nel ‘21 con i tragici “fatti di Empoli”. Se si considera che all’epoca il PCI annoverava sull’intero territorio nazionale non più di sette-ottomila militanti, il fatto che a Empoli ne fosse concentrato qualche centinaio ne fa un caso del tutto abnorme: lo stesso Fabiani avrebbe orgogliosamente ricordato come per tutta la durata della dittatura non vi fosse stato anno che non avesse visto almeno un empolese processato dinanzi al Tribunale speciale.

Potendo contare su una simile base, dopo gli arresti che nello stesso ‘31 decapitarono la sezione l’audace segretario giunse a progettare un’insurrezione da condursi con le armi sottratte alla Milizia fascista locale, ma incontrando il veto dei vertici del partito. Espatriato alla fine dello stesso anno, Fabiani fu prima a Parigi e quindi a Mosca, ove ebbe modo di seguire le lezioni tenute da Rossi. Rientrato in Italia allo scopo di compiervi missioni clandestine, nel ‘34 fu arrestato a Bologna; condannato a 22 anni di carcere, riacquistò la libertà nell’agosto ‘43. Entrato in clandestinità rivestì un ruolo di primo piano nel PCI fiorentino, tenendo in particolare i contatti con le fabbriche della provincia e giocando di conseguenza un ruolo chiave nella vicenda dello sciopero del ‘44. Nel dopoguerra Fabiani sarà il primo sindaco di Firenze eletto democraticamente, quindi presidente della Provincia e infine senatore.

Dal momento che anche la presenza dell’empolese alla riunione in cui fu decisa la sorte di Gentile è stata messa in dubbio, Paoletti osserva: “In quelle settimane di marzo Fabiani era impegnatissimo con gli scioperi nelle fabbriche, per cui avrà avuto poco tempo da dedicare alla faccenda Gentile. Ma se c’era qualcuno di cui Rossi si fidava e di cui apprezzava il giudizio era Fabiani: dunque anche Fabiani avrà avuto modo di dire la sua opinione al ritorno di Rossi. Quindi dobbiamo credere alla fonte primaria Bilenchi che afferma che Fabiani c’era e “votò” a favore dell’uccisione di Gentile”.

Oltre a Gaiani, Bilenchi, Bandinelli e Fabiani l’autore si dice inoltre certo che Rossi avesse coinvolto nelle discussioni sull’omicidio almeno altri due esponenti del PCI fiorentino, Bruno Sanguinetti e Roberto Martini. Mentre per quanto riguarda il ruolo giocato nella vicenda dagli intellettuali comunisti essi “fecero la loro parte, quella naturale, di consiglieri esterni al potere decisionale”. Il numero complessivo di quanti di essi furono interpellati da Rossi non è quantificabile, ma sicuramente superiore a “quello che ci è stato raccontato in sessantuno anni di ricerche e di tardive confessioni”. Ciò è dovuto al fatto che “tutti rimossero il loro coinvolgimento, nel timore che ciò comportasse una responsabilità penale, che mettesse in cattiva luce la loro vita accademica o semplicemente perché non si sentivano più orgogliosi di quella scelta e di quel passato”. Per questo “gli intellettuali che hanno espresso il loro parere favorevole all’uccisione di Gentile sono proprio quelli che hanno taciuto sull’argomento per il resto della loro vita. Bilenchi ne è la conferma: ha parlato solo perché fu l’unico o uno dei pochi a essere contrario”.

Le ragioni della “premessa politica”  Il 9 settembre ‘43 Federico Gentile, capitano d’artiglieria il cui raggruppamento si trovava al momento in Francia, fu catturato dai tedeschi, internato prima nel campo di prigionia di Leopoli e poi in quello di Wietzendorf, nei quali avrebbe trascorso sette mesi. La vicenda presenta tanti lati oscuri, a cominciare dal fatto che Federico non aderì alla RSI, precludendosi così la possibilità di fare immediatamente rientro in patria: com’è possibile – si chiede Paoletti – che egli abbia preferito rimanere nel lager, a patirvi fame e freddo? A Leopoli egli apprese inoltre della nomina del padre a presidente dell’Accademia d’Italia: fatto destinato ad aggravarne la situazione. Non ricevendo le sue lettere ai familiari risposta, comprese che probabilmente esse non partivano neppure; essendo inoltre egli l’unico ufficiale del campo cui non giungevano nemmeno i pacchi, che pure la famiglia gli inviava regolarmente (ciò in violazione sia del diritto internazionale, sia degli accordi italo-tedeschi in merito all’internamento dei militari italiani), intuì essere stato messo in atto nei suoi confronti un vero e proprio boicottaggio.

Secondo la testimonianza di un ufficiale recluso nella stessa baracca di Wietzendorf e proveniente anch’egli da Leopoli, tutti gli italiani di quel lager avevano concordato di respingere la profferta avanzata loro dagli emissari di Salò. Lo stesso Gentile gli disse di non aver voluto firmare l’adesione in quanto consapevole “che se avesse accolto l’invito dei repubblichini non sarebbero stati pochi a seguirlo. Egli sentiva questa responsabilità, e la sentiva in quanto era “alieno” al fascismo, anche se non poteva ignorare il richiamo “risorgimentale” – così lo definì – di suo padre; voleva essere lui da solo a decidere. Così Gentile a Leopoli non volle mai prendere una posizione contraria a quella di tutti noi”.

Se non altro l’arrivo in quel campo dei rappresentanti repubblichini consentì a Federico di inviare a casa due lettere, datate 23 e 26 dicembre ‘43, nelle quali tuttavia non lasciava trasparire nulla circa questa sua mutata disposizione d’animo nei confronti di Mussolini. Nella prima scriveva al padre: “Sai che la mia fede, che è la tua, nel Duce, non conosce le alterne vicende della sorte”; nell’altra: “Come ho sempre pensato che dovesse essere, tu dunque sei sempre col Duce, con la stessa fede, che è anche la mia”. Da entrambe le missive si evinceva come egli si rendesse conto di essere vittima sia di una discriminazione (“ai miei colleghi sono arrivate anche lettere per via ordinaria”) che di un sequestro politico, non potendo né comunicare con la famiglia né rientrare in patria. Nella prima di esse Paoletti individua inoltre un paio di messaggi in codice.

“Come mai dopo quattro mesi non ho ancora ricevuto una vostra lettera?”. Secondo l’autore, il fatto che la censura non avesse tagliato tale frase “significa che i tedeschi volevano far sapere a Gentile padre che a suo figlio veniva riservato un trattamento particolarmente vessatorio, quello che l’internato sentiva come un “martirio””. “Come mai non sei riuscito a farmi avere una riga attraverso Anfuso?”. “Si tratta di un chiaro suggerimento al padre sulla strada da seguire ma sottintende anche un’altra affermazione: l’ambasciata italiana a Berlino ha fatto arrivare anche qui i propri emissari ma neppure loro mi hanno consegnato tue notizie. Evidentemente, grazie agli emissari della RSI, Federico aveva appreso che Anfuso era stato nominato ambasciatore della RSI a Berlino”.

Dal canto suo il filosofo non se ne stette con le mani in mano. Nel colloquio avuto con Mussolini il 17 novembre ‘43 a Gargnano egli fece presente la situazione del figlio, del quale non si avevano più notizie da oltre due mesi. Si rivolse quindi alla Kommandantur fiorentina, ma senza ottenere niente di più che pareri di ordine giuridico: “Gli ufficiali germanici gli riferirono che suo figlio avrebbe avuto diritto a rientrare in Italia”. Il 16 gennaio il medesimo ufficio accettò la richiesta da lui presentata perché Federico potesse fare ritorno, inoltrandola in Germania. Nell’unica delle due lettere sinora pervenute – l’altra subì un ritardo a causa di un errore nell’indirizzo – il detenuto informava la moglie del suo imminente trasferimento, invitandola perciò a non spedirgli più posta a Leopoli. Ma il fatto che non si conoscesse la sua destinazione rappresentava un ulteriore ostacolo ai tentativi del padre: “Questo mancato scambio della corrispondenza si era tradotto in pratica in una situazione in cui l’internato viveva da ostaggio in mano dei tedeschi”.

Gentile interessò allora la Santa Sede, per il tramite del vescovo di Palestrina, il quale scrisse a Pio XII affinché a Federico fosse recapitato un messaggio da parte della famiglia; egli si attivò inoltre presso il sostituto alla Segreteria di Stato, Montini. Rivelatosi infruttuoso pure il canale vaticano, il senatore si rivolse al suo socio tedesco nella proprietà della Sansoni, titolare di un incarico pubblicistico presso il Comando germanico di Verona, nella speranza che costui disponesse delle adeguate entrature. Soltanto il 14 marzo ‘44 Gentile ricevette la seconda lettera; ormai consapevole della discriminazione in atto, quello stesso giorno scrisse a Mussolini: “Altri italiani sono tornati in Italia a combattere e a lavorare. Perché non deve essere concesso a Federico, fascista e pronto a lavorare o combattere?”. E al figlio stesso: “Ho tentato tutte le vie per raggiungerti con le nostre notizie e per ottenere il tuo rimpatrio”. Il quale continuava tuttavia a rivelarsi impossibile.

“Gentile adorava la famiglia ed era ricambiato con un amore e un affetto che rasentavano l’idolatria”: è secondo Paoletti nella forza di tale legame che va individuato il movente della presa di posizione di natura politica contenuta nel discorso tenuto in Accademia il 19 marzo ‘44, da interpretarsi alla stregua di un “pagamento del riscatto” necessario alla liberazione del figlio dato il suo “ostentato silenzio dei mesi precedenti sul Führer, sul Duce e sull’alleanza italo-germanica”. Di conseguenza pure l’anomalia rappresentata dalla data in cui si celebrò il bicentenario vichiano acquista rilevanza: perché essendo il filosofo napoletano morto il 23 gennaio 1744 la ricorrenza era stata lasciata trascorrere senza che a nessuno venisse in mente di onorarla, finché improvvisamente non si decise di mettere in piedi quella cerimonia, con quasi due mesi di ritardo. Il che autorizza a “supporre che Gentile si rendesse conto che solo un suo intervento ufficiale a favore dei tedeschi avrebbe permesso la liberazione di suo figlio e s’inventasse una manifestazione pubblica e solenne per prendere posizione”.

Vi fu del resto anche chi, in relazione al momento bellico, criticò l’opportunità della celebrazione, alla quale non intervennero molte autorità: una decina di accademici, un paio di ministri, il console tedesco. Ma “se Gentile si era convinto che aveva bisogno di un microfono e di un palcoscenico per far giungere un messaggio rassicurante ai tedeschi, poco gli interessavano i giudizi dei suoi amici e nemici: la commemorazione si sarebbe fatta comunque e ci sarebbe stata anche una “premessa politica”. Il 14 marzo Gentile aveva avuto finalmente la conferma “ufficiale” che suo figlio non riceveva notizie da Firenze e questo poteva dipendere solo dai tedeschi. Per questo cinque giorni dopo usciva da quel lungo silenzio sui tedeschi e sul Führer, tessendone le lodi. Con quella premessa politica diventava verosimile che Vico fosse solo l’occasione per affrontare per la prima volta un tema politico – l’alleanza italo-tedesca – e al contempo per pagare il prezzo del riscatto”.

Talmente smaccato apparve l’elogio del “condottiero della grande Germania” da indurre tutti i giornali a privilegiare quelle “parole sorprendentemente e mai così appassionatamente filotedesche” rispetto alla commemorazione vera e propria. Tre sono secondo Paoletti le possibili spiegazioni di quell’omaggio al limite della piaggeria: Gentile avrebbe semplicemente inteso riparare alla mancanza di essersi a lungo dimenticato dell’alleato nazista; sarebbe ricorso alla captatio benevolentiae nei confronti di chi, in quel momento, era di fatto il padrone dell’Italia occupata dalla Wehrmacht; aveva piegato il capo avendo compreso che solo una iniziativa di quel genere avrebbe potuto sortire il rilascio del figlio. Ma l’autore si chiede anche se potesse esservi stata una motivazione più semplice: e cioè che il presidente dell’Accademia non avesse fatto altro che esprimere spontaneamente la propria opinione.

“Sicuramente – argomenta Paoletti – quelle parole erano sincere, proprie del pensiero e del temperamento del filosofo; ma se le usò in pubblico, davanti al console tedesco e alle altre autorità della RSI, c’è da pensare che si sentisse costretto a farlo”. Per poi trarre un ulteriore indizio di tale forzatura dalla forma in cui il discorso fu riportato dalla “Nuova Antologia”, omettendone la premessa politica: segno che a Palazzo Serristori l’oratore era stato “costretto a fare quell’intervento politico che però non riconosceva come intellettuale e direttore della rivista”. Al tempo stesso Gentile era consapevole del fatto “che quella frase su Mussolini e Hitler avrebbe sicuramente richiamato su di lui non solo l’attenzione dei media e dei loro utenti, ma anche degli intellettuali comunisti”; per cui non è da escludere che “il patriarca sacrificasse coscientemente la propria vita per quella del figlio”.

Ma quali motivi potrebbero aver avuto i tedeschi per “ricattare un fedele alleato di Mussolini, che stava da sempre dalla loro parte? La risposta è semplice: temevano che la posizione conciliatrice e pacificatrice di Gentile prendesse piede e facesse breccia tra gli incerti, non solo a Firenze, ma in Italia. Per questo l’ostaggio Federico Gentile doveva servire a tenere a freno l’intellettuale che insisteva troppo nelle sue prese di posizione sulla necessità di iniziative riconciliatrici e pacificatrici”.

Da parte sua lo stesso Mussolini giocò sporco nei confronti del senatore: dopo averlo già usato ai propri fini con il ricorrere al suo nome al solo scopo di dare lustro a un’istituzione oltremodo anacronistica, anche nella dolorosa situazione determinatasi egli operò a proprio vantaggio. “Quando Anfuso e Mussolini videro che i loro interessamenti risultavano vani, senza risposta, capirono subito che non si trattava di lungaggini burocratiche ma di un preciso divieto germanico, ma si guardarono bene dal renderne edotto il filosofo. Al Duce conveniva più un Gentile devoto, convinto di dovergli riconoscenza e gratitudine, che non cosciente del fatto che Mussolini fosse diventato lui stesso un ostaggio dei tedeschi”.

E infatti ancora il 3 aprile Gentile, nel riferire al capo della RSI sia dell’attività dell’Accademia che delle campagne diffamatorie di cui venivano fatti oggetto i camerati favorevoli alla concordia nazionale, mostrava tutta la propria fiducia nell’interessamento mussoliniano alla vicenda che più gli stava a cuore: “So che avete impartito ordini per la ricerca e il rimpatrio di Federico, e ve ne sono infinitamente grato, sicuro che il Vostro intervento varrà a sciogliere questo nodo insolubile che è stato il mio tormento da settembre in qua”. Tanto che, quando il 21 aprile Federico fece finalmente il suo rientro a Firenze, tutti in famiglia pensarono che quel pur tardivo rilascio fosse stato il risultato dell’intervento di Mussolini. Ma secondo Paoletti la spiegazione è tutt’altra: era stata l’orazione di Palazzo Serristori a “realizzare provvidenzialmente” quanto non si era riusciti a risolvere tramite il papa, Anfuso, il faccendiere tedesco e lo stesso Duce. Grazie a quelle parole “i tedeschi erano stati rassicurati del sostegno della più alta carica della cultura fascista a favore dell’alleanza italo-germanica”.

L’ipotesi trova un valido sostegno nella sequenza di fatti che precedono il ritorno di Federico: il 14 marzo Gentile riceve la lettera del figlio, il 19 pronuncia quel discorso “incredibilmente filotedesco”, il 30 il detenuto viene convocato al comando del campo ove gli viene offerta la possibilità di tornare in Italia. “Tutto quello che avrebbe dovuto avvenire nel rispetto delle leggi nei mesi precedenti si realizzava in sedici giorni, quando Gentile, resosi conto dell’anomala prigionia del figlio, pagò il prezzo del “riscatto” e dopo venti giorni ottenne la restituzione dell’ostaggio. Questa ricostruzione è legata a una sequenza di causa-effetto: la lettera di Federico del 23 dicembre convince, o meglio costringe, il padre a una forte presa di posizione politica a favore di Hitler e conseguentemente i tedeschi non hanno più bisogno di temere le uscite conciliatrici e pacificatrici di Gentile e liberano il figlio. Il filosofo, clamorosamente schierato dalla parte del Terzo Reich, ha pagato il riscatto e ottiene il rimpatrio del figlio”.

E quindi la vicenda va spiegata così: per i tedeschi all’inizio Federico non è altro che uno delle migliaia di ufficiali italiani fatti prigionieri dopo l’8 settembre. Poi però essi scoprono chi è suo padre, nel frattempo divenuto presidente dell’Accademia d’Italia; sanno essere egli il capofila di quanti predicano la “pacificazione degli animi”, in antitesi all’estremismo di Pavolini e degli stessi nazisti. A quel punto i servizi segreti tedeschi pensano di utilizzare l’unica arma in loro possesso per ricattare Gentile: il figlio detenuto in Germania. Le due lettere di Federico giunte a destinazione garantiscono della sua fedeltà al fascismo; eppure per quattro mesi egli viene privato del ricevimento della posta. Prima di lasciare Leopoli comunica alla moglie di aspettare a scrivergli sinché non le avrà comunicato il nuovo indirizzo: invece è proprio da quel momento che gli viene impedito di corrispondere con la famiglia. Controproducenti risultano inoltre gli appelli alla pacificazione lanciati dal padre: “Più Gentile ammoniva: “Colpire il meno possibile. Non arbitrio né violenze”, più il figlio subiva arbitrii e violenze passive”.

“Poi all’improvviso il ripensamento tedesco. Il capitano Gentile prima viene punito con il mancato ricevimento della posta e poi premiato con un’autorizzazione speciale, senza che lui faccia niente prima per essere penalizzato e poi liberato. Una “grazia che arriva dall’alto” e che nessuno s’aspetta a Wietzendorf; un’offerta eccessivamente tardiva visto che da tempo il Comando tedesco aveva detto al padre che Federico aveva diritto a tornare in Italia”.

La “ghirlanda” fiorentina  L’ultimo in ordine di tempo a occuparsi del delitto Gentile è stato un docente universitario di Psicologia, Luciano Mecacci, con il saggio La ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, uscito nel 2014. O meglio un ex docente, dal momento che l’autore ha anticipato i tempi della pensione proprio per dedicarsi alla raccolta di un’imponente mole di notizie sfociate in un denso volume che alle 346 pagine del testo ne aggiunge altre 146 di note. Si tratta di un testo non facilmente riassumibile, né riconducibile a un preciso obiettivo, come si evince dalla spiegazione della scelta del titolo offerta dallo stesso Mecacci: “Ghirlanda fiorentina fu il nome attribuito a una raccolta di autografi compilata da un italianista scozzese che lavorò per i servizi segreti britannici durante entrambe le guerre mondiali e che ebbe stretti contatti con alcuni dei protagonisti delle vicende narrate in questo libro: non avrei saputo trovare titolo più adatto a dipingere l’ambiente in cui Gentile visse gli ultimi mesi della sua esistenza”.

A suscitare l’interesse dell’autore sono stati in particolare “il silenzio, le reticenze, le ambiguità o l’imbarazzo degli intellettuali e degli accademici chiamati a scrivere o a parlare della morte di Gentile”. Donde la sua indagine sulla “intellighenzia fiorentina” dell’epoca, che lo ha portato a delineare “un intreccio che fa pensare a una ghirlanda di fiori, foglie e rami, molti dei quali sono presto appassiti o seccati”. Chiariremo al lettore che Mecacci non intende il termine ‘intellighenzia’ nel senso precipuo di “complesso di intellettuali che si pongono al servizio di un determinato potere”, in modo da rappresentare la cultura ufficiale di un sistema o partito politico, ma in quello più semplice di “esponenti del mondo intellettuale” – in questo caso fiorentino – senza specifiche condivisioni od omologazioni.

Ora quando si parla di “reticenza” sull’affaire Gentile il pensiero corre anzitutto a Luporini e alle sue “cose che forse ancora non si possono dire”. Ecco dunque individuato un possibile obiettivo del saggio: supplire a tali vuoti con il presentare una galleria di personaggi che molto in comune tra loro non hanno ma che in qualche modo ebbero tutti a che vedere con la Firenze occupata dai tedeschi, “intrecciandone” le esperienze in modo da cavar fuori una traccia utile a farci capire quanto di quel delitto ancora ci sfugge. Ben presto però la lettura ci disillude: la narrazione si risolve infatti in una successione di figure, episodi, citazioni, congetture, elucubrazioni, commenti senza che vi sia un filo conduttore, una tesi di fondo capace di dare ordine e razionalità a tutto quanto. Mecacci si confronta con quanti si sono già cimentati con l’argomento, riprendendone tesi e approfondendone spunti: ma senza sostanzialmente dire nulla di nuovo.

Il che, una volta compreso che quanto avevamo ritenuto un obiettivo si è risolto in una velleità, ci porta a chiederci: può uno scritto che si presenta come una elaborata sequenza di documenti, schede biografiche alla wikipedia, riproposizioni di tesi ormai arcinote, ipotesi psicologiche, interpretazioni delle interpretazioni, precisazioni su chi era Tizio, quando è nato Caio, quale giudizio ha dato su di lui Sempronio – e il motivo di tale giudizio ce lo spiega ovviamente Mecacci – essere considerato un libro, e in particolare un libro di storia? A nostro avviso no, perché un libro di storia dovrebbe preoccuparsi anzitutto di far procedere la ricerca storica, procurandole nuove e significative acquisizioni: quando qui essa non va innanzi di un millimetro.

Prenderemo allora atto che l’autore, nel momento in cui ha scelto di occuparsi di un simile soggetto, non abbia inteso fare opera di storia. Forse allora, vista la sua professione, egli ha voluto tracciare un ritratto “intellettuale” di quella Firenze, descriverci come le persone di cultura ebbero a vivere quel particolare frangente – sicuramente uno dei più drammatici vissuti dalla città – privilegiando l’aspetto psicologico? Neppure: il cerchio è tassativamente ristretto a quella “intellighenzia” che, anche di striscio o per vie traverse, ebbe a incrociarsi con la vicenda Gentile, e pure con criteri di appartenenza piuttosto discutibili (che cosa c’entra il pistoiese tenente della Milizia Licio Gelli con gli intellettuali fiorentini?). E così, tra siparietti e spiegazioni di meccanismi psicologici, deduzioni e controdeduzioni, accumulando capitoli a sé stanti il cui unico denominatore comune è la carenza di originalità e di coesione narrativa, il saggio è destinato a rimanere proprio una bella “ghirlanda”, onorando in pieno il titolo ricevuto e andando sicuramente ad ampliare l’erudizione del lettore, con il fargli conoscere tanti personaggi e situazioni e risparmiandogli la fatica di dover ricercare le medesime notizie per infiniti siti ed enciclopedie.

Di un simile florilegio proporremo al lettore le pagine che ci sono parse più significative, nel bene e nel male. Il fatto che l’inchiesta giudiziaria sull’omicidio si fosse conclusa con l’archiviazione, laddove sul piano politico i comunisti emisero una ben precisa “sentenza” rivendicandone ideazione ed esecuzione, induce l’autore a tracciare un parallelismo tra l’uccisione del filosofo e molti casi analoghi verificatisi nel dopoguerra: “Sotto questo aspetto il delitto Gentile è il prototipo di numerosi altri episodi di sangue che hanno segnato la storia della Repubblica italiana, rimasti insoluti nei tribunali e in qualche modo risolti solo sul piano politico”.

Mecacci avverte dunque il fascino della “dietrologia”, vero e proprio sport nazionale al quale egli si sforza di ricondurre anche il caso in questione, sintetizzandoci le due principali interpretazioni che dei motivi che portarono all’uccisione del senatore siciliano sono state date dagli studiosi. Secondo la prima, il PCI avrebbe deciso di eliminare Gentile “in quanto responsabile ideologico del regime fascista e per spianare la strada all’egemonia culturale del partito nell’Italia postfascista”: ipotesi questa che se da una parte avrebbe il vantaggio della linearità, dall’altra appare tuttavia fortemente compromessa dai molti elementi poco chiari che la caratterizzano. Per questo egli si schiera per l’altra, che vede sì i comunisti come i principali attori dell’attentato “ma all’interno di uno scenario più ampio cui concorsero altre componenti politiche, istituzionali e militari (dalla massoneria, alle autorità fasciste, fino ai servizi segreti alleati) che avevano un proprio specifico interesse nel volere la morte del filosofo”. E quindi l’immagine più adatta a raffigurare la dinamica che produsse il delitto è quella dei cerchi nell’acqua, “per cui si parte da un cerchio interno, ristretto a coloro che presero inizialmente la decisione, da cui si irradia il movimento dei cerchi più periferici, fino ad arrivare all’ultimo cerchio, quello dei gappisti, che infine produce l’onda distruttiva”.

Ma al di là delle metafore utilizzate, le considerazioni sviluppate sul rapporto fra chi ideò e compì l’assassinio e l’“intellighenzia”, oltre a non brillare per originalità né per acume, neppure appaiono troppo chiare, dando adito a diverse interpretazioni. “La differenza tra gli esecutori e i mandanti o consiglieri intellettuali dell’uccisione di Gentile – scrive Mecacci – è notevole. I gappisti ansimarono in bicicletta per le strade di Firenze, a Campo di Marte e su fino al Salviatino, per poi scappare via di corsa dopo aver eseguito l’ordine di uccidere un uomo. Seppure in modo diverso, alla fine due sopravvissuti di quel gruppo riconobbero il ruolo che avevano svolto in quell’esecuzione. Tra i mandanti invece nessuno ha mai preso l’iniziativa di fare un passo avanti. La responsabilità se la prese il Partito, proprio con la “P” maiuscola, in quanto entità astratta, impersonale. Bilenchi è stato l’unico intellettuale fiorentino che, pur dopo alcuni decenni e in forma privata, dichiarò di aver fatto parte di un “comitato clandestino” che avrebbe deciso l’esecuzione di Gentile. Dunque, se ci allontaniamo dagli esecutori – i gappisti capeggiati da Fanciullacci – e ci spostiamo verso il comitato del PCI che decise l’esecuzione, dagli intellettuali di quest’ultimo gruppo ristretto (a cominciare dallo stesso Bilenchi) il quadro si allarga, sfumando nell’ambito piuttosto ampio di un’intellighenzia fiorentina composta di scrittori, pittori, artisti e professori universitari non direttamente schierati tra le file dell’antifascismo comunista”.

Che cosa si è voluto dire con questo? Che quanti supportarono Rossi nella decisione di ammazzare Gentile sapevano di avere alle spalle altri intellettuali che pur non direttamente impegnati nella lotta armata non aspettavano altro che venisse tolto di mezzo il presidente dell’Accademia d’Italia? O, al contrario, si intende accusare tale “intellighenzia” di non avere fatto niente per salvare il filosofo condannato a morte, lasciandolo isolato? O forse fu lui stesso, con il suo stile di vita ritirato e casalingo, a scavarsi in qualche modo la fossa? Mah. Verso quest’ultima interpretazione parrebbe comunque indirizzare l’affermazione successiva.

“Con questo ambiente intellettuale (e con l’eccezione di Luporini) Gentile non entrò mai in contatto diretto, sin da quando si trasferì a Firenze, alla fine dell’estate del 1943. Dal giro dei nobili fiorentini e dei collezionisti di quadri e libri antichi, e da quello della locale aristocrazia universitaria, Gentile era distante anche per lo stile di vita personale e familiare, sobrio e tradizionale”. A testimonianza di tale aspetto della sua personalità viene riportato questo ritratto postumo, vergato da un’amica di famiglia: “Per tutta la sua vita aveva cominciato la sua giornata lavorativa alle 5 del mattino d’estate e alle 7 d’inverno. Dalle 7 alle 8 sbrigava la corrispondenza che teneva abitualmente in tasca, poi lavorava sino alle 13, per riprendere alle 15, dopo un breve sonnellino e via sino alle 20. Non lavorava mai di sera, e dopo cena riceveva gli amici fino alle 23. Conservò questa abitudine anche a Firenze. Era amante della vita patriarcale, fierissimo dei suoi numerosi nipotini”.

Del commosso ricordo di Luporini già sappiamo; ma anche da altre testimonianze provenienti dal medesimo antifascismo fiorentino emerge la grande umanità di Gentile. A cominciare da quella dello storico dell’arte Berenson, che riprende voci sentite in giro: “Egli è stato davvero il patriarca della chiesa fascista, come pure è vero che questo filosofo ha tentato di giustificare i sistemi adottati da Mussolini. Ma non ho mai sentito dire che, come ministro della Pubblica istruzione o come persona influente, egli sia stato ingiusto o tanto meno crudele con chicchessia. Tutto al contrario era un uomo che cercava di rendersi utile e di mostrare la sua bontà con tutti”.

Quella scolastica pedanteria cronistico-biografica di cui si è detto caratterizza pure la sezione intitolata “Morte e funerali di un filosofo”. Non ci dicono granché di nuovo – se non peregrine supposizioni – né il capitolo sull’uccisione di Fanelli, né quello in cui viene ricostruita l’ultima mattina di vita di Gentile, né quello in cui vengono riproposte le indagini sull’attentato e gli arresti a esso conseguenti. Per chi si accontenta, le assidue frequentazioni archivistiche condotte dal professore livornese hanno prodotto il reperimento di un fascicolo dal quale apprendiamo che, la notte del 30 aprile ‘44, cinque individui armati di rivoltella tentarono di introdursi in Palazzo Serristori: gesto la cui “unica spiegazione plausibile è che cercassero qualcosa di importante: magari gli stessi documenti che qualcuno aveva in precedenza pensato che fossero custoditi dal segretario Fanelli, e che forse – chissà – potevano avere qualche attinenza con la visita a Gargnano” che Gentile avrebbe dovuto compiere il 18 aprile.

Della frattura interna al CTLN determinatasi a seguito dell’attentato si sapeva già tutto, così come della scarsa partecipazione alle esequie di Gentile registratasi tra le file di docenti universitari e intellettuali: del resto – come già si è avuto modo di dire – a Firenze la stragrande maggioranza della popolazione non aspettava altro che il passaggio del fronte, per cui non c’è da stupirsi che anche gli uomini di cultura preferissero darsi malati piuttosto che andare in Santa Croce a compromettersi con l’agonizzante nazifascismo.

Sconcertante risulta poi il parallelismo che viene tracciato tra la figura di Gentile e quella di Giordano Bruno. “Fra i grandi italiani – ci spiega l’autore – Gentile aveva un’ammirazione altissima per Bruno, un filosofo che non aveva avuto sepolture privilegiate, ma aveva pagato con il rogo per la sua libertà di pensiero. Nella celebre conferenza che gli dedicò nel 1907, si percepisce una personale identificazione di Gentile con il filosofo nolano: e in effetti – seppure in tempi diversi e per diverse ragioni – entrambi lottarono per le proprie idee, a viso aperto, senza infingimenti, e finirono per scontarle con la morte”.

Pur con tutta la clemenza e la comprensione dovute a uno studioso che ha voluto cimentarsi con un argomento che non era il suo, non possiamo non rilevare l’azzardo di una simile affermazione. Che cosa c’entra la figura di Bruno, spirito ribelle e anticonformista, accusato di stregoneria, scomunicato, costretto a spostarsi di volta in volta, come uno zingaro, in quella parte di Europa più tollerante nei confronti di chi la Chiesa di Roma perseguitava in quanto eretico, con quella di Gentile, esponente della corrente filosofica più affermata e tradizionale, direttore dell’università-simbolo dell’istituzione accademica nazionale, autore dell’enciclopedia destinata a entrare nelle case di tutti gli italiani abbienti e benpensanti, senatore del Regno, proprietario di una casa editrice, e chi più ne ha più ne metta?

Forse Mecacci intendeva semplicemente dire che si tratta di due filosofi morti entrambi ammazzati a causa della loro ostinazione a manifestare un determinato pensiero? Beh, ma la differenza tra loro non sta soltanto nel diverso “privilegio” toccato alle rispettive spoglie (da una parte le acque del Tevere, dall’altra la basilica che ospita le glorie nazionali). Si tratta di due destini opposti, sotto ogni punto di vista: Bruno viene bruciato vivo in piazza per volontà della maggiore istituzione politico-religiosa dell’epoca ma anche per scelta personale, dal momento che l’Inquisizione le ha tentate tutte per farlo abiurare in modo da salvargli la vita. Gentile viene ucciso nella sua macchina con autista, davanti alla villa in cui risiede, scontando la colpa di essersi sempre pienamente allineato alla politica e alla cultura dominanti; a farlo fuori sono degli aspiranti rivoluzionari che dal punto di vista ideologico appaiono decisamente più assimilabili a un Bruno che non al Sant’Uffizio, e che a differenza di quest’ultimo non gli concedono alcuna possibilità di abiura. E quindi il paragone lascia il tempo che trova; al pari dei contestuali riferimenti alle considerazioni gentiliane su religiosità e tema della morte.

Rilevato “il silenzio pressoché generale in cui si chiusero coloro che in vita erano stati più vicini a Gentile come allievi, colleghi, amici”, l’autore traccia un interessante quadro della “moralità comunista” dinanzi all’uccisione del filosofo, assumendo quale esemplare la vicenda di Antonio Banfi, insegnante di filosofia che nel ‘25 aderì al Manifesto degli intellettuali antifascisti. Dal carteggio fra i due emerge che appena qualche mese più tardi Gentile, pur essendo stato il redattore di quel Manifesto degli intellettuali fascisti cui l’altro aveva inteso contrapporsi, prende comunque carta e penna per caldeggiare presso chi di dovere la richiesta di trasferimento presentata dallo stesso Banfi, che viene accolta. Passa qualche tempo, e i due si ritrovano: destino vuole che nel ‘31 l’università di Genova bandisca un concorso per la cattedra di Storia della filosofia, che l’ambizioso antifascista – il quale evidentemente non ha alcun problema a sottostare a quel giuramento di fedeltà al regime imposto quello stesso anno agli accademici dal governo – intenda farla sua e che della commissione giudicante faccia parte proprio il professore siciliano.

Il quale nell’estate si trova in villeggiatura a Forte dei Marmi: Banfi chiede e ottiene di esserne ricevuto, onde impetrarne la protezione in vista dell’imminente cimento ligure. La lettera di ringraziamento che gli invia non lascia adito a dubbi circa l’esito della richiesta: “La Sua stima – che già mi fu in altri tempi di appoggio – m’è ora di vivo compiacimento e conforto. Giacché la mia sorte nel concorso genovese è tutta affidata, per mio conto, a Lei”. Al concorso Gentile tiene fede alla promessa tanto che il vincitore gli invia una nuova missiva per esprimergli “profonda gratitudine” per l’appoggio da lui ricevuto assieme alla “benevolenza” e alla “stima” manifestategli in sede di esame.

È davvero curiosa la vicenda di questo re dei doppiogiochisti: perché nel ‘41 Banfi sia rileva la cattedra milanese di Storia della filosofia rimasta vacante dopo che il collega che la deteneva è incorso proprio nei rigori dovuti al rifiuto di adeguarsi al giuramento, sia si iscrive clandestinamente al PCI. Particolare che tuttavia non gli impedisce, l’anno successivo, di invitare Gentile a inaugurare un ciclo di conferenze promosse dall’Istituto filosofico lombardo: il cui comitato direttivo lo ha evidentemente ritenuto il più idoneo a convincere il padre dell’attualismo a prendere parte all’evento, data la sua vicinanza con lui. “So di quanti pensieri e di quanto lavoro Voi siate gravato – lo blandisce – so di chiederVi un sacrificio, piccolo però rispetto al grande piacere che fareste a noi. E vorrei anche che Voi pensaste quanto opportuno è che in un ciclo che comprenderà studiosi di varie discipline, in una città come la nostra, la voce schietta, libera, autorevole di un filosofo, che crede e combatte per i diritti della ragione e della cultura, si faccia sentire come ammonimento e come guida”.

Il numero del maggio ‘44 de “La Nostra Lotta” riporta – per quanto non firmato – l’articolo dello stesso Banfi Storia di una vita: Giovanni Gentile. Si tratta secondo Mecacci di uno scritto emblematico dell’ipocrisia e della mistificazione con cui il “soccorso rosso” offerto al partito dagli intellettuali comunisti tentò di giustificare un assassinio dai più censurato, condannato ed esecrato. A caratterizzarlo in tal senso non è tanto il tono virulento quanto “un’analisi distruttiva del valore della produzione filosofica di Gentile e della sua attività culturale complessiva, che persino in quel contesto era difficile immaginare che potesse essere misconosciuto in maniera tanto perentoria”.

“Gentile – scrive Banfi – era e rimase un incolto: uno spirito vigoroso, ma rozzo; dominato da poche idee semplici fortemente ed ingenuamente sentite, privo di curiosità per la vita, di sensibilità per la cultura, pronto agli atteggiamenti risolutivi; dialettico dal gioco facile, ma di scarsa finezza, di natura più polemica che storica. Le sue ricerche non uscivano dall’ambito della “filosofia delle bancarelle”, trattata alla disinvolta, col metodo, poi divenuto tradizionale nella scuola, di maneggiare liberamente secondo i propri fini polemici o costruttivi il pensiero altrui, ora con genialità, ora con arbitrio grossolano… Ora ha finito. La crudeltà della morte sembra sproporzionata alla persona, sembra gettare non una luce tragica, ma un senso di grottesco su una vita ed un’anima mediocre”.

A questo vero e proprio “vilipendio di cadavere” segue un’ulteriore demonizzazione della figura dell’assassinato, volta soprattutto a denigrarne l’immagine pubblica di persona mite, moderata, lontana dal fanatismo del fascismo estremista. “Ma il maestro, diventato senatore, trionfava: l’ombrellone estivo di Forte dei Marmi “splendeva come un faro”; la rete di influenze dominava i ministeri, la scuola, le accademie, i vari istituti, le imprese editoriali fiorivano. L’anima non mutata del piccolo borghese si gonfiava di legittima soddisfazione; la fortuna, la fama, il potere, la ricchezza si offrivano al filosofo, al cui cuore espansivo e reso generoso dalla buona sorte era grato offrire aiuto e protezione a quanti a lui ricorressero, tra i dimenticati o perseguitati dalle camorre politiche, e più ancor atteggiarsi a difensore della cultura e dei valori spirituali contro la gazzarra degli squadristi”.

Eppure, dopo tanto argomentare in senso opposto, troviamo una giustificazione accordata dall’autore a un comportamento così opportunista e meschino che ci lascia di sasso. “Per quanto colpisca il mutamento di registro fra il Banfi che scrive al Gentile vivo e quello che scrive sul Gentile morto, sarebbe ingeneroso liquidare il comportamento del filosofo lombardo come dimostrazione di doppiezza e opportunismo, senza considerare il clima d’incrudimento della lotta civile cui Banfi partecipò in prima persona, assumendosi fortissimi rischi”. A coronamento del discorso, l’autore non esclude che lo stesso Banfi possa avere giocato un ruolo “nella maturazione della decisione di eliminare Gentile”.

Con analogo atteggiamento vengono quindi vagliate la figura di Luporini e la sua scelta di non dirla tutta, forse riconducibile a disciplina di partito: prassi peraltro dalla valenza ambigua. Qui viene fuori lo psicologo: “La disciplina poteva anche servire da alibi e da strategia di autogiustificazione: l’allineamento alla ferrea obbedienza richiesta dal partito poteva essere utilizzato per dare conto del proprio comportamento pubblico, e allo stesso tempo lasciar intendere che le proprie opinioni private si discostavano da quelle ufficiali, salvando in qualche modo la faccia o almeno trovando un’attenuante alla propria condotta”.

Alla luce del suo carteggio con Gentile e valutando come sincera la commozione manifestata dallo stesso filosofo comunista nell’89 nel rievocare alla radio l’incontro avuto con lui 44 anni prima, Mecacci giunge alla conclusione trattarsi dell’unico caso in cui un ex allievo passato al PCI mantenga “un immutato atteggiamento di rispetto per il maestro, espresso sia in pubblico sia in privato, al di là della contingenza politica o dei mutamenti ideologici”. Il fatto che a così grande distanza di tempo Luporini ritenesse di non poter rivelare quanto a sua conoscenza sul delitto, “quasi avesse una valenza così dirompente da poter sovvertire identità e convinzioni radicate”, fa tuttavia sorgere dei dubbi. “Dopo gli anni di piombo e il crollo del socialismo reale ci si sarebbe immaginati un ben diverso disincanto; e invece per Luporini, l’amico e l’allievo riconoscente di Gentile, la linea era rimasta quella indicata da Togliatti subito dopo l’esecuzione: fu un atto di guerra, fu giustizia popolare. Ma se questa fosse una verità profondamente accettata, perché affermare – come se si desse sfogo a un rimorso della coscienza – che c’erano cose che ancora non si potevano dire?”.

In medias res si giunge così solo nel capitolo finale, “Perché fu ucciso Gentile?”: sette misere pagine ma dalle quali il lettore si aspetta quanto non ha trovato nelle precedenti 339. Si parte dalle indagini, “superficiali e per alcuni aspetti depistanti”: elemento anche questo ben noto, e già sviscerato dagli studiosi precedenti. Mecacci riepiloga sia i principali punti deboli dell’inchiesta che le maggiori piste alternative “complottistiche”, riesumando l’ipotesi del coinvolgimento nell’omicidio dei servizi segreti britannici. Bizzarra la pezza d’appoggio addotta a giustificazione della obsoleta teoria: gli Alleati avrebbero voluto morto Gentile data “l’insidia rappresentata dalle posizioni conciliatrici da lui assunte dopo il discorso in Campidoglio del 24 giugno 1943”.

Nel Discorso agli italiani tenuto su invito del fatiscente regime il filosofo aveva condotto una serrata critica del parlamentarismo e del sistema liberale, sottolineando il carattere anticapitalistico del corporativismo individuato come possibile terreno d’incontro con i comunisti. Tali posizioni sarebbero state tuttavia da lui progressivamente abbandonate dopo la sua adesione alla RSI: i suoi appelli giornalistici alla “concordia degli animi” e all’affratellamento nazionale erano evidentemente funzionali alla legittimazione del fascismo repubblicano; fino all’esasperato filonazismo espresso in Accademia il 19 marzo ‘44. E quindi una ricostruzione del genere non sta in piedi.

Ma il definitivo capitombolo si ha a nostro avviso subito dopo, allorché viene maldestramente portata alle estreme conseguenze la traccia adombrata da De Felice nell’illustrare l’attività del Movimento dei giovani italiani repubblicani ipotizzandone un collegamento con Gentile. Afferma Mecacci: “Alla fine del marzo 1944, quando sembra sia stata presa la decisione di eliminare Gentile, il corso della guerra non appariva certo e i possibili esiti futuri erano ancora imprevedibili. Con il protrarsi del conflitto, vi sarebbe stato il tempo di far sviluppare un movimento di “pacificazione nazionale” la cui figura leader poteva essere proprio Gentile”.

Sarebbe bastato che l’autore desse un’occhiata a un qualunque manuale di storia per rendersi conto dell’enormità dell’affermazione. Quanto accaduto tra ‘42 e ‘43 (l’esito della battaglia di Stalingrado e l’inizio della controffensiva sovietica, le pesanti sconfitte subite dall’Asse in Africa, l’esaurimento dello slancio giapponese nella guerra del Pacifico e la progressiva riscossa statunitense, gli sbarchi alleati sulle nostre coste meridionali) sarebbe stato sufficiente a fargli capire che, nei giorni in cui fu deciso di ammazzare Gentile, le sorti del conflitto erano ormai segnate da un pezzo. Dopo lo sbarco di Anzio, poi, lo sfondamento del fronte di Cassino e la liberazione di Roma non potevano essere lontani; così come nell’aria era pure lo sbarco in Normandia. La stessa invenzione della Repubblica sociale, del resto, altro non era che un espediente di Hitler per rallentare l’avanzata alleata e prolungare l’agonia: una enorme trincea posta a tutela dei confini del Reich e al tempo stesso un bacino al quale attingere sia per alimentare la resistenza tedesca sfruttando le risorse industriali del Nord Italia che per arruolare i nostri giovani e mandarli a morire per il nazismo. Mecacci dunque bocciato in storia.

Ma tralasciamo pure questo dettaglio e seguiamo l’autore nel suo ragionamento: il quale vorrebbe come detto rilanciare la tesi proposta da De Felice, ma senza averla ben compresa. Il tentativo di pacificazione che secondo lo storico reatino avrebbe intrapreso Gentile era riferibile all’ambito fiorentino, non a quello nazionale: nel momento in cui la spietata guerra civile in atto proponeva ogni giorno di più attentati, ritorsioni, fucilazioni il presidente dell’Accademia, non avendo evidentemente alcuna voce in capitolo in ambito cittadino, avrebbe pensato di rivolgersi direttamente a Mussolini, nella speranza che questi potesse e soprattutto volesse fare qualcosa. L’iniziativa sarebbe stata insomma da ascrivere a un moto di coscienza del filosofo, sdegnato nell’assistere a tanta violenza.

Mecacci dice invece una cosa ben diversa: Gentile avrebbe aspirato a un vero e proprio “ruolo da leader”, in grado di mettere d’accordo i guerreggianti. Leader rispetto a chi, o a che cosa? E per mediare tra chi, praticamente? Badoglio e Mussolini? Il CLN e il PFR? Con la sconveniente “premessa politica” del 19 marzo chiamata in tal modo a costituire il biglietto da visita di una simile missione di pace? Su tali aspetti si sorvola. Né si tiene conto dell’età del filosofo, del fatto che da anni egli avesse fatto un passo indietro rispetto al fascismo e alla politica per dedicarsi ai suoi studi e alla famiglia, ma venendovi fatalmente tirato di nuovo dentro causa le disgraziate vicende belliche.

È comunque in un crescendo rossiniano di illazioni che viene argomentata quest’ultima supposizione: posto che tre giorni dopo il suo assassinio Gentile avrebbe dovuto recarsi a colloquio con il capo del governo di Salò e congetturando che argomento centrale della discussione avrebbe potuto essere proprio quello del “possibile ruolo di leader” che egli intendeva assumere in tale veste pacificatrice, la sua preventiva eliminazione potrebbe essere derivata dalla “preoccupazione che destava, nel mese della svolta di Salerno”, l’eventualità di questa sua leadership. E così ad arricchire il già denso minestrone finisce pure il cambiamento di rotta del PCI ordinato da Stalin ed eseguito da Togliatti.

È questa la degna conclusione di un libro consumatosi tra ingenuità, divagazioni e salti nel vuoto, e che, nonostante l’ingente documentazione che vi compare, al dibattito sull’uccisione di Gentile non ha sostanzialmente molto da offrire. L’impressione è che, a fronte di tante ipotesi forzate, talvolta strampalate, sarebbe stato meglio limitarsi a riportare documenti e testimonianze senza doverle sempre commentare, interpretare e vivisezionare, in modo da lasciare che fosse il lettore a farsi una sua personale idea delle cose. Sicuramente tanto impegno avrebbe potuto essere dedicato a miglior causa.

Complessità di un giudizio storico sul delitto  Pur rimanendo sulla vicenda diverse zone d’ombra, il lungo excursus effettuato ci consente di ricostruire le circostanze che portarono alla morte di Gentile in maniera sufficientemente chiara. La parabola discendente del filosofo liberale folgorato da Mussolini ha inizio negli anni Trenta, che ne vedono il progressivo allontanamento dal regime: in polemica con la nuova politica scolastica che svilisce la sua riforma, contrario alle leggi razziali, nel ‘38 egli lascia anche l’incarico all’Istituto Treccani, concentrandosi sulla direzione della Scuola Normale e sui propri studi. Rimasto in silenzio nei primi tre anni di guerra, nel giugno ‘43 il senatore accoglie l’invito rivoltogli dal segretario del PNF Scorza di tenere un intervento in Campidoglio: il Discorso agli italiani.

Vale la pena ricordare il contesto in cui nacque quel discorso. Dato il precipitare della situazione bellica due mesi prima Mussolini aveva operato un cambio della guardia al vertice del partito, illudendosi di poter lanciare in tal modo un segnale di fiducia nelle possibilità di una ripresa: fu in questa prospettiva che Scorza promosse un ciclo di conferenze da affidare ai principali intellettuali italiani – comprese personalità non fasciste, a cominciare da Croce – e che sarebbero state trasmesse alla radio. Senonché l’unico a rispondere all’appello fu Gentile: il quale evidentemente ritenne di non poter tirarsi indietro, nel momento più critico per la Patria, a costo di esporsi a livello personale e uscendo al tempo stesso dall’oblio nel quale era stato relegato.

Il compito affidato all’oratore era dunque quello di risollevare il morale del Paese allorché i bombardamenti alleati martoriavano da Nord a Sud le nostre città e la Sicilia rappresentava già il prossimo obiettivo dell’avanzata alleata. Sorprendentemente tuttavia Gentile volle tenere un discorso eminentemente politico, attaccando il sistema liberal-parlamentare, esaltando il corporativismo e strizzando l’occhio su tale terreno ai comunisti. L’intervento fu tutt’altro che un successo: sia perché il filosofo si rivelò poco adatto alla retorica comiziale, leggendo un testo scritto e utilizzando un tono flemmatico e ragionato piuttosto che accalorato e trascinante; sia perché il suo riferimento alla “vittoria morale” che attendeva gli italiani non poteva che sottintendere l’ineluttabilità della sconfitta militare. Il discorso in Campidoglio finì così con il rafforzare quella “fronda” a lui ostile da sempre ben presente all’interno del fascismo.

Il rapporto di Gentile con Firenze si era consolidato allorché, nel ‘32, egli vi aveva acquistato la casa editrice Sansoni. Destino volle che la vicenda del 25 luglio cogliesse il filosofo non nella sua abitazione romana ma nella residenza di Troghi, la località della campagna fiorentina in cui si era ritirato a redigere quello che sarebbe stato il suo ultimo saggio, Genesi e struttura della società: particolare anche questo da non sottovalutare, perché non è detto che la sua fatale scelta successiva sarebbe stata la stessa se assieme alla famiglia egli si fosse trovato nella capitale. Il rivolgimento politico fu vissuto da Gentile come un normale avvicendamento di governo; egli salutò anzi con compiacimento l’insediamento del nuovo esecutivo seguito alla caduta di Mussolini dal momento che vi figuravano alcuni suoi ex collaboratori, a cominciare dal ministro dell’Educazione nazionale Severi il quale era stato suo capo di gabinetto alla Pubblica istruzione, svolgendo peraltro un ruolo di primo piano nella vicenda della riforma scolastica. Confidando di rivolgersi a un amico, il senatore inviò a Severi una lettera nella quale, oltre a fargli gli auguri per la nomina, caldeggiava l’adozione di alcuni provvedimenti inerenti la Normale e rimasti in sospeso con il precedente governo.

Inopinatamente però il suo ex braccio destro gli rispose con un colpo basso che non avrebbe potuto essere più umiliante. Impegnato com’era ad acquisire meriti antifascisti (in cima alla sua agenda figuravano l’epurazione dei dirigenti nominati dal regime e la defascistizzazione dei testi scolastici), Severi attaccò Gentile pubblicamente, rinfacciandogli il Discorso agli italiani e divulgando quanto da lui scrittogli privatamente, in modo che apparisse che il filosofo gli si era proposto quale consigliere, obbligandolo a respingerne la proposta. A tutela della propria dignità, a Gentile non rimase che replicare al ministro ripristinando la verità dei fatti e rassegnando le dimissioni dalla Normale. La sconveniente vicenda ebbe pure uno strascico sulla stampa repubblichina: gli oltranzisti del regime non si lasciarono sfuggire l’occasione per dipingere Gentile come il traditore di sempre, che dopo avere protetto per lunghi anni gli intellettuali antifascisti facendoli lavorare all’Enciclopedia chiedeva adesso spudoratamente i favori dell’altro traditore Badoglio.

Dopo l’8 settembre e la formazione della RSI il filosofo – nel frattempo trasferitosi a Villa Montalto – inizialmente mantenne il proprio distacco rispetto alle vicende politiche, declinando la proposta fattagli da Biggini di entrare a far parte del governo di Salò. Costituzionalista, prima docente e poi rettore dell’università di Pisa, Biggini era da sempre un grande estimatore di Gentile; ministro dell’Educazione nazionale e perciò membro del Gran consiglio, il 25 luglio si era schierato contro l’ordine del giorno Grandi, contestandone sia la validità giuridica che la coerenza politica. Nelle convulse ore che precedettero il suo arresto Mussolini lo contattò allo scopo di coinvolgerlo nel suo estremo tentativo di evitare la caduta, che prevedeva una ricucitura con l’opposizione interna per giungere a un esecutivo di unità nazionale che portasse l’Italia fuori dalla guerra. Da notare che anche Biggini si era in un primo momento rifiutato di entrare a far parte del “governo fantasma” repubblichino.

Dando per scontato che le pressioni del ministro su Gentile avvenissero di concerto con la volontà dello stesso Mussolini, occorre notare come quest’ultimo non si peritasse di “richiamare alle armi” anche personalità dal regime emarginate, quando non vituperate, nei suoi anni d’oro. Emblematica in tal senso la vicenda di Leandro Arpinati, l’integerrimo “ras di Bologna” assai poco incline ai compromessi, al servilismo e conseguentemente restio ad adeguarsi alle stolte direttive imposte dal dittatore per il tramite della segreteria di Starace, e perciò punito con due anni di confino a Lipari e altri quattro di arresti domiciliari. Convocato anch’egli a Gargnano, all’impudente Benito che gli offriva addirittura il ministero dell’interno Arpinati oppose un netto rifiuto, per poi passare a collaborare con l’antifascismo.

La stessa fermezza non seppe avere Gentile, il cui mutamento d’opinione ebbe luogo a seguito dei reiterati tentativi di convincerlo compiuti dallo stesso Biggini; egli finì così con l’accettare il suo invito a recarsi a far visita a Mussolini, accogliendo la nomina a presidente della restaurata Accademia, la cui sede veniva trasferita da Roma a Firenze. Tale acquiescenza da parte del filosofo appare tutto sommato strana, per motivi di carattere sia oggettivo che soggettivo. Anzitutto: che senso aveva avallare il ripristino della massima istituzione culturale del Ventennio in un momento del genere, quando attorno tutto crollava – a cominciare dalle nostre città quotidianamente martoriate dai bombardamenti – e la popolazione trascorreva le proprie giornate tra fame, restrizioni, mercato nero? Senza contare che la stessa definizione di Accademia “d’Italia” rappresentava una patetica forzatura, essendo il Paese spaccato in due. Dal punto di vista personale, poi, Gentile avrebbe avuto motivi più che validi per rifiutare non solo in relazione ai precedenti, ma anche all’età ormai avanzata; sulle ragioni per cui non lo fece si possono fare varie ipotesi.

La prima è quella di una perdurante sudditanza psicologica nei confronti di Mussolini, rimasto ai suoi occhi l’“uomo del destino” di vent’anni prima nonostante non solo il fallimento del regime, ma anche, a livello personale, l’oscuramento politico e culturale cui lo aveva condannato, l’accantonamento della sua riforma scolastica, e non ultimi gli attacchi che l’ex dittatore aveva consentito gli rivolgessero gli estremisti. A leggere il carteggio intercorso con Croce prima che le strade dei due esponenti del neoidealismo italiano si divaricassero si ricava l’impressione di un Gentile perennemente in rotta di collisione con l’establishment accademico nazionale, che spesso si sente discriminato, penalizzato, boicottato rispetto ad altri aspiranti alle medesime cariche, e di questo si sfoga con l’amico; si può perciò immaginare la riconoscenza provata verso il Duce allorché costui lo pose a capo proprio di quel ministero dal quale egli riteneva di avere subito a lungo dei torti. Nell’animo del nostro poteva dunque allignare ancora un “bonus” nei riguardi di Mussolini; il quale da parte sua sarà stato abile a convincerlo, facendo leva sugli argomenti che sapeva fare più presa sull’animo dell’interlocutore.

La seconda è che il senatore intendesse occupare di nuovo un incarico di prestigio, in modo da recuperare la propria autorevolezza ultimamente così vilipesa; supposizione che parrebbe suffragata dall’ipotesi di De Felice secondo la quale Gentile avrebbe inteso farsi portavoce presso Mussolini delle istanze del fascismo “dialogante”. In tal caso però non si capirebbe il motivo per cui in precedenza egli avesse rifiutato di entrare al governo; dato il suo attaccamento alla famiglia, si potrebbe azzardare che abbia influito sulla sua scelta proprio il fatto che la sede dell’Accademia sarebbe stata spostata a Firenze, laddove i ministeri stavano sul Garda. Sullo sfondo di tale decisione resta in ogni caso la vicenda del figlio, il quale – come così dettagliatamente ricostruitoci da Paoletti – al momento in cui il filosofo accettò la nomina era prigioniero dei tedeschi da più di due mesi.

Fatto sta che gli attacchi contro di lui proseguirono: non solo da parte di Radio Londra, ma anche della stessa stampa repubblichina, specie dopo che il 28 dicembre egli ebbe pubblicato sul “Corriere della Sera” quell’appello alla “concordia degli animi” e alla “cessazione delle lotte”, fortemente contestato dal neofascismo più allineato al nazismo. Ridotto al silenzio, continuamente bersagliato dagli oltranzisti per le sue posizioni “umanitarie”, a Gentile non rimase che esprimere la propria protesta per quanto andava perpetrando il nazifascismo fiorentino privatamente, al capo della provincia: perché farlo pubblicamente avrebbe significato rompere con il regime. Nonostante tutte le minacce ricevute, la pericolosità della sua posizione, e soprattutto il fatto che a Firenze non passava settimana senza che i GAP compissero un attentato, lo si lasciò senza scorta: ed è stato ancora Paoletti a spiegarcene i motivi. Le attenzioni cui era sottoposto da parte repubblichina erano semmai altre: quelle cioè concernenti le relazioni che a Firenze egli avrebbe potuto intrattenere con la parte antifascista a lui più contigua.

Numerose questioni si pongono perciò agli occhi di chi intenda valutare la scelta fatta dal nostro. Anzitutto: chi glielo fece fare? Come poté un uomo così intelligente non rendersi conto essere tutta una finzione, e che Mussolini e il suo stato fantoccio altro non erano che uno strumento usato dai tedeschi a proprio piacimento? Come poté una persona che incarnava l’esatto opposto del fanatismo continuare a sentire propria la RSI anche dopo che il fascismo repubblicano ebbe evidenziato la propria natura sanguinaria e vendicativa, con il processo di Verona? Come poté non comprendere che l’ex dittatore non contava più niente, se era costretto a mandare a morte il genero, e che a eseguire i desiderata germanici erano semmai i Pavolini, i Farinacci, i Preziosi? E perché a fronte delle scelleratezze perpetrate quotidianamente dalla banda Carità non rassegnò le dimissioni, piuttosto che continuare a lamentarsene invano con Manganiello?

L’unica spiegazione plausibile è quella data da Paoletti ai toni della premessa politica alla commemorazione vichiana: Gentile aveva compreso che il figlio deportato in Germania era oggetto di una discriminazione dovuta proprio all’identità del genitore, per cui non solo non uscì dai ranghi, ma giunse anzi a inventarsi quell’occasione pubblica in cui tessere le lodi del principale responsabile della situazione, e cioè Hitler, allo scopo di salvare Federico. Alla cui causa egli sacrificò dunque non solo i propri ideali, ma la stessa vita, se è vera la ricostruzione di Bilenchi in merito all’argomentazione con cui Rossi motivò l’opportunità del suo assassinio.

Se dunque la condotta di Gentile suscita diverse perplessità, estremamente controverso resta il giudizio storico sul suo assassinio. A nostro avviso la questione va posta in questi termini: è possibile pervenire a una valutazione obiettiva, che prescinda da pregiudizi di ordine ideologico? Considerandolo esclusivamente sul piano morale, le risposte agli interrogativi polemicamente avanzati da Perfetti non possono che essere tutte sfavorevoli ai responsabili dell’omicidio: non è lecito uccidere un intellettuale per le sue idee, chi lo fa merita di essere giudicato alla stregua di un criminale comune, un simile utilizzo del terrorismo non solo non è ammissibile ma anzi giustificare misfatti di questo genere dietro il paravento dell’antifascismo finisce con l’infangare il valore stesso della resistenza, come del resto non mancarono di rilevare fin da subito gli azionisti fiorentini.

Al contempo tuttavia neppure uno storico potrà utilizzare quale unico metro di giudizio il moralismo: per cui anche il delitto Gentile andrà inserito all’interno del contesto storico in cui avvenne, e cioè quello di una guerra civile. Da tale punto di vista è innegabile che il filosofo di Castelvetrano fosse un esponente – per quanto moderato, illuminato e dunque in totale disaccordo con i metodi adottati dal nazifascismo – di una delle parti in causa. Del resto egli stesso, con la posizione assunta pubblicamente in occasione della celebrazione vichiana, si era mostrato pienamente allineato con il regime, giungendo a definire Hitler il “condottiero della grande Germania” proprio nel momento in cui l’alleanza con il nazismo aveva palesemente portato l’Italia alla rovina. Nel pronunciare quelle parole Gentile inoltre sapeva che a Firenze i GAP ammazzavano in continuazione, ed era quindi consapevole di rappresentare un loro possibile obiettivo: tantopiù che si muoveva senza scorta.

Qualora poi si passi a considerare il delitto per quello che sostanzialmente esso volle essere, ossia un omicidio politico, rispondente cioè a un preciso obiettivo propagandistico e dunque finalizzato alla ricerca del consenso, il margine di opinabilità si dilata ulteriormente. Ci sembra che le finalità del terrorismo resistenziale comunista siano state efficacemente delineate da De Felice: nel momento in cui imbracciavano il mitra per sparare su una pattuglia tedesca in transito i partigiani garibaldini non si ponevano certo il problema delle rappresaglie che a causa del loro gesto avrebbe avuto a patire la popolazione del luogo. Loro precipuo scopo era anzi quello di provocare la reazione nemica, con il compimento di stragi della maggior efferatezza possibile in modo da precludere agli occupanti l’instaurazione di una convivenza pacifica e collaborativa con la cittadinanza, la quale sarebbe riuscita funzionale al disegno germanico di contrastare al meglio l’avanzata nemica. Lo stesso dicasi per gli attentati che colpivano singoli esponenti del nazifascismo, valutati come politicamente più opportuni se rivolti contro personalità ben conosciute e quindi simbolicamente più rilevanti: negli intenti di chi le attuava tali azioni avrebbero dovuto ingigantire agli occhi della gente il valore della guerriglia comunista, contrapponendola all’immobilismo caratterizzante la condotta bellica degli altri partiti antifascisti. Ma sempre ragionando in termini opportunistici, non certo eroici: per questo l’eventualità di colpire “pesci grossi” del calibro di Carità, Manganiello, Pavolini non fu mai presa in considerazione.

Innegabili appaiono inoltre le affinità tra i gappisti e i terroristi che avrebbero insanguinato il nostro Paese qualche decennio più tardi: soprattutto quelli delle Brigate Rosse, i quali – come rimarcato dallo stesso fondatore Franceschini – fin dalla scelta del nome dell’organizzazione intesero richiamarsi all’esperienza partigiana comunista. Dagli antenati i brigatisti ereditarono la vita clandestina, il finanziarsi tramite rapine, la meticolosa preparazione degli attentati, la loro modalità (da questo punto di vista l’uccisione di Gentile dentro un’automobile rappresenta sicuramente il prototipo degli agguati dell’era “motorizzata”), ma soprattutto l’assoluta mancanza di una valutazione morale e umana della persona della vittima designata, ridotta a un simbolo da eliminare semplicemente in considerazione della posizione da essa occupata in seno a una società ritenuta ingiusta e quindi da abbattere.

Fu così, fra l’altro, che in tante occasioni essi finirono paradossalmente con il colpire proprio quei “proletari” per la cui causa, secondo i dettami della dottrina marxista-leninista cui si ispiravano, avrebbero dovuto combattere: una lunga lista di appartenenti alle forze dell’ordine, i due attivisti missini trucidati a Padova sino ad arrivare a Guido Rossa, l’operaio (comunista) che li aveva denunciati. “Colpirne uno per educarne cento” era la massima che ne guidava le azioni: dunque la stessa che – stando alla testimonianza di Bilenchi – aveva portato Rossi a scegliere Gentile quale rappresentante degli intellettuali schierati con il fascismo. Se in genere i brigatisti sono stati trattati e giudicati per quello che furono, e cioè dei terroristi criminali, lo si deve al fallimento del loro disegno rivoluzionario: le masse proletarie rimasero ben distanti dai loro obiettivi, determinandone l’isolamento e la sconfitta (in genere, non sempre, perché si sono avuti casi in cui conclamati assassini, opportunamente “pentiti” o “dissociati”, sono stati elevati a conferenzieri universitari, opinionisti televisivi, addirittura consulenti governativi: ma questa è l’Italia).

Cerchiamo comunque di comprendere i motivi del differente riguardo con cui la Storia valuta il terrorismo scatenato dal PCI durante l’occupazione tedesca, e proseguito anche ben oltre la conclusione della guerra (si pensi solo alle mattanze perpetrate nel cosiddetto Triangolo rosso), posto che quegli atti non riuscirono nell’intento di aprire al nostro Paese una prospettiva rivoluzionaria di tipo sovietico. Centrale fu a tale proposito la politica imposta al partito da Togliatti, il quale, consapevole che all’Italia sarebbe inevitabilmente toccato di far parte del blocco occidentale, gettò fin da subito le basi perché da noi il PCI assumesse il ruolo a sinistra solitamente giocato, nei Paesi democratici, dai partiti di orientamento socialista riformista, non rivoluzionario. Il disegno del segretario comunista si rivelò così estremamente abile: dopo i massacri perpetrati dai “garibaldini” venne l’amnistia, a graziare tanto i rossi quanto i neri sopravvissuti alle epurazioni; le Case del Fascio divennero tutte Case del Popolo, tanto che già nel ‘47 il PCI giungeva a superare i due milioni di iscritti, a dimostrazione del fatto che agli occhi di una parte rilevante del Paese esso aveva preso il posto di quello fascista a garantire lavoro, aiuto, protezione.

I maggiori frutti dell’impegno profuso nella guerra di liberazione furono raccolti proprio nella parte d’Italia che più aveva pagato la presenza della Linea Gotica: il “vento del Nord”. Già le giunte municipali insediatesi di concerto tra Alleati e CLN avevano visto la preponderanza delle sinistre; in continuità con tale orientamento, molti sindaci comunisti sarebbero stati quindi eletti democraticamente dalla cittadinanza, sino a dar vita alle cosiddette “regioni rosse” che avrebbero visto l’instaurazione, di fatto, di una nuova dittatura ideologica. Tale situazione consentì di emendare la resistenza di tutte quelle pagine che gettavano discredito sui suoi protagonisti, al punto di trasformarla in una leggenda in cui i partigiani facessero sempre e comunque bella figura. Di tutte le stragi nazifasciste più efferate (da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema, da Bardine e San Terenzo a Vinca, da Civitella Val di Chiana al Padule di Fucecchio) dovevano essere consegnate alla storia crudeltà e disumanità dei carnefici dalla croce uncinata e dei loro scherani italiani; ma guai ad ammettere che tutti quegli eccidi avevano quale scaturigine attentati, provocazioni, imprudenze commesse dai “patrioti”. Soltanto parecchi decenni più tardi la ricerca storica meno ideologizzata e più coraggiosa sarebbe riuscita a dimostrare la sostanziale infondatezza della vulgata resistenziale tendente a oscurare le vicende più nefande: e a costo di esporsi ad attacchi, contestazioni, perfino denunce.

Lo stesso è accaduto per il delitto Gentile: le brillanti carriere politiche di quasi tutti coloro che avevano avuto un ruolo nella sua attuazione dimostrano che alla fine quell’“incidente di percorso” incise ben poco sul cursus honorum degli aspiranti rivoluzionari poi divenuti politicanti borghesi. Certo, nelle biografie del “mitico” Fanciullacci quell’assassinio tutt’altro che valoroso non è riportato; ma ciò non toglie che il potere goduto dal PCI nell’Italia dell’infinito dopoguerra grondi, oltre che del sangue dei martiri delle stragi provocate dagli attentati partigiani e gappisti di cui si è detto, anche di quello del filosofo dell’attualismo.

A questo punto sarebbe interessante capire il giudizio che della vicenda e dei suoi protagonisti avrebbe dato Machiavelli, alla luce della sua fondamentale distinzione tra politica e morale. Se De Felice ci ha illustrato i moventi generali del terrorismo comunista, Paoletti ci ha particolareggiato gli obiettivi più specifici che dové prefiggersi il soviet che decretò l’omicidio di Gentile: ai quali vogliamo aggiungerne uno più spiccio, mettendoci nei panni di colui che lo propose.

Vale la pena anzitutto osservare come, dal punto di vista socio-culturale, la figura di Rossi rappresentasse la quintessenza del proletario; conquistati sul campo i galloni di dirigente comunista, a lui spettava di applicare nella realtà locale di sua pertinenza quelle direttive di ordine militare legate al particolare frangente bellico ma che negli intendimenti del partito rispondevano alle finalità cui si puntava riguardo al dopoguerra: dalle pallottole sparate oggi sarebbero dunque dovuti derivare la conquista del consenso popolare, l’imporsi agli occhi delle masse come la parte della sinistra più fedele agli ideali di democrazia, uguaglianza, giustizia sociale. Orbene, nell’ambito di una simile strategia, quale personalità nella Firenze schierata con il nazifascismo avrebbe potuto rappresentare, agli occhi di un leninista, il simbolo di una società da abbattere meglio di Gentile? L’uomo che era stato ad un tempo la punta di diamante della cultura borghese, il ligio servitore della monarchia al punto di sottometterle l’insegnamento mediante un giuramento di fedeltà, l’artefice di una riforma della scuola rigidamente classista, l’“Eccellenza” la cui vita si divideva tra ville, conferenze e macchine con autista. Per cui, specie alla luce del successivo, convinto avallo popolare alla politica comunista non è da escludere che Machiavelli avrebbe approvato – o comunque non avrebbe censurato – anche quegli episodi eticamente meno ineccepibili della guerra civile come l’agguato del Salviatino.

Proseguendo in tale esercizio puramente accademico si potrebbe provare a immaginare quale sorte sarebbe potuta toccare a Gentile se egli fosse sopravvissuto sino alla fine della guerra. Il primo dato di cui tenere conto è che nei giorni in cui la “giustizia popolare” si abbatté spietatamente sugli ex fascisti non furono fatti sconti a quanti nel corso del Ventennio erano stati dal regime rinnegati e perseguitati e neppure a quanti erano passati con l’antifascismo: emblematico il caso dei due storici rivali in camicia nera Starace e Arpinati, entrambi giustiziati (l’uno a piazzale Loreto, l’altro nella sua tenuta bolognese) nonostante con Mussolini avessero rotto entrambi da un pezzo. Ma questo accadeva nell’aprile ‘45, quando Firenze era stata liberata otto mesi prima risparmiandosi così la fase conclusiva della guerra civile, quantomai cruenta. La questione è dunque un’altra: Gentile avrebbe considerato conclusa la propria esperienza repubblichina al momento della ritirata tedesca a nord dell’Arno o sarebbe rimasto legato al carro nazifascista anche successivamente? Perché nel secondo caso ben difficilmente egli avrebbe avuto scampo; nel migliore dei casi al termine del conflitto lo avremmo ritrovato nel lager allestito dagli americani a Coltano per i prigionieri repubblichini, assieme ai vari Enrico Ameri, Giorgio Albertazzi, Raimondo Vianello, Dario Fo.

Un altro termine di paragone potremmo individuare nella vicenda di alcuni celebri intellettuali del regime che, a differenza di Gentile, riuscirono a salvare la pelle. Partiamo da Giuseppe Bottai: dopo il 25 luglio l’ex ministro trovò rifugio in un convento romano, ove rimase a lungo segregato riuscendo così a evitare l’arresto da parte delle autorità nazifasciste e conseguentemente la condanna a morte comminatagli in contumacia al processo di Verona. Successivamente il suo problema divenne quello di sfuggire alle epurazioni antifasciste: arruolatosi nella Legione straniera francese, l’ultimo anno del conflitto lo vide combattere contro i tedeschi. Condannato nell’immediato dopoguerra dall’Alta corte di giustizia all’ergastolo (al pari di Federzoni e Rossoni, come lui sostenitori dell’ordine del giorno Grandi), protrasse la propria esperienza di legionario sinché la pena non gli fu amnistiata. Rientrato in Italia riprese l’attività pubblicistica, finendo con lo strizzare l’occhio – al pari di innumerevoli altri ex fascisti – alla Democrazia cristiana.

Bottai era più giovane di Gentile di 20 anni: non solo per ragioni d’età ma anche di personalità potrebbe dunque risultare più calzante un parallelismo tra il filosofo di Castelvetrano e Gioacchino Volpe. Storico di punta del regime, prestigioso esponente dell’Accademia d’Italia, direttore della sezione storica dell’Enciclopedia e più o meno coetaneo del nostro, Volpe ebbe in comune con Gentile non solo la matrice politica liberal-nazionalista e monarchica, ma anche la moderazione ideologica che lo portò a spendersi presso Mussolini in favore di antifascisti perseguitati dalla dittatura quali Calamandrei e Nello Rosselli. La differenziazione tra i due fu tuttavia netta dopo l’8 settembre, allorché Volpe tra il nazifascismo e la monarchia scelse senza indugi la seconda, confermando la propria fedeltà alla Corona anche nel dopoguerra, con l’adesione al Partito monarchico.

Una terza figura accostabile a quella di Gentile ci viene suggerita dalla testimonianza di Bilenchi, ed è quella di Ugo Spirito. Laureatosi con Gentile, suo stretto collaboratore sia all’università che all’Enciclopedia, Spirito fu negli anni giovanili uno dei più convinti seguaci dell’attualismo, per poi però virare verso Bottai e divenire il principale teorico del corporativismo. Docente alla Sapienza, strenuo sostenitore del Patto d’acciaio al punto di pubblicare ancora nel ‘41 un saggio in cui esaltava l’alleanza con il Terzo Reich, Spirito seppe tuttavia ravvedersi in tempo, non aderendo alla Repubblica sociale, al punto di essere assolto nel processo subito dopo la liberazione di Roma per i suoi trascorsi fascisti e di mantenere la cattedra. Negli anni successivi egli avrebbe raccolto l’eredità morale dell’antico maestro, assumendone tutte le cariche più significative: direttore sia della Sansoni che del “Giornale critico della filosofia italiana”, professore di Filosofia teoretica a Roma, a lui i figli del filosofo assassinato avrebbero inoltre conferito la presidenza della Fondazione Giovanni Gentile.

Per l’idea che ci siamo fatta della personalità di Gentile, e forti anche della pregnante testimonianza di Luporini, saremmo portati a concludere che, dopo avere rifiutato la scialuppa rappresentata dalla fedeltà alla monarchia dopo l’8 settembre, il nostro non avrebbe fatto granché per separare il proprio destino da quello del nazifascismo neppure nell’ultimo anno di guerra, restando sordo agli appelli di quanti, mossi da sincera amicizia (e non da interesse come gli esponenti della RSI, a cominciare da Mussolini) avessero tentato di farlo ragionare: il suo idealismo, la sua integrità morale, il suo senso dell’onore gli avrebbero probabilmente precluso qualsiasi compromesso, finendo per perderlo. Sicuramente al momento della sconfitta in seno all’antifascismo qualcuno si sarebbe speso per lui, a cominciare dai suoi ex allievi; ma i giorni della fine della guerra furono talmente caotici e privi di logica da consentire di ipotizzare qualsiasi scenario. Non riuscendo a vedere Gentile che si pone sotto la protezione degli americani, la sua salvezza sarebbe potuta avvenire a nostro avviso soltanto prima: cosa avrebbe fatto una volta ottenuto il ritorno dalla prigionia di Federico? Quale scelta avrebbe compiuto al momento della ritirata tedesca, vedendo i ponti e le contrade a ridosso di Ponte Vecchio ridotti in macerie dalle mine teutoniche? Qui sta il punto.

Ma se le ipotesi su quel che avrebbe potuto essere lasciano il tempo che trovano, è un fatto che alla figura di Gentile sia stata imposta una damnatio memoriae che non fa certo onore all’Italia democratica e repubblicana. La prima violenza al suo nome è stata compiuta sul piano accademico e culturale, misconoscendogli quel ruolo di maggiore filosofo italiano del Novecento che – volenti o nolenti – gli spetta di diritto. Altre meschinità si sono avute sul piano “burocratico”, con una serie di targhe negate, apposte, offese, rimosse; la vicenda più sconcertante a Pisa, la cui università ha ignorato per oltre mezzo secolo il nome di colui che alla Normale aveva dedicato una vita per poi tributargli un’epigrafe in cui, più che omaggiarlo per i suoi meriti culturali, ci si premurava di infamarlo per una sua presunta adesione alle leggi razziali: proprio lui che si era esposto a favore degli ebrei, come rinfacciatogli dagli stessi oltranzisti del regime. L’oltraggio poté essere sanato solo a seguito delle vibranti proteste dei discendenti del filosofo – oltre a quelle di prestigiosi esponenti del mondo culturale – con la rimozione dell’ingiuriosa lapide.

E così, che da noi la guerra civile non sia ancora terminata lo si capisce anche dal fatto che se da qualche parte troviamo una via, una scuola, un parco dedicati a Gentile possiamo stare certi che la loro istituzione è avvenuta per mano di una giunta di centrodestra, e con le immancabili proteste dei nostalgici della resistenza. Firenze targhe e intitolazione di strade non le ha mai negate a nessuno: a una miriade di artisti scrittori scienziati accademici politici magnati mecenati, perfino a Monicelli per avervi girato Amici miei e a un ex calciatore della Fiorentina prematuramente mancato per malattia. È – crediamo – l’unica città che ha avuto la sensibilità di dedicare un monumento a uno sconosciuto ospite venuto a morirvi a vent’anni: lo sfortunato principe indiano effigiato alle Cascine, la cui vicenda tanto commosse i fiorentini.

Ma per Gentile nessuna pietà: nonostante la famiglia avesse evitato alla città una rappresaglia, questa stessa città non può perdonare all’assassinato l’appartenenza alla RSI. La giustificazione con cui in consiglio comunale la maggioritaria sinistra respinge le periodiche richieste della destra di apporre un’epigrafe commemorativa al cancello di Villa Montalto non regge: la lapide riuscirebbe diffamatoria nei confronti della resistenza. Dunque, secondo tale ragionamento, la via Giovanni Gentile esistente a Roma offenderebbe la memoria dei martiri delle Fosse Ardeatine.

La nostra impressione è che una certa sinistra abbia scelto di proseguire a oltranza nella subdola tattica inaugurata da Togliatti allorché apparve evidente la sconvenienza politica dell’attentato del Salviatino: demonizzare Gentile, ben al di là delle sue colpe oggettive, allo scopo di ammortizzare gli effetti dello scivolone in cui si era incorsi. Per certuni il tempo è dunque trascorso invano: il furore ideologico continua a prevalere sulla ragionevolezza, nel tentativo di esorcizzare un assassinio ancor oggi troppo scomodo.

Noi crediamo al contrario che, se Gentile sbagliò ad aderire al nazifascismo, abbia già pagato abbastanza per quella scelta, e che per Firenze sarebbe prova di grande maturità civile e democratica se fosse proprio un sindaco di sinistra a farsi promotore dell’onoranza in questione: una targa sobria e non retorica, storica e non ideologica, pacificatrice e non divisiva.

Il dibattito storiografico sul delitto Gentileultima modifica: 2022-04-15T12:37:03+02:00da tradersimo
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