Montella negli anni tra le due guerre

Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali Montella costituì uno dei centri irpini più importanti ed evoluti, sede di Pretura, Ufficio delle imposte, Tenenza dei carabinieri, Guardia di finanza, Guardia forestale. Situata lungo la linea ferroviaria che collegava Avellino a Rocchetta Sant’Antonio e quindi a Foggia, essa era inoltre agevolata sia negli spostamenti che nei commerci, favorendo il treno il trasporto di carbone, legname, bestiame.

La maggior parte della popolazione lavorava nell’agricoltura e nella pastorizia, praticate in terreni appartenenti da sempre alle poche e privilegiate famiglie patrizie del luogo, residenti a Napoli o a Roma e che usavano trascorrere in tali proprietà campagnole il periodo estivo. La miseria era assai diffusa, costringendo molti a vivere di accattonaggio o ingegnandosi in qualche maniera: a cominciare dalla raccolta dei prodotti del bosco (fragole, mirtilli, funghi; oltre alla legna), che andavano a vendere alle famiglie più abbienti. La necessità li portava a darsi parecchio da fare, spesso tralasciando la cura della persona: tanto che alcuni di essi venivano indicati come “li scazzusi”, i cisposi. La povertà era responsabile anche dell’alto tasso di mortalità infantile: molti bambini morivano di stenti, di tifo o per mancanza d’igiene, crescendo in mezzo alle bestie.

I diritti dei lavoratori erano pressoché inesistenti: basti pensare a quanto accadeva alle puerpere. Prolungandosi il periodo dell’allattamento fino ai due e talvolta anche tre anni di età del bimbo, le braccianti erano costrette a portarsi dietro i figlioletti dentro una cesta di vimini issata sul capo, che poi veniva posata sull’erba, con tutti i rischi del caso: a cominciare dal morso della vipera. Altra categoria assai sfruttata era quella dei “mesaruli”, giovani lavoranti che da ogni parte d’Irpinia venivano a trascorrere a Montella l’intero mese di ottobre, ingaggiati dai proprietari terrieri per la raccolta delle castagne, che li vedeva impegnati dall’alba al tramonto. Dormivano dentro vecchie capanne, avvolti negli indumenti invernali per proteggersi dal freddo notturno; si lavavano con l’acqua dei ruscelli e mangiavano pane e companatico passati loro dai padroni. Un mese di duro sacrificio in cambio di un sacchetto di castagne, che per loro rappresentava comunque un bel compenso da portare a casa: tanto che per non rischiare di perderlo si prenotavano con i “signori” da un anno all’altro, prima di andarsene, contenti, con il sacchetto a tracolla.

Se la castagna – la “palummina”, per la sua forma assimilabile a una piccola colomba – era la regina dell’economia montellese, notevole era anche la produzione di noci, mele, ortaggi e latticini, la cui industria era favorita dall’abbondanza di latte garantita dagli allevamenti bovini ed ovini che popolavano le vaste praterie di Verteglia, ricche di sorgenti d’acqua. Sin dalla fine dell’Ottocento aveva inoltre avuto inizio il fenomeno dell’emigrazione verso le Americhe, che avrebbe visto formarsi comunità di montellesi soprattutto in Pennsylvania: al punto che a Norristown si festeggiava il SS. Salvatore.

La religione assumeva infatti nella vita del paese notevole importanza. Montella era divisa in “casali”, ciascuno dei quali disponeva di un asilo gestito dalle suore, appartenenti a due diversi ordini e che facevano capo rispettivamente ai conventi di S. Giovanni e di Garzano. Tali sedi rappresentavano anche dei punti di aggregazione per le ragazze, che sotto la guida delle religiose imparavano a cucire e ricamare – specie in prospettiva del corredo matrimoniale – oltre a esercitarsi nella preghiera e nel canto sacro. Completava il quadro delle congregazioni montellesi l’antico convento di S. Francesco a Folloni.

Oggetto della massima devozione popolare era il Santuario del SS. Salvatore, situato a quasi mille metri di altezza, raggiungibile mediante una mulattiera e che nel mese di agosto vedeva un ininterrotto pellegrinaggio di fedeli, dai quali era venerato come il protettore della vallata. Specie nei momenti più critici – come durante la guerra – era consuetudine che all’imbrunire dai vari paesi partissero gruppi di pellegrini, in modo da raggiungere il Santuario in tempo per la messa del mattino: intonando canti devozionali essi animavano la notte procedendo in direzione del ponte sul Calore che segnava l’inizio della mistica ascesa. Prima di entrare in chiesa i fedeli si toglievano le scarpe; nell’uscirne poi per non dare le spalle all’immagine sacra essi camminavano lentamente all’indietro, guardando la statua e cantando: “Statti buono Santissimo mio / l’anno che vene tornamo a venì / e se non ci verimo qua / ci verimo a l’Eternità”.

Particolarmente sentita era la festività della Pasqua: quella mattina, allorché le campane annunciavano la Resurrezione, tutti quanti si inginocchiavano e pregavano, ovunque si trovassero. Numerose le processioni, riguardanti sia l’intera comunità montellese che le singole parrocchie; per quelle più importanti (SS. Salvatore, Madonna delle Grazie, Corpus Domini) si usava cospargere il percorso di petali di rosa, con diverse donne che parevano vivere in funzione di questi eventi: non solo monache ma anche bigotte e zitelle. La sera del 2 luglio, per la festa della Madonna delle Grazie, venivano fatti i fuochi d’artificio.

Essendo l’automobile privilegio di pochissimi, i mezzi di locomozione restavano quelli animali: cavalli, muli, soprattutto somari. Il mezzo di trasporto più diffuso era il “traìno”, il carro attaccato al cavallo; c’erano “trainieri” di professione. Il cavallo veniva utilizzato dai carabinieri per i servizi di pattugliamento e perlustrazione delle montagne, a caccia dei malviventi rintanati nei boschi; così come dal medico condotto, Serafino Apicella, il quale conduceva personalmente la carrozza che gli consentiva di prestare assistenza anche fuori dal paese.

La comunicazione alla cittadinanza di notizie di rilevanza pubblica – a cominciare dalle delibere delle autorità – era affidata a un banditore che attraversava il paese richiamando l’attenzione con una trombetta e ripetendo in ogni strada l’avviso in dialetto, preceduto dalla formula: “Sintiti, sintiti!”. A lui spettava inoltre di annunciare le vendite straordinarie, indette dai negozianti allorché era rimasta loro invenduta una certa quantità di merce: si spargeva la voce e giungevano acquirenti anche dal circondario.

L’inverno era sempre rigido, caratterizzato da frequenti e abbondanti nevicate che costringevano gli abitanti ad aprirsi con la pala un passaggio avanti casa in modo da poter raggiungere il corso, alla cui spalatura provvedeva il Comune. In ogni caso le attività del paese – lavorative come scolastiche – non si interrompevano: la gente era preparata ad affrontare il freddo, ricorrendo a vari antidoti per combatterlo. Il primo era ovviamente rappresentato dal focolare; inoltre si aumentava la quantità del cibo, privilegiando gli alimenti più adatti alla stagione: zuppe, minestroni, stufati a base di carne di maiale, vegetali, frutta secca.

Le lunghe veglie davanti al camino – sul quale scoppiettavano le caldarroste – avevano quale argomento principale le storie di banditi, avendo il brigantaggio fatto epoca in Irpinia per tutto l’Ottocento. Mentre per far star buoni i bambini si ricorreva al “maranghino”, spiritello della tradizione fiabesca locale che veniva evocato anche per dissuadere i piccoli dallo sporgersi dalla finestra, esponendosi così alla rapacità del fantastico personaggio dalle lunghissime braccia che in un baleno li avrebbe afferrati e portati via.

Per Natale era usanza fare il presepe; le famiglie riunite giocavano a tombola. Assai sentito era l’arrivo degli zampognari, che attraversavano il paese suonando: per quanto breve, il loro passaggio risultava assai suggestivo, soprattutto per i più piccoli che erano i primi ad accorrere; la gente offriva loro cibo e denaro. La vigilia dell’Epifania i bambini mettevano sul letto la calza, nella quale al mattino trovavano dolciumi ma anche carbone, a seconda del comportamento tenuto durante l’anno.

Per quanto riguarda l’istruzione, come in tutto il Meridione anche a Montella restava assai diffuso l’analfabetismo, specie nelle classi più povere: esigenze familiari imponevano infatti di sottrarre i figli alla scuola per essere destinati al lavoro nei campi o a badare al bestiame. Firmare con la croce sarebbe perciò rimasto per quelle persone un segno distintivo per tutta la vita.

L’asilo si iniziava a frequentare a tre anni; la mensa delle suore passava soltanto la pietanza, per cui il secondo andava portato da casa. Alla scuola elementare l’insegnamento era affidato a giovani maestre del luogo, preparate e severe, che gestivano le cinque classi miste, assai numerose al punto di superare i cinquanta alunni ciascuna. Gli scolari indossavano un grembiule nero con il colletto bianco, il fiocco tricolore e cucito sulla manica il numero romano corrispondente alla classe frequentata. Nella cartella – fatta di cartone e con il manico di stagnola – si portavano il libro di testo, un quaderno a righe, un altro a quadretti, matita, gomma e penna, il cui pennino si intingeva nel calamaio posto al centro del banco. In pagella le valutazioni erano espresse in giudizi sintetici che andavano dall’“insufficiente” al “lodevole”. I giochi più diffusi tra i ragazzi erano il girotondo, nascondino, il gatto e il topolino, la settimana, la sentinella; la neve propiziava pupazzi e pallate; a casa si giocava a carte e a dama. Dal falegname ci si faceva fare il monopattino: di legno, a due rotelle, veniva lanciato mediante la spinta di un piede, tenendo l’altro sopra la tavola.

Pane e pasta venivano fatti in casa, al pari della conserva di pomodoro la cui lavorazione rappresentava un vero e proprio rito collettivo, finalizzato alla produzione di una scorta di bottiglie tale da durare fino all’estate successiva e che vedeva collaborare donne di diverse famiglie, passandosi da una casa all’altra; ciò per la centralità di tale condimento in diversi piatti della cucina campana: dalla carne alla pizzaiola, agli spaghetti, alla pizza. I pomodori prescelti erano quelli lunghi, che in agosto giungevano a piena maturazione; dopo averli lavati e disposti su un grande tavolo ci si spartivano i compiti: chi li affettava (facendone quattro pezzi in modo che passassero dal collo della bottiglia), chi li imbottigliava, chi aggiungeva sale e foglie di basilico, chi tappava la bottiglia, sigillandola con una legatura di spago a forma di croce a impedire lo spostamento del tappo e quindi il il passaggio dell’aria, che unito alla fermentazione del pomodoro avrebbe causato lo stappamento. Così confezionate le bottiglie venivano portate a bollitura nell’acqua di un pentolone e qui lasciate a raffreddarsi per una intera notte, per essere poi sistemate in cantine e soffitte; con il passare dei giorni di lavorazione se ne accumulavano oltre un centinaio, necessarie a soddisfare le esigenze di famiglie spesso numerose.

Lo smaltimento della spazzatura non prevedeva un servizio pubblico; di conseguenza non c’erano cassonetti né cestini lungo le strade. Del resto il trattamento di quelli che oggi vengono definiti “rifiuti” rifletteva la mentalità della civiltà contadina: gli avanzi del cibo spettavano agli animali domestici, mentre le parti non commestibili finivano in appositi fossi (ciascuno dei quali utilizzato da più famiglie) cui veniva dato fuoco allorché erano pieni. Bottiglie e contenitori di vetro non venivano buttati ma conservati in previsione dell’utilizzo successivo; al pari della carta, destinata all’accensione del camino.

La bella stagione vedeva le donne impegnate a lavare la biancheria nell’acqua del Calore: il tratto del fiume prescelto era quello a valle della cascata denominata “la Pelata”, dotato di massi lisci sui quali veniva insaponato il bucato, che dopo essere stato sciacquato veniva steso al sole sull’erba; c’erano anche lavandaie di professione, al servizio delle famiglie agiate. Per i bambini al seguito il tempo trascorso al fiume era l’occasione per fare merenda e giocare.

Riguardo al vestiario le prime sarte erano anche in questo caso le donne di casa, cui spettava la manifattura degli indumenti più semplici, a cominciare da calze e calzettoni; in paese operavano comunque sarti professionali e calzolai. Per le scarpe tuttavia le famiglie abbienti si rivolgevano a un artigiano di Nusco, Giuseppe De Mita, il grosso del cui lavoro era dovuto proprio ai rigori dell’inverno irpino, che faceva sì che soprattutto i ragazzi necessitassero ogni anno di scarponcelli nuovi. La sua visita acquistava una certa teatralità in quelle case in cui i figli erano più numerosi: lo “scarparo” li faceva schierare uno accanto all’altro in ordine d’età, prendendo loro le misure dei piedi che annotava segnandosi anche le preferenze di ciascuno: se alti o bassi, chiodati o meno. Era anche puntualissimo nella consegna: sia perché la scadenza scolastica del 1° ottobre non ammetteva deroghe, sia perché essendo il lavoro molto e il pellame utilizzato pregiato il suo compenso risultava piuttosto cospicuo.

Varie figure di ambulanti popolavano poi il “mercato” montellese, provenienti perlopiù dai paesi limitrofi e che riuscivano uno più pittoresco dell’altro. Con l’asinello stracarico di verdure si presentava il “broccolaio”;  con il carretto trainato dal somaro il “pezzaiuolo”, annunciandosi al grido di: “pezze vecchie, robba vecchia!”. In previsione dell’arrivo di quest’ultimo le famiglie mettevano via indumenti e stoffe in disuso – le “pezze” – che il rigattiere valutava offrendo in cambio merce nuova: piatti, tazze, bicchieri, formaggiere. La scelta per il baratto di questo genere di articoli non era casuale: all’epoca a Montella non esistevano negozi che li vendessero, per cui per acquistarli occorreva recarsi ad Avellino. Altro personaggio caratteristico era il venditore di calze, cotone, bottoni, aghi, la cui merceria ambulante era costituita dalla cassetta che portava sulle spalle, composta di tanti piccoli cassetti, e il cui richiamo era: “cazette e cazettini!”. Infine l’arrotino, dalla caratteristica bicicletta che costituiva il suo banco da lavoro mobile, per la periodica affilatura di coltelli e forbici che dovevano anch’essi durare negli anni.

Ma la figura più folkloristica e popolare, specie tra i bambini, era sicuramente la lupinara, un’anziana montellese che vendeva i lupini da lei stessa preparati, e che attraversava il paese portando sulla testa la “mina”: un recipiente di legno, dalla forma di una cesta, la cui pressione sul capo era attutita dall’interposizione del “truocchio”, uno straccio arrotolato. Appena la sentivano annunciarsi (“la lupinara, la lupinara!”) i piccoli accorrevano porgendole una monetina e ottenendo in cambio “’no coppetiello”: un involtino di carta gialla come i legumi contenuti e che la donna cavava dalla mina per mezzo di un piccolo mestolo. A rendere simpatici questi personaggi era anche il fatto che la loro presenza era legata alla bella stagione: nel lungo periodo invernale non si vedevano.

D’estate non poteva mancare la gita a Verteglia, per godere del verde dei prati e bere l’acqua purissima delle fonti. I più intraprendenti si cimentavano nell’ascesa al monte Terminio, dalla cui vetta si godeva un panorama incomparabile, con la suggestiva visione dei due golfi, di Napoli e Salerno. Data la lunghezza del percorso occorreva organizzarsi, pernottando al rifugio di Verteglia: anche perché, oltre alla speranza di imbattersi in una giornata sufficientemente limpida, bisognava essere in cima per l’alba, prima che la luce del sole offuscasse la vista.

Anche a Montella l’avvento del regime fascista incise pesantemente sulla vita sociale. La Casa del Fascio fu insediata nella piazza principale, dalla quale si dipartiva corso Umberto I che scendendo verso il Calore tagliava in due il paese; giusto a metà del corso si trovava uno slargo dalle interessanti vicissitudini storiche, scelto negli anni Trenta per collocarvi un busto marmoreo di Arnaldo Mussolini. In origine quello spiazzo veniva popolarmente indicato come “Nanzi corte”: questo perché in epoca borbonica vi si riuniva la Corte giudicante chiamata a processare i malfattori. Si narra che in caso di condanna a morte i criminali – perlopiù briganti – venissero immediatamente giustiziati e i cadaveri gettati in un profondo pozzo situato “Arreto corte”: terminologia comunque sopravvissuta all’Unità d’Italia tanto da far denominare il luogo come “piazza Avanti Corte”. A completarne la fascistizzazione il regime la ribattezzò “piazza 28 Ottobre”.

A scuola l’aspetto ideologico era centrale. Alle elementari la maestra indossava un grembiule nero con sul petto la M di Mussolini; all’inizio delle lezioni attendeva in classe gli alunni, i quali nell’entrare erano tenuti a rivolgerle il saluto fascista. La didattica era fondata sul trinomio “Dio Patria Famiglia” e scandita dal canto degli inni del regime; quando poi giungeva a Montella un esponente di rilievo del partito la scolaresca si recava ad ascoltarne il discorso che inevitabilmente iniziava con il “saluto del Duce” al paese. In occasione delle periodiche visite del Federale di Avellino tutto il corso era affollato, pavesato e scandito dagli striscioni che celebravano la dittatura.

Il podestà di Montella, Vincenzo Bruni, si adoperò molto sia per l’illuminazione pubblica che per l’approvvigionamento idrico, promuovendo a tale scopo l’acquedotto “Alto Calore”. Si deve a lui se le strade principali furono dotate di lampioni e se in ogni parte del paese sorsero fontanelle, in modo che tutti avessero l’acqua; tanto gli uni quanto le altre recavano il segno del fascio littorio. Lo stesso simbolo campeggiava sul ponte sul Calore costruito dal regime all’inizio della strada che sale al SS. Salvatore: il cosiddetto “ponte del fascio”.

Dopo che il governo ebbe lanciato la “campagna demografica” non pochi furono i coniugi che vi aderirono, anche per i vantaggi economici che se ne ricavavano; con casi di genitori che, pur avendo già diversi figli, si rimisero all’opera per ampliare ulteriormente la famiglia. Una volta ultimata la prole, ci si recava a farsi immortalare dal fotografo De Simone per poi inviare al Duce la solenne foto della perfetta famiglia fascista, nella quale era d’obbligo sfoggiare per i padri l’uniforme militare e per i figli le divise che scandivano le varie fasi della “gioventù littoria”.

Gli anni di maggior consenso della dittatura videro la diffusione anche a Montella dei suoi due principali strumenti di propaganda: il cinema e la radiofonia. Il primo sorse grazie all’intraprendenza commerciale della famiglia Fierro; la seconda fu inizialmente prerogativa delle sole famiglie benestanti. Un fenomeno curioso si verificava in occasione dei discorsi di Mussolini: aperta la finestra, quanti possedevano l’apparecchio ne alzavano il volume in modo che si sentisse anche da fuori. All’udire l’inconfondibile voce erano allora in tanti ad accorrere, non limitandosi ad ascoltare ma anzi sottolineando i passaggi salienti applaudendo e inneggiando. La stessa piazza 28 ottobre si trasformava così in un teatro: e data l’atmosfera che si creava pareva quasi di trovarsi a piazza Venezia.

Anche per il fatto di essere stato Mussolini bersagliere, e avendo molti montellesi militato e combattuto in quel Corpo, nelle occasioni ufficiali costoro indossavano orgogliosamente la vecchia divisa: come per le grandi manovre che nell’estate ‘36 videro presenti sia il capo del governo che il re a Verteglia e nella Piana di Volturara. Per recarvisi essi transitarono da Montella: a memoria dell’evento sulla facciata degli edifici lungo il corso furono apposte scritte celebrative.

A Montella finirono anche alcuni confinati, alloggiati in stanze messe a disposizione dalle famiglie abbienti. Uno in particolare acquisì una certa notorietà: un insegnante del Settentrione, il professor Fermo, benvoluto e ossequiato da tutti anche per il fatto che aiutava disinteressatamente negli studi molti ragazzi. In paese esistevano inoltre focolai di antifascismo, inizialmente isolati ma destinati ad accrescersi a seguito dell’andamento disastroso della guerra.

Il periodo compreso tra la caduta del regime e l’arrivo delle truppe alleate fu per Montella fra i più travagliati della sua storia. Le disparità sociali, l’ancestrale sfruttamento esercitato dalle poche famiglie di possidenti sulla gran parte della popolazione, la fame e la miseria moltiplicatesi a causa del conflitto fecero sì che all’anelito egualitario si unisse lo spirito vendicativo, con esiti sovversivi che, se non conobbero eccessi delittuosi quali quelli verificatisi a Calitri, procurarono comunque al paese diversi momenti di tensione. Protagonista della rivolta fu una schiera di nullatenenti, per la maggior parte braccianti e analfabeti, i quali identificarono nei simboli della dittatura gli emblemi di una società da abbattere.

Nell’anarchia seguita al crollo del regime costoro, dopo essersi impossessati del municipio, si diressero verso la Casa del Fascio, devastandola e gettando dalle finestre ogni cosa; tra gli spettatori dell’assalto vi fu anche chi ne approfittò per arricchire la libreria di famiglia, portandosi a casa pubblicazioni che celebravano le realizzazioni del decaduto governo. Una brutta fine fece anche il monumento ad Arnaldo Mussolini, fatto saltare in piena notte con una carica di dinamite, la quale mandò in frantumi i vetri delle case circostanti. Per diversi giorni la turba imperversò per il paese, al canto di Bandiera rossa, tra ruberie, devastazioni e minacce di morte nei confronti di quanti apparivano più compromessi con il fascismo. Alle famiglie oggetto di tali intimidazioni non rimase che tapparsi in casa; anche i parroci dovettero guardarsi le spalle.

Al pari dei compagni calitrani i contadini che lavoravano le terre dei “signori” ne assaltarono le proprietà, spogliandole di ogni bene; l’episodio più significativo riguardò uno dei più pregevoli palazzi patrizi del paese, appartenente alla famiglia Abiosi, in quel momento disabitato. Dal municipio i giacobini montellesi armati di forconi partirono alla volta del palazzo, sfondandone il portone per mezzo di un grosso tronco d’albero e al grido di: “Dobbiamo prenderci tutto! Ci sfruttate da una vita, ladroni!”.

I bombardamenti che nel ‘43 misero in ginocchio la Campania toccarono Montella solo di riflesso: dalla martoriata Napoli in particolare giungevano camion carichi di sfollati, che venivano alloggiati nelle case vuote. La situazione rischiò tuttavia di farsi critica dopo che i tedeschi ebbero fatto del SS. Salvatore la roccaforte del fronte interno: bombardieri alleati presero allora a sorvolare anche questa parte d’Irpinia, sganciando in un paio di occasioni delle bombe che tuttavia non centrarono abitazioni ma caddero in aperta campagna. Buona parte dell’estate fu comunque trascorsa dalla popolazione nei boschi; quelle poche famiglie che possedevano una casa in collina vi si rifugiarono.

I giorni intercorsi tra lo sbarco di Salerno e la liberazione furono per l’Irpinia i più tribolati, divenendo essa teatro del braccio di ferro fra tedeschi e Alleati. Un primo tentativo di questi ultimi di scardinare le retrovie nemiche per mezzo di un lancio notturno di paracadutisti non ebbe successo: dispersi per le varie località in cui erano atterrati, a quei militari non rimase che darsi alla macchia o ricorrere all’aiuto della gente.

Due di essi, presa terra Avanti corte, andarono a bussare a una casa facendo capire a chi andò ad aprire della loro necessità di mangiare. Immediatamente la famiglia che vi abitava mise a loro disposizione la cucina; gli ospiti tuttavia si limitarono a indicare una delle pentole attaccate alla parete, facendo intendere che non avevano bisogno di cibo. Dal loro zaino venne fuori una confezione di strani cubetti: si trattava di dadi da brodo, da noi ancora sconosciuti. Anche in considerazione della loro gentilezza – tutto parevano meno che dei nemici – il padrone di casa pensò di arricchirne il pasto con vino, affettati, formaggio; al che i due americani ricambiarono offrendo barrette di cioccolato, latte e cacao in polvere, una confezione di tè, scatolette di pesce, oltre agli stessi dadi. Dopodiché si congedarono.

Al mattino sulla piazza furono trovati i due paracadute: l’azzurro della cui seta pura offrì alle ragazze l’occasione per cucirsi i vestiti più vari. Altri ne furono rinvenuti nei pressi del convento di S. Francesco, propiziando così ai frati un elemento di decorazione per le festività natalizie degli anni a venire: una delle tele fu infatti utilizzata per raffigurare il cielo nel grande presepe che essi solevano allestire.

Dal canto loro i tedeschi non smisero di tenere il paese sotto controllo, mediante un servizio di ronda: e quando si recavano nelle case prescelte non restava che accoglierli con il rituale “Heil Hitler!” e usare la massima deferenza. Prima che la situazione precipitasse gli occupanti, mirando a una convivenza pacifica con la cittadinanza, le avevano portato rispetto, manifestando anche una certa generosità: in particolare, la volta che un treno destinato al rifornimento delle truppe era rimasto bloccato nella stazione montellese a causa dei bombardamenti alla linea ferroviaria, il comando germanico aveva acconsentito a che parte del carico alimentare venisse distribuita tra la gente affamata. Ma il susseguirsi delle sconfitte e l’approssimarsi della ritirata ne fomentarono la barbarie, culminata nel brutale assassinio dei fratelli Pascale, trucidati soltanto per avere difeso il proprio cane dalla violenza dei soldati. Nel timore di una rappresaglia ancor più grave tutti gli abitanti della zona in cui era avvenuto il fatto corsero a rifugiarsi in montagna, ben sapendosi della terribile “legge del taglione” che puniva gli attentati contro i militari tedeschi; fortunatamente la Kommandantur considerò l’episodio per quello che era stato, senza attuare ulteriori ritorsioni.

Alla ritirata tedesca fece seguito l’arrivo degli Alleati: prima i carri armati e poi i camion, dai quali i militari statunitensi, nel transitare lungo il corso, lanciavano alla gente buste di caramelle e gomme da masticare, cioccolatini, confezioni di cacao e latte in polvere, scatolette di carne, sigarette, calze di nylon. Beneficenza che non avrebbe potuto esemplificare meglio il contrasto fra la condizione dei vincitori, ben vestiti e pasciuti, e quella della popolazione ormai ridotta allo stremo. Con la liberazione ebbe inoltre termine ogni conato rivoluzionario.

Se per la generalità dei montellesi la fine della guerra rappresentò un momento di gioia dopo tutti i patimenti e le restrizioni subiti, essa non lenì certo l’angoscia delle tante famiglie in attesa del ritorno dal fronte dei propri cari; su questo punto il destino non si risparmiò, dando vita a casi talmente fortunati da apparire persino miracolosi assieme ad altri oltremodo pietosi. Alla prima categoria appartiene senz’altro la sorte di un capitano di stanza in Sicilia al momento dello sbarco degli Alleati, e la cui compagnia aveva subito gravi perdite, come comunicato dalla radio. Non avendosene avuto più notizia per oltre due mesi, tutti quanti lo avevano dato per morto; finché, pochi giorni dopo la liberazione, i familiari non se lo videro ricomparire davanti, sfinito e pieno di polvere, in un misto di incredulità e gioia che in breve contagiò tutto il paese, con un’interminabile processione di gente che veniva a felicitarsi. Il redivivo raccontò di come, al momento dell’intenso cannoneggiamento nemico, una parte del contingente fosse finita in un avvallamento del terreno, destinato a rappresentare per quei pochi fortunati la salvezza. Dopodiché aveva avuto inizio la sua odissea per tornare a casa, muovendosi a piedi, cibandosi come poteva, nascondendosi a ogni avvisaglia di pericolo e dopo l’8 settembre dovendosi guardare soprattutto dai tedeschi, alla cui rappresaglia si era sottratto indossando abiti civili.

Dall’altra parte le tristi vicende di quelle famiglie che aspettarono invano il ritorno dei congiunti, morti chissà da quanto tempo eppure attesi anche oltre la fine della guerra. Particolarmente strazianti i casi di certe mamme incapaci di rassegnarsi all’evidenza, le quali continuarono a trascorrere le loro giornate dietro i vetri della finestra, nella speranza di veder riapparire il figlio: tra queste Angelina Palatucci, madre di quel Giovanni che da funzionario della questura di Fiume aveva privilegiato le ragioni umanitarie rispetto a quelle imposte dalle leggi razziali naziste, tanto da finire internato nel campo di concentramento di Dachau nel quale avrebbe trovato la morte. La famiglia Palatucci aveva dato alla Chiesa diversi prelati, fra cui Ferdinando, parroco a Montella in S. Pietro e insegnante di religione alle scuole medie, quindi vescovo.

Al termine del conflitto la guida del Comune finì saldamente nelle mani dei comunisti. Mentre il nome di corso Umberto I non fu cambiato, quello di piazza 28 Ottobre subì un’altra variazione, venendo intitolata a Giacomo Matteotti; ma nella parlata della gente lo slargo mantenne il nome che non aveva perduto neppure nel corso del Ventennio: “Nanzi corte”.

Temendo che anche a livello nazionale potessero prevalere le sinistre, la maggior parte di quanti erano stati fascisti aderì alla Democrazia Cristiana. Nel ‘46, per le elezioni all’Assemblea Costituente, il solito balcone dal quale venivano irradiati i discorsi del Duce fu offerto al candidato democristiano Salvatore Scoca: piazza Matteotti si riempì così di gente venuta anche dal circondario che cantava O bianco fiore.

La piazza continuava a giocare un ruolo centrale nell’economia del paese anche dal punto di vista sportivo: liberata del monumento fascista, e non disponendo ancora Montella di un campo di calcio, essa fu deputata a ospitare le partite amatoriali che vedevano fronteggiarsi improvvisate formazioni locali, tipo studenti contro operai. Tracciati i limiti del campo e sistemati da una parte e dall’altra dei pali a formare le porte, le due squadre si affrontavano ciascuna nella propria divisa, nel pieno rispetto del regolamento e quindi in due tempi di 45’ ciascuno, con tanto di arbitro. Gli incontri appassionavano i paesani, al punto da determinare un clima da stadio: tutt’attorno era la gente assiepata a fare il tifo, e anche quanti risiedevano nelle case circostanti facevano la loro parte dalle finestre.

Quali vestigia del Ventennio restavano gli slogan impressi a inchiostro indelebile sugli edifici del corso e il fascio che ne marchiava i lampioni. Quando per questi ultimi giunse il momento della rottamazione, fu il priore di S. Francesco, Padre Silvio Stolfi, a richiederli per destinarli all’illuminazione del viale che conduce al convento.

Un curioso fenomeno diffusosi negli anni dell’immediato dopoguerra fu quello delle vacanze a scopo matrimoniale, per certi aspetti complementare al Piano Marshall venendo incentivato dal governo americano allo scopo di ricucire le ferite causate dal conflitto. Dagli Stati Uniti donne nubili e non più giovanissime venivano a trascorrere le vacanze estive nel Sud Italia allo scopo di trovare marito. Molte di esse erano di origine italiana e venivano spinte a quel passo dai parenti, come in un passaparola: anche gli scapoli montellesi finirono così nel mirino di queste zitelle d’oltreoceano.

Nonostante tutto l’impegno profuso nell’ambito pedagogico, il regime fascista non era riuscito a estendere l’istruzione di base all’intera popolazione: anche a Montella furono istituiti dei corsi serali rivolti agli adulti per il conseguimento del diploma elementare. Avendo l’emigrazione ripreso nuova lena data la mancanza di prospettive lavorative in un Paese distrutto qual era l’Italia, a molti di quegli studenti il diploma serviva proprio per andare a lavorare all’estero. Pur rimanendo gli Stati Uniti la meta privilegiata, ci si indirizzò anche verso la Svizzera, il Canada, il Sud America, l’Australia: molte valigie di cartone furono vendute a Montella in quegli anni. I più fortunati sarebbero riusciti a tornare al paese ancora in età utile per aprirvi, con il gruzzolo messo da parte, un’attività.

Vi furono anche famiglie contadine che si trasferirono al Nord, in particolare in Toscana, per rilevare poderi rimasti vacanti. Il momento della partenza riusciva particolarmente commovente, soprattutto da parte dei più anziani, legati visceralmente alla propria terra: dopo essersi congedati da amici e parenti, tra scene di lacrime e abbracci rese ancor più patetiche dal fatto di essere vissute come fosse un addio, e nominando l’ignota località di destinazione con un senso di smarrimento e di angoscia, se ne andavano assieme alle povere masserizie rurali a bordo di malandati camion abbandonati dall’esercito americano e rimessi in sesto da qualche paesano per dedicarsi all’attività di trasportatore. In effetti i più vecchi tra quegli emigranti non avrebbero fatto più ritorno a Montella.

Montella negli anni tra le due guerreultima modifica: 2022-09-07T21:09:30+02:00da tradersimo
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