Francesco Scandone. Biografia intellettuale e storico-critica di Mario Garofalo

Nella sua rassegna di studi dedicati a personaggi della propria terra, il montellese Mario Garofalo si è occupato a più riprese di Francesco Scandone (1868-1957), da lui frequentato e ammirato in gioventù. Nel 1971, constatato come a pochi anni dalla scomparsa la figura dell’illustre concittadino apparisse “già sepolta sotto una grigia coltre di oblio”, da consigliere comunale Garofalo si attivò perché a tale situazione fosse posto rimedio. Dal suo impegno scaturirono varie iniziative: la celebrazione dello Scandone all’interno della scuola elementare, con la collocazione di una sua effigie; la ristampa dei quattro tomi della sua Storia di Montella; la pubblicazione di un volume miscellaneo (curato assieme ad Attilio Marinari, autorevole esponente della cultura montellese) in cui ne venivano tratteggiate la figura e l’opera.

In tale sede a Garofalo spettò la redazione del saggio dedicato a quanto lasciato dallo Scandone in veste di critico letterario. Di quello scritto è interessante il pregiudizio ideologico che ne condizionò l’approccio alla produzione scandoniana, come ammesso dallo stesso autore nella premessa alla Biografia intellettuale e storico-critica (edita da Terebinto nel 2020) di cui ci andiamo ad occupare. “La mia formazione politico-culturale, allora impregnata di una vivace ideologia di sinistra e di uno storicismo che affondava le radici nella grande lezione del De Sanctis e del Gramsci, mi portò ad esprimere su Scandone “intellettuale” un giudizio “non positivo”. Ritenni lo Scandone – rappresentante tipico di una intera generazione – figura lontana dall’homo novus capace di prefigurare orizzonti storico-politici e culturali nuovi e progressivi (vedi il suo nazionalismo, il suo dannunzianesimo, la sua plateale adesione al fascismo, la sua stessa posizione storiografica refrattaria verso le nuove correnti novecentesche, la sua inossidabile fede monarchica etc.)”.

Garofalo ebbe a rimarcare tale opinione anche in occasione della manifestazione commemorativa dello Scandone, suscitando comprensibilmente anche critiche di opportunità: quasi sentisse il bisogno di prendere le distanze dal celebrato – la cui riesumazione culturale aveva peraltro voluta egli stesso – condannandone il pensiero politico e non solo. La drastica posizione assunta all’epoca viene sostanzialmente confermata nella stessa premessa: “A distanza di mezzo secolo, stemperata la vis ideologica e verbalistica che caratterizzava il saggio, il mio giudizio di valore rimane quello medesimo espresso in quelle sentite pagine giovanili. Scandone, rappresentante emblematico della laboriosa storiografia tardottocentesca, resta uno storico straordinario, al quale dobbiamo il lascito di una eredità documentaristica ricchissima e preziosa, imprescindibile per tutti i ricercatori della storia irpina. Come intellettuale fu espressione di una certa borghesia conservatrice di inizio Novecento, portatrice di una cultura e di valori non dischiusi alla modernità”.

Sulla medesima lunghezza d’onda si colloca del resto il giudizio vergato nella prefazione al saggio dal Prof. Francesco Barra, il quale, rilevata l’“ecletticità” storiografica che rese lo Scandone “isolato, impermeabile ed estraneo sia alla scuola economico-giuridica sia allo storicismo idealistico di stampo crociano-gentiliano, che pure dominarono la scena storiografica napoletana ed italiana della prima metà del Novecento”, ne contestualizza anche la posizione ideologica. “Ancor più, se possibile, estraneo ad ogni influenza marxista, anche politicamente Scandone fu, e restò sempre, un cattolico-liberale d’impronta moderata e conservatrice. Anche la sua adesione – indiscutibile quanto obbligata – al regime fascista nella sua qualità di docente e di preside, fu meramente retorica e di facciata, basata per altro in buona fede sull’ingenuo equivoco, comune del resto a tanta borghesia, specie meridionale, che vide inizialmente nel fascismo null’altro che un regime che intendeva preservare l’eredità del Risorgimento, sia pure accentuandone i caratteri autoritari e nazionali, o addirittura nazionalisti”.

Ci pare anche questo un giudizio ingeneroso, sicuramente viziato dalla pregiudiziale antifascista e che soprattutto non tiene conto di quanto il fascismo ebbe a rappresentare agli occhi dell’opinione pubblica moderata nei suoi primi anni di vita: un movimento che si batteva in difesa di quei valori per i quali tanti italiani erano andati a morire nelle trincee della Prima guerra mondiale, che nell’impotenza dello Stato si opponeva alle violenze della sinistra caratterizzanti il “biennio rosso” e che agli occhi di molti finì perciò con il rappresentare l’unico baluardo contro il pericolo di una rivoluzione di tipo sovietico. Del resto, se ancora all’indomani del delitto Matteotti un liberale convinto – nonché futuro antifascista – come l’evocato Croce decideva di votare la fiducia al governo Mussolini, un motivo ci sarà pur stato: e dunque la storicizzazione dell’adesione dello Scandone al fascismo ci farà apparire quest’ultima assai meno opportunistica, calcolata o “ingenua” rispetto a quanto asserito dall’insigne cattedratico avellinese.

Al pari dell’altro grande intellettuale liberale Gentile, lo Scandone – che come abbiamo visto è lo stesso Garofalo a presentarci come già nazionalista, dannunziano e ultramonarchico – aderì convintamente al regime, trasmettendo peraltro tale fede ai figli: tanto che il primogenito Felice divenne una colonna del giornalismo sportivo fascista, prima di cadere eroicamente nel 1940, combattendo nei cieli della Cirenaica. Così come il figlio di quest’ultimo Mario non esitò da Napoli a recarsi al Nord per aderire alla Repubblica sociale, quindi all’MSI (fu amico personale di Giorgio Almirante), intendendo in tal modo onorare la memoria paterna: per cui gettare delle ombre sulla natura della scelta di Francesco Scandone dall’alto di un preteso antifascismo – negli anni cui ci si riferisce proprio peraltro di una esigua minoranza di italiani – rischia di manipolare la storia di un’intera famiglia.

Tutto sommato noi riteniamo perciò più equilibrato il giudizio formulato in materia da Garofalo sul finire del saggio, nel capitolo dedicato allo Scandone “intellettuale borghese”, per quanto anch’esso non del tutto esente da critiche: è infatti come se il nostro, dal punto di vista socio-politico, fosse sempre sul banco degli imputati. Com’è possibile – si chiede l’autore – che egli, “nonostante la sua nativa provenienza dal basso ceto contadino di un paesello interno del povero Mezzogiorno”, abbia finito con l’“incarnare emblematicamente il tipo di intellettuale borghese di fine Ottocento”? Il motivo viene individuato nella frequentazione giovanile da parte dello Scandone della nobile famiglia montellese dei Capone, “altolocata e potente, fra le più ragguardevoli della provincia”, grazie al cui appoggio egli “era riuscito a salire i gradini di una importante ascesa sociale: rapporti con l’élite culturale napoletana, frequentazione di classi sociali agiate, docenza nei licei, dirigenza scolastica negli istituti secondari superiori”. Suo peccato originale era stato dunque quello di “inserirsi a pieno merito e titolo nello strato sociale di quella media borghesia meridionale, espressione tipica della classe dirigente post-risorgimentale, i cui ideali conservatori mettevano a nudo la genesi e le motivazioni “borghesi e non “popolari” che furono alla base del risorgimento nazionale e la incapacità di risolvere i grandi problemi della nuova nazione unitaria”.

Specchio di tale sua convinta appartenenza è anzitutto l’ode In morte di Re Umberto I (pubblicata nel 1901 all’interno di una pubblicazione destinata ai suoi alunni del Regio Ginnasio partenopeo). Secondo l’autore, da tale componimento emergerebbe tutta l’arretratezza ideologica dello Scandone, “suddito fedele della monarchia sabauda” per il quale “l’uccisione altro non fu che l’ingiusto crimine di un forsennato”. A differenza degli “spiriti più vigili e democratici dell’epoca” non seppe dunque egli “scorgere nel regicidio di Monza il segno culminante di un malcontento nazionale incontenibile, di una indignazione popolare i cui motivi bisognava cercare, anzitutto, nelle delusioni e nelle tragiche amarezze di un errato e impopolare indirizzo politico generale”, responsabile tanto dell’avventura coloniale segnata dai massacri di Dogali e Adua quanto della crisi agraria e in ultimo dello scriteriato aumento dei prezzi dei beni di prima necessità dal quale era scaturito l’eccidio di Milano, “sadicamente consumato dal generale Bava Beccaris” che proprio quel “Re leale, pio” quale dal nostro celebrato nell’ode si era premurato di decorare.

Garofalo si lancia quindi in un ardito parallelismo tra il patriottismo monarchico dello Scandone e quello che – seppure con fortissime oscillazioni – fu proprio del Carducci: il Montellese ne esce malamente, condannato per avere tradito le proprie ascendenze romantico-risorgimentali per sposare il “rinascente rigurgito nazionalistico” caratterizzante il primo Novecento. “E però non potrà meravigliarci l’adesione che Scandone diede all’imperante regime fascista, avvertito come “nuova rivoluzione” intesa alla riaffermazione e all’inveramento di quei valori nazionali e unitari rimasti incompiuti e “traditi”, che solo uno Stato forte e una “guida” ferma potevano finalmente realizzare: la sua adesione fu infatti una forma di coerenza ideologica”.

A conferma della bontà di tale convincimento sta anzitutto il discorso inaugurale dell’anno scolastico 1928-29 rivolto dal preside irpino agli alunni del Regio liceo napoletano: un’orazione  piena di fervore ed entusiasmo nei confronti del Duce, del fascismo, della Patria, di “Roma immortale”. Così come in un’altra occasione egli ebbe a definire Mussolini “esempio alto e luminoso, per i giovani e per tutti, di patriottismo, di fierezza e di lavoro”. E neppure è del tutto esatto chiosare, come fa l’autore, che “in un intellettuale quale si è cercato di delineare non potevano essere certo nutrite istanze di una pedagogia “antagonista” a quella ufficiale”, e che “l’orientamento didattico non poteva che essere “allineato” al sistema pedagogico imposto dal regime”. Esistevano comunque margini di manovra che consentivano tanto ai dirigenti scolastici quanto ai docenti attestazioni di adesione al fascismo del tutto formali, e non certo calorose e sincere quali quelle manifestate a più riprese dallo Scandone; al punto che dopo l’introduzione dell’obbligo di iscrizione al partito per i dipendenti pubblici si formò una categoria di tesserati “afascisti” (variamente definiti come “tiepidi”, “dissenzienti”, “non allineati” ecc.). Si pensi soltanto che nel 1931 giunse a giurare fedeltà al regime un antifascista del calibro di Piero Calamandrei: il quale ovviamente mai ebbe a rivolgere alla dittatura dalla sua cattedra universitaria parole assimilabili a quelle utilizzate dal Montellese.

Esaurita questa controversa pagina, possiamo entrare nel merito del saggio: la cui prosa professorale denota un intento decisamente più accademico che divulgativo. Garofalo sottolinea il ruolo giocato nella formazione dello Scandone dalla nutrita biblioteca dei Capone (oltre 30.000 volumi), da lui assiduamente frequentata in gioventù e grazie alla quale egli comprese la propria vocazione di letterato e ricercatore storico. Fondamentale risultò in ogni caso il decennio trascorso dal nostro a Napoli, nel cui Archivio di Stato egli conseguì la specializzazione in Paleografia: “Furono quegli anni a cavallo dei due secoli a definire e consolidare nello Scandone le scelte tematiche delle ricerche e la strumentazione tecnica e metodologica del suo futuro itinerario di storico e di critico”. Il suo esordio editoriale fu di ordine letterario: uno studio biografico su Rinaldo e Jacopo d’Aquino, cui fece seguito uno scritto sulla letteratura trecentesca basato su documenti rinvenuti nel medesimo Archivio partenopeo.

Qualche anno dopo, la svolta: la passione per le belle lettere “cedette il campo in maniera esclusiva al più coinvolgente e vocazionale studio della storia, che lo avrebbe portato a compulsare gli archivi e le biblioteche del Mezzogiorno, e dar vita a una produzione storiografica monumentale e prodigiosa, alla quale si dedicò per tutta la vita”. Non provenendo come detto il nostro da una famiglia agiata (il babbo era un modesto proprietario terriero), la sua non poté essere la vita dello studioso a tempo pieno, alla Croce: anche perché fu padre di cinque figli. Per cui, accanto alla “ricerca e accumulazione appassionata di una documentazione sterminata”, egli dové spendersi “nella cura della famiglia e di una altrettanto intensa attività didattica, svolta con amore e dedizione negli istituti scolastici superiori”. Una carriera che lo vide impegnato in varie località del Meridione: come docente di lettere a Gallipoli, Cassino, Palermo, Napoli; quindi, vinto il concorso da preside, prima nei licei napoletani e infine in quello di Campobasso.

Partendo dall’analisi del metodo critico-letterario dello Scandone, Garofalo ne individua l’appartenenza alla scuola “storico-erudita”, che a Napoli ebbe quali principali esponenti Torraca, Scherillo, Percopo, D’Ovidio. Tale indirizzo intendeva superare la lezione dello storicismo idealistico quale era stata dettata dal De Sanctis, fortemente impregnata di una tensione morale e civile e finalizzata alla costruzione di una storia letteraria ispirata da principi ideali: refrattario ad ogni discussione teorica, esso intendeva privilegiare piuttosto la minuziosità della ricerca erudita, l’esame dei fatti e delle cose, la citazione di dati e documenti.

Il confronto con il grande conterraneo di Morra e con il suo “metodo estetico” lo Scandone aveva avuto nel corso degli studi universitari napoletani, conclusi con una tesi sulla storia di Avellino longobarda. Il programma del primo anno contemplava infatti la Storia della letteratura italiana desanctisiana: la cui analisi non lasciò tuttavia alcuna impronta sulla sua formazione. Maggiore influenza ebbero invece le lezioni del titolare della cattedra in questione – peraltro successore dello stesso De Sanctis – Bonaventura Zumbini, “nelle quali la raccolta del materiale e dei dati documentari e lo studio dei contenuti venivano considerati aspetti fondamentali e privilegiati dell’analisi letteraria”.

Sta di fatto che nel complesso dell’opera critica scandoniana il De Sanctis viene citato soltanto due volte, e una delle quali per correggerne un’interpretazione valutata come errata. Garofalo fa derivare tale distacco dall’avere il Montellese “consapevolezza piena di vivere una diversa stagione della storiografia letteraria, finalmente mirante, dopo le “vaghezze” estetiche dei critici romantici, alla concretezza e al positivo, supportata da una metodologia che aveva il crisma della scientificità”.

Del resto l’adesione dello Scandone alla dottrina vichiana del verum ipsum factum lo portava a privilegiare la nuda verità del documento (il “santo vero”, come egli amava definirlo) e di conseguenza a prendere le distanze dalle licenze della scuola “estetica”, come ben esemplificato in questa sua pagina: “Quante notizie preziose, consacrate in documenti veri, rimangono celate negli Archivi! Eppure, c’è chi preferisce inventare non solo le notizie, ma anche i documenti, pur di sostenere una strada sbagliata! Il male, che costoro arrecano a sé e alla causa propria, non lo calcolano; quindi a chi fa uso di siffatti metodi, ben gli sta, se rimane col danno, e con le beffe!”. In ossequio a tale credo gli archivi (in primis quelli di Napoli, Cassino, Cava, Palermo, Montevergine, Campobasso) costituirono sempre il saldo ancoraggio di tutta quanta la sua certosina e appassionata ricerca.

La quale trovò tuttavia proprio in tale adusata frequentazione il suo limite: Garofalo evidenzia come una simile impostazione metodologica finisca con il precludersi “le possibilità di comprensione di una critica che si avvalga di diversi strumenti conoscitivi, di mediazioni culturali multiformi: sociologiche, politiche, scientifiche, storiche, economiche”. A ciò si aggiungano il frequente ricorso a formule poco originali, l’approssimazione di certe notazioni filologiche, nonché qualche eccesso di libertà esegetica: il che porta l’autore a identificare nell’opera scandoniana “il momento di crisi della critica erudito-positivistica”, nella cui “officina laboriosa” lo studioso irpino “affinò niente più che gli strumenti estremamente scaltriti di una ricerca che, per la sua peculiare natura, portava a una sorta di strozzatura del fenomeno letterario, a un certo tipo di ridimensionamento del fatto artistico”. Garofalo dunque non eccede nei suoi rilievi, individuando anzi delle valide attenuanti in quello che era il vizio originario della critica scandoniana: la quale, “in ultima analisi, al pari di quella dei suoi correligionari critici positivisti, non poteva sfuggire a una impressione di incompletezza, né tanto meno a una sensazione di aridità e di freddezza. Ma si trattava, in fondo, di giudizi e osservazioni tipici e propri di un generalizzato e abusato metodo critico in via di superamento”.

Analoghe considerazioni vengono fatte riguardo all’opera storica del nostro, condotta secondo i dettami della storiografia “civile” e finalizzata a definire la storia dell’Irpinia e più in generale del Mezzogiorno. Tra i principali meriti da Garofalo attribuiti allo Scandone sta l’avere fatto luce sulle vicende dei paesi di Principato Ultra e su rilevanti avvenimenti storico-culturali napoletani, siciliani, molisani, calabresi; le ricostruzione genealogiche dei più importanti casati e famiglie meridionali; le puntualizzazioni biografiche riguardo importanti personaggi storici, a cominciare da S. Tommaso d’Aquino e Margherita di Svevia; le monografie dedicate agli albori del Risorgimento meridionale e alla storia dell’Università di Napoli. L’autore fa notare come, pur avendo sposato il metodostorico” dei positivisti a scapito di quelloestetico” dei romantici, “del positivismo lo Scandone assimilò unicamente la metodologia, restando immune da ogni contagio filosofico-ideologico” e avendo “della storia umana una visione non materialistica o laicista, bensì religiosa e provvidenzialistica; della vita una concezione profondamente cristiana, corroborata dal lungo studio tomistico” cui in gioventù era stato iniziato da Giulio Capone.

Garofalo esplicita quelle “vistose innovazioni” apportate dal Montellese alla prassi romantica che stava alla base della gran parte delle storie locali ottocentesche, “uscite dalla penna di volenterosi ed eruditi ecclesiastici delle comunità irpine mossi unicamente da intenti pedagogici, da campanilismi e da nostalgie passatiste, ma alquanto disarmati delle attrezzature tecnico-scientifiche proprie della ricerca storica. Non più, all’origine della storiografia del Nostro, una genesi di tipo sentimentale, ma una volontà, sorretta da ragione, di cogliere i fatti nella loro oggettività; non più da parte dell’autore un atteggiamento partecipe delle vicende narrate, ma una posizione distaccata e impersonale, priva di interferenze ideologiche o di parte”. E così i vari volumi dedicati alla storia di Avellino alternatisi dal Seicento alla fine dell’Ottocento – a firma di religiosi come di laici – fanno una magra figura se rapportati agli omologhi dello Scandone, il cui rigore fa apparire i precedenti come infarciti di “inesattezze e fole”.

Esemplificativa in tal senso la Storia di Montella, alla quale lo studioso irpino lavorò per tutta la vita e di cui viene sottolineata la natura di atto d’amore verso la sua terra. L’opera racchiude tutte le peculiarità della storiografia scandoniana, a cominciare dagli aspetti esteriori: la monumentalità, “fino ad allora inusitata per la storia di un piccolo paese”; il corredo di un apparato critico fittissimo, indice della scientificità dei fatti esposti e “del tutto assente nelle distese e conchiuse pagine narrative delle storie precedenti”; la presenza di appendici documentarie, spesso preponderanti rispetto al testo, anch’esse indicative della rigorosità del metodo di lavoro adottato.

Ma se dimensionato storicamente, il contributo storiografico dello Scandone mostrerà tutti i suoi limiti, sospeso com’è tra la storiografia tardottocentesca, della quale riprese canoni e difetti, e le coeve correnti novecentesche (Croce, Fortunato, Pontieri, Salvemini; la scuola francese delle Annales), al cui influsso esso rimase tuttavia impermeabile. La staticità fu la cifra stilistica del nostro, come testimoniato anche dal modus operandi al quale egli non apportò mai alcuna variazione: ciascuno scritto veniva strutturato secondo un rigido schematismo espositivo, in ossequio a un’asetticità che finiva con il rendere i documenti pubblicati “avulsi e immobili”, la serie di indici “meticolosa ma intricata e di disagevole consultazione”. Quel che ne risulta – chiosa Garofalo – è “una materia vasta e doviziosa di fatti che non sempre trovano una razionale e ordinata collocazione nella tradizionale tripartizione di storia antica-medievale-moderna e contemporanea, generando talvolta “salti” e “riprese” a scapito di un progressivo andamento diegetico”, ossia lineare e continuativo. “Frequentemente si procede per capitoli e paragrafi slegati dalla continuità narrativa”, con la conseguente incombenza per il malcapitato lettore di “rintracciare, non perdere, riannodare il filo conduttore della narrazione storica per poterne alfine ricavare una visione sintetica e armonicamente conclusiva”.

Anche in questo caso l’autore crede di rinvenire le radici di tale arretratezza culturale dello Scandone nella sua specifica forma mentis: “Il suo anacronismo rispetto alle nuove e imperanti correnti storiografiche novecentesche era spia di un conservatorismo ideologico che, in forme diverse, appartenne alla classe dirigente postunitaria chiamata alla costruzione dello stato nazionale”. Paradossalmente, proprio negli anni in cui per la sua gravità la “questione meridionale” si poneva con forza al centro della riflessione di politici e intellettuali, lo storico montellese rimaneva ancorato ai “miti ottocenteschi della rinascita e del recupero della “civiltà meridionale”, da reintegrare a pieno titolo nell’unità della nuova Italia: una sorta di meridionalismo sentimentale, ancora intriso di ascendenze risorgimentali” e che “non nasce da un’analisi storico-politica della miseria e dell’arretratezza delle condizioni economiche, fisiche e socio-culturali delle terre irpine, bensì dalla constatazione che l’itinerario storico che dai primi moti di libertà del ‘21 e del ‘48 aveva portato all’unità d’Italia fosse ancora incompiuto”.

Torna così la critica allo studioso di non avere saputo emanciparsi rispetto alla mera dimensione archivistica, allargando gli orizzonti della sua ricerca (magari gettando un occhio alle vivaci e variegate riviste che caratterizzarono il primo Novecento), in modo da considerare gli eventi economici e politici, le dinamiche sociali e culturali per dare vita a una “grande” storia. Al contrario, mantenendo una visuale così angusta la sua non può essere che la storia, “talvolta minuta, delle circoscritte vicende municipali”, in cui al posto del popolo “osservato nei drammatici rivolgimenti della sua faticosa esistenza” figurano i “grandi protagonisti”: ossia “le locali famiglie borghesi, benestanti e illustri, proiettate verso lo status di future permanenti classi dirigenti”. Insomma “una storia vista dall’alto che inevitabilmente – in qualche caso scientemente – lascia il “basso” in una silenziosa e grigia zona d’ombra”. Con quello ‘scientemente’ a rimarcare la consapevole attestazione dello Scandone su posizioni rigidamente conservatrici, la sua aprioristica chiusura nei confronti di istanze innovative e progressiste: il che – nella specifica chiave di lettura offerta da Garofalo – finisce con l’inficiare il valore della sua storiografia, difettosa precipuamente sul piano dell’attenzione verso le vicende delle classi popolari e di conseguenza della democraticità.

Ciononostante anche in questo caso viene fatto ricorso a giustificazioni tali da consentire all’autore di sminuire la gravità dei rilievi mossi in modo da addivenire a un giudizio finale che appare – anche sorprendentemente – più che lusinghiero. “Pur con tali caratteristiche, che furono limiti propri di un’epoca storiografica e di una generazione di intellettuali, l’opera di Scandone resta esempio straordinario di laboriosità, di passione, di una ricerca storica ineccepibilmente scientifica, ispirata dall’amore per la propria terra, nonché ineludibile fonte documentaria e riferimento imprescindibile per lo storico dell’Irpinia di oggi e di domani”.

Passando al contributo offerto dal Montellese alla storia della letteratura, l’autore osserva come anche tale aspetto della sua opera derivi dall’assidua frequentazione archivistica, e segnatamente dei Registri Angioini: fu infatti la riesumazione di tali documenti “ammuffiti e obliati da secoli” a dare spunto alla sua pagina letteraria più significativa, relativa ai rimatori della Scuola siciliana, dei quali si occupò a più riprese e con una particolare predilezione per Rinaldo d’Aquino, alla cui figura dedicò ben vent’anni di studi culminati nell’edizione critica delle sue Rime. Tali attenzioni derivavano da un interesse di tipo “affettivo e municipalistico”: dal “desiderio vivissimo – come ci confida egli stesso negli Appunti biografici – di rivendicare, con argomenti inoppugnabili, al mio paesello nativo l’onore di aver dato i natali a uno dei più antichi scrittori di rime volgari che vanti la nostra letteratura”.

Scopo precipuo della sua indefessa ricerca fu dunque quello di dimostrare che Rinaldo aveva poetato facendo ricorso a termini propri del dialetto di Montella: ma spingendosi a formulare troppo ardite interpretazioni filologiche e finendo così con l’esporre il fianco alle reprimende della critica contemporanea, la quale gli rimproverò di considerare come montellesi “termini e modalità espressive riscontrabili in molti altri componimenti di rimatori della scuola, che certamente con Montella non ebbero alcun rapporto”. Garofalo addebita tali eccessi all’ingenuità del movente campanilistico dello Scandone, ma esprimendosi comunque a favore della fondatezza della sua tesi, se è vero che lo stesso rimatore federiciano, nella canzone Amorosa donna fina, ebbe a dichiararsi montellese.

Muovendosi anche in questo caso sulla scia dei Capone, i quali di padre in figlio avevano raccolto testimonianze di canti popolari montellesi, lo studioso irpino approfondì tale aspetto della cultura locale, partendo dal presupposto che, tra i paesi dell’alta valle del Calore, il suo “fosse quello più ricco di una tradizione di arte popolare, che si era venuta tramandando oralmente di generazione in generazione, grazie alla sua importanza storica e alla sua “centralità” culturale, politica e morale, e a un dialetto di intensa espressività, nitidezza e musicalità, sul cui humus era fiorita l’alta lirica del D’Aquino”. Spinto da interessi di ordine storico-filologico, “ma anche da un trasparente amore campanilistico”, egli mise insieme una notevole documentazione di cultura orale, che spaziava dalle serenate alle elegie, dai canti d’amore a quelli di rabbia e di vendetta, dagli stornelli di gioia a quelli sarcastici e dispettosi. In particolare, “dalla voce di vecchi montellesi ascoltò e fece rivivere magistralmente la fascinosa leggenda dell’Abate Goglia, un misterioso personaggio del Seicento al quale la fantasia popolare attribuì ogni sorta di turpitudini e di nefandezze”.

Il metro di giudizio adoperato da Garofalo nel ponderare il valore di tale genere dell’opera scandoniana risulta il medesimo delle pagine precedenti. Prima la carota, e come sempre condizionata: “Sia pure da una limitata angolazione provincialistica” e “pur con i suoi limiti filologici e la sua inevitabile datazione”, il contributo dello studioso irpino si presenta ancor oggi “interessante e prodigo di suggerimenti di lettura”, distinguendosi per un apparato critico denso di notazioni filologiche, storiche, documentarie che testimoniano della vastità di letture che lo sottendevano. E ancora: “Pur consapevole delle forzature a cui talvolta venivano sottoposti testi di fattura letteraria, in molti di quei canti egli cercò, con l’ausilio di una acribia filologica straordinaria, seppur non immune da inesattezze ed errori, qualche indicazione cronologica, qualche riferimento realistico interno al testo, per stabilirne la genesi storica e la formazione. Convinto assertore del primato linguistico del dialetto di Montella, non di rado interveniva sui testi apportando varianti intese alla “montellesizzazione” della lectio. Egli lesse, dunque, i canti popolari, più che da critico letterario, da ricercatore di documenti, da rerum scriptor, quale si sentiva di essere e quale effettivamente fu”,

Mentre il bastone interviene more solito allorché si passa a considerare i presupposti ideologici propri del nostro: il quale “non colse il significato sociale e politico della produzione letteraria popolare, né – per una forma mentis e uno status ideologico (moderato e conservatore) propri della generazione di intellettuali di quel tempo – poté intendere quella che, più tardi, un intellettuale novus come Gramsci definirà la “collettività del canto popolare e del popolo stesso””. Repetita juvant.

Ultimo ad essere vagliato è lo stile narrativo dello Scandone, che appare come razionale e controllato: “quasi sempre la sua pagina è improntata a una sapiente e congegnata costruzione stilistica”. Solo di rado la sua penna si concede “momenti di abbandono al sentimento o alle fantasticherie”; così come “la spia che ci permette di cogliere la rasserenata componente umana della sua opera di infaticabile ricercatore è una certa mesta tendenza al racconto, un ritmo narrativo che conferisce al linguaggio una sua ricercata flessuosità”. Né mancano qua e là tocchi di umorismo, arguzia, autoironia, a “restituire alla voce arida e scarna dei documenti una eco di cordialità”: come quando, nel congedarsi dallo scritto sulla Scuola siciliana, lo studioso rileva come il lavoro lo abbia costretto a “interrogare ansiosamente intere legioni di morti, costringendo alcuni di essi a rivelarsi e a raccontare le proprie vicende”, mettendo le mani avanti rispetto a quanti si ritroveranno a giudicarne il valore con il ricordare loro “che cosa siano e quanto tempo costino le ricerche d’archivio, il cui risultato corrisponde quasi sempre in piccolissima parte alla quantità di energia e di lavoro che vi si sono spesi per eseguirle, prima, e per coordinare e conglutinare poi insieme il materiale raccolto”. Quasi una riflessione autocritica sull’opportunità di trascorrere la vita tra montagne di scartoffie.

Francesco Scandone. Biografia intellettuale e storico-critica di Mario Garofaloultima modifica: 2022-07-21T20:49:59+02:00da tradersimo
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