Uno cretina

L’episodio avvenuto lo scorso 3 agosto durante la trasmissione del Tg1 Uno mattina pone dei seri problemi sul modo in cui vengono gestiti certi programmi del servizio pubblico. Nell’ambito della programmazione Rai Uno mattina vorrebbe essere un rotocalco teso a illustrare l’attualità dando ampio risalto alla rassegna stampa e discutendo le principali notizie del giorno con l’ausilio di ospiti, non disdegnando approfondimenti culturali e di costume, ma senza scadere nel gossip: insomma un programma rivolto a un pubblico prevalentemente tradizionale, che predilige un’informazione anche leggera ma seria.

Senonché nella puntata in questione si è verificato uno scivolone la cui gravità – per quanto il fatto sia stato ampiamente riportato e commentato dai media – non è stata a nostro avviso colta appieno. La discussione verteva sull’articolo pubblicato da “Repubblica” Laziale o romanista, il mistero buffo del cuore di Giorgia Meloni, nel quale l’ipermilitante quotidiano romano, allo scopo di mettere in cattiva luce la presidente di Fratelli d’Italia (e non trovando evidentemente niente di meglio per screditarla), si attaccava a un cambio di fede calcistica che sarebbe stato da lei effettuato in passato e che veniva assunto quale “rivelatore e metro di misura della coerenza o dell’opportunismo” della stessa.

Proprio per la Meloni, così impegnata nell’accreditarsi come leader di una destra moderna, europea e aliena da ogni estremismo, la questione acquista una certa rilevanza: perché mentre al tifoso della Roma non viene associata alcuna particolare tendenza ideologica, quello della Lazio viene comunemente identificato con la destra più “nostalgica”. Per intendersi, potrà convenire professarsi laziale a un candidato romano che aspiri a fare il pieno dei voti dei simpatizzanti di quella squadra; assai meno a un leader intenzionato a guidare un partito – se non una coalizione – alle elezioni politiche: anche perché a livello nazionale il numero dei tifosi giallorossi supera di gran lunga quello dei “cugini” biancocelesti. Ma il pezzo aveva anche un altro obiettivo, quello di mettere in discussione la coerenza della Meloni: la quale per tutto il corso della XVIII legislatura ha fatto della fedeltà agli impegni presi con gli elettori nel 2018 il proprio cavallo di battaglia, non seguendo gli alleati Lega e Forza Italia nei governi sostenuti assieme a Movimento 5 Stelle e Partito democratico e rifiutandosi di unirsi a loro anche sulla rielezione di Mattarella al Quirinale.

Che “Repubblica” avesse quale principale obiettivo della propria campagna elettorale quello di delegittimare la candidatura della leader del centrodestra a Palazzo Chigi lo si era capito fin dall’inizio, allorché quello che un tempo veniva considerato come il giornale dei “radical chic” aveva pubblicato in prima pagina una foto della stessa Meloni che più che illustrare l’argomento dell’articolo che la riguardava pareva voler fare concorrenza, per volgarità e allusività, alla copertina di un disco degli Squallor. Già questo avrebbe dovuto indurre i responsabili di Uno mattina a prendere con le molle tutto quanto proposto sul tema dal quotidiano romano, alla cui conclamata faziosità era stato evidentemente impresso un ulteriore giro di vite in vista delle elezioni, con la presumibile costituzione di un apposito gruppo redazionale incaricato di scavare nel passato della leader di FdI alla ricerca di episodi screditanti, imbarazzanti o comunque contraddittori rispetto al suo presente. Non solo ciò non è avvenuto: si è anzi assistito alla trasformazione della trasmissione della Rai nella migliore cassa di risonanza dell’antimelonismo.

Ora se certe strumentalizzazioni sono legittime in una testata privata, esse non possono essere ammesse in un programma del servizio pubblico, pagato con i soldi dei contribuenti e le cui principali prerogative dovrebbero essere serietà, sobrietà e – più che mai a poche settimane dal voto – imparzialità. Fra l’altro non si trattava di una notizia inerente uno dei temi della campagna elettorale; ma neppure la si poteva considerare come una nota di costume, non intendendosi discutere in generale dei rapporti tra politica e tifo calcistico ma dell’asserito cambiamento di bandiera attuato dalla politica romana, consumatosi peraltro parecchio tempo addietro. Ciononostante il (tardivo) pettegolezzo è stato elevato a notizia del giorno; ma anche la scelta dell’ospite in studio fa pensare.

Ad illustrare il maldestro argomento non è stato infatti invitato un sociologo, un politologo, uno studioso di psicologia delle masse, bensì un giornalista sportivo: il condirettore del romano “Corriere dello Sport”, Alessandro Barbano. Al quale tuttavia la conduttrice Elisa Anzaldo si è rivolta come se avesse di fronte uno dei citati scienziati, dal momento che gli ha domandato quanto pagasse in politica la scelta di una fede calcistica piuttosto che un’altra: al che è apparsa evidente la piena adesione della conduttrice alla tesi sostenuta da “Repubblica”, secondo la quale la presunta conversione meloniana non sarebbe derivata tanto da un romantico palpito del cuore quanto da un interessato calcolo politico.

Senonché la conclusione del duetto ha tolto ogni dubbio circa lo scopo della discussione. “Probabilmente in politica la fede calcistica qualcosa conta, perché su questo sono molto cauti i politici. Ma devo dirti però – e qui faccio una professione di sincerità – che io nel 1989 ero milanista: ma poi ho conosciuto Maradona e mi sono innamorato del Napoli. Voglio dire: se peccato è, in questo caso non è il peggior peccato di Giorgia Meloni”, ha risposto l’ospite sconfinando palesemente nel giudizio sulla persona e quindi sulla politica. “Ce ne sono tanti altri”, ha concluso compiaciuta la Anzaldo, con un sorriso sarcastico. Logico a questo punto supporre che il siparietto fosse stato architettato proprio per giungere alla sentenza finale: né sociologica, né politologica, tanto meno sportiva ma semplicemente infamante nei confronti della presidente di FdI. Per rimanere nell’ambito calcistico, l’impressione è stata che la conduttrice fosse andata a scegliersi il rifinitore più adeguato a servirle l’assist che le consentisse di andare in rete.

Alle inevitabili polemiche sollevate dal centrodestra la giornalista ha reagito guardandosi bene dal riconoscere la gravità dell’abuso commesso ma anzi adducendo delle giustificazioni che, oltre a suonare come un’offesa all’intelligenza di chi ha assistito alla trasmissione, rafforzano l’ipotesi della malafede. “Mi rendo conto che una battuta venuta male sta dando spazio a interpretazioni distorte del mio pensiero. Nella conversazione ho chiosato sulla metafora calcistica ma il risultato finale è stato diverso da quello che avrei voluto. Nelle mie intenzioni parlavo ancora di calcio”. Scusanti che non reggono, per vari motivi: più che di una battuta si è trattato di una stilettata, inferta dopo che Barbano con quella conclusione a dir poco corsara del suo ragionamento non aveva fatto altro che offrire il destro alla collega; non si è usata alcuna metafora ma si è esplicitamente parlato della Meloni quale portatrice di plurimi “peccati”; oltre alle parole anche il tono usato dalla Anzaldo era chiaramente denigratorio, e dunque indicativo di un “pensiero” così esplicito da non necessitare di alcuna “interpretazione”.

Oltretutto la lunghissima esperienza in Rai avrebbe dovuto suggerire alla giornalista ben altro contegno e professionalità, e specie nell’ambito di una campagna elettorale. La vicenda diviene poi paradossale se si pensa che nel 2011 la stessa Anzaldo ebbe a lasciare la conduzione del Tg1 in polemica con il direttore Minzolini, accusato di violare i più elementari doveri dell’informazione pubblica quali equilibrio, correttezza, imparzialità: ossia quei principi da lei stessa così platealmente calpestati 11 anni dopo.

Tuttavia nel commentare l’accaduto ci si è generalmente concentrati sull’infelice uscita della conduttrice, tralasciando il resto: ossia il fatto che tutta quella parte di trasmissione era stata congegnata in una determinata maniera, non solo nella scelta dell’argomento ma anche in quella dell’ospite, tanto da avvalorare il sospetto che il “risultato finale” non sia stato altro che la logica conclusione di un disegno prestabilito. Per cui il problema non potrà risolversi con la mera sospensione di una dipendente comportatasi scorrettamente: perché è evidente come nel caso in questione altri responsabili del programma siano stati coinvolti nella pianificazione di un “colpo” che non sarebbe potuto finire diversamente, date le premesse, e senza che nessuno muovesse un dito.

Neppure potrà essere sufficiente un richiamo alla Rai da parte dell’Autorità di garanzia e finalizzato alla tutela della correttezza delle trasmissioni nel periodo elettorale. Occorrerà piuttosto rivedere profondamente l’assetto dell’informazione pubblica in modo che venga affidata a professionisti onesti, indipendenti e soprattutto consapevoli del fatto che lavorare per lo Stato – e dunque mettersi al servizio di tutti i cittadini – comporta la rinuncia a ogni personalismo: chi vuole fare propaganda, la faccia altrove.

Uno cretinaultima modifica: 2022-09-07T21:21:51+02:00da tradersimo
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