La pietà della Garfagnana

Terra religiosa per eccellenza, la Garfagnana non ha mai perso occasione per manifestare la sua innata pietas: anche a costo di andare controcorrente rispetto alla tendenza caratterizzante il resto della Toscana. Ci riferiamo in particolare all’atteggiamento assunto dinanzi ai militari della Repubblica sociale italiana caduti nelle sue montagne per difendere il suolo della Patria nel periodo della Linea Gotica: in questo caso il precetto di onorare i defunti a prescindere dallo schieramento di appartenenza ha prevalso su ogni altra considerazione. L’ideologia, che pretenderebbe di imporre discriminazioni tra una vittima e l’altra in nome di preconcette linee di demarcazione tra bene e male, ha qui lasciato il posto alla pietà, sentimento profondamente cristiano e valore universale di civiltà e umanità.

Il nostro viaggio in questa parte di Toscana “diversa” non parte tuttavia dalla Garfagnana ma da una terra altrettanto apuana, l’Alta Versilia, e segnatamente dal paese di Retignano, unica località in Italia ad avere conservato in toto la toponomastica attribuitale dal regime fascista: “via 28 ottobre”, “via Littoria”, “via Impero”, “via 11 febbraio”. La cosa apparirà ancor più incredibile se si considera il fatto che Retignano fa parte del comune di Stazzema, straziato come nessun altro in Toscana dal nazifascismo con la strage di Sant’Anna; il che non impedì tuttavia ai suoi abitanti di rapportarsi sin da subito alla guerra e al periodo cui essa aveva posto termine con un atteggiamento improntato, oltre che alla ragionevolezza, alla pacificazione nazionale, specie da queste parti fortemente compromessa da quanto accaduto durante l’occupazione tedesca.

In quel frangente anche Retignano aveva avuto i suoi fatti di sangue. Il fatto che nella primavera del 1944 i tedeschi non avessero ancora preso possesso della Linea Gotica provocò un braccio di ferro tra le forze della RSI e quelle della resistenza, imbaldanzite dall’andamento della guerra nel Meridione e convinte di poter chiudere la partita prima dell’inverno; di riflesso, la consapevolezza dell’approssimarsi della sconfitta inasprì l’atteggiamento dei repubblichini. Secondo la versione che dell’episodio diedero gli antifascisti, il segretario del Fascio retignanese Eugenio Bazzichi (un commerciante che le testimonianze ci presentano come generalmente benvoluto dai paesani) avrebbe deciso di dare una lezione a un oppositore del regime costretto a letto dalla malattia e del quale si conosce solo il cognome: Turba. Probabilmente si sarebbe dovuto trattare soltanto di un’azione dimostrativa; ma la situazione sarebbe sfuggita di mano al capo della spedizione, al punto che per l’infermo le conseguenze dell’aggressione si sarebbero rivelate letali.

Subito i partigiani della zona organizzarono la vendetta: la quale fu portata a compimento una notte di maggio, allorché il Bazzichi fu freddato mentre, udito bussare alla porta e compreso chi fossero i visitatori, tentava di fuggire calandosi dalla finestra posta sul retro. Retignano fu salvato dalla rappresaglia da una serie di circostanze: immediatamente dopo il fatto gli uomini della Misericordia diedero l’allarme suonando le campane della chiesa; molti paesani accorsero alla casa della vittima, in segno di solidarietà; la vedova sottolineò dinanzi alle autorità il valore di tali gesti, i quali testimoniavano dell’estraneità del paese al delitto, peraltro confermata dalla massiccia partecipazione ai funerali del segretario repubblichino.

Una sensibilità tutta particolare i retignanesi mostrarono sin dalla fine del conflitto, allorché si discusse dell’opportunità di affiancare alla targa che ricorda i Caduti della Grande guerra una che commemorasse i morti di quella appena conclusa. Il lungo dibattito non riuscì tuttavia a sanare la spaccatura prodottasi nel paese, una parte del quale proponeva una soluzione egualitaria, che privilegiasse le ragioni della pietas dinanzi alla Morte, superando ogni discriminazione di natura ideologica o comunque legata a odio o rancore: riportarvi i nomi di tutti quanti avevano perso la vita per cause belliche. Con ragioni altrettanto comprensibili vi fu però chi si oppose a una simile equiparazione, facendo notare l’inopportunità di mescolare i nomi dei fascisti con quelli di quanti, direttamente o indirettamente, proprio per colpa del fascismo avevano trovato la morte: in un certo senso sarebbe stato come mettere sullo stesso piano vittime e carnefici (per quanto poi a loro volta vittime). Per non aggiungere alle ferite lasciate dalla guerra un ulteriore motivo di contrapposizione, fu alfine deciso di non mettere alcuna targa.

Più pacifica si rivelò la questione legata alla toponomastica: il pragmatismo tipico della gente di queste montagne – da sempre abituata a lavorare duramente e a non perdersi in ciance – fece sì che alle vie del paese fossero lasciati i nomi assegnati loro dalla dittatura, che a quegli impervi sentieri e mulattiere aveva dato dignità di strade sistemandoli e denominandoli. Si tratta in realtà – come per ogni borgo arroccato – di vie piuttosto strette, funzionali al passaggio di bestiame e carri agricoli piuttosto che di autoveicoli: ed è forse per questo che non vi sono cartelli a contrassegnarle, esattamente come prima dell’avvento del regime; i loro nomi appaiono invece sui numeri civici delle case.

L’unica targa stradale che troviamo in paese è perciò quella che campeggia nella piazza principale, intitolata a Padre Marcello Verona, giovane sacerdote carmelitano retignanese che il 12 agosto ‘44 si trovava a Valdicastello, presso il cui ospedale era ricoverato il padre. Anche il Verona fu vittima del rastrellamento nazifascista che quel giorno si accompagnò alla strage di Sant’Anna: internato dalle SS a Massa, fu fucilato dopo un mese di torture. La nuova denominazione di quella da sempre indicata come piazza della Signoria è intervenuta mezzo secolo dopo l’assassinio di Padre Marcello (per iniziativa non del Comune ma di un parente del religioso), ponendo peraltro fine a un’altra discussione: in paese era infatti anche chi, rifiutando la vulgata che del delittuoso episodio che lo aveva visto protagonista aveva offerto il fronte antifascista, avrebbe ritenuto il non dimenticato Bazzichi altrettanto meritevole della dedicazione.

La scelta di privilegiare la memoria del Martire carmelitano appare come la più accorta, sia onorando una vittima retignanese della barbarie abbattutasi su Stazzema quel maledetto giorno, sia perché viene in qualche modo a bilanciare l’intatta fascisticità del resto della toponomastica: dedicare la piazza al Bazzichi avrebbe rischiato di fare di Retignano un baluardo del nostalgismo tale da far concorrenza allo stesso Predappio.

Riprendiamo la provinciale in direzione di Castelnuovo, seguiamo le indicazioni per Careggine e armiamoci di tanta buona volontà, perché non sarà facile individuare il luogo in cui sorge il monumento che rende omaggio all’eroe della Divisione Alpina “Monterosa”: il sottotenente Paolo Carlo Broggi. Classe 1923, di origine romagnola, a 17 anni Broggi si era arruolato volontario nella “Monterosa”, distinguendosi per il suo valore sin dalla campagna di Grecia. Con la costituzione della RSI anche gli Alpini furono chiamati a un periodo di addestramento in Germania, culminato nel giuramento avvenuto alla presenza dello stesso Mussolini e nel corso del quale, in veste di alfiere della divisione, Broggi ebbe a pronunciare le parole che ne avrebbero segnato il destino: “L’Italia può fare a meno di me, non del mio onore”.

Per quanto riguarda il settore garfagnino, nell’autunno ‘44 la Linea Gotica seguiva la direttrice che va dal Cinquale al Passo delle Radici. Il 28 ottobre all’interno dello schieramento difensivo si ebbe un cambio della guardia: mantenendo il controllo del solo tratto occidentale apuano, i tedeschi affidarono ai nostri alpini, e segnatamente al Battaglione “Intra”, la difesa di quello interno, compreso tra il Serchio e le Panie e coincidente con la zona di Molazzana; della XIII Compagnia di quel battaglione faceva parte Broggi. Appreso di tale avvicendamento, il comando della Divisione partigiana “Lunense”, ritenendo quel punto del fronte più vulnerabile una volta in mano italiana e confidando nel sostegno americano (liberate Lucca e Viareggio la Divisione “Buffalo” stava lentamente risalendo il Serchio), decise di dare battaglia: ai primi di novembre un migliaio di uomini furono così concentrati alla Foce di Careggine, ansiosi di combattere quella “battaglia della Garfagnana” che, se vinta, avrebbe evitato ai resistenti di trascorrere l’inverno alla macchia.

Nell’attesa dell’appoggio alleato essi si dedicarono ai colpi di mano: il più fortunato dei quali sortì, il 4 novembre, la razzia di un convoglio di viveri destinato allo stesso “Intra” e la cattura di diversi alpini. Non appena saputo del fatto, Broggi si attivò per individuare il luogo ove erano stati portati i prigionieri, lasciando il presidio assieme a quattro soldati e non immaginando che i commilitoni catturati fossero immediatamente passati al nemico. Risalendo da Isola Santa, nei pressi di Capanne di Careggine il drappello fu però vittima di un’imboscata partigiana, nella quale perse la vita il caporale Bruno Rigoni, fu ferito a un piede lo stesso sottotenente e in maniera più grave gli altri due militari. Mentre Broggi fu portato via, questi ultimi furono abbandonati lungo la strada; essi si sarebbero tuttavia salvati grazie al tempestivo intervento del parroco di Colli di Capricchia, don Marini, il quale dopo averli soccorsi ne segnalò la posizione al loro Comando in modo da consentirne il trasporto in ospedale.

Una volta al campo della “Lunense” Broggi fu rinchiuso in un metato, assieme ad altri tredici prigionieri fra cui il capitano medico Fedele Bianchi e il segretario del Fascio di Careggine Aristide Contarini. Sottoposti alla dura inquisizione partigiana, per tre giorni i reclusi furono costretti a sporcare dentro la stessa prigione e a cibarsi della brodaglia passata dai carcerieri. Ironia della sorte, del tribunale chiamato a giudicarli faceva parte un disertore della stessa “Monterosa”, già commilitone di Broggi in Grecia. Inutilmente il comandante della divisione, il maggiore inglese A. J. Oldham, tentò a più riprese di salvare la vita al giovane ufficiale proponendogli il rinnegamento del giuramento di fedeltà alla RSI e il passaggio nelle file antifasciste, facendogli peraltro notare come dei suoi compagni aggregatisi ai partigiani si fosse ormai perso il conto: compresi quelli alla ricerca dei quali egli si era animosamente mosso. Ma il valoroso alpino si rifiutò fino all’ultimo di barattare il proprio onore con la vita, mantenendo per tutta la durata della prigionia un contegno fiero e dignitoso, esortando i compagni di sventura ad accettare con coraggio e dignità la sorte che li attendeva e preparandosi egli stesso ad affrontare l’ora suprema.

La quale giunse il 7 novembre, in una grigia giornata autunnale. Claudicante per via della ferita al piede, Broggi si avviò a testa alta verso il luogo dell’esecuzione, ricavato in un anfratto della montagna di sotto alla Foce del Maggio; seminudo, egli avanzava avendo all’altro piede lo zoccolo pietosamente prestatogli da un compagno. Nell’approssimarsi al patibolo, al vedere gli altri condannati piangere disperatamente ebbe ancora per loro parole di conforto, richiamandoli al contempo a onorare la divisa indossata. Un saluto sentì di rivolgere agli stessi partigiani, che in silenzio lo osservavano andare incontro alla morte: “Addio ragazzi”.

Nella solennità del momento, a chiedergli se intendesse esprimere un ultimo desiderio fu delegato proprio uno dei tanti disertori che aveva attorno, anch’egli già suo compagno in Grecia: “Peccato che oggi non ci sia il sole”, la risposta. Giunto di fronte alla fossa gli toccò di subire l’ultima onta, la più inaccettabile avendo egli scelto di anteporre alla propria vita l’onore della Patria: morire fucilato alla schiena, come un traditore, per la più assurda delle leggi del contrappasso. Del resto anche i plotoni d’esecuzione nazifascisti usavano il medesimo trattamento nei confronti dei renitenti alla leva di Salò, che si qualificavano a loro volta “patrioti” essendosi rifiutati di combattere per uno Stato fantoccio asservito alla Germania. Broggi tentò di ribellarsi contro l’estremo affronto; finché la raffica di piombo non ne stroncò l’ultimo grido: “Viva l’Italia!”.

Spogliati di ogni indumento ed effetto personale, i corpi dei fucilati furono gettati dai partigiani dentro una fossa comune. Ma la “battaglia della Garfagnana” non sortì l’effetto sperato dal fronte antifascista: avendo il Comando alleato deciso di sospendere le operazioni militari fino alla primavera, la “Buffalo” non offrì la copertura necessaria, provocando così lo scioglimento della “Lunense”. Di conseguenza, già nel gennaio ‘45 le salme degli alpini poterono essere recuperate dai commilitoni della XIII Compagnia. A Isola Santa i resti del Broggi (alla cui memoria i vertici della “Monterosa” non avevano ritenuto di dover conferire la medaglia d’oro, limitandosi a quella d’argento) furono ricomposti, per poi essere sepolti con gli onori militari nel cimitero di Arni e infine traslati in quello di Brisighella.

Per iniziativa della madre dell’ufficiale e dei suoi compagni d’arme, sul luogo del sacrificio fu posta una croce in pietra, destinata a costituire il cuore di un vero e proprio sacrario: l’area in cui avvennero le esecuzioni fu recintata e costellata di abeti, con la piccozza degli Alpini a dettare – unitamente al filo spinato – la simbologia del luogo, riprodotta sui paletti della recinzione, sul cancello e scolpita sullo stesso monumento. Ad accrescere il valore apologetico del recinto è stata successivamente apposta una lapide celebrativa dei caduti della RSI.

Per quanto ci risulta, in territorio toscano l’unico monumento assimilabile a questo è il cippo che a Coltano ricorda le vittime del campo di concentramento americano in cui nell’immediato dopoguerra furono internati 35000 soldati repubblichini. Si tratta di eccezioni, sorte per iniziativa dei reduci: spazi commemorativi dei morti di Salò sono generalmente presenti all’interno di quei cimiteri in cui ne sono conservate le spoglie, non come luoghi autonomi. Il più importante è notoriamente il Campo 10 del cimitero milanese di Musocco (il “Campo dell’Onore”); ma anche quello fiorentino di Trespiano riserva un apposito settore ai Caduti della RSI. Si consideri inoltre che in Toscana la furia distruttrice che alla fine della guerra si accanì contro ogni effigie raffigurante il trascorso regime non risparmiò neppure la sacralità delle tombe: a Ponte Buggianese furono amputati i fasci littori che caratterizzavano quella di due fascisti uccisi nel 1928 da un comunista perseguitato dalla dittatura.

Raggiungiamo Castelnuovo Garfagnana e prendiamo per la frazione collinare di Palleroso: all’ingresso del paese troveremo l’oratorio di S. Rocco. Per la sua posizione strategica rispetto all’adiacente Linea Gotica, nell’ottobre ‘44 l’edificio fu scelto da un altro battaglione della “Monterosa”, il “Brescia”, per insediarvi la fureria. 25 anni più tardi, d’intesa con il parroco don Adelmo Tardelli, i reduci della Divisione Alpina decisero di trasformare la chiesa in un sacrario che onorasse la memoria di tutti i commilitoni caduti sull’ultimo fronte bellico italiano. Il restauro fu affidato a Paolo Caccia Dominioni, sommo specialista dell’architettura commemorativa dei Caduti di guerra.

Nel 1970 si ebbe così l’inaugurazione del Sacrario degli Alpini, concepito “a ricordo dei compagni d’armi caduti sul fronte della Garfagnana” ma la cui funzione intende superare quello specifico contesto storico, “esaltando il sacrificio italiano di ogni guerra”. Grandi lapidi marmoree raccolgono i nomi di oltre 770 soldati che persero la vita nell’estrema resistenza garfagnina, appartenenti non solo alle Penne nere ma anche agli altri Corpi loro aggregati: “Marinai, Artiglieri da montagna, Bersaglieri, Pionieri, militari germanici di collegamento”.

La peculiarità di tale monumento sta nel fatto che, nell’omaggiare i Caduti delle quattro grandi unità

che costituirono l’esercito della RSI (“Monterosa”, “Italia”, “San Marco”, “Littorio”), esso li ricomprende implicitamente nella categoria più alta di patriottismo: quella propria di chi l’amore per la Patria spinge sino all’estremo sacrificio. Oggi una posizione del genere ci apparirà come temeraria, una vera e propria sfida nei confronti della istituzionalmente prevalente vulgata resistenziale e antifascista; ma dimensionata storicamente, ossia in anticipo – seppur di poco – rispetto all’età dello stragismo, delle “trame nere”, dell’antifascismo strumentalizzato quale cavallo di battaglia ideologico permanente e buono per tutte le occasioni, essa ci suggerirà il differente modo di guardare alla guerra caratterizzante quegli anni relativamente “pacificati”.

Rimaniamo in territorio apuano ma sconfinando in Lunigiana: ove, sulle montagne del Fivizzanese, troveremo una lapide che ci rimanda a un tragico quanto commovente episodio accaduto nell’aprile ‘45, proprio nell’ultima settimana di guerra. In quei giorni nel settore apuano più settentrionale si consumavano gli estremi combattimenti che vedevano impegnati da una parte i nippoamericani del Battaglione “Nisei”, perfettamente equipaggiati, muniti di walkie talkie e supportati dalla copertura aerea; dall’altra, in netta inferiorità sia numerica che strutturale e presi in una morsa dovendo difendersi anche dai bombardamenti nemici e dalle imboscate partigiane, le residue truppe tedesche attestate lungo l’ultimo baluardo della Linea Gotica e un composito contingente di forze della RSI prevalentemente composto dai bersaglieri della Divisione “Italia”.

In quei drammatici frangenti la salvezza o la disgrazia del soldato italiano furono dovute non solo alla sorte, ma anche a una serie di fattori riconducibili sia all’intraprendenza personale (ossia alla capacità di trovare il modo di disertare e scegliere il momento più propizio per farlo) che al prevalere nel proprio comandante di fanatismo o buon senso. In tale lotteria il più sfortunato fu sicuramente un reparto di giovanissimi volontari – fra essi figurava addirittura un quattordicenne – appartenenti alla I Compagnia “Bergamo” del Reggimento “Manara”.

Comandata dal capitano Ilario Dani e composta da veneti e bergamaschi, al termine del periodo di addestramento la Compagnia aveva chiesto espressamente a Mussolini di essere inviata sul fronte appenninico, finendo così asserragliata sulle alture di Viano a impedire che i nemici, ormai padroni del versante apuano costiero, conquistassero anche quello interno, espugnando così definitivamente la Gotica. Dando l’impressione che i comandi iniziassero ragionevolmente a pensare alla ritirata, in un primo momento il reparto in questione era stato fatto arretrare a Campiglione; senonché il 22 aprile giunse il contrordine: occorreva riguadagnare la montagna.

A quel punto la truppa si rifiutò: nel momento in cui la rotta appariva ormai ineluttabile, ritornare sul fronte significava non solo andare contro ogni logica, ma anche esporsi agli agguati dei partigiani, massicciamente presenti in quei boschi a dare il colpo di grazia al nemico in dissoluzione. I poveri ragazzi diedero vita a una scena straziante: seduti su un muretto, sfiniti, imploranti, vi fu chi dalla disperazione scoppiò a piangere. Ma il sottufficiale che li comandava fu irremovibile, non tenendo conto non solo della loro età, ma anche del fatto che si trattava pur sempre di volontari: “Bisogna ritornare su”, intimò, minacciando le punizioni più pesanti. Con lo stato d’animo di chi si avvia verso il patibolo ci s’incamminò: finché, lungo il sentiero, puntuale giunse l’imboscata partigiana, che non lasciò scampo ai sette componenti il drappello.

I nomi di questi veri e propri martiri dell’ostinazione dei superiori ci sono riportati nella targa apposta dai reduci del “Manara” alla Cappella di Viano: sergente Floriano Doro (19 anni), caporale Renato Maniero (18), bersaglieri semplici Tarcisio Lorenzi (20), Virgilio Sirtoli (22), Lino Zamegnan (21), Giacomo Turra (14), Alessandro Finamore (19). Si tratta dunque di un omaggio a dei giovanissimi Caduti fatto in nome dei sentimenti di pietà e umanità; eppure sulla sua opportunità hanno trovato da ridire i soliti benpensanti dell’antifascismo duro e puro, per i quali la guerra civile non dovrebbe finire mai. Il che non è avvenuto per le analoghe iniziative garfagnine: questo a conferma della inderogabile religiosità della gente di quella terra nel rapportarsi alla Morte, e in particolare alla morte in guerra.

La Garfagnana non ha mai dismesso questo sentimento antico quanto l’uomo, e non smette di darcene prova: anche quando meno ce lo aspettiamo, essendo magari impegnati in una camminata per le sue montagne. Nei dintorni di Metello una lapide del 1936 contraddistingue la casa di un altro giovane caduto in una guerra fascista, Iacopo Rossi, “gloriosa medaglia d’argento che immolò la vita a soli venticinque anni per la conquista dell’impero”.

                                                           Bibliografia

D. Del Giudice, Il fronte della Garfagnana, lezione tenuta l’11 settembre 2011 al Seminario di Studi Storici di Cicogna (in www.fondazionersi.org).

L. Vannoni, Piazza Padre Marcello Verona: una piazza, tre storie, 16 maggio 2018, in retignano.altervista.org.

L’Oratorio di San Rocco ai caduti della Divisione Alpina Monterosa, 9 giugno 2020, in segretidellastoria.wordpress.com.

bersagliere, in www.dosselli.it.

La pietà della Garfagnanaultima modifica: 2022-10-26T20:45:30+02:00da tradersimo
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